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« inserito:: Settembre 05, 2007, 05:01:57 pm » |
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San Suu Kyi, la Lady che fa paura ai generali
Marina Mastroluca
«Una vittoria per tutto il popolo». I generali della giunta di Yangon si congratulano vicendevolmente, dopo quattordici anni si è conclusa quella che Aung San Suu Kyi nella clausura forzata tra le pareti sempre più decrepite della sua casa ha già definito un’impostura. Myanmar avrà una nuova costituzione che mette nero su bianco i poteri dell’esercito, fissando l’abuso nella legge che stabilisce i contorni della «democrazia disciplinata» dei generali. Quattordici anni di presunta trattativa con il popolo, boicottata dall’opposizione. Se si è arrivati alla stretta però è soprattutto per un’ondata di proteste contro l’improvvisa impennata dei prezzi di gas e benzina, lievitati anche del 500% per finanziare la paura e gli sprechi della giunta che sta costruendo una nuova capitale, una cittadella fortificata. Decine e decine di arresti tradiscono il nervosismo dei generali, mentre analisti e osservatori richiamano la memoria dell’88. L’anno delle proteste e della brutale repressione, l’anno in cui una donna minuta e sorridente ruppe il tabù di un Paese che dal ‘62 languiva sotto la stretta dei militari. E davanti alla folla che protestava disse quello che tutti sapevano: che la democrazia promessa dai generali non sarebbe mai arrivata da sola e che bisognava alzare la voce.
Aung San Suu Kyi aveva allora 44 anni, un marito, Michael Aris, professore universitario in Inghilterra e due figli appena adolescenti. E un passato importante, per quanto sepolto nel tempo: suo padre era Aung San, eroe fondatore di quella che allora era ancora Birmania, ucciso quando lei aveva solo due anni ma impresso nella memoria del Paese e nel suo dna. Fino ad allora, fino a quell’88 che la trasformò in un simbolo, Suu Kyi aveva vissuto molto all’estero: in India con la madre ambasciatrice, in college ad Oxford dove si era laureata in filosofia, scienze economiche e politiche, per arrivare a New York con un lavoro alle Nazioni Unite. Poi le nozze, che la portano in Giappone, in Bhutan, a Tokyo a fianco del marito. Suu Kyi si dedica a studi storici, scrive un libro su suo padre, lavora a fianco a Michael: la Birmania in quegli anni è memoria e radici, quanto forti si vedrà quando lo squillo del telefono che annuncia una grave malattia della madre la richiama a Rangoon, come ancora si chiamava la città.
È il 1988. Le strade della capitale birmana sono attraversate dalla protesta, allora - come si è ripetuto in queste settimane - studenti e monaci buddisti, ma anche povera gente, accusano la giunta della miseria del Paese. San Suu Kyi è con la madre in fin di vita e con quanti protestano. «Come figlia di mio padre non potevo restare indifferente a quello che stava accadendo», dirà. Davanti alla folla riunita presso la grande pagoda dorata di Shwedagon lei chiede riforme democratiche, libere elezioni. Scrive una lettera aperta ai generali, un gesto estraneo al codice della giunta. Loro rispondono mettendola agli arresti domiciliari. Ma anche intrappolata in casa Suu Kyi vince le elezioni che alla fine i generali hanno dovuto concedere: nel maggio del ‘90 la sua Lega nazionale per la democrazia vince l’82 per cento dei seggi. La giunta annulla il voto.
«The lady», la signora la chiamano oggi i birmani in segno di rispetto per il suo coraggio cocciuto, per le rinunce che ha ingoiato per diventare quella che è: la bandiera dell’opposizione alla giunta. Dall’88 ad oggi San Suu Kyi ha passato 11 anni in una reclusione più o meno stretta, in misura della paura e del sospetto della giunta. Arresti nelle mura domestiche o dietro alle sbarre - nel ‘91 è il figlio maggiore a ritirare per lei il Premio Nobel per la pace. Il divieto di comunicare all’esterno o di muoversi nel Paese, i fili del telefono recisi, rare le visite di emissari internazionali: i generali tirano la corda secondo convenienza, le sanzioni internazionali non hanno mai fatto davvero paura alla giunta che ha gas e petrolio da vendere alla Cina assetata d’energia e buone relazioni con Russia e India.
Prigioniera in casa, i legami familiari presi in ostaggio dai militari: nel ‘99 quando il marito Michael è malato di cancro i generali concedono a San Suu Kyi di partire per Londra, ma è sottinteso che non potrà tornare in Birmania. Lei decide, dolorosamente, di restare nel suo Paese. Lontano da Michael morente e dai suoi figli, che non potrà più incontrare. Sono brevi in questi anni i periodi di libertà, mai piena: tra il ‘95 e il 2000 può varcare la soglia, ma non allontanarsi dalla città. Lei ne approfitta per cercare di rinsaldare i legami con il paese, viola i divieti anche a costo di chiudersi in macchina senza mangiare né bere per giorni, resistendo alle autorità che le interdicono il passo. Poi nuovi arresti, la sua detenzione di volta in volta prorogata a dispetto degli appelli, delle pressioni internazionali, dei richiami dell’Onu.
Non è facile vivere come un simbolo, un’esistenza scarnificata e privata di tutto se non del luogo dove risuona il suo isolamento forzato: l’essenza del suo coraggio agli occhi del mondo, una spina perennemente affondata nel fianco del regime che le nega ogni libertà. E che continua a temerla, anche se la sua Lega nazionale per la democrazia oggi è poco più di un ombra, le sue sedi smantellate o cadenti, come quella di Yangon. «San Suu Kyi è diventata l’unica leader riconosciuta dai birmani dopo la morte di suo padre», è stato detto di lei. The Lady, la signora. Oggi che la protesta torna nelle strade i generali hanno ancora paura di lei.
Pubblicato il: 05.09.07 Modificato il: 05.09.07 alle ore 9.06 © l'Unità.
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