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Autore Discussione: Bruno GRAVAGNUOLO. - SALVEMINI parola di laico  (Letto 9401 volte)
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« inserito:: Settembre 05, 2007, 05:04:46 pm »

Salvemini parola di laico

Bruno Gravagnuolo


Tutte le parole chiave di un grande maestro, e lo era davvero, da «analfabeti» a «verità». E passando per lemmi come «Fascismo», «Quistione meridionale», «Laicità», «Socialismo», «Razionalità», «Risorgimento», «Nazione», «Mezzogiorno», «Federalismo», «Cattaneo», «Democrazia», «Libertà», «Individuo», «Scuola», «Liberalismo» e altro ancora. In pratica tutte le idee di Gaetano Salvemini, uno dei padri della democrazia italiana e della sua sinistra, inclusa quella comunista. E senza il quale né la democrazia italiana né la sinistra avrebbero genealogia culturale e orizzonti da inseguire.

Tutto questo troveranno domani in edicola i lettori de l’Unità, a 6,90 Euro oltre il prezzo del quotidiano, in occasione del cinquantennale della morte dello storico pugliese, e nella collana «Le chiavi del tempo», i classici di ieri e di oggi per capire il mondo in cui viviamo, in collaborazione con gli «Editori Riuniti»: Salvemini. Dizionario delle Idee, a cura di Sergio Bucchi. Oltre centotrenta pagine essenziali più la bibliografia su Salvemini e due scritti del curatore, biografico l’uno e di inquadramento culturale l’altro.

Ma introduzioni a parte, è un libro che si può leggere anche passim, saltando di palo in frasca, con la curiosità e la libertà di chi sceglie di «spigolare» tra le cose che Salvemini pensò e per cui lottò controcorrente.

E nondimeno siamo sicuri che comincia a spigolare tra le pagine e le voci, sarà irrestibilmente trascinato ad approfondire e a vederci più chiaro. Per capire chi fu quel meridinale ostinato e rompiscatole (così si autodefiniva) che non si accasò mai con nessuno, salvo la breve parentesi socialista dal 1919 al 1921 e che tuttavia fu schieratissimo. Con la ragione critica, la laicità intransigente, l’Illuminismo, i ceti subalterni e il socialismo, declinato a modo suo.

Cominciamo dalle prime parole che formano «l’abbecedario» di questo volumetto. Anzi dalla prima e dall’ultima: «Analfabeti», e «verità», tratti da scritti di occasione (ma il più delle voci viene dalle Opere vere e proprie). Ebbene «esordisce» Salvemini, «gli analfabeti almeno non pretendono di saperla lunga». E chiude così, nell’ultima pagina: la «verità fabbricata»- quella di despoti e politicanti - è facile da inventare e imporre e «difficile da amministrare». E l’inganno alla lunga vien fuori. Invece la «verità ricercata»- prosegue lo storico - è difficile da tirar fuori, ma «rimane sempre la stessa e perciò è facile da amministrare».

A guardar bene c’è tutto Salvemini, in questo apparente buon senso. C’è la tenacia «contadina» del figlio di agricoltori che non si fa fregare e capisce altresì l’oppressione patita dagli umili. E c’è la sapienza storiografica di chi sa che la scienza è fatica etica, lavorìo di ipotesi da comparare e pesare, fino a elidere quelle che non reggono. E c’è persino un’idea di politica: arte del miglioramento umano. Che s’appoggia alle cose come sono, ma non rinuncia a mutarle. Come? Diffondendo il sapere e il potere a tutti e a partire dai «senza potere», dai subalterni. L’interesse dei più diventava così in Salvemini la molla del progresso, il lievito della trasformazione democratica innestata sui diritti sociali, una trasformazione dove l’universalità democratica coerente con se stessa era ipso facto e in divenire «socialismo». Detto in altri termini: era la democrazia che non s’arrestava alla soglia dei diritti liberali (privilegio dei pochi fino al primo suffragio universale del 1911) ma invadeva anche la sfera dell’economia.

Dunque sapere come liberazione, scienza come etica universale, storiografia come democrazia e conflitto di classi. Fuori da metafisiche provvidenziali, da destini imperiali, determinismi settari e fatalistici (anche marxistici). E in tal senso fortissima fu la polemica di Salvemini contro l’idealismo italiano, vuoi nella versione filofascista di Gentile, vuoi in quella liberalconservatrice di Croce, la cui «libertà» - diceva - era generica e proprietaria (la libertà dei «galantuomini»). Ma al di là di queste inclinazioni «filosofiche» di metodo - la sua era una filosofia razional/empirista malgrado «l’antifilosofismo» - Salvemini ebbe tanto da dire da ridire nel concreto della vicenda italiana del 900.

Vediamo alcuni suoi cavalli di battaglia. La «Quistione meridinale» anzitutto, di cui sulle orme di Fortunato fu lo scopritore moderno. Sua l’idea, passata a Gramsci, di un Meridione reso subalterno dalle élites manifatturiere ed agrarie del Nord, in alleanza con il ceto dinastico legato alla Corona e con il latifondo agrario e assenteista del sud: il «patto scellerato», come lo chiamò Gramsci. E a sigillo di ciò Salvemini indicava la «burocrazia», «meridionalizzata» alla bisogna dal nord, per meglio controllare l’altra Italia. Sua l’idea che fu di Banfield (e prima di Lepopardi) del «familismo amorale»: tradizionalismo e familismo dell’individuo italico. Individuo cinico e generoso, scettico e creativo, furbo e antipolitico.

Sua l’idea dell’«antipolitica», che Salvemini allora chiamava «antiparlamentarsmo». Un circolo vizioso e sovversivo tra notabilati e popolo, contro la separazione dei poteri, contro le regole e le istituzioni, volto a travalicarle in nome dell’«azione diretta» sorretta da miti: nazione, popolo, individui carismatici e «ammazzacattivi». Sua infine l’idea del fascismo come moderna reazione di massa, figlia dell’antiparlamentarismo e della crisi di riconversione seguita alla prima guerra mondiale, con la sua «piccola borghesia sbandata». Perciò fascismo come arte retorica massificata e « blocco tra ceti», ciascuno dei quali riceveva il suo piccolo o grande tornaconto trasformista. E il tutto favorito dall’impotenza dei socialisti, divisi tra riformismo imbelle e rivoluzionarismo altrettanto imbelle e inutilmente sovversivo. Il fascismo quindi come «sovversione dall’alto», né «rivoluzione», né progresso. Orchestrato al vertice da un uomo geniale nella tattica e nella propaganda, ma meschino e disonesto nella costruzione di fini comuni: Mussolini. Infine il «trasformismo». Salvemini, nato al sud e che al sud aveva fatto tanti viaggi elettorali tra braccianti e contadini, lo individuò non solo come convergenza al «centro» sorretta dal malaffare. Ma anche come liquefazione delle identità politiche nazionali, a vantaggio di blocchi locali e corporativi che lavoravano a fornire al centro politico una base parlamentare di consenso. E con mezzi legali e illegali. Per questo lo storico polemizzò contro Giolitti «ministro della malavita». Perché a sostegno della sua base consociativa (operai del nord e industria) spezzava l’unità delle classi subalterne, le privava di una visione nazionale. E al contempo inaugurava un costume «democratico» destinato a perdurare fino ad oggi. Non fu tutto giusto il giudizio di Salvemini su Giolitti (e del suo allievo Gobetti). Poiché il giolittismo con le sue aperture poteva favorire - se ben usato dal Psi - equilibri di centrosinistra, capaci di scongiurare oltretutto il fascismo. Ma giusto era il richiamo di Salvemini alla necesità di un socialismo di massa e in prospettiva governante. Contro ogni trasformismo identitario e subalterno, e contro il massimalismo sterile. E basterebbe soltanto questa polemica, tra le tante, a fare del nostro Salvemini un autore straordinario, profetico e attuale.

Pubblicato il: 05.09.07
Modificato il: 05.09.07 alle ore 9.06  
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« Ultima modifica: Settembre 09, 2013, 11:20:19 am da Admin » Registrato
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« Risposta #1 inserito:: Ottobre 15, 2007, 11:32:34 am »

4/9/2007  - PERSONAGGIO

Salvemini la democrazia vuole sicurezza
 
Salvemini, storico e politico, moriva cinquant'anni negli Usa

"Nasce, si ammala e può morire"

Le lezioni americane dell’esule

FRANCO SBARBERI


Le battaglie culturali e politiche di Salvemini sono tornate ad animare il dibattito pubblico sul Novecento grazie a Bollati-Boringhieri che ha ristampato o pubblicato per la prima volta saggi, memorie e lettere dello storico. Ora sono in libreria, con l’introduzione di Sergio Bucchi, le lezioni e le conferenze Sulla democrazia, scritte negli anni dell’insegnamento alla Harvard University.

