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Autore Discussione: Bruno MANFELLOTTO.  (Letto 47653 volte)
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« Risposta #45 inserito:: Maggio 11, 2012, 12:04:57 am »

Ma i partiti l'hanno capita?

di Bruno Manfellotto

Tutto il sistema si sta decomponendo. In modo sempre più veloce. Il voto delle amministrative ne è l'ultima prova. Ma nel Palazzo prevale ancora l'immobilismo. E non si riesce a prendere atto di quello che sta accadendo

(10 maggio 2012)

Speriamo che l'abbiano capita. E non pensino che per ricominciare basta scattare una nuova foto a Vasto o saltare su un predellino. Perché ora - proprio come vuole il luogo comune - per i partiti politici nulla più sarà come prima. Davvero. La velocità di decomposizione del sistema è tale che in poche ore sono saltate anche le poche illusioni svogliatamente inseguite per sei mesi. Il quadro che emerge dal voto di maggio è desolante ed è sciocco ripetere che si è trattato di elezioni parziali e poco significative, perché questo vuol dire ostinarsi a non prendere atto della realtà. Questa.

Senza Silvio Berlusconi il Pdl non c'è più: la rivoluzione azzurra del 1994 ha esaurito la sua spinta propulsiva. Senza Umberto Bossi, e senza la sua alleanza politico-finanziaria con il Cavaliere, non c'è più nemmeno la Lega Nord costretta ora a ricominciare dalla roccaforte veronese e sotto la bandiera di Tosi & Maroni. Ed è scomparso perfino il polo di centro, chi l'ha visto?, come riconosce con apprezzabile sincerità il suo stesso azionista di riferimento, Pier Ferdinando Casini, che a questo progetto pensava come alla chiave di volta di ogni futura architettura politica e istituzionale.

In compenso resiste il Pd di Pier Luigi Bersani, perfino a sua insaputa, visto che da qualche parte va ai ballottaggi con il vincitore delle primarie che l'apparato non voleva. A differenza degli altri, insomma, il Pd può ancora vantare uno zoccoluccio duro via via eroso, però, da una sempre più diffusa voglia di astensione anche nelle regioni rosse (in Toscana non hanno votato quattro elettori su dieci). Difficile dire se è stato premiato con il voto il sostegno leale al governo Monti; o bocciata con l'astensione la sua pesante manovra economica.

La sorpresa - se così si può dire per una protesta nata nel 2005 e strutturatasi in movimento nel 2009 - si chiama Beppe Grillo, e a poco serve demonizzarlo senza sforzarsi di capire che cosa comunque segnali. Semplicistico anche catalogarlo tra i frutti amari dell'antipolitica visto che i grillini hanno messo in lista la voglia di amministrare bene; ramazzato consensi a due cifre e si preparano a dare l'assalto al Parlamento: se questa è antipolitica, come chiamare allora l'esercito degli astensionisti?

Per capire davvero, non bastano nemmeno il gioco delle percentuali e l'ingegneria dei flussi elettorali. Uno tsunami sta spazzando via la Prima e la Seconda Repubblica senza che una delle due sia stata opportunamente riformata o ne sia stata immaginata una Terza nuova di zecca. Che i suoi protagonisti non se ne rendano conto e non corrano ai ripari è sorprendente e suicida. Tutto è ormai paralisi e immobilismo. In più, anno dopo anno, grazie a leggi corporative e autoreferenziali e a rimborsi elettorali senza riferimento con la realtà, lo Stato ha via via ceduto spazi e poteri alle forze politiche e alle loro nomenklature. Così, se dovessimo assistere ora al dissolvimento di partiti sempre più deboli e frammentati, la macchina statale faticherebbe a recuperare poteri, capacità, credibilità.

Forse conscio di questa situazione, e magari condividendo la stessa lettura dei fatti, Giorgio Napolitano ha cercato di rimediare tentando l'ultima carta, lanciando in campo l'ultima risorsa: la tecnocrazia matura, credibile, preparata. E non è un caso che ora il fenomeno Grillo sia riuscito a far inquietare perfino lui mettendo alla prova la sua flemma anglo-napoletana.

Come tutti i movimenti di protesta, il grillismo porta con sé un salutare vento di rinnovamento, ma interpreta anche lo spirito demagogico di chi sogna di abbattere Monti, il suo governo, le sue tasse e il suo rigore senza crescita. Solo che spazzata via anche quest'ultima zattera, non resterebbe più niente. E anche al netto dei guai economici e finanziari il nostro destino assomiglierebbe molto di più al caos greco che all'orgogliosa rivendicazione della politica celebrata con le bandiere e i cori nelle strade di Parigi.

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da - http://espresso.repubblica.it/dettaglio/ma-i-partiti-lhanno-capita/2180496/18
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« Risposta #46 inserito:: Maggio 19, 2012, 10:45:35 am »

Politica

Ma i partiti l'hanno capita?

di Bruno Manfellotto

Tutto il sistema si sta decomponendo. In modo sempre più veloce.

Il voto delle amministrative ne è l'ultima prova. Ma nel Palazzo prevale ancora l'immobilismo.

E non si riesce a prendere atto di quello che sta accadendo

(10 maggio 2012)

Speriamo che l'abbiano capita. E non pensino che per ricominciare basta scattare una nuova foto a Vasto o saltare su un predellino. Perché ora - proprio come vuole il luogo comune - per i partiti politici nulla più sarà come prima. Davvero. La velocità di decomposizione del sistema è tale che in poche ore sono saltate anche le poche illusioni svogliatamente inseguite per sei mesi. Il quadro che emerge dal voto di maggio è desolante ed è sciocco ripetere che si è trattato di elezioni parziali e poco significative, perché questo vuol dire ostinarsi a non prendere atto della realtà. Questa.

Senza Silvio Berlusconi il Pdl non c'è più: la rivoluzione azzurra del 1994 ha esaurito la sua spinta propulsiva. Senza Umberto Bossi, e senza la sua alleanza politico-finanziaria con il Cavaliere, non c'è più nemmeno la Lega Nord costretta ora a ricominciare dalla roccaforte veronese e sotto la bandiera di Tosi & Maroni. Ed è scomparso perfino il polo di centro, chi l'ha visto?, come riconosce con apprezzabile sincerità il suo stesso azionista di riferimento, Pier Ferdinando Casini, che a questo progetto pensava come alla chiave di volta di ogni futura architettura politica e istituzionale.

In compenso resiste il Pd di Pier Luigi Bersani, perfino a sua insaputa, visto che da qualche parte va ai ballottaggi con il vincitore delle primarie che l'apparato non voleva. A differenza degli altri, insomma, il Pd può ancora vantare uno zoccoluccio duro via via eroso, però, da una sempre più diffusa voglia di astensione anche nelle regioni rosse (in Toscana non hanno votato quattro elettori su dieci). Difficile dire se è stato premiato con il voto il sostegno leale al governo Monti; o bocciata con l'astensione la sua pesante manovra economica.

La sorpresa - se così si può dire per una protesta nata nel 2005 e strutturatasi in movimento nel 2009 - si chiama Beppe Grillo, e a poco serve demonizzarlo senza sforzarsi di capire che cosa comunque segnali. Semplicistico anche catalogarlo tra i frutti amari dell'antipolitica visto che i grillini hanno messo in lista la voglia di amministrare bene; ramazzato consensi a due cifre e si preparano a dare l'assalto al Parlamento: se questa è antipolitica, come chiamare allora l'esercito degli astensionisti?

Per capire davvero, non bastano nemmeno il gioco delle percentuali e l'ingegneria dei flussi elettorali. Uno tsunami sta spazzando via la Prima e la Seconda Repubblica senza che una delle due sia stata opportunamente riformata o ne sia stata immaginata una Terza nuova di zecca. Che i suoi protagonisti non se ne rendano conto e non corrano ai ripari è sorprendente e suicida. Tutto è ormai paralisi e immobilismo. In più, anno dopo anno, grazie a leggi corporative e autoreferenziali e a rimborsi elettorali senza riferimento con la realtà, lo Stato ha via via ceduto spazi e poteri alle forze politiche e alle loro nomenklature. Così, se dovessimo assistere ora al dissolvimento di partiti sempre più deboli e frammentati, la macchina statale faticherebbe a recuperare poteri, capacità, credibilità.

Forse conscio di questa situazione, e magari condividendo la stessa lettura dei fatti, Giorgio Napolitano ha cercato di rimediare tentando l'ultima carta, lanciando in campo l'ultima risorsa: la tecnocrazia matura, credibile, preparata. E non è un caso che ora il fenomeno Grillo sia riuscito a far inquietare perfino lui mettendo alla prova la sua flemma anglo-napoletana.

