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Autore Discussione: Bruno MANFELLOTTO.  (Letto 47489 volte)
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« Risposta #75 inserito:: Giugno 23, 2013, 11:07:55 am »



Editoriale

Chi si prenderà i voti della Lega

di Bruno Manfellotto

Uno tsunami ha sconvolto valli e pianure del Nord. Cancellando le camicie verdi che lì avevano dominato per un ventennio. Si è frantumato il blocco sociale della destra. E mentre Grillo affonda, il Pd non ne approfitta fino in fondo

(14 giugno 2013)

Il 6 giugno del 1993 Umberto Bossi festeggiava con Marco Formentini la storica conquista del Comune di Milano, suggello di un trionfo che aveva dato alla giovane Lega Nord il controllo delle ricche province del Nord. Il 10 giugno del 2013, la Lega di Roberto Maroni lascia liberi e dispersi nelle verdi praterie della Padania centinaia di migliaia di voti in cerca di una nuova casa. E' molto di più di una sconfitta elettorale, è una débâcle, una rotta, il fallimento di un progetto che certo non si ripeterà più nelle forme e nei modi in cui lo abbiamo conosciuto in questo interminabile ventennio. E' la fine della Seconda Repubblica, come ha scritto Ilvo Diamanti.

Giusto vent'anni fa, con un colpo di genio, Silvio Berlusconi dava vita alla più originale invenzione politica del millennio, la Casa della libertà, il patto che federava il Sud di Alleanza nazionale e della post Dc di Casini con il Nord delle camicie verdi, la destra sociale e padronale con quella moderata e postfascista. Oggi Fini è sepolto sotto i resti di casa Tulliani a Montecarlo, Pierferdi si lecca le ferite dopo la scommessa Monti finita in una bolla di sapone, e Bossi è solo il ricordo di un tempo che fu. Un blocco sociale si è dissolto.

Di Grillo e dei suoi sogni di gloria s'era già detto ("Grillo non ha sempre ragione", "l'Espresso" n. 18) e ridetto ("E ora Beppe dica cosa farà da grande", "l'Espresso" n. 23), ma con il voto di metà giugno si è andati oltre ogni previsione: uno tsunami alla rovescia lo ha come cancellato, irriso, umiliato. Da Sondrio a Ragusa. Del resto dei suoi otto milioni e mezzo di voti non ha saputo che farne. Oggi l'ipoteca su quel 25 per cento di voti resta, è come se li avesse congelati: fino a quando?

Se le cose stanno così, allora il Pd - per dirla con i cronisti sportivi d'un tempo - ha vinto ma non ha convinto. E' a dir poco strepitoso, per esempio, che dei 92 comuni in palio ne abbia conquistati 54 (e ne aveva 35), e che abbia costretto il Pdl di Berlusconi & C. a scendere da quota 50 a 17. Ma l'euforia della vittoria annunciata non deve far dimenticare che i sondaggi nazionali, anche dopo l'esito a sorpresa di Roma o di Treviso, danno sempre il Pdl in testa. La strada è ancora lunga e faticosa.
Dopo mesi di buio e di confusione, l'operazione rinascita potrebbe essere avviata. A patto che Epifani il traghettatore, e chi sta accanto a lui, non fingano di non vedere ciò che è successo. La vittoria c'è stata, indiscutibile: non si fa sedici a zero nelle città capoluogo solo per caso, ma per la sinistra il voto amministrativo è da sempre un vantaggio. Intanto, però, la base elettorale si restringe, i consensi diminuiscono e i voti che Lega e Pdl lasciano sul campo non vanno a ingrossare le file dei democratici, bensì quelle dell'astensione sempre più deluse da una politica elitaria e inconcludente. Il pugile ha vinto per abbandono.

Non sottovalutiamo poi che per imporsi il Pd abbia dovuto anche questa volta mascherarsi dietro liste civiche, outsider, alleanze originali. E infine che a Roma, la più clamorosa delle vittorie, abbia trionfato un democratico per caso, un chirurgo prestato alla politica che da senatore ha votato contro il governo delle larghe intese e che mostra distinguo e radicalità che lo allontanano assai dalla politica che conosciamo, anche quella del postcomunista Goffredo Bettini senza il cui aiuto e apparato Marino certo non ce l'avrebbe fatta.

Insomma, abbiamo già scritto ("Ma ora non dite che tutto va bene", "l'Espresso" n. 22) - e ci perdoni chi vorrebbe solo applaudire e festeggiare - che a sinistra i rischi non mancano. Nell'ordine: che i maggiorenti del Pd facciano spallucce e considerino passeggera la ventata di antipolitica, e Beppe Grillo un fenomeno evaporato (e i suoi otto milioni di fan, quasi tutti strappati all'astensione?); che Enrico Letta si convinca che i consensi al Pd, cioè i non consensi a Grillo e Pdl, significhino vita eterna al suo governo; e che Matteo Renzi sia costretto a una lunga attesa, a una permanente campagna elettorale che lo sfianchi al punto da bruciarlo o spingerlo allo strappo... In altre parole, anche se stavolta il vento ha soffiato nelle vele del Pd, non è finito ancora niente. La storia continua.

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« Risposta #76 inserito:: Luglio 05, 2013, 04:44:13 pm »


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E se tornassimo alla democrazia?

di Bruno Manfellotto

Da vent'anni siamo costretti al gioco delle leggi ad personam, degli attacchi alla magistratura, delle ipotesi di salvacondotto e così via.
Tutto in nome del 'consenso nelle urne', che in un Paese liberale non c'entra proprio niente.
Così come non c'entra nulla la cosiddetta 'pacificazione'

(27 giugno 2013)

Non sbaglia chi dice che la decisione del tribunale di Milano di infliggere a Berlusconi ben sette anni di carcere per concussione e prostituzione minorile oltre all'interdizione perpetua dai pubblici uffici, era attesa, perfino scontata. Nel senso che talmente esplicita era la volontà di occultare la verità sulle notti di Arcore anni dopo le dolenti denunce di Veronica Lario, i compleanni di Noemi e le Tarantino girls; talmente proterva la pressione sulla Questura; e talmente sfacciata, quella fatale notte, la decisione di affidare "la nipote di Mubarak" non a un riservato diplomatico egiziano ma alla fidata Nicole Minetti, che il processo non poteva che finire così, con una condanna. Il fatto poi che a decidere le sorti di B. siano state quattro donne, una pm e tre giudici, appartiene solo all'aurea legge del contrappasso.