L’ultima lezione, del 1940, fa i conti con un problema lungamente meditato: «La democrazia agita le masse, dirige i suoi partiti nella lotta politica; nasce, cresce, s’indebolisce, si ammala, corre il rischio di morire, o addirittura muore, come farebbe una persona in carne e ossa. Molte controversie sulla democrazia non sono che discussioni senza senso su un essere mitologico e inesistente». Queste frasi, realistiche e lungimiranti, non intendono ridimensionare l’importanza della democrazia come ordinamento politico. Esprimono invece la convinzione che dietro quella parola occorra anche vedere un processo di trasformazione di lungo periodo, segnato da conquiste e da crisi acute.

Quali sono «le discussioni senza senso» che a cui allude Salvemini? Nei primi decenni del Novecento italiano, sia a destra che a sinistra, era prevalsa una lettura fortemente corrosiva delle istituzioni democratico-parlamentari. Per il moderato Gaetano Mosca due sono gli «errori gravissimi» dell’Italia del primo dopoguerra: il suffragio universale e la rappresentanza proporzionale. Quanto a Michels e a Pareto, essi sono convinti che i valori della libertà ed dell’eguaglianza e concetti quali sovranità popolare, rappresentanza e suffragio universale, non siano altro che maschere ideologiche («formule», «miti», «derivazioni»), accortamente utilizzate da minoranze consapevoli per giustificare il loro dominio nei confronti delle maggioranze sprovvedute. Citate con entusiasmo dai sindacalisti rivoluzionari e ampiamente condivise da Mussolini, anche Le riflessioni sulla violenza e Le illusioni del progresso di Sorel contestano duramente i principi dell’89 e ipotizzano per la classe operaia un’etica nuova, frutto della «scissione» dei produttori dalle «scempiaggini borghesi» sulla democrazia rappresentativa.

Rifiuto del principio di legalità come «potenziale truffa» ideologica delle masse, scissione della élite operaia dallo spirito piccolo-borghese dei compromessi parlamentari: sono i paradigmi concettuali che all’inizio degli anni venti il Gramsci dell’Ordine Nuovo riproporrà per espungere dalla mente e dai cuori della classe operaia «ogni residuo della ideologia democratica» e per «organizzare l’antistato», in nome della disciplina e della gerarchia comunista del lavoro. L’autogoverno della società civile, insomma, contro il governo dall’alto della democrazia politica. Ecco perché il Salvemini delle lezioni americane «appare rivolto in primo luogo a stigmatizzare il «disprezzo» per la democrazia assunto da troppi sedicenti «rivoluzionari» non meno di fascisti e nazionalisti.

Sensibile al «liberalismo di sinistra» di Mill e alle tesi del fabianesimo e del laburismo inglesi, Salvemini riproporrà con grande vigore l’idea della equal liberty, coniugando le ragioni dell’autonomia degli individui con quelle della giustizia sociale. Non basta sventolare le bandiere della libertà e predicare sicurezza. «La libertà economica non significa nulla per chi deve guadagnarsi da vivere, che sia un lavoratore manuale o un intellettuale». Quanto alla sicurezza: «Se con "sicurezza" intendiamo un livello di vita minimo e l’eguaglianza di opportunità, dobbiamo ammettere che le istituzioni della democrazia politica del giorno d’oggi non la garantiscono a tutti. Eppure la sicurezza deve essere alla portata di tutti se si vuol salvare la democrazia politica dal naufragio». Anche nelle odierne società del rischio e dell’incertezza l’«eguaglianza nello spazio dei beni pubblici» (per dirla Jean-Paul Fitoussi che sembra citare Salvemini) è una precisa indicazione di marcia. Almeno per chi intenda praticare la democrazia.

da lastampa.it
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« Risposta #2 inserito:: Ottobre 25, 2007, 10:37:11 pm »

Foglio, un dialogo per capello

Bruno Gravagnuolo


La novità è innegabile e quel che capita oggi al «Foglio» è addirittura clamoroso. In casa dell’Elefantino è scoppiata la febbre del «dialogo». Sicché dopo anni di islamofobia «ateo-devota», guerra di civiltà teocon, ratzingerismo duro e senza sconti al relativismo, ora Giuliano Ferrara si lancia a capofitto nell’incontro ravvicinato con l’Islam. Aprendo ferite non da poco in seno alla sua «Umma». Quella interna e quella esterna che lo segue sulla linea anti-Islam, abituata a ben altri toni e linguaggi sul «Foglio». L’antefatto è ormai noto. Una decina di giorni fa il giornale accoglie come evento nuovo e rilevante una lettera firmata da 138 insigni ulema e dottori islamici.

Indirizzata in primo luogo a Benedetto XVI, alle autorità delle Chiese evangeliche, ortodosse e cattoliche orientali. Lettera diramata dall’autorevole «Royal Aal Al Bayt Institute for islamic Though» di Amman, sotto l’egida della casa reale di Giordania, e che proprio lunedì 15 ottobre «Il Foglio» pubblica integralmente su tre pagine.

Non solo il documento viene «accolto» e pubblicato. Ma valorizzato al massimo come segno di un possibile mutamento di clima tra Islam e cristianesimo, in grado di indebolire l’integrismo coranico e fondamentalista, alimento diretto e indiretto del terrorismo. E a suo fianco a commento, vengono via via registrate da Giulio Meotti le reazioni favorevoli di filosofi per nulla teneri con l’islamismo, come l’inglese Roger Scruton e l’americano Lee Harris. Nonché quelle elogiative del cardinale Jean-Louis Tauran, Presidente del Pontificio Consiglio per il dialogo inter-religioso, e del Cardinal Angelo Scola. Che in un’intervista al quotidiano plaude al realismo della lettera, capace di far emergere «tutta una vena della tradizione musulmana messa in ombra dalla crescita del fondamentalismo». Senonché, la reazione dei foglianti e degli «islamofobi» duri non si fa attendere. Fin da subito dissentono Carlo Panella, Camillo Langone, e naturalmente Magdi Allam. Che da ultimo ieri l’altro sul Corsera vitupera l’apertura di credito al documento dei telogi islamici, e le «ambiguità» in esse contenute. Specie per quel che attiene a uno dei firmatari, Ezzedin Ibrhaim, consigliere per gli affari culturali del presidente degli Emirati Arabi Uniti, «protagonista di una lite sfiorata» con il Rabbino capo di Israele nell’incontro naplletano con il Papa (ma i testimoni smentiscono la «lite»). Nonché per la presenza tra i 138 del Rettore dell’Università islamica Al Azhar, reo di aver giustificato in passato gli attacchi suicidi dei «martiri».

Ma lo scontro più plateale è quello tra Panella - islamista di «casa» e specialista in libri neri sull’Islam - e lo stesso Ferrara, sul «Foglio» di martedì scorso. Uno scontro al calor bianco. Con Panella che non si capacita «di tanto malriposto entusiasmo per l’ambiguo appello dei 138 ulema». Appello che «espunge» gli ebrei come destinatari, cancella e ignora il diritto di Israele all’esistenza, dissimula «egemonicamente» il nodo della violenza terrorista, implicitamente legittimandola. Ultima accusa, che provoca l’ira di Ferrara: aver sottovalutato «la pregiudiziale antisemita palese in quel testo», considerandola «un elemento secondario». Durissima la replica dell’Elefantino. E chiara fin dal «catenaccio» sotto il titolo principale della pagina: «Islamista sull’orlo di una crisi di nervi all’attacco». Incipit da titolista «togliattiano», che ricorda la celebre intestazione con cui Il Migliore intitolò su Rinascita l’articolo di dissenso sull’Ungheria di Fabrizio Onofri: «Un inammissibile attacco ala linea del partito». E infatti, botte da orbi nella risposta. Con accuse di supponenza, ubriachezza, irriconoscenza, dilettantismo e litanie reiterate. Roteate nell’aria con l’ironia di chi annuncia che non vuol vibrare il colpo definitive. Ma culminanti alfine con la minaccia semiseria: «Una parola in più, un bicchierino in più e ti decapito. Tanto non conosci la formula di fede con cui convertiti al’Islam in lingua originale all’ultimo istante per evitare il colpo di scimitarra. Io sì» (sic). Ma, fra uno scherno e una minaccia, anche tanti buoni argomenti da parte di Ferrara contro l’inquisitore Panella, che non ci sta alla «svolta». Tipo: le ambiguità ci sono, ma la direzione della lettera è quella giusta. Poi: c’è l’occasione di aprire un cuneo nel fronte avversario. E ancora: l’Occidente non può fare solo da comparsa, nel confflitto in corso tra i vari islam. Con il classico richiamo finale di Ferrara alle virtù della politica, contro le convulsioni settarie di Panella: «Politica. Comprendi il significato di questa parola, strettamente intrecciata con cultura e informazione?».