Come tutti i movimenti di protesta, il grillismo porta con sé un salutare vento di rinnovamento, ma interpreta anche lo spirito demagogico di chi sogna di abbattere Monti, il suo governo, le sue tasse e il suo rigore senza crescita. Solo che spazzata via anche quest'ultima zattera, non resterebbe più niente. E anche al netto dei guai economici e finanziari il nostro destino assomiglierebbe molto di più al caos greco che all'orgogliosa rivendicazione della politica celebrata con le bandiere e i cori nelle strade di Parigi.

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« Risposta #47 inserito:: Maggio 27, 2012, 04:54:34 pm »

Editoriale

Stavolta non ha vinto nessuno

di Bruno Manfellotto

Il Pdl è svanito, la Lega non c'è più, il centro chi l'ha visto? Mentre il Pd non riesce a intercettare grillini e astensionisti.

Invece sopravviverà e vincerà solo chi saprà offrire un'alternativa al deserto che c'è

(24 maggio 2012)

Per una volta si può dire che le elezioni non le ha vinte nessuno, anzi che le hanno perse tutti. A destra, a sinistra, al centro. E il fatto che ora i contendenti non ne vogliano prendere atto e si muovano sulla scena come pugili suonati rende tutto ancora più surreale. Il Pdl, lanciato da Berlusconi una sera di novembre del 2007 dall'alto di un predellino, non esiste più. Frantumato, dissolto, spazzato via: a Parma, dove aveva governato per dodici anni; in Sicilia, dove solo quattro anni fa aveva fatto cappotto; perfino a Lucca, bianca dal dopoguerra, e berlusconiana da vent'anni. Una Waterloo. Della Lega, poi, rotta l'alleanza con il cavaliere che aveva garantito soldi e poltrone, resta solo il ricordo di laute paghette e lauree albanesi. In quanto a Casini, il sogno inseguito da anni di un nuovo Centro lo ha dato per sfumato lui stesso. Via Twitter.

Si dirà che un vincitore c'è e si chiama Beppe Grillo, e certo non gli si può negare l'onore della scena. Ma forse alla fine ha trionfato più per il messaggio che manda ai vecchi partiti che per aver strappato al centro destra una città simbolo come Parma. Osservazione che si potrebbe fare anche a proposito dell'astensione, di gran lunga la forza più consistente del dopo elezioni: a Genova sei elettori su dieci sono rimasti a casa.

Ed è certo sincero Pierluigi Bersani quando guarda i numeri e si dichiara vincitore "senza se e senza ma", ma altrettanto miope visto che fa finta di ignorare ciò che accade intorno a lui. Il Pd mostra ancora vitalità, capacità di alleanze e una dose di realpolitik tale da vincere qua e là appoggiando un candidato che non voleva; ma il suo zoccolo duro è diventato uno zoccolino che conta sempre meno elettori, da Alessandria a Palermo. Mentre non riesce a intercettare i voti persi da un avversario alla disfatta. Alla faccia dello sfondamento al centro...

Ma fin qui siamo ancora alle alchimìe politiche. Ben più grave, specie per una forza che voglia interpretare il paese, è non essersi accorti che i Pizzarotti arrivano da lontano. Beppe Grillo sbarca su "Time" nel 2005 presentato come un eroe che lotta contro ingiustizie e violazioni di diritti. L'anno dopo, lo stesso in cui "La Casta" batte ogni record di vendite, percorre l'Italia da cima a fondo; nel 2008 lancia il "Vaffa day"; nel 2009 fonda il Movimento 5 Stelle. Intanto molti guardavano non la luna ma il dito che l'indicava, chiedendosi se Grillo fosse di destra o di sinistra e non perché migliaia di uomini e donne affollavano le piazze, indignandosi per gli insulti sparati a raffica e non investigando su ciò che di più profondo percorreva la società italiana.

Possibile che in questo fenomeno di inizio millennio non ci sia proprio niente che allarmi i partiti? Eppure dovrebbero coglierne i segni. Il suo, per esempio, non è un partito ma un movimento; non dispone di apparati costosi né ha bisogno di faraoniche campagne elettorali; parla via Twitter e non in tv; usa linguaggi diretti ed espliciti; non ha un leader ma un profeta che si guarda bene dal correre a festeggiare la vittoria a Parma; non pensa che la politica sia una professione, e se deve candidare qualcuno, non dà la caccia a un banchiere ma a un bancario.

Non è furba demagogia, non è solo forma. Interpreta piuttosto, pur se a modo suo, la diffusa esigenza dei cittadini di riappropriarsi della politica, dello spazio occupato da partiti diventati ai loro occhi macchine mangiasoldi, lobby per lottizzazioni al di là del merito, comitati elettorali strutturati solo per conservare il potere di chi già ce l'ha, lontani dal fare un passo indietro. E nel momento chiave, quello della nascita del governo Monti, essi sono apparsi deboli, costretti a farsi da parte e incapaci di spiegare il senso del sacrificio che pure si apprestavano a sostenere né di far intravedere un futuro vivibile per tutti. Se così stanno le cose, scomparirà chi non saprà prendere atto; sopravviverà stancamente chi cercherà di capire; vincerà chi sarà in grado di offrire a protestatari e astensionisti un'alternativa valida al deserto che vedono dinanzi a sé.
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« Risposta #48 inserito:: Luglio 11, 2012, 10:05:07 am »

Magari è tornato solo per la Rai

di Bruno Manfellotto

Berlusconi c'è ancora, nonostante la profezia di Montanelli. Anzi è tornato, forse solo per un affare di tv, o per qualcosa di più.

E c'è il berlusconismo che ha seminato. Del quale la politica dovrebbe liberarsi

(02 luglio 2012)

Ogni tanto torna alla mente Indro Montanelli. Sovviene, per esempio, la sua profezia su Silvio Berlusconi - che aveva conosciuto assai bene come editore del suo "Giornale" - quando lo paragonò a una fastidiosa malattia dalla quale l'Italia sarebbe guarita solo quando avesse accettato la sua formidabile presa di potere come una cura necessaria. Per agire, però, il vaccino ci ha messo una ventina d'anni, diciassette per la precisione, e vai a sapere se davvero è riuscito a debellare del tutto il virus...

E si ripensa a Indro anche perché rivedere Silvio in blu-nero che scende dal suo bireattore atterrato in Costa Smeralda con giovani fanciulle in fiore al seguito, e poi entrare a Palazzo Chigi per un vertice con Monti, e poi ricandidarsi - modello Putin-Medvedev - a fare non il premier ma il ministro dell'Economia di un ipotetico governo Alfano  e magari a qualcosa di più alto ancora, fa ricordare la definizione che Montanelli coniò per Amintore Fanfani e che ha ispirato la copertina de "l'Espresso": il Rieccolo.

C'è da dire che rivedere quel faccione ghignante ci ripiomba indietro di dieci anni, o forse di un secolo: davvero sembra il simbolo di una farsa lontana che non può ripetersi di nuovo se non in forma di tragedia.

Ombre lontane. Come quella di Mario Chiesa che, si scopre ora, non ha mai smesso di fare quello che faceva agli albori di Tangentopoli 

E allora, potrebbe chiedere qualcuno, perché mai avete sbattuto Berlusconi in prima pagina? Perché se c'è (ancora) lui - tornato in pista magari solo per bloccare le nomine Rai e lasciarla com'è, provincia del suo impero - c'è pure un berlusconismo strisciante che l'uomo ha seminato, e che nemmeno i sette mesi di Monti sono riusciti a eliminare. Per liberarsene davvero ce ne vorrà di tempo. E dunque è giusto mettere in guardia dal pericolo. Che della voglia di elezioni anticipate e di crisi economica si alimenta.

Il neoberlusconismo agisce sotto forma di populismo demagogico in più modi. C'è quello doc che fa chiedere a B. di abolire l'euro, cancellare i debiti con l'Europa e rompere definitivamente con Merkel (magari per abbracciare Putin). Aiuto.

C'è quello antiberlusconiano nella sostanza e invece berlusconiano nella forma di Beppe Grillo che interpreta un sacco di aspirazioni condivisibili, ma poi sogna di abolire d'un colpo i partiti, la moneta unica e le banche. Ma come si fa!

C'è il populismo dipietrista costretto ora, dopo brillanti esordi, a inseguire e scavalcare il grillismo.

C'è il populismo nuovista, più sottile e certo meno dannoso, di Matteo Renzi, abilissimo a intercettare i segnali della base moderata e di sinistra che invoca parole d'ordine e facce nuove, ma che poi, come gli altri, fatica a entrare nel merito delle proposte concrete, delle cose da fare, dei nemici da combattere (quando non siano i notabili del suo stesso partito, il Pd).