Di questa sentenza s'è molto scritto, e pure della scelta del Tribunale di andare oltre le richieste di Ilda Boccassini trasformando in un boomerang la miniriforma Severino che ha diviso in due il vecchio reato di concussione e previsto pene più pesanti per chi non si limiti a indurre, bensì costringa, a violare la legge. La riscrittura avrebbe potuto aiutare il Cavaliere, come peraltro è stato per Filippo Penati, Pd; e ha finito invece per aggravargli la condanna. Alcuni aspetti della vicenda, però, meritano ancora attenzione e molti luoghi comuni di essere smontati.

Tutti i testimoni chiamati dalla difesa a sostenere le tesi del Cavaliere, la corte di Arcore, sono stati rinviati alla Procura con l'accusa di falsa testimonianza. Insomma, secondo il Tribunale, Apicella e Nicole, Licia Ronzulli e Marysthell Polanco, Ruby e Maria Rosaria Rossi hanno fatto finta di non sapere per coprire Silvio e le sue serate. Una sorta di associazione a mentire. Dunque quello all'ex premier si è trasformato nel processo all'intero sistema Berlusconi e al modo di intendere i rapporti tra potere, istituzioni e vita privata di un uomo e dei suoi cari (fino a candidare la figlia come nuovo leader Pdl) . Amara metafora di una stagione lunga un ventennio che ha di fatto paralizzato la politica italiana.

Anche gli argomenti utilizzati a difesa del Cavaliere non stanno in piedi. Qualcuno ha detto per esempio che le abitudini sessuali non erano mai state sfruttate a fini di lotta politica, mica siamo gli Stati Uniti puritani di Bill Clinton e Monica Lewinsky. Non è vero, e non c'è bisogno di scomodare Pecorelli e i servizi segreti: nella stagione in cui non c'erano né tv né Internet vigeva la sacra regola del "io so che tu sai che io so". E tanto bastava per agire di conseguenza. Ma è anche vero che stavolta, per la prima volta, è accaduto in un certo senso il contrario: la politica, il ruolo istituzionale, l'arroganza del potere sono stati messi in campo per consentire o coprire o favorire vizietti e feste in villa. E' questo che si sanziona, non il bunga bunga. E a norma di legge, non di morale.

Si ripete poi come uno stanco mantra la tesi dell'eliminazione politica di B. per via giudiziaria. Ma si sorvola sul suo tentativo costante di sottoporre la giustizia alle sue esigenze in una continua confusione, per taluni giocosa per altri tragica, di interessi privati e pubbliche virtù.
Ieri le leggi ad personam, oggi il sostegno al governo delle larghe intese, alla maggioranza Brunetta-Fassina in nome della "pacificazione" (ma chi ha dichiarato la guerra? E a chi?) che lui intende come controllo sulla Corte costituzionale, nomina a presidente di una commissione per le riforme o a senatore a vita, concessione di un salvacondotto che lo tuteli dai processi giudiziari e politici (ineleggibilità). Tutto in nome del consenso delle urne - peraltro in costante calo - che però non può significare giustificazione, eterna licenza, impunità.

Basterebbe questo per chiedere conto a Berlusconi della sua concezione della politica e delle istituzioni. Ma l'uomo è fatto così, non riesce a capire che nei sistemi liberali - aggettivo abusato e poco praticato - i poteri del governo, del parlamento e della magistratura devono godere di piena autonomia, e che è proprio il loro equilibrio a garantire l'esercizio della democrazia. Da vent'anni non è così.

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« Risposta #77 inserito:: Luglio 28, 2013, 10:37:22 am »

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Più che l'evasore poté la Santanchè

di Bruno Manfellotto

"L'Espresso" dedica la copertina a un'inchiesta su uno scandalo nazionale: gli evasori tolgono allo Stato ogni anno 180 miliardi, mentre undici milioni di italiani non versano un euro. Ma la politica tace. Impegnata ad occuparsi d'altro...

(05 luglio 2013)

I venerdì dell'"Espresso" - i lettori di "Questa settimana" lo sanno - sono immancabilmente scanditi da lettere e telefonate di protesta, talvolta anche di insulti. Intendiamoci, gli apprezzamenti e gli inviti a insistere prevalgono, ma più rumorosi sono certamente i distinguo, le precisazioni, le smentite, comunque quasi mai fondate e sempre rigorosamente bipartisan: si dolgono da destra e da sinistra, imprenditori e grand commis, ministri e deputati, sindaci e governatori, outsider e grillini. Perché mal sopportano, tutti, che si dica come stanno le cose. Ma stavolta, anche se lamentele ci sono state, le cose non sono andate come si immaginava. E la stranezza merita qualche riflessione.

Credevamo, infatti, che la copertina dedicata all'evasione fiscale avrebbe scandalizzato, suscitato indignazione, provocato sensi di colpa. Invece niente: silenzio, freddezza, indifferenza. E dato l'argomento c'è di che preoccuparsi. Che cosa abbiamo svelato con la nostra inchiesta? Semplicemente come stanno le cose. Abbiamo documentato per esempio che ogni anno sfuggono al controllo del fisco ben 180 miliardi di euro: quarantacinque volte il gettito Imu prima casa; che per stanare gli evasori l'Agenzia delle entrate dispone di uno dei più sofisticati sistemi informatici del mondo, ma che nonostante questo non riesce a recuperare al netto che 7 miliardi su 180 stimati. Spiccioli.

E ancora: che gli italiani spendono più di quanto dicono di aver incassato: e la differenza? Che undici milioni di connazionali, pur presentando dichiarazione, alla fine pagano zero euro; che più di quattro milioni di famiglie firmano dichiarazioni a dir poco incongrue; e infine che i governi, compresi quello tecnico del professor Mario Monti, che in altri tempi aveva incastrato Microsoft, e quello delle larghe intese di Enrico Letta, e pure le maggioranze parlamentari che li sostengono, sembrano perseguire tutti il medesimo disegno assai poco virtuoso: cercare le tagliole disseminate qua e là per catturare qualche infedele dell'erario e subito allentarle. Per paura che spezzino le gambe di potenziali elettori. Ultimo esempio, minimo ma significativo, la decisione di riportare da mille a tremila euro il tetto massimo all'uso del contante. Via ogni traccia.

Abbiamo scritto insomma che il partito degli evasori gode ottima salute e può pure contare su amici cari nel governo e nei partiti. Reazioni? Il silenzio. Anche da parte di chi è appena entrato in Parlamento proprio criticando le tante caste e i loro privilegi. Come per esempio deputati e senatori cinque stelle il cui programma elettorale conta 2504 parole, ma nemmeno una sull'evasione fiscale. Perché?