E allora in conclusione, non si possono che sottoscrivere i tanti buoni argomenti di Ferrara. Soprattutto quello relativo all’indole e alla «direzione» dell’importante documento. Che riassumiamo in breve - benché i lettori del l’Unità ne siano già stati informati- col richiamarne il punto centrale. Questo: la «coappartenenza» delle tre grandi religioni monoteistiche. Nel segno dell’«amore per il prossimo», della clemenza, del perdono, e della tolleranza per le rispettive versioni del Dio Unico. Un tessuto teologico comune, che mette al margine e condanna passioni e violenza settarie, ogni violenza reciproca in nome delle fede. E mette al centro viceversa una sorta di «gara per il bene» tra tutte le confessioni, nella consapevolezza che essendo islamici e cristiani il 55% dell’umanità, ad essi spetta in primo luogo scongiurare catastrofi planetarie di civiltà. Il tutto poi espresso in un linguaggio esegetico, che contamina Bibbia, Corano e Vangelo. Motivi ebraici, cristiani ed islamici, nel segno di un amore uno e bino: «verticale» verso Dio, e «orizzontale» tra gli uomini. Insomma, è la prima volta che un documento «politico-teologico» islamico, mescola in tal modo le fonti dell’Autorità rivelata. Dinanzi al mondo e alla comunità dei credenti del Corano. E giustamente Ferrara, coi cardinali e i filosofi citati, vi ha scorto un mutamento di clima, buono a incrinare il fanatismo. Mentre appare meschino e dissennato trattare la lettera alla stregua di un cavallo di Troia fondamentalista, con argomenti fobici e in qualche modo polizieschi. Esattamente lo stesso atteggiamento poliziesco che tanto Panella quanto Allam riservano al riformismo «dall’interno» di studiosi come Tariq Ramadan, istericamente stroncati come «subdoli». E tuttavia qualche domanda si impone. Perché il Ferrara, oggi «rinsavito», ha coltivato per tanto tempo certi «spiriti animali»? Perché, da apprendista stregone, ha dato loro tanto spazio, trasformando il Foglio in un «Soglio» devoto dei «willings»? C’è da stupirsi che oggi gli adepti si ribellino? Chissà, magari L’Elfantino s’è ormai annoiato della sua lunga crociata. E c’è chi ipotizza una sua (ri)conversione al centro, nel solco di antiche nostalgie togliattiane e «realpolitiker», dopo le oltranze ideologiche «devote» che hanno condotto «Il Foglio» nel vicolo cieco delle impotenti litanie alla Panella. Come che sia, «post-devoto» o no, neocentrista togliattiano o meno, anche il Ferrara vecchio e nuovo a venire, resterà un Arci-Ferarra oltranzista. Che come D’Annunzio va sempre «verso la vita» e si trasforma. Gli «adepti» del futuro sono avvisati.

Pubblicato il: 25.10.07
Modificato il: 25.10.07 alle ore 8.52   
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« Risposta #3 inserito:: Marzo 06, 2008, 03:25:40 pm »

Ruffolo: il Pd è di sinistra perché vuole l’uguaglianza

Bruno Gravagnuolo


«Non amo la dizione “centrosinistra”. Preferisco dire sinistra se parlo di Pd, e sinistra e destra, se parlo di politica». È netto Giorgio Ruffolo, economista, presidente del Cer, riformista doc, e come lui dice «di sinistra». Ma in che senso? Nel senso della chiarezza certo: contro il trasformismo. E poi «per» una certa sinistra: quella che assume lo sviluppo come fine, nell’equità e nelle compatibilità ambientali. E senza dover «stabilire a priori natura pubblica o privata delle imprese». Vale a dire, anche le grandi imprese private devono funzionare «come istituzioni volte al benessere generale». Ecco, per Ruffolo il Pd «di sinistra» e «di programma» deve stare in questa ottica. Riscoprendo in chiave non statalista «il ruolo anticiclico dello stato», come ha scritto Scalfari. Senza impiccarsi ai parametri di Maastricht, pur dentro il 3% del deficit...

Professore, il Pd è solo riformista? Riformista di centrosinistra, come Veltroni ha precisato dopo l’intervista al «Pais»? O è meglio definirlo di sinistra?
«Meglio uscire dai termini astratti. Essere di sinistra o di destra è un approccio alla politica, non un fatto semantico. La divisione passa tra chi insegue il mutamento nel senso dell’eguaglianza, e chi preferisce l’ineguaglianza. Ma, diceva Bobbio, il discrimine non è la pura “innovazione”. Da tempo ormai anche i conservatori innovano».

Approccio classico alla Bobbio. Ma quale eguaglianza?
«Eguaglianza come stella polare della sinistra. Non egualitarismo, che per Tocqueville conduce alla servitù, bensì una tendenza. E, per una politica di sinistra, ciò significa diminuzione delle disparità e delle ingiustizie. Personalmente critico il concetto di “centrosinistra”. Come dice Michele Salvati, non esiste un territorio politico di centrosinistra. Così come non c’è un’Italia centrosettentrionale o centromeridionale. Ci sono il nord e il sud, il meridione e il settentrione, destra e sinistra. Ciascun polo va declinato nelle sue gradazioni. Sinistra più radicale o più riformista; e destra più reazionaria o più moderata».

Sicché lei manterrebbe la qualifica di sinistra per il Pd?
«Certo, è utile, e le parole a questo servono. In politica c’è una gamma che va da un punto a un altro. Meglio caratterizzare quei due punti in modo netto, senza tralasciare le gradazioni»

Per esempio, “meno tasse su lavoro e produzione” rientrano nella sua accezione di “sinistra”?
«In una sinistra riformista il problema non si risolve con il più o il meno, ma con soluzioni equilibrate. Le tasse che servono per i servizi pubblici vanno finanziate al minimo prezzo e con il massimo rendimento. Mercato e stato? Ancora una falsa dicotomia. L’economia di un paese moderno si contraddistingue per l’armonia tra queste polarità. E mercato e stato devono integrarsi in una prospettiva equilibrata, a beneficio dell’interesse generale. In Italia la pressione fiscale è troppo alta, troppo squilibrata e ingiusta. Genera risultati inefficienti. Meglio che si paghino meno tasse, meno tasse per ciascuno. Ma che ciascuno le paghi, e che il loro impiego sia mirato ed efficiente»

Tutto questo, visto dalla sua sinistra, in che direzione deve andare? Sviluppo, programma, piena occupazione, non sono termini a lei cari?
«Mi sono cari e restano. Ma il riformismo è il massimo di benessere per il massimo della popolazione, come sapevano i vecchi utilitaristi. Significa: certezza dei bisogni fondamentali, e il massimo di occupazione possibile. Per chi vuole lavorare. E ancora: servizi al minimo costo, e pubblica amministrazione con produttività elevata. Il che oggi non è. Insomma, il buon riformismo tende all’equilibrio»

La “leva pubblica” mantiene una funzione attiva in questo quadro, o è solo un regolatore notturno?
«Intanto non parlerei più di leva pubblica. Per evitare di evocare lo stato che leva dalle tasche di qualcuno, per dare a qualcun altro. Parlerei di regolazione, programmazione, governo dell’economia..»