E c'è infine il populismo post Monti, al quale non sono estranei gli stessi partiti tradizionali, delle mille liste, delle facce nuove come che sia, dei personaggi a sorpresa.

Ed è questo che colpisce davvero. Che chi fa politica di professione non abbia compreso fino in fondo, nonostante i mille segnali che vengono dal profondo del Paese, come e perché sia montata una generalizzata sfiducia nei loro confronti e provi a rispondere proprio con quello stile e quei comportamenti che avevano seppellito la politica sostituendola con il vuoto. Talvolta con l'inutile e vana arroganza. Come quella che ha spinto il Parlamento a rinviare ancora una volta la norma che metteva in discussione le altissime pensioni degli alti dirigenti della pubblica amministrazione, pochi mesi dopo che il governo aveva tagliato quelle dai mille euro in su.

Pochi giorni fa, su "Repubblica", Miguel Gotor ha ricordato le centinaia di giovani del Pd che cercano di ridare vigore a una politica ingrigita e che invocano non cascami del populismo berlusconista, ma aria fresca e idee nuove. Chi porterà l'una e sfornerà le altre, vince.

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« Risposta #49 inserito:: Luglio 11, 2012, 10:06:03 am »

Eppure ancora non si fidano

di Bruno Manfellotto

Concluso il vertice di Bruxelles, si ricomincia dai tagli alla spesa pubblica, alcuni coraggiosi, altri meno.

Ma intanto l'Europa già si chiede che cosa succederà tra un anno e se chi verrà dopo Monti si comporterà come Monti oppure no...

(06 luglio 2012)

Sono state sufficienti poche ore perché la retorica dei Supermario si squagliasse come neve al sole di luglio e le ardite metafore sull'Italia capace di battere la Germania sia a Varsavia sia a Bruxelles lasciassero spazio agli strepiti sindacali per gli annunci di tagli alla spesa pubblica, alle convulsioni dei partiti incerti perfino se cancellare il Porcellum e alle velleità parlamentari, svelate da "Repubblica", di convocare un'assemblea costituente per improbabili riforme costituzionali. Un modo per buttare la palla in tribuna. Tornano alla mente, incubi mai rimossi della prima Repubblica, la bicamerale di Massimo D'Alema e le pompose commissioni Iotti-De Mita e Bozzi, tutte immancabilmente risoltesi in nobili chiacchiere e in un penoso nulla di fatto. Da non credere. Spenti i riflettori ucraini, insomma, si torna ai numeri del Pil e del debito pubblico sperando che gli accordi raggiunti tra squilli di fanfare segnino davvero un passo avanti e non solo l'ennesimo round dell'eterno braccio di ferro con la signora Merkel e con i riluttanti Paesi del nord Europa. Nell'attesa, è d'obbligo fare i conti con gli impegni presi. Il primo dei quali, firmato da Giulio Tremonti un anno fa e orgogliosamente sottoscritto da Mario Monti al momento del suo arrivo a Palazzo Chigi, riguarda il raggiungimento del pareggio di bilancio in anticipo: entro il 2013.

SOLO CHE LA RECESSIONE s'è dimostrata nel frattempo più dura del previsto, per non dire dei nuovi impegni di spesa imposti dal terremoto in Emilia. Insomma, già mancano all'appello 6 miliardi di euro per quest'anno (e per il prossimo chissà). Da recuperare o con un aumento dell'Iva (i cui effetti depressivi sui consumi sono facilmente immaginabili) o con la cura Bondi di tagli alla spesa pubblica che va sotto il nome di spending review. Ed è su questo dilemma che si sono dissolti i sogni di gloria nati sui campi di calcio e trasferiti sul terreno della politica dalla facile metafora di una generale palingenesi. Perché rinviata la decisione sull'Iva è stata scelta la strada impervia dei tagli di spesa. E quando si vanno a toccare - con la facile accetta o con il coraggio del bisturi - farmaci, sanità e burocrazia statale, o province e comuni, il dissenso esplode.

PER NON DIRE DEL ROBUSTO capitolo "acquisto di beni e servizi", che si traduce per la pubblica amministrazione in una spesa di 140 miliardi di euro l'anno, e che non a caso compare nel decreto di nomina del super consulente Bondi a spiegarne missione e finalità: è proprio lì, in quella oscura voce di bilancio, che si nascondono da sempre sprechi, appalti di favore, malaffare, piccola e grande corruzione. Tutti ingredienti che, come si sa, alimentano e moltiplicano la spesa pubblica improduttiva. Ma a toccare i quali si scatenano ribellioni, lobby, difese corporative. Insomma, come titola "l'Espresso", non è finita qui. Ora Monti dovrà fare i conti con i mal di pancia - espressione che non ama, ma che non può cancellare - dei suoi alleati di governo e con i dubbi dei partner europei. Da Berlino ad Amsterdam, infatti, guardano ogni mossa, scrutano presente e futuro, ascoltano la rabbia sindacale e già si chiedono che cosa potrà succedere domani, dopo le elezioni, ad aprile nel 2013, quando governo e premier non ci saranno più (e non ci sarà più nemmeno il suo mentore Giorgio Napolitano) e bisognerà trovare un'altra maggioranza, che dovrà confermare le misure di Monti, e magari tagliare ancora, affrontare rischi di impopolarità, scongiurare dissensi sociali e recessione economica... Viene da pensare che la facile metafora che ci ha perseguitato per tre giorni potrebbe anche essere letta alla rovescia e rivelare, per esempio, che alla finale l'Italia di Cesare Prandelli c'è sì sorprendentemente arrivata, con i suoi giovani vogliosi e i suoi esperti riciclati, solo che a quel punto, come ha sussurrato il mister a Daniele De Rossi dopo un umiliante quattro a zero, «eravamo cotti».

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« Risposta #50 inserito:: Agosto 10, 2012, 07:52:00 pm »

Editoriale

Quando D'Alema chiese a Monti...

di Bruno Manfellotto

Qui si racconta una storia inedita che ha per protagonisti un professore e un politico di lungo corso e per scena un Paese irrisolto e in crisi.
Però il finale ancora non c'è, perché ad alcune domande non è stata data finora risposta

(02 agosto 2012)

La vicenda che qui si racconta si snoda lungo tre capitoli, il primo finora inedito, l'ultimo che si scriverà solo nelle prossime ore. Ricostruirla ora che già siamo in campagna elettorale - che si voti ad aprile o prima - e si tenta un primo bilancio del lavoro del governo, una "Monti review", come l'abbiamo chiamata in copertina, è assai istruttivo. Specie pensando alla speranza coltivata da molti, e soprattutto nelle cancellerie d'Europa, che a succedere a Monti sia lo stesso Monti.

La storia comincia a Milano, più o meno nell'autunno del 2010, a casa di un noto professionista. Approfittando della sua amicizia, Massimo D'Alema gli aveva chiesto di incontrare riservatamente Mario Monti, allora presidente dell'Università Bocconi ed editorialista del "Corriere della Sera" dalle cui colonne non risparmiava critiche al governo Berlusconi. Accusandolo per esempio di «illusionismo»: «... di fronte al magnetismo comunicativo del premier, molti credono che l'Italia - oltre ad avere, anche per merito del governo, riportato indubbiamente meno danni di altri Paesi dalla crisi finanziaria - davvero non abbia gravi problemi strutturali irrisolti, anche per insufficienze di questo e dei precedenti governi. Ma, come ha detto il presidente Napolitano, «non possiamo consentirci il lusso di discorsi rassicuranti, di rappresentazioni convenzionali del nostro lieto vivere collettivo». Appunto.

PERCHE', DUNQUE, QUELLA CENA? D'Alema spiegò al suo interlocutore che il governo Berlusconi si stava avviando alla fine, che la crisi finanziaria, il caso bunga-bunga e il discredito che ne era derivato nel mondo ne avrebbero accelerato la consunzione e che la rottura con Fini sarebbe stato il grimaldello per rompere un equilibrio ventennale. E quindi fine dell'era berlusconiana, nascita di un nuovo governo. Fu a questo punto che D'Alema pose la domanda che gli stava più a cuore: «Sarebbe disponibile ad assumere responsabilità politiche e di governo?». Un altro professore, com'era già stato con Romano Prodi.

La risposta fu immediata ed esplicita. La disponibilità ci sarebbe stata, certo che sì, argomentò Monti, ma a tre condizioni: che l'ingresso in politica non avvenisse attraverso una campagna elettorale; che a chiamarlo all'eventuale incarico fosse il presidente della Repubblica; e, in quel caso, che a sostenere il suo sforzo fosse poi una maggioranza molto ampia, che andasse al di là delle tradizionali coalizioni di centro destra e centro sinistra. Chiarissimo.