Potrebbe trattarsi di progressiva assuefazione: se ne parla, se ne parla ma non se ne viene mai a capo, fino a perdere ogni speranza. Statistiche alla mano - ecco un'altra interpretazione - si potrebbe dire che in una famiglia sì e una no si annida un piccolo o grande evasore, o almeno un profeta dell'elusione. A questa affermazione potrebbe seguire la constatazione che evidentemente chi paga le tasse fino all'ultimo euro appartiene a una minoranza, e pure silenziosa. Parallela a questa è la convinzione che sia del tutto vano cercare di spingere gli italiani sulla via della redenzione fiscale né vincere l'atavica diffidenza per tutto ciò che viene, tassazione compresa, da uno Stato sentito come lontano, inefficiente e nemico. Nemmeno di fronte all'evidenza che un miliardo di Iva, il cui aumento si fatica a cancellare, o il miliardo e mezzo necessario a rifinanziare la cassa integrazione sono noccioline a fronte del mare di evasione e di lavoro nero.

Fin qui ci hanno soccorso psicologia, sociologia e storia del costume nazionale. Poi c'è la serena certezza che solo un'infima percentuale di evasori finiscono nelle maglie del fisco e, se beccàti, se la cavano con una multa risibile. E infine c'è il triste sospetto che di questi tempi chi fa politica pensi ad altro. Per esempio a trovare il modo di impedire a Matteo Renzi di candidarsi a qualunque cosa. O a prendere la storica, finale decisione sulla resistibile ascesa di Daniela Santanchè. Amen.

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« Risposta #78 inserito:: Agosto 06, 2013, 12:01:37 pm »

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Il governo del durare ancora un po'

di Bruno Manfellotto


Giorno dopo giorno è Napolitano a richiamare le forze politiche al senso di responsabilità e a spingerle a fare almeno una cosa, una legge elettorale che dia al Paese ciò che oggi non ha: una maggioranza e un'opposizione. Ma nessuno lo ascolta

(26 luglio 2013)

A lla fine, nel pieno della bagarre kazaka, per evitare il peggio e partire tranquillo per due settimane di riposo in Val Fiscalina, Giorgio Napolitano è dovuto intervenire ancora una volta. Gioved' 18 luglio ha trasformato la rituale cerimonia del ventaglio nell'ennesima esternazione con la quale ha messo in guardia i nemici del governo Letta da avventure e colpi di mano, cosa che ha fatto storcere il naso ai nemici delle larghe intese e a chi paventa forme striscianti di neopresidenzialismo. Ancora larghe intese, dunque. Già, ma a che prezzo?

Il primo e più importante in fondo lo sta pagando in fondo lo stesso Napolitano. Che si è accollato il peso non indifferente di un secondo mandato e si spende quotidianamente per tenere in piedi un governo ancora più "strano" del gabinetto tecnico di Mario Monti. Nella convinzione, fondata, che non esista oggi in Parlamento una maggioranza alternativa a quella Letta-Alfano e che anche sciogliendo le Camere e andando a votare – ipotesi che per ora il Capo dello Stato non prende nemmeno in considerazione – le cose non cambierebbero, anzi ne risulterebbe un panorama politico ancora più frammentato e confuso. Scenario preoccupante. Perfino inquietante se si guarda al pericolo sottovalutato o rimosso: un'economia in piena recessione che, ripete Napolitano, non può permettersi vuoti di potere.

Al senso di responsabilità del Presidente – i cui atti sembrano andare perfino al di là delle sue più intime convinzioni – non fa però eco un'altrettanto convinta prova di maturità da parte delle forze politiche. Anzi. Di strappo in strappo, dunque, è messa a dura prova la figura stessa di Napolitano, continuamente costretto a rattoppare una tela sfilacciata. Alla crisi politica e a quella economica rischia di assommarsene ora anche una istituzionale. Ne è plastico esempio l'imbarazzante vicenda kazaka che offre lo spettacolo di un apparato statale che brilla per inefficienza, incomunicabilità con il governo e con la politica, sottomissione a poteri locali e internazionali.

Eppur bisogna andar. Governo blindato? E per quanto tempo? Finora il grosso dell'attività di governo - se si esclude il lungo lavorìo diplomatico sui tavoli europei - se ne va ormai non per "fare", ma per mediare, cioè per accordarsi su compromessi o su rinvii (Imu, Iva, omofobia, anticorruzione) che consentano al governo Letta di durare ancora un po'. Probabilmente l'atto di grande responsabilità di Napolitano ha come obiettivo minimo essenziale quello di una riforma elettorale, o almeno la resurrezione del Mattarellum, insomma la garanzia di un meccanisnmo in grado di dare comunque una maggioranza capace di eleggere un nuovo Capo dello Stato e poi dar vita a un governo. Ci vorrebbe l'impegno di tutti. E invece, irresponsabilmente, nessuno lo ascolta.

P.s. Sabato scorso Giuliano Ferrara ha dedicato la sua attenzione all'ultima copertina dell'"Espresso" accusandoci, con la consueta puntuta acutezza, di "laica inquisizione". Ma come, ha scritto l'Elefantino, il libertario "Espresso" che invoca il rinnovamento della Chiesa scavando nelle abitudini sessuali di un monsignore? Troppo facile. Ferrara sa bene che se abbiamo indagato sulla "lobby gay" è solo perché a denunciarne l'invasiva presenza nelle stanze del potere vaticano era stato papa Francesco, forse pensando proprio al caso Ior. E che lo scandalo, com'è ovvio e come abbiamo scritto, non sta certo nelle abitudini sessuali del monsignore, ma nelle programmate omertà sul caso riservate al pontefice alla vigilia di una nomina importante.

Poi però, due giorni dopo, nel suo reader's digest del lunedì, "il Foglio" stesso ha riprodotto integralmente il pezzo di Sandro Magister uscito sull'"Espresso" e lo ha titolato: "Il passato imbarazzante di monsignor Ricca: che fosse gay lo sapevano tutti tranne il Papa". Appunto. Arrigo Benedetti pregava i suoi redattori di «fare più giornalismo e meno ideologia». Ecco, a noi il "Foglio" piace moltissimo quando fa, e bene, intelligente giornalismo.

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« Risposta #79 inserito:: Agosto 09, 2013, 04:45:25 pm »

Non si vive di sola Kyenge

di Bruno Manfellotto

La nomina di una ministra di colore è stato un atto forte e rivoluzionario. Lo provano gli insulti e i rigurgiti razzisti: la medicina fa effetto. E però non basta. Di crisi, disoccupazione e tasse si parla ancora poco. Invece non tace Marchionne...