L’impresa pubblica non serve più? Anche se l’Eni, gestisce le grandi risorse energetiche e partecipa a grandi progetti in Venezuela o all’est con il gas?
«L’Eni viene dagli anni 60, che furono cruciali. E però non conta che l’imprese inalberino il marchio pubblico dei “Sali e Tabacchi”, per dirla con Turati. Ieri come oggi conta che le imprese, specie quelle grandi, svolgano funzioni pubbliche, anche se in mani private. A Davos un imprenditore privato lo ha detto: le grandi imprese si rivolgono al benessere generale e su questo vanno misurate. Acquisizione teorica importante, che va oltre il profitto di corto respiro, finanziario. Non nuova in verità, basti pensare a Galbraith. È questo il criterio con cui muoversi: imprese-istituzioni, non case da gioco. Non importa siano private. Purché le si indirizzi, con vari strumenti di politica economica, sui beni pubblici. Diceva Marx: non è necessario che un direttore di orchestra possieda gli strumenti per dirigere. E lo diceva nel 1860, riferendosi ai manager. Che non possedevano i mezzi di produzione ed erano diversi dai capitalisti proprietari»

Il punto è la direzione dell’accumulazione: benessere collettivo o speculazione...
«Ovviamente. Ma lo stato ha ogni mezzo per contrastare ed orientare le tendenze, cominciando col far pagare le tasse...».

Pd e candidature. Dentro le liste, Calearo, Ichino, l’operaio della Thyssen, Colaninno. Trasformismo elettorale o invenzione egemonica tipo “patto dei produttori”?
«Vorrei vedere in queste scelte il lato buono, non l’intento elettoralistico, che mi parrebbe miope e controproducente. Chi è motivato da valori moderati non tarderà a confliggere con il contesto di cui è ospite. Diciamo che c’è una maggiore apertura verso ceti in precedenza considerati conservatori e ostili all’eguaglianza. Alla quale fa riscontro un’analoga apertura. Ceti imprenditorali in fuga dalla destra, che hanno inteso che anche il profitto privato è impossibile senza soddisfare obiettivi pubblici di eguaglianza e giustizia. L’augurio è che sia un’impresa comune, nel segno di un’egemonia della sinistra riformista, e non del trasformismo».


Pubblicato il: 05.03.08
Modificato il: 05.03.08 alle ore 8.37   
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« Ultima modifica: Febbraio 16, 2009, 11:51:51 pm da Admin » Registrato
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« Risposta #4 inserito:: Febbraio 08, 2009, 06:31:32 pm »

Canfora e il Berlusconi-Bonaparte

di Bruno Gravagnuolo


Il degrado antropologico di questa Italia è evidente. Ma discende in primo luogo - oltre che dalla crisi economica mondiale - dallo sfaldamento di quello che un tempo era il blocco sociale della sinistra. È in questa breccia che si fa strada la decadenza del paese. In una con l’offensiva di destra. Che viceversa si è dotata di un blocco forte di interessi e punta a una Nuova Repubblica, plebiscitaria e ostile alla divisione dei poteri». Analisi gramsciana sui mali del paese quella di Luciano Canfora, 67 anni, ordinario di filologia classica a Bari e studioso del mondo antico, nonché del pensiero politico. Una diagnosi allarmata, soprattutto sulla «sfida bonapartista» di Berlusconi, e poi sul «ruolo retrivo di questo papato» di cui disinvoltamente il «cavaliere laico sposa le istanze». Ma è tempo di reagire dice Canfora. Con le idee, la mobilitazione. E anche con qualcosa di irrinunciabile: l’identità. Senza di cui non ci sono né programmi né controrepliche efficaci.

Professor Canfora, Italia lacerata, pervasa da violenze di branco e in recessione. E per di più con un conflitto istituzionale acutissimo, che vede Berlusconi candidarsi platealmente a decisore populista. Che impressione le fa tutto questo?
«Una delle cose più gravi intanto è l’avvenuto spostamento a destra di gran parte del lavoro dipendente, al nord e sul versante leghista. La Lega è ormai più in grande, come Le Pen a Marsiglia. La sinistra invece è stata incapace di tenere legati a sé i ceti che formarono il suo insediamento di sempre. Di qui discendono alcune conseguenze. Come l’intolleranza verso i nuovi arrivati, che scatta nei ceti popolari “leghistizzati”, privi a questo punto di quei valori che la sinistra, con il suo radicamento e la sua pedagogia, riusciva a trasfondervi. Dunque guerra tra poveri...».

La liquefazione del blocco sociale di sinistra comporta a suo avviso un degrado antropologico?
«Degrado a catena. Anche il fascismo sorse dallo scontento e riuscì a dimostrare di essere il vero interprete degli interessi popolari e nazionali, ingannevolmente ovviamente. Un piccolo partito come la Lega, mutatis mutandis, ricorda molto certi esordi del fascismo. E d’altra parte un grande partito liberalconservatore come Forza Italia - che inizialmente ammiccava soltanto alla Lega - oggi sembra volerne incarnare interamente il ruolo, dislocandosi al contempo su un terreno nazionale e di massa più vasto, e inglobando anche An. Si badi, sono solo dei paralleli che servono a indicare delle dinamiche, non a stabilire identità. E le dinamiche sono queste, a fronte di uno sfilacciamento della sinistra».

Anche sulle questioni di coscienza Berlusconi si propone ormai come capo carismatico e pontefice secolare...
«Una volta nel 2001 dissi a Radio 2 che Berlusconi era un “bolscevico della borghesia”. La giornalista che mi intervistava ebbe delle grandi difficoltà, e anch’io non potei parlare in radio per molto tempo. Credo che oggi si abbia la riconferma di quel che dicevo allora. Il premier si è avventato sul caso Englaro cavalcando il pretesto giusto. Per aggredire Napolitano custode della Costituzione e della divisione dei poteri, a cui vuole infliggere un colpo mortale. E il tutto dopo aver simulato a lungo laicità e agnosticismo».

Ma può resistere il patto civico costituzionale sotto i colpi della sfida carismatica, oppure andrà in frantumi?
«Il rischio di cedimento c’è eccome, specie nel quadro delle tante emergenze italiche, che possono indurre ad affidarsi al decisore. Il punto è che non si riesce a intravedere una ripartenza di “sinistra”, nel senso più ampio del termine. Una ripresa egemonica in senso effettivo, ovvero la capacità di persuadere e farsi credere. Ma su tutti i temi all’ordine del giorno. Una cosa difficile, poiché l’attuale mélange “liberal-fascistico” che abbiamo di fronte è proteso a mostrarsi di destra e di sinistra, contemporaneamente. E come da manuale. Oggi come ieri, e fatte le debite differenza, lo straniero in quanto portatore di globalizzazione impoverente, diventa il nemico. L’agente consapevole o inconsapevole del capitalismo cosmopolita (ieri erano gli ebrei). E all’interno di quel “socialismo degli idioti” che August Bebel in Germania attribuiva ai reazionari populisti del suo tempo. Del resto la guerra tra poveri in Inghilterra - inglesi contro italiani - la dice lunga su questo fenomeno: guerra dentro una stessa classe».

Italia come anello debole della globalizzazione e banco di prova per una nuova democrazia autoritaria in Europa?
«Questo mi pare troppo presto per dirlo, perché il nostro paese per fortuna ha ancora molti anticorpi. La Costituzione repubblicana innanzitutto, con la sua partizione e ramificazione di poteri. E poi l’eredità popolare del movimento operaio e del Pci, o almeno quel che ne resta. Difficile per ora spazzarle via avventandosi sul caso Englaro. Ma il rischio c’è eccome».

È in grado la sinistra, o ciò che ne rimane, di fare anima e legame sociale sul territorio, di «fare comunità» contro questo rischio?
«Non ha ancora dimostrato di esserne capace. Certo il modello “maggioritario” di partito trasversale e leggero adottato, è tutto in perdita a riguardo. Invece di cercare un radicamento capillare sul territorio, per raggiungere la vita e l’esistenza degli individui, si preferisce una maniera aerea e svincolata dalla realtà. Al più in questo modo si può apparire brillanti e persuasivi in Tv. Ma solo occasionalmente. È solo una scorciatoia...».

Il «lavoro» può essere ancora il nucleo vitale identitario di una sinistra aggregante come quella a cui lei allude?
«Sì, ma il lavoro in tutte le sue innumerevoli ramificazioni. Produttive e riproduttive. Colpisce constatare come i quadri alti del lavoro, non si rendano conto di subire anch’essi ormai lo sfruttamento. Sfruttamento della mente, subalternità psicologica. Più in generale comunque la dimensione lavorativa riguarda il 90% del paese. E si tratta appunto di recuperare la fiducia di tutti i ceti produttivi, non solo di quelli che pensano di star peggio».