NON SAPPIAMO se le avances di D'Alema nascessero da iniziativa personale o la sua fosse piuttosto una missione per conto terzi; sappiamo invece che le cose non sarebbero precipitate così rapidamente e che il ciclone Fini sarebbe stato vanificato dalla compravendita di deputati da parte di Berlusconi, il cui governo si sarebbe trascinato ancora per mesi. Ma quando nel novembre 2011 sarà Giorgio Napolitano a chiudere la parentesi berlusconiana e ad avere l'intuizione di un governo tecnico-politico - secondo capitolo della nostra storia - ecco quelle tre condizioni rispuntare: per Mario Monti non ci sarebbe stata campagna elettorale, né ora né mai, grazie all'accorta trovata della nomina a senatore a vita; una settimana dopo, l'incarico di formare il governo gli sarebbe stato offerto non su indicazione dei partiti, ma su proposta del Capo dello Stato; e a sostenerlo sarebbe accorsa una maggioranza ampia, "strana": centro, sinistra e destra. ABC.

Perché dunque una vicenda "istruttiva"? Perché ora che si riparla di elezioni, anticipate o no, ecco avvicinarsi la terza puntata del romanzo, che però ricomincia più o meno da due anni fa: i partiti sono pronti o no a spendere il nome di Monti per il governo che verrà? E il professore accetterebbe di comparire come candidato premier in una lista a suo sostegno? Il Capo dello Stato che sceglierà il premier incaricato agirà di sua iniziativa o su indicazione dei partiti? E a farlo sarà Napolitano o il suo successore, insomma si voterà ad aprile o prima? Sono le stesse domande che Hollande, Obama, Merkel, Putin, Katainen rivolgono a Monti appena lo vedono. E alle quali non è ancora possibile rispondere.

 
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« Risposta #51 inserito:: Settembre 15, 2012, 11:03:04 am »

Editoriale

L'Italia, una fidanzata in coma

di Bruno Manfellotto

Si intitola così il nuovo film-documentario firmato da Bill Emmott. Un'analisi impietosa del nostro Paese tra politica, mafie, burocrazia e casta. Tutto vero, purtroppo. E nessuno sembra volerne uscire

(03 settembre 2012)

Italia, agosto 2012. Cristina Odone, giornalista anglo-piemontese, racconta sul "Sunday telegraph" le sue vacanze nella terra natìa. Il rituale si ripete da anni, alla ricerca delle antiche radici della famiglia, ma a differenza del passato, stavolta - ha scritto - ha trovato i banchi delle salumerie tristemente spogli di delizie locali, le case sfitte, le sagre disertate e nelle fresche serate in piazza le costose bande di paese sostituite da un più sobrio quanto squallido karaoke. Crisi. Quando, dopo sette giorni, Cristina è tornata a Londra e ha rivisto il Terminal 5 dell'aeroporto le è apparso come la porta d'ingresso alla dolce vita. Da via Veneto a Heatrow.

QUALCHE SETTIMANA PRIMA, "El Pais", brillante quotidiano di Madrid, capitale di un paese che certo non se la passa meglio di noi, aveva mandato un inviato in Italia, anzi in Sicilia, nella convinzione di trovare lì, pur se esagerati, tutti i mali di casa nostra. Leggiamo qua e là: «La Sicilia deve ai suoi creditori sette miliardi di euro e non ha soldi per continuare a pagare dipendenti e pensionati. La sua crisi di liquidità è come un promemoria delle fragilità nazionali, mentre il presidente del Consiglio Monti lotta per evitare un'operazione salvataggio da parte dell'Europa che finirebbe imponendo condizioni durissime, le stesse che hanno messo in ginocchio Grecia e Portogallo». Difficile smentire.

E più avanti: «Se l'Isola è metafora esasperata di uno Stato piegato dal suo immenso debito (123 per cento del prodotto interno lordo), ragione per la quale Monti si appresta a tagliare il settore pubblico, la Sicilia che si prepara a votare a ottobre riflette il caos che regna nella politica nazionale: il Pd, di centro sinistra, si è alleato con i cattolici del centro. E il berlusconiano Pdl, che qui ha superato il 53 per cento alle ultime elezioni politiche, appare lacerato da decine di correnti e incapace di scegliere un candidato». Qualcosa da obiettare?

Devo poi alla cortesia di Bill Emmott, professionista ineccepibile e indipendente, ex direttore dell'"Economist" (sua la celebre copertina su Berlusconi "Unfit to lead Italy", inadatto a governare l'Italia,), collaboratore de "l'Espresso", se ho potuto vedere in anteprima la copia di lavoro di un film-inchiesta sull'Italia del dopo Berlusconi, girato da Annalisa Piras, in cui Bill fa da Virgilio alla scoperta della Buona e della Mala Italia in un ideale seguito cinematografico del suo libro "Forza, Italia". Inutile nascondere che il racconto, ricco di interviste di qualità e di documenti originali, preciso quanto violento, fa gelare il sangue nelle vene: forse deve sentirsi così un avvocato di Chicago quando gli proiettano "Scarface".

L'analisi è fredda, implacabile, impietosa fin dal titolo, lo stesso di una canzone famosa negli anni Ottanta - "A girlfriend in a coma" , una fidanzata in coma, l'Italia ovviamente - e mette in mostra senza remore le sue contraddizioni laceranti: mafie e capolavori del paesaggio e della cultura, successi industriali e fallimenti burocratici, eccellenze intellettuali e miopi privilegi di casta.

LA RESIDUA SPERANZA FINALE è affidata alla storia di alcuni giovani italiani costretti, come i loro nonni, a emigrare all'estero per trovare lavoro e al loro appello perché il Paese dove sono nati cambi al punto da farli tornare a casa. Esca miracolosamente dal coma. Da vedere, quale che sia la reazione che procurerà in ciascuno di voi. Anche solo per sapere come ci giudicano dall'estero, cosa pensano lontano da qui di un paese eternamente in bilico, tuttora incerto tra la cura drastica affidata a Mario Monti e un ritorno ai rituali politici del secolo che fu.

Poi, spento il dvd sono partite le immagini della tv accompagnate dalle parole che hanno contrappuntato l'agosto più caldo del secolo: stalinisti e lombrosiani, fascisti e vaffa, falliti e piduisti, comunisti e zombie, porcellum sì porcellum no, elezioni anticipate a novembre o a marzo. E Berlusconi che torna in campo per sfuggire ai suoi processi. Cinquanta sfumature di noia. O di incoscienza.

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« Risposta #52 inserito:: Settembre 16, 2012, 04:29:33 pm »

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Dite tutta la verità ai minatori

di Bruno Manfellotto

E pure ai lavoratori dell'Alcoa. Spiegare per esempio che una cosa è la difesa sacrosanta del lavoro, altra tenere in vita imprese obsolete. Ma per farlo bisognerebbe avviare una seria politica industriale. Che inseguiamo da anni. Invano

(13 settembre 2012)

Bisognerebbe raccontare la verità ai lavoratori dell'Alcoa e ai minatori della Carbosulcis. Dire loro che le possibilità di evitare un giorno la chiusura degli impianti per l'acciaio e delle miniere di carbone, o di convincere qualche imprenditore a subentrare nel primo caso agli americani e nell'altro alla Regione Sardegna (che invano cerca compratori da quando, nel 1996, l'Eni mollò la patata bollente) sono ridotte al lumicino. E spiegare, come ha già fatto Giorgio Napolitano, che una cosa è difendere i posti di lavoro, altra è tenere in vita artificialmente imprese antieconomiche e obsolete. Sarebbe ora, insomma, che si inseguissero soluzioni possibili, compatibili, capaci di creare posti di lavoro stabili e duraturi. L'unico modo serio di rispondere alla rabbia operaia.

Come già nel caso dell'Ilva di Taranto, anche queste due storie così italiane scompaiono e ricompaiono come fiumi carsici, figlie di anni di colpevole inazione. Nell'illusione che tirar fuori soldi (pubblici) e trasmettere il problema ai posteri bastasse a risolverlo. Gli americani dell'Alcoa, per esempio, si accollarono la gestione degli impianti di Portovesme solo con l'impegno che l'Enel avrebbe fornito loro energia elettrica con un maxi sconto totale del 65 per cento (e per aggirare il no dell'Europa ad aiuti di Stato c'è voluta nel 2010 una "legge ad Alcoam"). Naturalmente la differenza è stata pagata dagli italiani con le bollette: due miliardi e mezzo di euro dal 1996 a oggi, insomma 200mila euro l'anno per ogni lavoratore, diretto e dell'indotto.