(01 agosto 2013)

A pensarci bene, il governo Letta potrebbe passare alla storia solo per aver nominato ministro della Repubblica la dottoressa Cécile Kashetu Kyenge, 49 anni, congolese, medico oculista. Pensare a lei, affidarle il dicastero delicato e fortemente simbolico dell'integrazione - e poi sopportare lazzi e volgarità, insulti e sorrisini beceri (anche in questo Cécile dimostra intelligenza e classe) - è stata un'idea forte. Un attoquasi simile per importanza a quello di papa Francesco che sull'aereo da Rio a Roma distingue tra gay e lobby gay, grazia separati e divorziati e per lo Ior chiede onestà e trasparenza.

In quanto ai rigurgiti razzisti ai quali siamo costretti ad assistere, non devono preoccupare più di tanto: sono il segno che la medicina fa effetto, il prezzo che è necessario pagare per fare un passo avanti e accettare che, sì, ohibò, una nera può diventare ministro. Come negli Stati Uniti di Abramo Lincoln e del Ku-Klux-Klan che pure ci hanno messo centocinquant'anni per eleggere Barack Obama e prendere atto che l'America è diventata grande proprio grazie agli immigrati.

Ma certo non è tutto, e non basta la rivoluzione Kyenge a dare una missione a un governo. Non serve per esempio consultare indici e statistiche - che pure annunciano che quattro giovani su dieci cercano invano un lavoro - per capire di quale malattia di consunzione soffra il Paese. Non c'è bisogno di ascoltare Stefano Fassina, che giustifica le sofferenze degli evasori fiscali - e dunque ne arruola di nuovi - né di leggere le minacce di Dolce & Gabbana, pronti a chiudere baracca e burattini, per capire che la pressione fiscale, e la relativa evasione, sono diventate intollerabili. Né leggere l'ennesimo ukase di Marchionne, ormai pronto a fare ciò che ha in testa da sempre, lasciare l'Italia, per accorgersi che qualcosa frena o paralizza l'apparato industriale. Per capire basta entrare nei negozi vuoti, contare le saracinesche abbassate, guardare ingialliti cartelli di affittasi nei luoghi di vacanza, osservare gli scheletri dei palazzi in costruzione e mai finiti, nuovi monumenti della contemporaneità.

Certo, poi c'è l'Italia che lavora e che resiste. Ma che rischia di diventare minoranza. E permane un tessuto di solidarietà sociali e familiari che funge da rete di protezione, e ci sono anche tesoretti di risparmi, che però non sono eterni. Eppure, a fronte di questa realtà di misure incisive per l'economia non se ne sono ancora viste, se si escludono annunci smozzicati e contraddittori su Imu e Iva e qualche bonus fiscale. E invece si moltiplicano commissioni di esperti, saggi e volenterosi dediti a studiare l'unica cosa che andrebbe saggiamente messa da parte per inconsistenza, inutilità, pericolosità e rischi di superficialità e faciloneria: una riforma della Costituzione. Mentre l'unica cosa che tutti chiedono, una legge elettorale tale da garantire l'esito di una consultazione, resta tuttora avvolta in una nebbia di parole, proposte e tecnicalità istituzionali. Perché?
Forse perché approvare una nuova legge elettorale significherebbe andare a votare subito dopo, e gli stati maggiori dei partiti per ora non vogliono. Per non dire dei 945 parlamentari eletti da poco, molti dei quali sanno che per loro un altro treno potrebbe non passare mai più. E forse perché una nuova legge dovrebbe stabilire quel principio sacrosanto secondo il quale a urne chiuse c'è chi governa e chi va all'opposizione, e invece non c'è leader di partito che accetti di rinunciare a un qualche potere di interdizione.

Ora lo stato di necessità ha imposto un governo di larghe intese, sia per l'assenza di una maggioranza quale che fosse - anche per scelta dichiarata della premiata ditta Grillo & Casaleggio - sia perché si provasse a fare ciò che sarebbe davvero indispensabile fare: una vera legge lettorale, appunto, e misure capaci di rimettere in moto l'economia. Della prima s'è detto, e ci si augura pur sempre un generale rinsavimento. In quanto alle seconde, ci ostiniamo a sperare che il governo Letta faccia presto. Se non un'altra rivoluzione alla Kyenge, almeno qualcosa.

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« Risposta #80 inserito:: Settembre 06, 2013, 11:39:38 pm »

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Alla ripresa fa paura B.

di Bruno Manfellotto

Qualche segnale di ripresa sta arrivando: dal nordest e dai conti con l'estero. Ma per l'Italia non c'è nessuna speranza di uscire veramente dalla crisi finché la politica è sotto ricatto del Cavaliere e dei suoi guai giudiziari

(29 agosto 2013)

Se vuoi mi spoglio, mi spalmo addosso la Nutella e mi sdraio sul cofano della macchina. Così poi mi fotografi, metti le immagini su Facebook e diventi famoso. Sei già famoso? Allora con me lo sarai ancora di più». Sotto il sole rovente, il siparietto in piazza San Pietro ha un sapore surreale: protagonisti un'estroversa signora brasiliana in short, t-shirt e visiera da baseball che di mestiere fa la guida turistica, e Martin Parr, la star britannica della fotografia di passaggio a Roma per realizzare le immagini per la mostra "Urban storytellers", alla Fondazione Forma di Milano dal 7 settembre al 6 ottobre (qui una selezione di immagini), che "l'Espresso" pubblica in anteprima. Di fronte alla donna alla ricerca (inconsapevole) di un quarto d'ora di celebrità, Parr non fa una piega: del resto, fin dai tempi di "The Last Resort" (1986) - il libro in cui immortalò con arguzia feroce le vacanze pop della middle class inglese e che lo rese famoso - i luoghi del turismo di massa sono il suo habitat naturale. A tal punto che se lo incontri per strada, con la camicia a scacchi gialla e celeste, i pantaloni sgualciti, il berretto blu, gli occhiali scuri, i sandali e la macchina fotografica a tracolla, potresti scambiarlo per un allegro spilungone in vacanza.

TRA COLOSSEO E MACHU PICCHU. E' uno spettacolo seguirlo in scooter - rigorosamente in incognito, detesta avere intorno giornalisti - attraverso le tappe di questo tour su e giù per i sette colli. Quando con una falcata raggiunge le comitive di turisti cinesi sulla scalinata di piazza di Spagna oppure in fila sotto il solleone lungo il colonnato del Bernini, con gli ombrelli spalancati dai colori sgargianti, si avvicina ai gladiatori accalappia-visitatori nei dintorni del Colosseo, osserva i venditori di souvenir e paccottiglia intorno alla Fontana di Trevi e in piazza Navona, irrompe in uno stabilimento balneare a Ostia mescolandosi ai coatti "palestrati", si aggira tra le bancarelle del mercato di Campo de' Fiori stipate di confezioni di pasta "Italian sounding" dai nomi improbabili, dalle "minchiette sei sapori" alle variopinte "farfalline arlecchino". Davanti al flash, che il fotografo spara in pieno giorno per amplificare l'effetto acido dei colori, le strade e le piazze sono un set a cielo aperto, nel quale gli attori involontari si materializzano come per magia.