Non bastano dunque la cittadinanza e i nuovi diritti laici a definire la sinistra, sia pur intesa in senso ampio?
«No, è uno schema debole e formalistico. La cittadinanza è il contenitore di qualcosa, non il contenuto. Mentre il contenuto restano i diritti sociali e sostanziali. Che si traducono in cittadinanza, ma ne sono il prerequisito. Il rischio invece, con l’idea della astratta cittadinanza, è quello di difendere alcuni e non altri. Alcuni e non tutti. Il risultato è la divisione dei cittadini».


08 febbraio 2009
da unita.it
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« Risposta #5 inserito:: Febbraio 11, 2009, 03:29:14 pm »

Qui Feltri che caccia non c’è

di Bruno Gravagnuolo


Di Piero Ostellino, liberale con gli occhialini alla Cavour, vi abbiamo spesso parlato.

Esempio di retorica che si picca di andare al concreto e ai «princìpi». Mentre oscilla come vascello di pensieri senza nocchiero. Venerdì infliggeva dal Corsera una filippica ai magistrati sugli Angelucci, editori e imprenditori oggetto di misure cautelari per presunti reati sanitari. E descritti dal Gip come consapevoli «di poter superare qualunque ostacolo potendo orientare l’informazione ai loro fini». Apriti cielo! Per il rigoroso Ostellino trattasi di «teorema», offensivo per la categoria giornalistica e per i direttori di Libero e Riformista (di proprietà degli Angelucci).

E di teorema conclamante che l’essere «editore impuro» sia una «aggravante». Talché, per Ostellino, il giudice in questo caso non vuole applicare la legge, ma emendare il paese. Segue intemerata a petto in fuori: «Nella mia lunga vita professionale ...nessuno ha mai osato trasformarci in lobbisti, sennò ahilui! Checché! Gli avremmo fatto scopare il mare!». Ma che c’entra! Questo è delirio(corporativo) puro, altro che editore impuro. Il punto è un altro, se Ostellino è in grado di capirlo. E cioè: gli Angelucci erano proprio convinti di poter orientare l’informazione a modo loro. E così, con questo stile, si comportavano.

All’empirico Ostellino bastava dare un’occhiata ai discorsi che facevano tra loro, e riportati sul suo stesso Corsera, a pag. 21 del giorno in cui lui sproloquiava a pag. 1. E lì, nell’intercettazione, Giampaolo Angelucci dice al padre su di noi de l’Unità: « Non è Libero che c’hai Vittorio Feltri che li tiene in braccio e li caccia via» (solo perché chiedevamo carta dei valori e garanti!). Mentre appresso Angelucci Sr. striglia il vicedirettore di Libero, per un attacco del giornale a un assessore, e chiede per suo tramite conto alla collega autrice dell’articolo sgradito. Morale: perché Ostellino non pensa e non si informa prima di scrivere? In fondo è un giornalista, o no? Quanto a noi de l’Unità, aggrediti a suo tempo da Libero e Riformista, ci siam portati bene o no?

bgravagnuolo@unita.it

11 febbraio 2009
da unita.it
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« Risposta #6 inserito:: Febbraio 25, 2009, 11:34:04 pm »

Panebianco Liberale Teodem

di Bruno Gravagnuolo


Spiace doversela prendere sempre con i «columinist» terzisti del Corsera che ci ammanniscono lezioncine un giorno sì e l’altro pure. E però sono talmente goffi e scriteriati i loro fervorini, che è giocoforza rimbeccarli. Prendete il solito Panebianco. Ieri l’altro, come di consueto, si ergeva a Sommo Terzo Giudicante. Bersagliando da un lato i «neoguelfi», dall’altro i «neoghibellini».
Stante che i primi vogliono imporre la sacralità della vita, col loro veto alla libertà di scelta sul fine vita.

Mentre secondi brandiscono un principio «che non può che ripugnare ai fautori di diversa e opposta concezione». Ergo per Panebianco, hanno ragione gli uni e gli altri. O meglio, non c’è ragione che prevalga. E il problema a suo dire si disincaglia solo nella «zona grigia» del caso per caso, da affidare a medici e familiari, nelle penombre discrezionali di singoli destini e circostanze.

Insomma sopire... troncare, e quieta non movere, onde evitare drammi e situazioni laceranti. Domanda: e c’era bisogno dell’illustre politologo (laico!) per sciorinare tali banalità, peraltro spesso coincidenti col già dato? Ma questa è roba da praticoni alla Rutelli o da teodem gesuiti e illiberali (coi quali a sinistra s’è fatto ahi noi un Partito, ma questa è un’altra storia...).

Già, perché se solo Panebianco riflettesse un istante sui fondamenti del suo (presunto) liberalismo, si accorgerebbe che la «ripugnanza» religiosa per la libertà di scelta sul fine vita non può reclamare pari vigenza etica a fronte della seconda.

Visto che la seconda, è assolutamente - e al contrario di ciò che pensa Panebianco - nell’esclusiva e libera disponibilità di ciascuno. Ovviamente a certe condizioni, e in un certo quadro normativo. In cui dirimente però, in un sistema liberale, è il volere del singolo. Eccolo il punto quindi: la libertà liberale. Così cara a Panebianco da mettersela sotto i piedi. Eppure John Locke fu chiaro: vita, libertà e proprietà appartengono ai singoli e sono a base del contratto liberale. Vecchie cose che nell’Italia clericale dei liberali alla Panebianco tocca a noi rinverdire.
bgravagnuolo@unita.it


25 febbraio 2009
da unita.it
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« Risposta #7 inserito:: Febbraio 27, 2009, 11:52:08 pm »

«Un’Italia malata, tra destra che non ha senso dello Stato e sinistra debole sulla laicità»


di Bruno Gravagnuolo


«A parole in Italia siamo tutti liberali. Quel che invece è egemone da noi è un comunitarismo d’accatto, e uno statalismo corporativo. Con la destra e la Lega in prima linea e la sinistra purtroppo afona e divisa. A cominciare dalla laicità».

Conversazione polemica con un torrente in piena quella con Giulio Giorello, filosofo della scienza, da marxista già allievo di Ludovico Geymonat, milanese, classe 1945. Oggi libertario impenitente e di sinistra: tra Popper, Feyerabend e Stuart Mill. Ma senza tenerezze per destra e sinistra. Alla destra «statalista» Giorello imputa assenza di senso dello stato e integralismo strumentale. E alla sinistra? Divisioni, debolezze laiche, identità fragile. Nonché incapacità di cavalcare le vere questioni del paese. Che nell’ordine per Giorello sono: «precarietà del lavoro, disservizi, degrado urbano e scuola a pezzi».

E però, per lo studioso, tutto ruota attorno alla questione per lui fondamentale. La laicità. Cartina di tornasole di tutte le insufficienze del paese. Quasi un dna malato, che impedisce all’Italia di essere una nazione, e di avere un baricentro civile. Vediamo.
Professor Giorello, da un’inchiesta Swg emerge che il 62% degli italiani nei grandi centri teme crisi economica e precarietà del lavoro. Solo il 24% è in ansia per l’immigrazione. Pochissimi credono alle ronde. E il 37% lamenta inefficienze e crisi della giustizia. La destra al governo ci racconta favole?
«Se il sondaggio è attendibile, ne vien fuori un ritratto del paese molto significativo. E cioè che il malessere attuale poggia su tre fattori. L’insicurezza economica e la precarietà del lavoro. Le inefficienze dei servizi, molto più gravi di certe violenze. Infine il degrado dell’ambiente, non solo dei beni culturali, ma in rapporto alla buona vivibilità dei centri urbani, del tutto degradati e insicuri. Sono tre parametri molto più veri del cosiddetto rischio immigrazione, tema gonfiato ad arte e che genera paradossi e doppi binari. Se un italiano violenta una romena, nessuno se ne accorge. Se un romeno violenta un’italiana, allora è un’emergenza nazionale».