PER NON DIRE DEL MERCATO. Alluminio e acciaio risentono della congiuntura, tanto che i prezzi di vendita si sono già ridotti del 30 per cento. Per questo l'Alcoa ha deciso di chiudere lo stabilimento sardo e di spostare la produzione dove costa meno. Come impedirglielo? Negli anni passati, però, quando i prezzi erano alle stelle, gli stessi americani di soldi in Sardegna ne hanno fatti a palate, ma nessuno ha preteso, che so?, che in cambio investissero parte di quei profitti per rinnovare gli impianti e aumentarne così competitività e produttività. Tutti zitti. Come ora nessuno chiede loro di bonificare l'area che vogliono abbandonare. Sulla quale sorge un impianto ormai superato e dunque difficile da vendere. Se qualcuno dovesse subentrare, il problema si ripresenterebbe presto tale e quale.

ANCORA PIU' PARADOSSALE il caso delle miniere di carbone, antieconomiche da sempre (e comunque destinate per decisione Ue, come tutte le altre miniere d'Europa, a chiudere entro il 2018 qualora non si sostengano da sole). Dal 1996 a oggi la Regione Sardegna, che ne è proprietaria, ha speso oltre 600 milioni di euro per conservare il posto a circa 500 lavoratori (solo nel 2011 sono state registrate perdite per 28 milioni, nonostante aiuti pubblici per 35 milioni) e far estrarre un carbone che non può essere esportato perché troppo inquinante e dunque da tutti bandìto (tranne che nella Sardegna pur cara agli ambientalisti), che produce meno energia di quello cinese che costa meno della metà e contiene molto meno zolfo.

L'unico ad acquistarlo, obbligato dal governo, è l'Enel che per inquinare di meno lo brucia nella centrale di Portovesme dopo averlo mescolato a carbone meno solforoso di importazione. Stando così le cose, sperare che qualche privato compri è arduo, né sembra praticabile la strada di una nuova centrale a carbone pulito (strada alla quale pensano in Francia dove vorrebbero riaprire miniere chiuse da anni) visto che, come spiegano i tecnici, grazie a investimenti milionari si possono ridurre le emissioni di anidride carbonica, ma non lo zolfo, che è il vero male del carbone sardo.

Insomma, tra superficialità, illusioni e false promesse sono stati gettati al vento milioni di euro, circostanza che ha spinto Alessandro Penati a scrivere su "Repubblica" che, per paradosso, sarebbe stato meglio chiudere tutto e dare un milione di euro a ogni minatore: che avrebbe potuto comprarsi una casa e magari investire il resto in una nuova attività. Rimediando a ciò che né lo Stato né la Regione hanno mai saputo fare: studiare una politica industriale e preparare un'alternativa per il futuro.

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« Risposta #53 inserito:: Settembre 29, 2012, 10:56:17 am »


Opinioni

La responsabilità di Marchionne

di Bruno Manfellotto

Sergio l'Americano fa di mestiere il manager, ma non può dimenticare che la Fiat è stata foraggiata per anni con soldi pubblici.
Una sorta di welfare. Che ora impone a lui e allo Stato il rispetto di alcuni impegni

(20 settembre 2012)

Basterebbe, e naturalmente lo si dice con un sorriso, aver letto "l'Espresso". Giusto due anni fa in copertina, sotto il faccione di un Marchionne sornione assai, campeggiava la scritta "Il sovversivo": gli si dava cioè atto di aver preso in cura un'azienda decotta, tecnicamente fallita da anni, e di battersi non solo per vincere una scommessa industriale più o meno impossibile, ma per stabilire nuove regole del gioco sindacali e politiche. L'uomo, proprio come càpita ai sovversivi, già allora suscitava plauso incondizionato o incontenibile rigetto.

Un anno dopo, quando il progetto Fabbrica Italia si andò chiarendo, "l'Espresso" mise di nuovo Marchionne in copertina titolando però "Fabbrica Italiana Automobili Detroit". Dal Lingotto alla Chrysler, qui le perdite lì i guadagni. E di conseguenza il fantasma della chiusura di un paio di stabilimenti italiani. Insomma, tutto era già scritto, annunciato, comprensibile.

EPPURE NULLA ACCADDE, tutto si lasciò fare, tra chi esaltava il manager e chi si chiedeva più prudentemente quale fosse il piano industriale della Fiat finanziariamente risanata, ma vittima di un inarrestabile calo delle vendite in Italia e in Europa, e perché mai essa tardasse a tirar fuori nuovi modelli capaci di competere con Volkswagen, Audi, Peugeot, Toyota...

E dunque sorprende, e un po' fa rabbia, che la questione riemerga solo ora, perché per due anni se ne sono bellamente disinteressati sia Berlusconi sia il suo fido ministro Romani; e non hanno mosso un dito in dieci mesi di governo tecnico - fino all'annuncio di un incontro in extremis per sabato 22 settembre - né l'economista Fornero, né il post banchiere Passera e nemmeno il professor Monti, ex consigliere d'amministrazione della Fiat. In nome del libero mercato, I suppose, o perché presi da cose più urgenti.

Stupisce insomma che il problema Fiat esploda solo dopo l'affondo di Della Valle e che in tanti si accontentino di spiegarlo guardando altrove: forse anche Diego, ironizzano, condivide l'appello di Alessandro Penati dalle colonne di "Repubblica" perché la Fiat si disfi delle partecipazioni non strategiche, come quelle nella "Stampa" e soprattutto nel "Corriere della Sera"...

ALLA FINE, E' PLAUSIBILE, la Fiat resterà in Italia, ma soffrendo e a fatica perché la palla al piede del mercato locale vincola i conti del gruppo molto più di quanto accada per tutte le altre case automobilistiche concorrenti: vado all'estero perché i profitti che faccio laggiù servono a ripagare le perdite in Italia, ha spiegato Marchionne al direttore di "Repubblica" Ezio Mauro. E su questo poco si può fare perché, come ha ricordato il premier: «Non posso certo essere io a dire a un manager dove allocare le risorse della sua azienda». Vabbè, però dovrebbe sapere almeno dove vanno quelle risorse, e quali siano le prospettive del gruppo visto che questo presidia l'ultimo grande settore industriale del Paese che ha già visto trasmigrare siderurgia e informatica, chimica e alimentare.

Per lasciarsi le mani libere, Marchionne ha rifiutato nuovi aiuti di Stato, ma non può certo dimenticare che il suo gruppo ne ha incassati per anni. E' stata una forma di welfare industriale, pratica che peraltro Marchionne conosce assai bene. Prima di cedere alla Fiat la Chrysler, decotta e immobile da anni, e di affidarla alle sue cure, infatti, l'amministrazione Obama ha impegnato nell'operazione milioni di dollari e poi ne ha seguito conti e andamento, fino a consigliare a Sergio l'americano di chiudere un paio di stabilimenti Fiat in Italia...

In nome del welfare industriale entrambe le parti sono chiamate al massimo di responsabilità sociale, visti i tanti denari pubblici spesi finora. Con responsabilità lo Stato crea le condizioni, il manager decide. E se il compito dell'uno è produrre ricchezza per la sua azienda, il dovere dell'altro è sapere che cosa veramente vuole fare la Fiat per salvaguardare il tessuto industriale del Paese. Che significa lavoro, ricerca, futuro.

   
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« Risposta #54 inserito:: Ottobre 05, 2012, 03:45:28 pm »

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È che in politica girano troppi soldi

di Bruno Manfellotto

Finanziamenti, vitalizi, rimborsi, auto blu... Un diluvio di soldi pubblici nelle tasche dei partiti. Così l'attività politica è diventata una ricca rendita per i più forti e spregiudicati. E la sinistra ha taciuto troppo a lungo

(01 ottobre 2012)

Ci sarebbero dunque ostriche di destra e di sinistra, come lascia intendere l'ineffabile Renata Polverini vestendo all'improvviso i panni della torquemada un tanto al chilo. Ci avevate mai pensato? Le prime sarebbero simboleggiate in menu dai gessati di Fiorito e dalle teste di porco di De Romanis; le seconde sapremo, vedremo, chissà, ma apparterrebbero pure al centrosinistra che fece finta di non vedere, tacque e approfittò. E magari, Polverini dixit, mangiò. Ostriche?

Che brutto finale. La prima Repubblica si frantumò in un tintinnar di manette, cioè smascherata nei suoi traffici dalle inchieste di Tangentopoli suggerite da costruttori stufi di pagare mazzette senza ottenere niente in cambio, né favori né appalti. La seconda Repubblica che fu berlusconiana rovina ora nel peggiore dei modi, misera replica della caduta dell'impero romano ormai romanesco, tra festini in costume, arroganti Suv, cene generose, trionfo delle clientele. E corruzione diffusa. Denunciata anche stavolta non per empito moralizzatore, ma dall'interno dello stesso sistema politico da chi si lamentava di non partecipare a sufficienza al banchetto.