In una città sempre in bilico tra la grande bellezza e la vera bruttezza. A proposito, ha visto il film di Paolo Sorrentino? «No», taglia corto Parr mentre sorseggia un cappuccino nel giardino dell'Hotel Locarno, durante una pausa, e sfoglia il suo volume "TuttaRoma" (Contrasto), uscito qualche anno fa. «Per me Roma è interessante perché è sempre piena di turisti. E poi ha un paesaggio urbano straordinario, con tracce ancora molto evidenti dell'antico impero romano. Per le mie foto scelgo le tappe obbligate, luoghi dove la gente ritiene di dover andare per sentirsi parte del mondo. Questo è un posto dove torno volentieri». Che il fotografo britannico senta il richiamo costante della città eterna, tuttavia, non è necessariamente una buona notizia.

Se da un lato, infatti, è la riprova del boom del turismo - circa 12 milioni di arrivi nel 2012 e quasi 30 milioni di presenze, sette su dieci stranieri, con un incremento di un milione e duecentomila rispetto all'anno precedente, secondo i dati dell'Ente bilaterale per il Turismo nel Lazio (Ebtl) - dall'altro evidenzia i rischi connessi al successo: il degrado anche estetico di un sito, la deriva consumistica, l'impatto sull'ambiente e sul paesaggio. «Il turismo moderno è sia un male sia un bene», continua il fotografo: «A volte i luoghi vengono distrutti dalla loro popolarità, come dimostra il caso di Venezia o quello di Machu Picchu, in Perù. Il problema, in questa località così remota, è che continua ad affluire una massa indescrivibile di visitatori. Come proteggerla? Il caso di Roma per fortuna è diverso: qui c'è gente che lavora normalmente, i turisti non hanno preso il sopravvento. Al tempo stesso, tuttavia, il turismo è la più grande industria del pianeta. L'Italia, ad esempio, senza di esso probabilmente sarebbe in bancarotta. E pensare che finora ha sottoutilizzato i propri beni culturali». S egnalano le cronache che qualcosa si muove: in Veneto le fabbriche registrano nuove ordinazioni, qua e là è stata sospesa la cassa integrazione, qualcuno ha tenuto al lavoro gli operai a Ferragosto ("l'Espresso" n. 34). Eppure la Borsa, che aveva ripreso a correre, registra sempre nuovi tonfi e va in altalena mentre ricominciano a salire lo spread e soprattutto i rendimenti su bot e bpt, insomma il costo del debito: non è poco ora che stanno per andare all'asta 20 miliardi di titoli pubblici, buona parte a cinque-dieci anni. E mentre si registrano segnali di ripresa più forti negli Usa e più deboli in Europa, si continua a dire che la crisi è ancora di là da risolversi. Allora, a chi dobbiamo credere, a chi annuncia la svolta o a chi continua a vedere il bicchiere mezzo vuoto? E perché se le cose vanno meglio i mercati continuano a dare segni di nervosismo?

 
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« Risposta #81 inserito:: Settembre 13, 2013, 04:30:19 pm »

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Renzi sta facendo come Craxi

di Bruno Manfellotto

Nel 1976 Bettino riuscì a scardinare la segreteria del Psi con un patto generazionale.

Adesso Matteo può imitarlo, rivolgendosi prima di tutto al 'rivale' Enrico Letta. Per far fuori i 'mostri sacri' che ancora gli si oppongono

(05 settembre 2013)

Tra tensioni e veleni comincia nel Pd la stagione più delicata della sua breve storia. Non sarà facile, non sarà piacevole. E metterà a dura prova la tenuta del partito, la sua stessa identità. Gli appuntamenti in agenda sono decisivi. Da una parte si avvia inesorabilmente al tramonto, e certo non senza pesanti colpi di coda, il ventennio berlusconiano che ha congelato la sinistra concentrandola su un'unica missione: liberarsi di B. Ora bisognerà ricominciare daccapo parlando non più di lui, ma di contenuti e obiettivi. Dall'altra Matteo Renzi si appresta a conquistare la leadership del partito come trampolino per la candidatura a premier ("Il fattore R"). Un'epoca si chiude, una si apre.

I due eventi si intrecciano, si condizionano, dall'uno possono derivare i tempi e i contenuti dell'altro. Si comincia con l'impegno più gravoso, la riunione della giunta delle immunità chiamata a pronunciarsi sulla decadenza di Berlusconi da senatore dopo la definitiva condanna per frode fiscale. Alla scadenza il Pd arriva sull'orlo di una crisi di nervi. Del resto Berlusconi e i suoi cari stanno facendo di tutto per stressare i parlamentari, aprire crepe nel fronte del sì, giocare sulle contraddizioni interne al partito.

Basta che B. parli perché tutti perdano la testa; basta che annunci richieste di grazia o lanci ultimatum per la sorte del governo per scatenare i dubbi di stuoli di giuristi e il terrore dei peones. E però il Pd sa bene che non sono possibili ripensamenti di sorta, scappatoie, exit strategy: un no alla richiesta di decadenza suonerebbe incomprensibile per il popolo democratico e forse sancirebbe perfino la fine del partito; ma lo stesso sapore avrebbe anche un rinvio a tempo indeterminato di ogni decisione.

Bruno Manfellotto Bruno Manfellotto Il nervosismo aumenta se si pensa che nel campo di battaglia c'è ora un altro contendente: il giovane Renzi. Sciolte le ultime riserve, il sindaco punta al bersaglio grosso con una strategia capace di tenerlo in prima linea sia che il governo duri a lungo sia che si vada a votare prima del tempo. Ha poi capito che per vincere non può presentarsi alla sfida da outsider e per questo non si perde una festa del Pd (le primarie sono cominciate in Emilia) e rassicura il suo popolo: «Sono uno di voi». Solo un anno fa, nelle stesse feste, a chi chiedeva un giudizio sul rottamatore, big e leader rispondevano: «Non è uno di noi». Oggi molti di loro sostengono la sua corsa per la leadership.

Insomma la partita è cominciata, ma il risultato non è scontato. E' difficile per esempio che a Renzi riesca l'en plein, cioè conquistare segreteria e candidatura alla premiership: glielo impediranno, baratteranno una carica con l'altra. Perché, alla fine, su tutto sono disposti a chiudere un occhio i maggiorenti del Pd, tranne che sul controllo del partito. Ma non è l'unico ostacolo che lo sfidante incontrerà.