A suo avviso anche i dilemmi della «sacralità della vita» e del testamento biologico generano ansie artificiali?
«Questione delicata, da chiarire bene. Premesso che non ho nulla contro il sacro, reputo bizzarro definire sacro ciò che ci piace. Ed empio quel che non rientra nella nostra scala di valori. Qui non parliamo del sacro in un quadro antropologico o religioso, ma siamo di fronte a slogan ideologici, che qualcuno erige a verità scientifiche. Basterebbe leggere quel che scrive uno scienziato serio come Edoardo Boncinelli, per capire che la “sacralità della vita” non è altro che una retorica per poter prevaricare le libere scelte di coscienza di cittadini e cittadine. E prevaricatrici sono alcune istituzioni e agenzie politiche, impegnate a comprimere la libertà individuale, sia che si parli di interruzione di gravidanza, che di testamento biologico. Non è che questi temi di per sé siano ansiogeni, o fonte di precarietà esistenziale. La verità è che c’è chi li rende tali e li usa in tal senso. E il discorso concerne purtroppo sia la destra e che la sinistra, cioè persone dell’uno o dell’altro schieramento. Le quali ogni volta che arriva un messaggio dal Vaticano, corrono a genuflettersi. Sì, anche nel fronte progressista ci sono raggruppamenti - come i teodem- che su questo fanno a gara con la destra, fino a bloccare l’intero Pd. Condivido perciò l’insofferenza intelligente di Veronesi, che non ha esitato a denunciare la debolezza profonda dei democratici».

Intravede tentazioni confessionali e autoritarie trasversali in tutto questo?
«Sì, le intravedo eccome. E all’insegna di una matrice ben precisa: un certo cattolicesimo italiano. Che fa riferimento a una struttura autoritaria e gerarchica, “derivata” dallo Spirito Santo, e da chi in suo nome prescrive credenze e stili di vita. Non sto polemizzando col dogma dell’infallibilità del Papa in materia squisitamente religiosa. Denuncio un autoritarismo piramidale più generale di tipo religioso, e con pretese civili».

La sponda più immediata di questa tendenza è però senza dubbio la destra al governo...
«Certo, e ciò che mi colpisce a riguardo è la totale mancanza di senso dello stato nella nostra destra, per nulla una destra seria come quella francese. Nondimeno - insisto - anche a sinistra c’è acquiescenza. E non è solo la Binetti ad essere zelante, ma ahimè anche altri, e provenienti da altre storie. Penso alle molte cautele di tanti ex Ds. Quanto ai cattolici progressisti, gente stimabilissima, sono in una condizione difficile. Schiacciati come sono dal clericalismo da un lato, e da cautele di ogni tipo dall’altro».

Non la persuade la netta posizione d’esordio di Franceschini sulla libertà bioetica di scelta?
«Massimo rispetto. Franceschini conosce bene il clericalismo italiano e le sue abitudini. E fa di tutto, generosamente, per contrastarli. Ma mi chiedo: ce la farà? Non c’è solo Franceschini nel Pd, un partito dentro il quale se ne sentono di tutti i colori. Tipo: la vita appartiene alla collettività. L’ultima che ho sentito dire, da una teodem. No, davvero è ora di riscoprire Gramsci e il suo vigore logico nei Quaderni del carcere. Quando mostrava a quali compromessi inaccettabili ci ha condotti la Questione vaticana, ad esempio con il Concordato fascista, purtroppo reinserito da Togliatti all’art. 7 della Costituzione italiana. Attenzione però. Un conto è la burocrazia dello spirito vaticana, altro il ruolo dei cattolici democratici, che in Italia e altrove si sono battuti per i diritti civili e per una società aperta. Franceschini, che mi è molto simpatico, appartiene a questa schiera».

La liquidazione congiunta, tramite fusione, del cattolicesimo democratico e dell’eredità del movimento operaio, non ha aggravato le cose da un punto di vista laico e politico più generale?
«Sì, e da entrambi i punti di vista. Le proprie tradizioni infatti si revisionano, si riesaminano. Ma non si svendono acriticamente. E sarebbe stato bene farlo anche rispetto al Pci, misurando con più attenzione luci e o ombre. Per far emergere il capitale spendibile di una gloriosa tradizione, e sostituire ciò che era inaccettabile. Penso ad esempio ai torti di Togliatti, dalle posizioni sull’Urss al Concordato. Bene, è mancato quel che invece c’è stato nelle grandi socialdemocrazie europee, che si sono lacerate, hanno vissuto aspre lotte interne. Ma alla fine hanno fatto i conti con la loro tradizione, senza liquidazioni sommarie. Ecco, anche per questo deficit interno al post-comunismo, il Pd non può che essere e risultare un’amalgama confuso. Con tutto ciò che ne consegue per l’identità e la forza dell’opposizione».

bgravagnuolo@unita.it

27 febbraio 2009
da unita.it
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« Risposta #8 inserito:: Marzo 07, 2009, 09:56:17 pm »

Questa crisi è devastante ma il pensiero della sinistra è completamente vuoto


di Bruno Gravagnuolo


«Il nucleare? Non non ne vale più la pena, anche se in Francia abbiamo molte centrali. Costa troppo, è insicuro e c’è il problema delle scorie. Meglio aspettare il nucleare pulito da fusione e puntare su fotovoltaico, eolico e biomasse. E naturalmente su riconversione economica e risparmi». Scampoli di conversazione telefonica tra Parigi e Roma con Edgar Morin, alias Egar Nahum, suo nome d’origine sefardita prima di adottare nella Resistenza francese quello che lo ha reso famoso.

Morin è un intellettuale dalla biografia e dal profilo «eccedenti». Socialista, poi comunista, tenente delle forze combattenti, capo dell’ufficio propaganda dell’Esercito. Surrealista, critico cinematografico, ex comunista espulso del Pcf da antistalinista, antropologo sociale, filosofo, protagonista del 68 e critico dello sviluppo in chiave global-ecologista. Insomma un bel tipo e uno di quelli che non hanno rinunciato ai sogni della propria gioventù. E che oltretutto ama l’Italia e ci viene di continuo (di recente per il Premio Nonino).
Perché non sentirlo sull’Italia? Lo chiamiamo, tergiversa, lo richiamiamo. E al fine accetta l’intervista. Eccola.
Professor Morin, che impressione le fa l’Italia tra disoccupazione, precarietà, spinte xenofobe e neoclericalismo?
«Quella di una regressione nazionalistica strisciante. Effetto di una crisi generale che si è manifestata anche altrove, come in Inghilterra nella guerra contro gli italiani sul mercato del lavoro. Vedo segnali di xenofobia e chiusura, che l’Italia vive con il manifestarsi dell’intolleranza contro i romeni, rom e immigrati. E con il fenomeno delle ronde. La crisi economica globale ha generato i suoi primi effetti regressivi. Effetti senza risposte progressive, come invece al tempo del New Deal rooseveltiano, o negli anni del fronte popolare e delle socialdemocrazie forti. Magari Obama rifarà il New Deal dagli Usa, ma le sinistre sono mute in Europa. Ecco l’altra faccia di questa crisi senza soluzioni».

Pensa che in momenti così, individui e gruppi sociali si rinchiudano nelle rispettive tribù?
«Tribù è parola inadeguata. Le nazioni non sono delle grandi tribù, ma sistemi più complessi. Il filo comune semmai è l’etnicismo, contrapposto all’internazionalismo. Ed è l’ambito sul quale ha perso terreno la sinistra. Che un tempo era internazionalista. E che ragionava su scala mondiale. C’è stata una disintegrazione culturale in tal senso, e ciò riguarda sia l’Italia che la Francia».

Berlusconi e Sarkozy, confronto a destra: cosa hanno in comune e cosa li distingue?
«Qualcosa in comune c’è,male differenze sono marcate. Sarkozy è molto più imprevedibile e meno scontato. È più duttile, e meno connotato socialmente. Berlusconi incarna una figura ben precisa: l’imprenditore privato di successo, che può trascinare al successo anche il paese. Di qui il suo ascendente su gran parte dell’opinione pubblica. Sarkozy è più inafferrabile. È passato dall’esaltazione del capitalismo alla critica del capitalismo. Insomma, è tutt’altra cosa».