PROTAGONISTA ASSOLUTA , al Pirellone di Formigoni e alla Pisana di Polverini, una destra sfilacciata che senza il suo capo, ridimensionato nei sondaggi e nella realtà, appare ancora più volgare, incapace, inadatta. Torna alla mente lo storico titolo "Capitale corrotta nazione infetta", ma l'Italia di oggi, ahinoi, è molto peggio di cinquant'anni fa quando questo giornale denunciava lo scandalo edilizio dell'Immobiliare: roba da educande a fronte di ciò che stiamo vedendo. Com'è stato possibile arrivare così in basso?

Sarà pure banale, ma viene da pensare innanzitutto che intorno alla politica girino troppi soldi, naturalmente pubblici: per rimborsi elettorali, finanziamenti ai gruppi parlamentari, note spese, vitalizi, auto blu, portaborse in nero e privilegi, tutto in misura tale da trasformare l'attività politica in una ricca rendita vitalizia senza numero chiuso né selezione, aperta all'appetito di tutti, e quindi destinata a finire nelle mani dei più forti e spregiudicati. Le 23 mila preferenze a Fiorito parlano da sole.

IL FATTO E' CHE SOPRAVVISSUTI a Tangentopoli, vecchi e nuovi partiti si sono illusi di resistere allo tsunami scimmiottando il berlusconismo trionfante, cioè puntando sulla forza del denaro e sull'illusione che apparire (magari in tv) fosse meglio che essere. L'inarrestabile corsa al denaro, e una sorda guerra reciproca per impedire che l'avversario ne avesse a disposizione di più, ha generato un'omertosa legislazione erga omnes, generosamente finanziata con soldi pubblici.

Anche se stili, feste e note spese non sono necessariamente bipartisan, nessuno è più disposto a tollerare nemmeno centinaia di migliaia di euro per manifesti, portaborse e convegni utili quasi sempre solo alla fama di chi li ha voluti, e tanto meno a passare sopra al lungo silenzio del centrosinistra che troppo spesso ha visto lo sfascio e taciuto. Eppure bastava leggere le inchieste del "Corriere della Sera" o de "l'Espresso" sulla sanità scandalo di Formigoni e sugli apparati clientelari di Polverini per sapere come andavano le cose e capire quale fosse il sentimento degli italiani.

E ora, ci risolleveremo mai? Sì, anche se ci vorranno anni. E a patto che la politica smetta di essere corsa sfrenata a trovare soldi, meccanismo suicida che ha generato e rinvigorito antipolitica, facili populismi e strapotere finanziario. Nella sua bella e sconsolata intervista, Giuseppe De Rita dice, tra l'altro, pensando al tempo che fu e che più non è: «De Gasperi volava a Washington, il cuore dell'impero, stava lì, poi rientrava a Roma e costruiva consenso. I dirigenti del Pci andavano a Mosca, ma poi tornavano nella sezione di via dei Giubbonari a fare l'assemblea con i compagni». Già, c'era una volta la politica. Chi nei partiti ancora ci crede, ricominci da lì.

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« Risposta #55 inserito:: Ottobre 12, 2012, 10:19:45 pm »

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Senza Berlusconi Yes, we can

di Bruno Manfellotto

Dice Silvio, ohibò, che farà un passo indietro. Chissà se è vero, ma certo deve prendere atto che non è quello di ?una volta, che non vincerà mai più e che il suo partito si è sfarinato come un castello di sabbia. Ce ne faremo presto una ragione...

(11 ottobre 2012)

Umiliato dalla diaspora di Fini, lasciato solo al sud da Casini e orfano al nord delle truppe di Bossi, il Popolo della libertà – nato da una costola di Forza Italia una sera di cinque anni fa a Milano in piazza San Babila, ma timbrato e vidimato due anni dopo – è andato via via sfarinandosi, come un castello di sabbia travolto da un'onda. Ora, ohibò, sarebbe pronto a fare un passo indietro perfino il leader, il Cavaliere, Berlusconi in persona. E anche se nessuno ci scommetterebbe un euro, la circostanza chiude comunque un ventennio e suggella l'addio al partito carismatico, aziendale, padronale con sede ad Arcore e a Palazzo Grazioli. Perché stavolta è lui – il guru, il patron, l'azionista di riferimento – a mollare. O a far finta di togliersi di mezzo.

B. motiva il passo indietro con l'altruismo politico, atto necessario per la salvezza del suo esercito in rotta e per l'arruolamento di quei "moderati" che sembrano ormai l'araba fenice. Ma in realtà è solo la conferma di un fallimento.

L'UOMO E' INVECCHIATO , spompato, non più brillante come una volta, e sembra perfino che se ne renda conto. Rivederlo in azione dagli anni della discesa in campo a quelli della decadenza – come nel film-documento di prossima uscita "Silvio Berlusconi, io lo conoscevo bene", scritto da Giovanni Fasanella con Giacomo Durzi raccogliendo le testimonianze rivelatrici e inedite di chi lo ha amato e sostenuto e poi ne è rimasto scottato e deluso – mette addosso un senso di mestizia e di incredulità: ci si chiede come sia stato possibile assistere impotenti a una così sfacciata presa di potere.

E ora è davvero disposto a sedere in panchina? Gli scettici scommettono sull'ennesima mossa diversiva: sia per arginare la fuga dalla nave che affonda; sia per costringere Casini a scegliere tra il centrodestra e l'alleanza con il centrosinistra di Bersani e Vendola; sia per mettere in imbarazzo Monti augurandogli un bis. Altri invece lo prendono sul serio e leggono i suoi viaggi in Russia come l'occasione per sistemare con l'amico Putin i suoi affari privati odierni e futuri. Altri ancora, e "la Repubblica" lo ha scritto, lo immaginano solo alla ricerca di un salvacondotto che, bilanciando la rinuncia al protagonismo politico, lo metta al riparo da grane giudiziarie e crisi aziendali. Qualcosa di simile a quello che anni fa aveva proposto, inascoltato, l'ex capo dello Stato Francesco Cossiga.

FORSE, COM'E' GIA' ACCADUTO nella storia del Cavaliere, sono vere un po' tutte le ipotesi. L'uomo si lascia guidare dai sondaggi, e questi lo danno sprofondato a quota 15-17 per cento: niente per chi come lui goca per vincere, non per partecipare. Rinuncia perché non ce la farebbe mai. Ma questo non significa abbandonare l'impegno. Chi lo frequenta dice che ora ama vestire i panni del rottamatore, un Matteo Renzi con quarant'anni in più. Gli piacerebbe far piazza pulita, liberarsi dei Pisanu e dei Cicchitto, dei La Russa e dei Sacconi per rivitalizzare quel pochissimo che resta di una destra lontana da mazzette e corruzione. Premessa per lanciare poi la candidatura a sorpresa di un qualche outsider. Prospettiva che ovviamente piace assai poco ai colonnelli del partito, e che non esclude l'ennesima scissione, stavolta a opera degli ex camerati di An.

Mai la destra fu così incerta, divisa, dilaniata. E mai come stavolta l'ardito disegno federatore di Berlusconi si mostra per quello che è sempre stato, un patto elettorale tenuto insieme solo dalla personalità del capo e dai suoi soldi ma, in assenza del boss, privo di idee forti. Tutto da rifare, insomma, specie ora che vecchi e nuovi capetti presidiano quell'area di centro che per vent'anni ha fatto da cemento prima a Forza Italia e poi al Pdl. Resta da vedere che cosa decideranno della loro vita (politica) Casini e Passera, Marcegaglia e Fini e Montezemolo. In quanto a B., verrebbe da pensare che la storia si ripete sempre due volte, la prima volta sotto forma di tragedia, la seconda di farsa. Ma noi abbiamo già visto sia l'una sia l'altra...

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« Risposta #56 inserito:: Ottobre 17, 2012, 04:21:39 pm »

Editoriale

Senza Berlusconi Yes, we can

di Bruno Manfellotto

Dice Silvio, ohibò, che farà un passo indietro. Chissà se è vero, ma certo deve prendere atto che non è quello di una volta, che non vincerà mai più e che il suo partito si è sfarinato come un castello di sabbia. Ce ne faremo presto una ragione...