Il paradosso vuole che la sua vittoria passi per un'intesa con i big - Franceschini, Veltroni, Fassino, Bettini - che ora lo appoggiano forse solo nella speranza che ciò serva a scongiurare la fine delle larghe intese; ma passi anche per un tacito accordo con quella che potrebbe diventare domani la minoranza dura e pura che non lo vuole alla guida del partito, ma lo accetterebbe come candidato premier: Bersani, D'Alema, Rosy Bindi. Mostri sacri che un anno fa Renzi avrebbe rottamato e con i quali invece dovrà scendere a patti in vista della battaglia congressuale. Stando ben attento a non farsi travolgere.

A voler azzardare paragoni con la storia della Prima Repubblica verrebbe da pensare più alla congiura del Midas che nel 1976 portò Craxi alla segreteria del Psi che al Patto di San Ginesio che pochi anni prima aveva chiuso nella Dc la stagione dorotea grazie all'alleanza trasversale dei quarantenni (De Mita e Forlani). Allora fu un patto generazionale che oggi nel Pd potrebbero incarnare Letta e Renzi. Ma per ora i loro interessi contingenti divergono. E forse sarà questo a tardare oggi (e forse a favorire domani, chissà) la definitiva conquista postdemocristiana del Pd.

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« Risposta #82 inserito:: Settembre 20, 2013, 05:06:19 pm »

Decadenza

B. non tratta, fa solo finta

di Bruno Manfellotto

I rinvii e i cavilli sono parte di una strategia per riuscire, come sempre, a imporre le sue condizioni. In tutta la sua carriera, da imprenditore e da politico, si è sempre comportato così. E anche questa volta...

(12 settembre 2013)

Il lungo addio è cominciato il giorno in cui Giorgio Napolitano ha nominato Mario Monti senatore a vita per poi affidargli la guida di un governo tecnico. Quando arriverà a compimento però non si sa, e non solo per i rinvii, i cavilli, le trovate procedurali che la Giunta per le immunità, novella Bisanzio, si affanna a cercare e immancabilmente a trovare. Ma perché Silvio B. non sceglierà l'esilio, non volerà alle Bahamas, non chiederà perdono.

Invece venderà cara la pelle, cercherà protezioni e salvacondotti e anche se dovesse fare un passo indietro sarà solo a patto che gli siano garantite le condizioni che imporrà. Insomma, farà di tutto per restare leader del centrodestra. Perché ne è e ne sarà sempre il capo e l'azionista di riferimento. E' una scommessa azzardata, lo so, ma altrimenti che scommessa sarebbe? E però - pur senza escludere la remota possibilità che la vecchiaia, la stanchezza e la paura lo spingano a essere diverso da com'è - a giustificare il rischio ci sono fatti e precedenti dai quali è forse opportuno trarre una qualche morale.

Con B. non è possibile scendere a patti da pari a pari. Ragiona da grande imprenditore che badi all'utile di bilancio, obiettivo sul quale è possibile solo un accordo vantaggioso per lui. E infatti nel suo gruppo non ha soci ma dipendenti, pochi amici e molti consulenti ben pagati e dunque pronti a tutto (avvocati, esperti in offshore, procacciatori d'affari e anche d'altro). Nella vita e nel business è il tipico "one man show", e non a caso Enzo Biagi diceva che se B. avesse avuto le tette avrebbe fatto anche l'annunciatrice.

E in politica? Come in azienda. Anche perché ha avuto la fortuna che nessuno mai gli sbarrasse davvero la strada. Quando, come dice lui, è sceso in campo non è arrivata una legge vera sul conflitto di interessi, non sono state regolamentate le sue tv e la legge sulla incandidabilità che già c'era da quarant'anni e che lo rendeva - appunto - incandidabile fu bellamente ignorata dal Parlamento, allora e dopo. E quando poi Massimo D'Alema si illuse di irretirlo con la Bicamerale, lui accettò di parteciparvi solo a patto che si parlasse di riforma della giustizia. A suo vantaggio. Gherardo Colombo, ieri pm e oggi consigliere d'amministrazione della Rai, poté dire che la Bicamerale era figlia di un ricatto. Già allora. Correva l'anno 1997.

Pochi mesi dopo, era d'estate, D'Alema e Berlusconi siglarono a casa Letta (Gianni) il patto della crostata, offerta agli ospiti dalla padrona di casa, cioè l'intesa su legge elettorale a doppio turno e presidente di garanzia. Ma per arrivarci D'Alema fu costretto a stralciare il capitolo giustizia, impossibile da digerire perfino per il teorico dell'inciucio. Così, dopo un anno di melina, incertezze e traccheggiamenti, B. si rimangiò il patto e la crostata perché da quelle carte mancava l'unico argomento che gli stava davvero a cuore. E la sinistra pagava due volte il suo azzardo: per aver invitato la destra berlusconiana a riscrivere la Costituzione e poi per aver subìto le conseguenze del fallimento.

In fondo da allora non molto è cambiato. B. continua a dettare l'agenda, e perfino il calendario della Giunta chiamata a decretare la sua decadenza da senatore dopo una sentenza di colpevolezza passata in giudicato, e a minacciare di morte il governo. In quanto alla sinistra, non ha ancora superato lo choc di Tangentopoli né elaborato una strategia alternativa all'eterno oscillare tra antiberlusconismo becero e inconcludente, che talvolta si piega all'antipolitica, e dialogo di maniera per riforme che non si faranno mai. E adesso, anche se sa come votare in commissione, non sa che cosa farà un minuto dopo.

Tutto cambierà davvero non quando l'ex Cavaliere lascerà la scena politica, ma quando la sinistra comincerà a pensare a sé e ai suoi elettori, a volti nuovi, ai no che deve urlare, ai ricatti che non può accettare, a riconquistare un territorio abbandonato alle piazze e ai populismi, insomma a sfidare lui o chi per lui sulle proposte, sulle idee, sui progetti. Senza mai dimenticare che oggi metà del paese milita nel partito dell'astensione o corre a votare Grillo.

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« Risposta #83 inserito:: Ottobre 28, 2013, 10:32:47 am »

Bruno Manfellotto
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Tu chiamale se vuoi frantumazioni

Vogliono separarsi Bossi e Maroni. Si sono lasciati Monti e Casini. Alfano cerca il modo di dividersi dai falchi di Berlusconi. E se vince Renzi... Qui e là è tutto un fiorire di scissioni piccole e grandi. Vitalità politica o egoismi di leader? Vediamo
   
Nella stagione delle larghe intese, tutti insieme nervosamente per obbligo o per convinzione, la cronaca politica registra una diffusa e irrefrenabile voglia di scissione. Meglio soli che male accompagnati. L’elenco è lungo. Come nei matrimoni di lunga data, ci si lascia magari per ragioni di orgoglio o di principio, vedi il vecchio e malandato Senatùr e l’eterno rampante Roberto Maroni, peraltro già insidiato dal giovane Tosi, veronese: così la Lega rischia di perdere il suo padre fondatore, e il patto lombardo-veneto - che fece grande il movimento - il suo trait d’union.