In entrambi i casi la destra indossa panni populisti e di sinistra. Contro finanza e globalizzazione, non le pare?
«Chiariamo una cosa: la globalizzazione ha un lato negativo e uno positivo. Il lato negativo sono la crisi economica globale, la finanza senza controllo e la generalizzazione della povertà. Con annesse ricadute xenofobe. Il ceto medio si assottiglia e perde colpi e i nuovi poveri aumentano, in una con il degrado dell’ambiente e della biosfera. Il positivo invece sta nell’interdipendenza di tutto con tutto sul pianeta. Dal che deriva l’idea irresistibile di una comunità di destino per tutta l’umanità. Nonché la percezione di una insuperabilità dei problemi su scala locale. La crisi attuale è mondiale, e mondiali devono essere le risposte. È la prima volta nella storia umana che si afferma tale consapevolezza, fondata sull’universalità di un destino fatto di differenze culturali. Perciò la globalizzazione è divina e diabolica...».

Non ha risposto sulla destra che fa la sinistra...
«No, non credo sia vero. Ovvio che la destra riscopra oggi il ruolo centralizzato dello stato, dopo aver magnificato il mercato. Ma è sempre stato così. Già Bush jr aveva rilanciato il ruolo dello stato per arginare il crollo del mercato, dagli armamenti al ruolo del bilancio in deficit per via degli sgravi fiscali. Sono scelte obbligate, e ciò non significa fare la parte della sinistra, ma puntellare gli interessi del sistema nel tracollo dell’ideologia neoliberale. La sinistra è un’altra cosa, tutt’altra cosa...».

Già, che cos’è la sinistra? E in Francia ad esempio, che accade nel Psf, dopo il duello tra Royal e Aubry?
«È peggio che in Italia! Da voi forse le cose non sono così gravi. La verità è che il pensiero di sinistra, da noi come da voi, è completamente vuoto. E in campo restano solo le ambizioni personali, i personalismi...

Ma a suo avviso la parola socialista può e deve essere ancora pronunciata, oppure è storicamente «scaduta»?
«Posso parlarle dell’unica parola che conta per me: sinistra. Che ha tre radici dentro di sé, nate nell’800. La libertà, declinata in chiave libertaria e anarchica, estesa a tutta la vita delle persone. Il socialismo, che attiene al miglioramento sociale e all’emancipazione economica. Il comunismo, che tocca il tema della comunità umana. Tre fonti unite e inseparabili, che insieme fanno la sinistra. Non so se socialismo sia termine obsoleto. Per me ciò che resta è la sinistra. La sinistra oggi. Dopo la crisi del modello generale di trasformazione “rigenerativa” tipico del movimento operaio. Oggi non possiamo più parlare di classe operaia come soggetto su cui far leva. Accanto alla classe operaia, che rimane, c’è un nuovo proletariato globale, composto di immigrati, di lavoratori precari e di nuove povertà. E poi di tutte le persone di buona volontà, non cretinizzate dalla situazione attuale».

Sì, ma a quali idee-forza occorre riferirsi permutare l’economia?
«Non c’è più un modello, come quello sovietico di un tempo. Possiamo denunciare questo capitalismo, per trasformarlo magari. Ma per il momento non riusciamo ad enunciare un’alternativa di sistema. Forse una nuova possibilità sta in un’economia mutualistica. Economia mista, fatta di forme plurali. Dalle associazioni, alle cooperative, alle piccole e medie imprese, alle imprese di stato. Economia imperniata sull’ambiente e sul ritorno ad un’agricoltura biologica e non intensiva».

Obama può aiutarci a trovare un’altra strada?
«Va detto intanto che alla presidenza del paese più importante del mondo è arrivato un uomo di cultura planetaria. Il che è un fatto straordinario. È un africano-americano, formatosi in Asia e percepito come un nero. Elemento che ha comunicato a miliardi di uomini una sensazione elettrizzante. Poi sono persuaso che egli tenterà di mettere fine a tutta la tragedia del Medioriente. Infine da lui verrà un New Deal di nuovo tipo, basato sulle tecnologie ambientali, sul rilancio della domanda e sulla distribuzione del reddito. Non so se Obama riuscirà nella sua impresa, ma la sua figura è una formidabile speranza per tutto il pianeta».

bgravagnuolo@unita.it

06 marzo 2009
da unita.it
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« Risposta #9 inserito:: Marzo 30, 2009, 11:13:15 pm »

«La mia battaglia contro i poteri che tentano di cancellare il femminismo»

di Bruno Gravagnuolo


«Non sono un’esperta di politica, ma compro l’Unità tutti i giorni e vorrei farvi coraggio per le vostre battaglie.... Quel che posso dirvi è di perseverare. Nel rompere, se vi riesce, i ghetti della “rappresentanza”. E portare lì la voce di chi lotta per cambiare l’ordine simbolico del potere, da dentro la vita. Prima di tutto la voce delle donne».

Intervista controversa e difficile quella con Luisa Muraro, vicentina, 69 anni, leader culturale delle femministe italiane, fondatrice della Liberia delle donne. Difficile, perché piena di concetti ostici. Fra i quali «l’ordine simbolico», architrave della filosofia della «differenza» di Luisa Muraro. E poi: «politica prima» e «politica seconda». Il primo concetto significa: c’è un ordine fatto di rappresentazioni mentali e affidato al linguaggio, che decide della sorte di uomini e donne. È quell’ordine cristallizzato di parole che bisogna mutare. Per mutare le cose e le relazioni umane. E lo si può fare, dice Muraro, rifacendo le parole e il loro senso, a partire dal «desiderio» che in tutti e tutte è infinito, e che sconvolge il mercato dato dei valori. In vista di un altro mercato: Il mercato della felicità (titolo del suo ultimo volume). E la politica prima e seconda? La risposta alla fine dell’intervista.

Muraro, lei ha scritto un libro che è un inno alla felicità possibile e allo slancio del desiderio. Senonché ci assedia il contrario: precarietà, intolleranza, solitudine. Missione impossibile?
«C’è molta gente che, magari in modo inconsapevole, va al mercato della felicità. Senza dubbio non sappiamo contrattare e rivendicare con forza quel che davvero vale. Ma la spinta alla felicità è insopprimibile, e si esprime anche nella frustrazione per i mancati consumi, oggi non più alla portata. Dal che poi vengono infelicità e delusione. Occorre imparare a cercare quel che ci serve: relazioni, accoglienza, pienezza di vita. Senza sviamenti».

Di che cosa è fatta l’infelicità attuale?
«In gran parte deriva dal venir meno degli orizzonti ideali. Dal rimpicciolirsi in molti e molte delle speranze, dopo la sconfitta del movimento operaio avvenuta a beneficio di una uniformità di prospettive coincidente col capitalismo. Personalmente ho scelto di guardare a quella parte del genere umano - le donne - per cavarne ottimismo e luce. Al fine di riconquistare un’idea di futuro per tutto il genere umano».

C’è un «sapere femminile» distinto da mettere in gioco, in questa Italia conservatrice e stregata dal mito frustrato del benessere?
«Prima del sapere c’è una politica delle donne. Da sempre. Ovvero il femminismo. È una ricerca di civiltà, portata avanti dalle donne. Che i saperi dominanti tentano di cancellare. Questa ricerca è per me motivo di gioia, e lo è per tante donne. Insomma, per le donne è un tempo di straordinario mutamento. Perché guadagnano libertà. Un vero paradosso: il mondo non sa che farsene della libertà femminile e la ricaccia indietro. Ma la tendenza espansiva è in atto, e procede, tra spinte propulsive e contraccolpi. Mettiamola così: il mondo va peggio, ma per le donne va meglio. E ciò è motivo di grande sofferenza nonché di grande libertà per l’universo femminile».

Anche la destra promuove le donne: Carfagna, Gelmini. Che idea s’è fatta di questa promozione - all’ombra del potere - di un certo femminile gradevole ed efficientista ad un tempo?
«È la risposta che la destra sta offrendo al venire avanti del protagonismo femminile. La sua risposta, paternalista e patriarcale. Semmai lamenterei l’incapacità della sinistra a dare risposte davvero alternative, che non siano puramente emancipazioniste. La specificità femminile di oggi va oltre, è un “dipiù”. Più liberta e giustizia, più felicità. A partire dalla differenza femminile. Ecco quel che la sinistra dovrebbe saper gestire al rialzo. Ovvio che la destra abbia le sue ricette. Bieche, e venate di disprezzo per il femminile. Ma è la destra...