(11 ottobre 2012)

Umiliato dalla diaspora di Fini, lasciato solo al sud da Casini e orfano al nord delle truppe di Bossi, il Popolo della libertà – nato da una costola di Forza Italia una sera di cinque anni fa a Milano in piazza San Babila, ma timbrato e vidimato due anni dopo – è andato via via sfarinandosi, come un castello di sabbia travolto da un'onda. Ora, ohibò, sarebbe pronto a fare un passo indietro perfino il leader, il Cavaliere, Berlusconi in persona. E anche se nessuno ci scommetterebbe un euro, la circostanza chiude comunque un ventennio e suggella l'addio al partito carismatico, aziendale, padronale con sede ad Arcore e a Palazzo Grazioli. Perché stavolta è lui – il guru, il patron, l'azionista di riferimento – a mollare. O a far finta di togliersi di mezzo.

B. motiva il passo indietro con l'altruismo politico, atto necessario per la salvezza del suo esercito in rotta e per l'arruolamento di quei "moderati" che sembrano ormai l'araba fenice. Ma in realtà è solo la conferma di un fallimento.

L'UOMO E' INVECCHIATO , spompato, non più brillante come una volta, e sembra perfino che se ne renda conto. Rivederlo in azione dagli anni della discesa in campo a quelli della decadenza – come nel film-documento di prossima uscita "Silvio Berlusconi, io lo conoscevo bene", scritto da Giovanni Fasanella con Giacomo Durzi raccogliendo le testimonianze rivelatrici e inedite di chi lo ha amato e sostenuto e poi ne è rimasto scottato e deluso – mette addosso un senso di mestizia e di incredulità: ci si chiede come sia stato possibile assistere impotenti a una così sfacciata presa di potere.

E ora è davvero disposto a sedere in panchina? Gli scettici scommettono sull'ennesima mossa diversiva: sia per arginare la fuga dalla nave che affonda; sia per costringere Casini a scegliere tra il centrodestra e l'alleanza con il centrosinistra di Bersani e Vendola; sia per mettere in imbarazzo Monti augurandogli un bis. Altri invece lo prendono sul serio e leggono i suoi viaggi in Russia come l'occasione per sistemare con l'amico Putin i suoi affari privati odierni e futuri. Altri ancora, e "la Repubblica" lo ha scritto, lo immaginano solo alla ricerca di un salvacondotto che, bilanciando la rinuncia al protagonismo politico, lo metta al riparo da grane giudiziarie e crisi aziendali. Qualcosa di simile a quello che anni fa aveva proposto, inascoltato, l'ex capo dello Stato Francesco Cossiga.

FORSE, COM'E' GIA' ACCADUTO nella storia del Cavaliere, sono vere un po' tutte le ipotesi. L'uomo si lascia guidare dai sondaggi, e questi lo danno sprofondato a quota 15-17 per cento: niente per chi come lui goca per vincere, non per partecipare. Rinuncia perché non ce la farebbe mai. Ma questo non significa abbandonare l'impegno. Chi lo frequenta dice che ora ama vestire i panni del rottamatore, un Matteo Renzi con quarant'anni in più. Gli piacerebbe far piazza pulita, liberarsi dei Pisanu e dei Cicchitto, dei La Russa e dei Sacconi per rivitalizzare quel pochissimo che resta di una destra lontana da mazzette e corruzione. Premessa per lanciare poi la candidatura a sorpresa di un qualche outsider. Prospettiva che ovviamente piace assai poco ai colonnelli del partito, e che non esclude l'ennesima scissione, stavolta a opera degli ex camerati di An.

Mai la destra fu così incerta, divisa, dilaniata. E mai come stavolta l'ardito disegno federatore di Berlusconi si mostra per quello che è sempre stato, un patto elettorale tenuto insieme solo dalla personalità del capo e dai suoi soldi ma, in assenza del boss, privo di idee forti. Tutto da rifare, insomma, specie ora che vecchi e nuovi capetti presidiano quell'area di centro che per vent'anni ha fatto da cemento prima a Forza Italia e poi al Pdl. Resta da vedere che cosa decideranno della loro vita (politica) Casini e Passera, Marcegaglia e Fini e Montezemolo. In quanto a B., verrebbe da pensare che la storia si ripete sempre due volte, la prima volta sotto forma di tragedia, la seconda di farsa. Ma noi abbiamo già visto sia l'una sia l'altra...

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« Risposta #57 inserito:: Ottobre 26, 2012, 09:39:21 am »

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Non sono tutti Formigoni

di Bruno Manfellotto

Sono passati già vent'anni da Mani pulite e trenta dalle parole di Berlinguer sulla questione morale. Ma anche se non è ancora finito il tempo delle mazzette e del malaffare, sarebbe utile ragionare e distinguere. Senza urlare "tutti ladri"

(18 ottobre 2012)

Ogni giorno ha la sua pena, la sua mazzetta, le sue ostriche a go-go. Da Milano a Palermo. Vent'anni dopo, Tangentopoli si è trasformata in Regionopoli rivelando un malaffare diffuso nella più lontana provincia dell'impero. Ciò che ieri era eccezione - come il lontano scandalo Eni-Petromin, mazzette per conquistare il potere in casa Psi - è ormai sistema che si autoalimenta: si fa politica per incassare denaro da distribuire al fine di accrescere un potere che porterà altro denaro.

Commuove rileggere Enrico Berlinguer a colloquio con Eugenio Scalfari, e da allora di anni ne sono passati trenta, e vedere come la «questione morale» sia rimasta drammaticamente al centro della vicenda italiana pur se la sua qualità è andata, se possibile, ancora peggiorando: «La questione morale non si esaurisce nel fatto che, essendoci dei ladri, dei corrotti, dei concussori in alte sfere della politica e dell'amministrazione, bisogna scovarli, bisogna denunciarli e bisogna metterli in galera. La questione morale, nell'Italia d'oggi, fa tutt'uno con l'occupazione dello Stato da parte dei partiti governativi e delle loro correnti, fa tutt'uno con la guerra per bande, fa tutt'uno con la concezione della politica e con i metodi di governo di costoro, che vanno semplicemente abbandonati e superati». Sacrosanto.

OSSERVAVA ANCORA IL LEADER del Pci: «Molti italiani si accorgono benissimo del mercimonio che si fa dello Stato, delle sopraffazioni, dei favoritismi, delle discriminazioni. Ma gran parte di loro è sotto ricatto. Hanno ricevuto vantaggi (magari dovuti, ma ottenuti solo attraverso i canali dei partiti e delle loro correnti) o sperano di riceverne, o temono di non riceverne più»...

Da allora il sistema si è esteso, si sono imposti cacicchi capaci di dettare legge ai loro stessi partiti, e gli italiani sono sempre sotto ricatto. Nel frattempo si è diffusa una sorta di concertazione della malapolitica e troppo spesso chi ha visto e avrebbe potuto ribellarsi - Lazio docet - ha chiuso un occhio o tutti e due. Il sogno spezzato di Mani Pulite è diventato l'antipolitica che tutto travolge. Riecheggiano slogan qualunquisti degli anni Cinquanta. E invece sarebbe il momento di fermarsi, di ragionare, di distinguere. Perché non sono tutti uguali, non sono tutti Formigoni.

LE PESANTI ACCUSE A CARICO di Filippo Penati - corruzione, concussione, illecito finanziamento - offendono, oltre che gli italiani, la memoria di Berlinguer leader del partito dai cui lombi discende un pezzo di Pd. Ma quella di Nichi Vendola che si dà da fare per dare il posto al primario amico è una storia squallidotta di malcostume e di illegalità e come tale va stigmatizzata.

Il caso di Vasco Errani accusato di brigare per un finanziamento a una cooperativa vicina al fratello ci riporta in quella zona grigia tra politica e affari che non vorremmo vedere più, ma non è paragonabile al sistema Lombardia raccontato dai suoi stessi protagonisti Simone & Daccò che con un gruppetto di altri amici e grazie ai buoni uffici del Celeste hanno lucrato un tesoretto di 700 milioni tra appalti, finanziamenti e regalìe. Così come ci inquietano il consiglio regionale del Lazio e il suo Batman, il tesoriere leghista amico di amici calabresi, l'assessore della Regione Lombardia sotto il dominio pieno e incontrollato della 'ndrangheta.

Insomma, questo urlare indistinto che non risparmia niente e nessuno non aiuta a individuare responsabilità, non distingue persona da persona, il favore dall'associazione per delinquere: finisce per condannare un intero sistema politico, strumento chiave per l'esercizio della democrazia.

E per questo insospettisce che a suonare la grancassa della moralizzazione, proprio quando si scopre che quindici delle diciotto regioni all'attenzione dei pm sono governate dal centrodestra, siano ora e improvvisamente, udite udite, gli stessi che per vent'anni hanno giustificato la banca di Verdini, la casa di Scajola, la nipote di Mubarak, le leggi ad personam, la corte di Bossi e del Trota e le opere pubbliche formato P3. Forse nella speranza che gridando "tutti ladri" ci si dimentichi dei ladri veri e delle persone oneste.