Ci si separa poi, il più delle volte, per divergenze di linea politica, come si diceva una volta, ma che oggi riguardano non tanto il che fare ma con chi. È il caso di Mario Monti che, inventato ieri senatore a vita da Giorgio Napolitano per avviare il tramonto del regime berlusconiano, deve oggi fare i conti con Casini e Mauro, suoi alleati nella sfortunata campagna elettorale 2013, diversamente democristiani che ora platealmente lo sfiduciano. Di nuovo sensibili alla sirena dell’ex Cav. o al soffio della balenina bianca, chissà.
Ancora. Perde per strada qualche stellina perfino il giovane movimento di Beppe Grillo, che pure dovrebbe essere scanzonato e libertario e invece è chiuso come una setta, dove scissione fa rima con censura di gesti, comportamenti, giudizi: nell’impossibilità di gestirlo, il dissidente si espelle. È già successo. Amen.

CI SI PUÒ DIVIDERE poi, o almeno si minaccia di farlo, anche per conflitti generazionali che intrecciano psiche e politica, Freud e Letta, altrimenti come spiegare la grande sofferenza che accompagna il tentativo di Alfano & Quagliariello di uccidere - politicamente, s’intende - papà Silvio e di farsi finalmente autonomi, se non nella vita almeno in un gruppetto parlamentare?

E si rischia una clamorosa separazione - come ha confessato Massimo D’Alema a Marco Damilano (“Chi ha sbagliato più forte”, Laterza, “l’Espresso” n. 42) - nel partito democratico nato sei anni fa da una fusione fredda e ora alle prese con il ciclone Renzi: dietro le primarie e la lotta per la leadership si scontrano visioni opposte sull’idea di partito, sul rinnovamento del gruppo dirigente, sulla legge elettorale, sulla necessità di guardare per le future alleanze o al centro o a sinistra. Se si forza la mano, si rischia la rottura; se si arriva a un compromesso, si butta via tutta la carica dirompente insita nella sfida. Non è scelta da poco.

SENZA PIÙ LA FORZA delle ideologie o di valori condivisi, le larghe frantumazioni sembrano l’unico elemento comune in una situazione politica eternamente sull’orlo di elezioni anticipate. L’italica tendenza alla divisione, al fiorire dei campanili, alla nascita di leaderini e relativi partitini (con annesso finanziamento pubblico) ha ritrovato forza e larghe giustificazioni nella stagione di Razzi & Scilipoti. L’assenza di partiti forti e strutturati ha fatto il resto, cosicché ciò che ieri era corrente interna è diventato oggi gruppo autonomo o minipartito. In questa temperie è impossibile perfino un accordo sul presidente della commissione parlamentare Antimafia. Se si pensa a un Capo dello Stato a tempo (per sua scelta) e alla necessità di eleggerne prima o poi un altro, brividi corrono lungo la schiena.

È come se, privo ormai dei grandi leader avversari che negli ultimi anni avevano creato e poi giustificato un bipolarismo di facciata, il sistema politico cercasse ora altre strade, di tornare magari a ciò che era prima del ventennio berlusconiano. La corsa al centro, dove si combatte la battaglia più aspra e dove si consumano sanguinose rotture e scissioni, è solo la ricerca di nuovi equilibri dopo che quelli vecchi sono saltati per sempre. In assenza di poteri forti è una missione che potrebbe riuscire più a una legge elettorale che alla politica. In stagioni normali tanta vitalità sarebbe segno di benessere politico; in tempi perigliosi si traduce solo in perdita di tempo, autoreferenzialità, impossibilità di governare.

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« Risposta #84 inserito:: Novembre 17, 2013, 06:22:01 pm »

Bruno Manfellotto

Questa settimana
Larghe intese, due anni di nulla
Le grandi coalizioni dovrebbero nascere intorno a un programma e per fare ciò che da soli sarebbe impossibile. Doveva essere così anche in Italia, e invece è come se destra e sinistra stiano insieme per fare poco o niente. Ora dopo ventiquattro mesi, serve una svolta

Tra pochi giorni, sabato 16 novembre, celebreremo - chi in pompa magna, chi in preda a una certa inquietudine - due anni di larghe intese e di vasti dissensi. Da ventiquattro mesi, insomma, stiamo percorrendo l’interminabile tunnel dei governi atipici, dei gabinetti tecnici, dei passi indietro (apparenti) dei partiti, delle Grosse Koalition all’amatriciana. Tutto è cominciato con l’arrivo a Palazzo Chigi di Mario Monti, fresco senatore a vita, ed è continuato con il governo a tempo di Enrico Letta. Che in nome della stabilità - definito dallo stesso premier proprio nel dibattito sulla fiducia «valore in sé» - dura tuttora. Quella che doveva essere una soluzione a tempo, un ponte gettato da Giorgio Napolitano per salvare il Paese dal baratro finanziario, avviare le riforme istituzionali (a cominciare da una nuova legge elettorale) e favorire una deberlusconizzazione guidata e controllata, è diventata invece una lunga e immobile condizione di status quo. Con preoccupanti parentesi di stagnante palude.

La parola d’ordine della “durata del governo”, questione dirimente al tempo dello spread, dovrebbe funzionare da stimolo, e invece diventa alibi per lasciare le cose come stanno. Dalla decadenza di Berlusconi allo stipendio di Fabio Fazio tutto viene valutato alla luce dell’aureo principio del “se non si fa così, tutti a casa”. Anche la vicenda Cancellieri - in cui si intrecciano amicizie, familismi e Italietta della raccomandazione - non è stata vista nel merito (chi è stato aiutato e perché, se in base alla legge o alle relazioni), ma solo come elemento destabilizzante delle larghe intese. Così, prima che giudicata la ministra è stata blindata. Dalla grande maggioranza.

Perfino l'impegno fissato in agenda dal capo dello Stato di superare il Porcellum - non si sciolgono le Camere finché non c’è una nuova legge - rischia di diventare comodo alibi per non centrare mai l’obiettivo. Parafrasando il famoso Comma 22, non si andrà a votare fino a quando non ci sarà una riforma elettorale, ma la riforma non si fa perché altrimenti subito dopo si andrebbe a votare…

Stabilità, dunque. E vabbè, di questi tempi possiamo anche ripetercelo come un rassicurante mantra. Ma l’obiettivo finale non può essere solo quello di durare. Nei paesi dove per necessità ci si adatta alle grandi coalizioni, l’atto di nascita si sigla intorno a un programma nella speranza di fare insieme ciò che da soli non sarebbe possibile. Nel paese del bipartitismo imperfetto le intese più o meno larghe sono organizzate a tavolino per ragioni superiori, la prima delle quali è non prendere alcun provvedimento che possa turbare equilibri, di qua o di là dello schieramento. In quanto al programma, forse seguirà, come l’intendenza. E sennò chissenefrega.