Quale contributo le donne possono dare a un punto di massima sofferenza per il tessuto sociale italiano, vale a dire l’irruzione della diversità migratoria, fonte di xenofobia e disagio?
«Intanto, un dato storico. Già nei secoli della Caccia alle Streghe le classi dominanti usavano la fobia popolare del demonio per i loro giochi di potere. Oggi accade qualcosa di simile. Anche la destra al potere usa la paura popolare dell’immigrato per puntellare il suo ordine simbolico, generando un grande disordine simbolico. Che cosa mettono in gioco le donne? Una grande presenza di massa nel volontariato sul territorio. Che è presidio e garanzia di accoglienza, fattore di incivilimento. Poi penso alla scuola materna ed elementare. C’è uno straordinario esercito di maestre, oggi penalizzato dal governo. Che si fa carico dell’alfabetizzazione dei bambini, e delle tematiche interculturali. Un lavoro immenso e disconosciuto, volto all’inclusione, che agisce sulle menti dei bambini e su quelle dei genitori, spesso gravate da pregiudizi e da obiettive difficoltà quotidiane. È un ruolo di mediazione sul territorio di inestimabile valore, che civilizza e previene le tensioni. Tensioni inevitabili, che danno la sensazione di una xenofobia che spesso non c’è, e che viceversa è sintomo di disagi non governati da amministrazioni ottuse e incapaci di buoni esempi».

Lei polemizza sempre contro l’emancipazione. Ma visto che a parità di lavoro le donne guadagnano molto meno - lavoro di cura a parte - la parità emancipativa non è un viatico anche per la «differenza»?
«La parola emancipazione è offensiva, anche per le classi popolari. Il vero valore è la differenza femminile, il suo “dipiù”. Basta partire dalla disparità! Partiamo da questo “dipiù”. Nessuno ovviamente è contro la parità e l’eguaglianza, ma non è questo l’orizzonte giusto. L’obiettivo è più vasto: cioè la differenza qualitativa e i cammini diversi che le donne introducono in società. Per questa via si guadagna anche la parità, ma si va oltre. Verso un diverso ordine simbolico...».

Significa altre relazioni, altre gerarchie, altri riconoscimenti tra esseri, e altri tipi di vita e di economia?
«Esattamente, è questo il punto. Il guadagno di libertà e di giustizia che le donne perseguono avviene sulla strada di un ordine simbolico inteso come liberazione di tutti e di ciascuno, verso una convivenza liberamente scelta e non imposta. È questo tipo di mondo, quello che tentano di aprire alle menti le maestre di cui sopra, dal sud al nord d’Italia. Ed è questo tipo di mondo, quello che le leggi del governo contro la scuola osteggiano».

Parliamo della sinistra. Ha senso questa parola per il suo lessico femminista, oppure no? E se sì, da dove ricomincia la sinistra?
«Distinguerei prima di tutto tra politica prima e politica seconda. I partiti, le istituzioni, sono politica seconda. E lo sono rispetto a un’altra politica, quella più vera, radicata nel quotidiano e nelle relazioni di civiltà. Ecco, si tratta di imparare a gestire in maniera nuova il tempo e le relazioni, i conflitti, il potere, l’autorità...

E la politica seconda?
«Deve farsi interprete non separata dei sentimenti e degli interessi della politica prima. Quanto alla sinistra, è una buona combinazione di entrambe le politiche, in direzione di una liberazione universale che non vale soltanto per i subalterni ma per tutti nel mondo, come promette Obama. La sinistra infatti si qualifica universalmente per la libertà e la giustizia, oltre i recinti del palazzo e non solo a vantaggio dei derelitti».
bgravagnuolo@unita.it

30 marzo 2009
da unita.it
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« Risposta #10 inserito:: Giugno 10, 2009, 03:25:26 pm »

Berlinguer, nobiltà e sconfitta di una grande politica

di Bruno Gravagnuolo

«Stava bene...prima di salire sul palco, avevamo scherzato a lungo nel tragitto in macchina da Genova...». Comincia così, con le parole troncate dalla commozione, il bel filmato a più voci in onda stasera alle 23,40 su RaiDue per «La Storia siamo noi» di Rai Educational: «Berlinguer», a venticinque anni dalla scomparsa del leader.
A parlare è Alberto Menichelli, l’autista di Berlinguer, che racconta minuto per minuto i suoi ultimi istanti di vita.

Fotogrammi dal palco di Piazza della Frutta a Padova e poi altri momenti, narrati, dalla stanza d’albergo dove il segretario viene subito portato. E dove entra in coma irreversibile. Ipotizzava un malore Berlinguer, dovuto al freddo, o alla cena consumata la sera prima a Genova. E invece l’irreparabile si stava consumando. E subito nel filmato scorrono le immagini dell’imponente folla che circonda la salma dall’ospedale di Padova, con Pertini subito accorso e i familiari, la figlia Giovanna, la moglie.
E ancora altra folla, l’immensa commozione e lo stupore, l’annuncio del telegiornale.

LE TESTIMONIANZE Un avvio drammatico, che è solo l’introduzione di una narrazione storica più ampia fatta di sequenze inedite, testimonianze e scorci di storia di allora. Ragionata con Luciano Barca, Alfredo Reichlin, Aldo Tortorella, Walter Veltroni. Intanto, dopo l’incipit emotivo, ci sono le origini in bianco e nero di Enrico Berlinguer. Nella Sardegna appena liberata. Quelle del Berlinguer «agitatore» per il pane a Cagliari, organizzatore comunista e fresco di letture rivoluzionarie: Bakunin, Marx, Voltaire. Giovannotto scarno, di famiglia azionista, figlio di Mario Berlinguer già compagno di scuola di Togliatti.

E a seguire gli anni del Berlinguer primo segretario della Fgci, dirigente della Federazione Mondiale della Gioventù Democratica, capo delegazione a Mosca nel 1957 con il socialista Mario Nesi. Che ci racconta un Enrico riflessivo e «propagandista: inventore del prontuario per l’attivista. E che non erano solo propaganda, ma «istruzioni» per stare in mezzo alla gente e conquistarla, «ragionando». Nient’altro che il modo d’essere del Pci, riassunto in un ragazzo metodico, anti-retorico e cocciuto. Come quando, racconta Nesi, si azzuffò coi comunisti jugoslavi a Belgrado. Che pretendevano di brindare a «Trieste jugoslava».

E lui, per nulla intimorito dal giocare fuori casa, che alza il bicchiere, e brinda in replica a «Trieste italiana». Dopo quell’episodio Berlinguer scriverà a Mario Nesi: «Amo l’Italia come te, per quanto sardo... ». Ma il fulcro del racconto a più voci, è ben altro. È la battaglia di fondo che ha scolpito la figura di Berlinguer nella storia d’Italia: la legittimazione del Pci come forza di governo. Inseguita contro i blocchi geopolitici, contro le resistenze conservatrici dentro e fuori la Dc. E contro la famosa conventio ad excludendum. E il tutto sull’onda di innovazioni ben precise. Dal rapporto nuovo tra «partito e movimenti», che compendia dal vivo la stagione di massa inaugurata dal 1968, all’intuizione strategica del «compromesso storico».

Culminata nel 1978 in quel governo delle astensioni stroncato dal rapimento di Moro. Proprio il giorno in cui il Pci doveva votare la fiducia. L’obiettivo? Trascinare al governo, in alleanza con i ceti moderati, la società civile dei ceti subalterni. Quella che il Pci era riuscito a guidare nell’ultimo decennio, dopo che gli argini censitari e di classe si erano rotti, già dal centrosinistra in poi. E dopo che l’ordine di Yalta aveva cominciato a scricchiolare. Tentativo inseguito con tenacia, nei conversari con Moro, l’altro grande protagonista di allora.

E con l’innovazione dell’«austerità», che era in realtà un generale disegno riformistico di riconversione democratica e keynesiana dell’economia italiana («gli elementi di socialismo»). Due i possibili sbocchi (forse) nella mente di Berlinguer, e tutto sommato nelle cose. O un passaggio temporaneo e «consociato» con la Dc verso una successiva alternativa bipolare. Oppure un più lungo governo catto-comunista, con eventuale scissione della destra dc, in vista di un’economia regolata. Ci pensarono il contesto internazionale e l’estremismo terrorista, a spezzare quel disegno strategico.

La cui fatica e la cui sconfitta l’ultimo Berlinguer portò impresso sul volto. Ma pesò senza dubbio anche un’altra cosa, impossibile da sottovalutare: la diversità comunista. Colonna d’Ercole che Berlinguer tentò di aggirare ma non rimise mai in questione. Come amava ripetere: «Siamo e resteremo comunisti».

da unita.it
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