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« Risposta #58 inserito:: Ottobre 26, 2012, 09:40:05 am »

1994-2012

Addio Berlusconi, per oggi si festeggia

di Bruno Manfellotto

I sondaggi lo davano al 15 per cento. E lui non è certo tipo che corre solo per partecipare. Così ha detto basta, sperando di mettere al sicuro se stesso e le sue aziende. In fondo, era entrato in politica per quello.

Ma intanto la destra, che era tenuta insieme solo dal capo e dai suoi soldi,  è dilaniata come non era mai stata

(25 ottobre 2012)

Umiliato dalla diaspora di Fini, lasciato solo al sud da Casini e orfano al nord delle truppe di Bossi, il Popolo della libertà – nato da una costola di Forza Italia una sera di cinque anni fa a Milano in piazza San Babila, ma timbrato e vidimato due anni dopo – è andato via via sfarinandosi, come un castello di sabbia travolto da un'onda. Ora, ohibò, sarebbe pronto a fare un passo indietro perfino il leader, il Cavaliere, Berlusconi in persona. E anche se nessuno ci scommetterebbe un euro, la circostanza chiude comunque un ventennio e suggella l'addio al partito carismatico, aziendale, padronale con sede ad Arcore e a Palazzo Grazioli. Perché stavolta è lui – il guru, il patron, l'azionista di riferimento – a mollare. O a far finta di togliersi di mezzo.

B. motiva il passo indietro con l'altruismo politico, atto necessario per la salvezza del suo esercito in rotta e per l'arruolamento di quei "moderati" che sembrano ormai l'araba fenice. Ma in realtà è solo la conferma di un fallimento.

L'UOMO E' INVECCHIATO , spompato, non più brillante come una volta, e sembra perfino che se ne renda conto. Rivederlo in azione dagli anni della discesa in campo a quelli della decadenza – come nel film-documento di prossima uscita "Silvio Berlusconi, io lo conoscevo bene", scritto da Giovanni Fasanella con Giacomo Durzi raccogliendo le testimonianze rivelatrici e inedite di chi lo ha amato e sostenuto e poi ne è rimasto scottato e deluso – mette addosso un senso di mestizia e di incredulità: ci si chiede come sia stato possibile assistere impotenti a una così sfacciata presa di potere.

E ora è davvero disposto a sedere in panchina? Gli scettici scommettono sull'ennesima mossa diversiva: sia per arginare la fuga dalla nave che affonda; sia per costringere Casini a scegliere tra il centrodestra e l'alleanza con il centrosinistra di Bersani e Vendola; sia per mettere in imbarazzo Monti augurandogli un bis. Altri invece lo prendono sul serio e leggono i suoi viaggi in Russia come l'occasione per sistemare con l'amico Putin i suoi affari privati odierni e futuri. Altri ancora, e "la Repubblica" lo ha scritto, lo immaginano solo alla ricerca di un salvacondotto che, bilanciando la rinuncia al protagonismo politico, lo metta al riparo da grane giudiziarie e crisi aziendali. Qualcosa di simile a quello che anni fa aveva proposto, inascoltato, l'ex capo dello Stato Francesco Cossiga.

FORSE, COM'E' GIA' ACCADUTO nella storia del Cavaliere, sono vere un po' tutte le ipotesi. L'uomo si lascia guidare dai sondaggi, e questi lo danno sprofondato a quota 15-17 per cento: niente per chi come lui goca per vincere, non per partecipare. Rinuncia perché non ce la farebbe mai. Ma questo non significa abbandonare l'impegno. Chi lo frequenta dice che ora ama vestire i panni del rottamatore, un Matteo Renzi con quarant'anni in più. Gli piacerebbe far piazza pulita, liberarsi dei Pisanu e dei Cicchitto, dei La Russa e dei Sacconi per rivitalizzare quel pochissimo che resta di una destra lontana da mazzette e corruzione. Premessa per lanciare poi la candidatura a sorpresa di un qualche outsider. Prospettiva che ovviamente piace assai poco ai colonnelli del partito, e che non esclude l'ennesima scissione, stavolta a opera degli ex camerati di An.

Mai la destra fu così incerta, divisa, dilaniata. E mai come stavolta l'ardito disegno federatore di Berlusconi si mostra per quello che è sempre stato, un patto elettorale tenuto insieme solo dalla personalità del capo e dai suoi soldi ma, in assenza del boss, privo di idee forti. Tutto da rifare, insomma, specie ora che vecchi e nuovi capetti presidiano quell'area di centro che per vent'anni ha fatto da cemento prima a Forza Italia e poi al Pdl. Resta da vedere che cosa decideranno della loro vita (politica) Casini e Passera, Marcegaglia e Fini e Montezemolo.

In quanto a B., verrebbe da pensare che la storia si ripete sempre due volte, la prima volta sotto forma di tragedia, la seconda di farsa. Ma noi abbiamo già visto sia l'una sia l'altra...

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« Risposta #59 inserito:: Novembre 02, 2012, 05:03:10 pm »

Editoriale

Diamo a Nichi quel ch'è di Nichi

di Bruno Manfellotto

Il governatore della Puglia è stato assolto: non ha fatto pressioni per favorire un amico, dice il giudice. A conferma che nel valutare i politici non bisogna mai generalizzare. E ora anche "l'Espresso" deve rivedere un suo giudizio. Su Vendola e non solo. Con sollievo
(01 novembre 2012)
E dunque alla fine Nicki Vendola è stato assolto «perché il fatto non sussiste». Secondo il giudice dell'udienza preliminare Susanna De Felice, infatti, il governatore della Regione Puglia non avrebbe costretto la direttrice generale della Asl di Bari Lea Cosentino a riaprire il concorso a direttore della struttura di chirurgia toracica del San Paolo di Bari solo per favorire un amico, come voleva l'accusa dei pm Desiré Digeronimo e Francesco Bretone, ma solo perché vi potesse partecipare un medico di valore, Paolo Sardelli, che poi quel concorso ha vinto.

Del resto, è stata la stessa Cosentino a smentire al giudice ciò che aveva dichiarato prima ai pubblici ministeri: quelle di Vendola non furono né pressioni né costrizioni. Niente condanna, niente carcere, si torna alla politica. Amen. Però il fatto resta e bene illumina più questioni. Tralascio qui quelle relative a una magistratura talvolta superficiale, precipitosa, incline alla spettacolarizzazione (specie quando abbia a che fare con politici di primo piano) per pensare invece ai problemi di casa nostra, alle difficoltà e alle contraddizioni con le quali si misura ogni giorno chi faccia il mestiere di giornalista nel quale responsabilità personale e dovere di informare si fondono. Specie ora che si vorrebbero sinonimi intercambiabili le parole "politica" e "casta".

Due settimane fa, per esempio, scrivendo proprio di questo sotto il titolo "Non sono tutti Formigoni" lanciavo un appello a non generalizzare, a distinguere tra caso e caso, tra reati penali e comportamenti disdicevoli, tra la vicenda di Filippo Penati, sul cui capo gravano le accuse pesantissime di corruzione, concussione e finanziamento illecito, e quella di Vendola che – scrivevo – «si dà da fare per dare il posto al primario amico» definendola cosa diversa, «una storia squallidotta di malcostume e di illegalità che come tale va stigmatizzata». Al momento in cui scrivevo il giudizio non poteva che essere quello perché le notizie a disposizione tali erano. Che fare, ignorarle del tutto? No di certo. Rinunciare a esprimere la propria opinione? Niente affatto. Farcire il giudizio di condizionali e di avvertenze, tipo "sempre che le accuse risultino fondate"? Lo si fa quasi sempre, ed è un bene, ma non cambia la sostanza delle cose.

Meglio dare ogni notizia con responsabilità, non nascondere il proprio punto di vista, ricordare cioè a chi amministra per nostro conto la cosa pubblica che ogni piccolo errore verrà controllato, sanzionato, giudicato dai giornali, cioè dai cittadini. E poi in caso di errore o di sentenze ribaltate chiarire, precisare, rettificare. E, come in questo caso, dare a Nicki quel che è di Nicki. E' ciò che stiamo facendo. Con un certo sollievo.

Ps.
C'è un'altra persona che ha pagato, finora in silenzio,  per l'inchiesta giudiziaria di Bari: il dottor Paolo Sardelli, un medico affermato, il vincitore del concorso. Per chi sia un comune cittadino, finire ingiustamente nell'elenco dei sospettati e degli amici degli amici è per certi versi ancora più grave e doloroso. E dunque diamo a Sardelli ciò che è di Sardelli.

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