Nel frattempo non c'è dossier che sia affrontato con un minimo di strategia: l’Imu - provvedimento chiave del governo Monti con la riforma delle pensioni - è stato demagogicamente cancellato salvo riproporlo sotto altro nome; Alitalia si è sciolta come neve al sole e non se ne conosce il destino; Telecom vive di memorie e potrebbe finire in mano spagnola; si dà il benvenuto all’esperto di spending review numero quattro dopo Enrico Bondi, Francesco Giavazzi e Giuliano Amato, desaparecidos senza venire a capo di nulla; e perfino l’investimento per la banda larga, che costerebbe più o meno quello che ha buttato via l’agenzia Frontex è stato rimesso nel cassetto

Non possiamo più permettercelo. L’idea che possa trascorrere così tutto il 2014, anno di elezioni europee e di presidenza italiana del Consiglio dell’Unione, e magari pure il 2015, anno dell’Expo - fa notare sapidamente Massimo D’Alema - fa venire i brividi. Il Paese non ha bisogno solo di stabilità e di legge di stabilità, fondamentale atto dovuto, ma di una svolta, non solo in politica economica. Ciò che è incredibile è che non se ne rendano conto gli stessi partiti, o ciò che ne resta. La loro miopia è tale da scambiare per sopravvivenza un lento suicidio politico.

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« Risposta #85 inserito:: Dicembre 08, 2013, 06:20:22 pm »

Cristo si è fermato a Prato

L’Italia s’accorge che migliaia di immigrati ci fanno concorrenza vivendo e lavorando come due secoli fa. Che la Terra dei fuochi brucia ancora e che l’evasione fiscale continua... Forse ci vorrebbe un bagno di verità. E un po’ di Stato in più


Un giorno l’Italia s’è svegliata scoprendo una Manchester di due secoli fa a venti chilometri dalla Firenze del giovane Matteo Renzi. Non lo sapeva. O faceva finta di non sapere. Forse per non vergognarsi. Così, per rendersi conto che nella Prato 2013 l’immigrazione è diventata schiavitù, e il made in Italy in versione fabbrica clandestina la tomba di tutti i diritti essenziali, è stato necessario aspettare che sette cinesi di cui si fatica perfino a scoprire nome e cognome morissero in un capannone dove lavoravano, mangiavano, dormivano, vivevano.

Allo stesso modo l'Italia s’è ricordata all’improvviso che sotto la Terra dei fuochi sono sepolte tonnellate di veleni di mezza Europa solo perché dopo quindici anni di segreto di Stato sono state finalmente rese pubbliche le confessioni di un pentito dei casalesi, Carmine Schiavone: e prima, tutti all’oscuro? Così come d’un tratto si riparla di evasione fiscale solo perché è emerso ciò che si sa da sempre, e cioè che le famiglie di sei studenti su dieci dichiarano redditi falsi per non pagare le tasse universitarie. Ma va?

La tragedia di Prato, così assurda e così prevedibile, ci regala almeno due lezioni. Tristi. La prima è che un tessuto imprenditoriale destinato a crescere e a diventare virtuoso è invece andato via via sfilacciandosi fino a deperire irrimediabilmente. Qui era nato e s’era imposto uno dei tanti distretti all’italiana che avevano fatto di Prato la capitale del tessuto. Non che sfruttamento non ci fosse, prima. Ha raccontato al “Tirreno” l’attore Francesco Nuti, classe 1955, pratese doc: «Ho lavorato anch’io nelle tintorie di Prato, dove le macchine per la tintura andavano a centoquaranta gradi di pressione, c’era un calore esterno di settanta gradi, un tasso di umidità che raggiungeva il cento per cento e dove i colori, tipo il verde malachite, erano così volatili che ti si appiccicavano sulla pelle e li ingoiavi così facilmente che ti tingevano la faccia, il corpo, i polmoni... Sapete qual è la vita media di un tintore? Cinquant’anni».

Ma a differenza di altri distretti, Prato si è rifiutata di crescere nel modo giusto, né si sono imposti imprenditori leader capaci di guidare il sistema verso dimensioni competitive. No, i più hanno mollato macchine e capannoni ai cinesi che con costi di manodopera irrisori lavorano tessuti comprati non lì, ma in Cina. Il danno, la beffa. Oggi a Prato le imprese cinesi censite sono quasi 5mila, danno lavoro a 40mila cinesi,16mila dei quali residenti. Si calcola che il giro d’affari sfiori i due miliardi di euro, ma almeno la metà viaggia nella terza dimensione del nero e dell’illegalità.

Nella loro comunità blindata non si parla altro che il cinese, si osteggia l’integrazione e i documenti di identità passano di mano in mano, anche dai morti ai nuovi clandestini. Il tempo scorre davanti al tavolo da lavoro, alla macchina per cucire, alla pentola per colorare. Qui si vive e da qui si sparisce. Lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo ha lasciato il posto alla servitù della gleba, senza ribellione possibile.

Di fronte a quest’esercito straniero che non conosce regole né rispetto dei diritti elementari, a poco servono sindaco, vigili urbani, Finanza, che pure miracoli fanno e migliaia di baracche clandestine hanno già chiuso. Per fermare i nuovi schiavisti, per arginare il fenomeno - ecco la seconda lezione - ci vorrebbero controlli veri e assidui. Un’azione concordata che prevedesse irruzioni in capannoni fuorilegge, lotta all’evasione fiscale, accordi di governo con la casa madre, la Cina, che non ci sono.

Ci vorrebbe più stato, che invece è lontano, assente, cieco. Come, per anni, davanti alla vergogna della Terra dei Fuochi, o allo scandalo dell’evasione fiscale. Come lo era tre anni fa a Sarno quando si ribellarono centinaia di extracomunitari accampati in condizioni disumane in una fabbrica abbandonata; o due anni fa a Nardò quando gli immigrati si rivoltarono ai caporali. E come potrebbe succedere domani ovunque se, come ci ricorda il ministro Giovannini, l’inferno di Prato è niente di fronte a quello di Napoli o di certe enclave della Lombardia o del Veneto, della Puglia o della Calabria. C’è un’altra Italia, o forse è questa l’Italia che ci ostiniamo a non voler vedere.

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