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Autore Discussione: Bruno MANFELLOTTO.  (Letto 44067 volte)
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« Risposta #30 inserito:: Dicembre 27, 2011, 07:05:45 pm »

La rivoluzione soft di Napolitano

di Bruno Manfellotto

Ha atteso, e tessuto per mesi la sua tela fino a convincere i partiti a entrare in una camera di decompressione.

E lasciar fare ai prof. Senza traumi. Per salvare l'Italia. Ecco perché l'Espresso lo ha eletto uomo dell'anno

(22 dicembre 2011)

Non è stato difficile per "l'Espresso" eleggere Giorgio Napolitano uomo dell'anno. Del resto, sul palcoscenico della politica italiana l'evento chiave del 2011 è stato senza dubbio la resa di Silvio Berlusconi - dopo diciassette anni di tensioni continue, immoralità legislativa e incapacità di affrontare la crisi economica - cui ha fatto da pendant l'arrivo a Palazzo Chigi di Mario Monti e del suo governo di professori: l'uno e l'altro evento non si sarebbero manifestati nei modi soffici e concordati e nei tempi rapidi che abbiamo visto se dietro le quinte non si fosse mosso un regista accorto e prudente, ma deciso.

Nel luglio scorso "l'Espresso" dedicava la copertina a Re Giorgio, individuando nel suo attivismo la necessaria supplenza di un sistema politico incapace di sostituire un governo paralizzato dalla sua stessa maggioranza. E' probabile che già allora Napolitano avesse maturato la convinzione che per far uscire l'Italia dall'impasse sarebbe stato necessario un passaggio intermedio: basta rileggere ciò che il presidente ha detto nell'ultimo anno per convincersi che un robusto filo rosso ha accompagnato ogni mossa del Quirinale.

Forse tutto è cominciato addirittura un anno fa quando, in quel fatidico novembre 2010, si consumò l'insanabile rottura tra Fini e Berlusconi e cominciò la lunga fase che "l'Espresso" chiamò "finale di partita". Allora Napolitano fu accusato da alcuni di non aver affondato il coltello, da altri del suo contrario, cioè di smanie presidenzialiste per aver concordato con i presidenti delle Camere il calendario della mozione di sfiducia, di fatto concedendo a Berlusconi un mese di tempo per la compravendita di voti che gli consentiranno di sopravvivere ancora un po'.
Se e quando Napolitano scriverà le sue memorie sapremo che cosa lo mosse, ma molto probabilmente fu la convinzione che una maggioranza alternativa non ci fosse, che l'opposizione non fosse ancora pronta a sostituirsi alle truppe del Cav., che tutto doveva avvenire in Parlamento e che comunque sarebbe stato assai rischioso spingere il Paese al voto nel pieno di una drammatica crisi economica.

Accuse sono piovute sul Colle anche per la nomina di Monti a senatore a vita subito prima dell'incarico a formare un nuovo governo con una maggioranza più ampia e diversa da quella uscita dalle ultime elezioni, e per il ruolo giocato dal capo dello Stato nella formazione della nuova maggioranza e nella puntigliosa supervisione delle misure economiche. Ma i costituzionalisti piu attenti - Ugo De Siervo, "La Stampa"; Gustavo Zagrebelsky, "la Repubblica" - concordano sul fatto che l'emergenza imponeva un diverso protagonismo del Colle: l'alternativa sarebbe stata la paralisi politico istituzionale, l'isolamento dell'Italia. A Napolitano va dunque il merito di aver sbloccato il sistema, riportato il Paese nel club europeo e consentito l'adozione di una manovra finanziaria che nessuna forza politica avrebbe avuto il coraggio di proporre.

Ma c'è dell'altro. La rivoluzione soft promossa da Napolitano dimostra che esistono altri stili e altri linguaggi possibili ai quali si può ricorrere quando, come oggi, sia necessario rimettere in moto la normale vita politica sospesa da un malinteso bipolarismo diventato improduttiva contrapposizione frontale. Per i partiti politici è una grande occasione: spinti dal presidente della Repubblica in una camera di decompressione, dovrebbero approfittarne per rinnovarsi liberandosi di vecchie scorie, affinando programmi e alleanze, cambiando classe dirigente.

E invece eccoli che già scalpitano, si agitano, annunciano populistiche campagne elettorali mentre serietà e realismo dovrebbero convincerli a sostenere questo governo fino a quando la cura Monti non avrà sortito i suoi effetti. Per paradosso, ora che si inizia l'ultimo anno di mandato che culminerà a novembre nell'apertura del semestre bianco, si apre per Napolitano la fase più difficile e complessa del suo settennato: portare a conclusione piena l'opera faticosamente costruita giorno dopo giorno. Auguri di cuore.

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da - http://espresso.repubblica.it/dettaglio/la-rivoluzione-soft-di-napolitano/2169075/18
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« Risposta #31 inserito:: Gennaio 06, 2012, 09:58:50 am »

Editoriale

Non si vive di solo taxi

di Bruno Manfellotto

Tutti se la prendono con i tassisti, alle cui spalle è nata una lobby legata ai ras locali. Ma liberalizzazioni significa aeroporti, autostrade, trasporti. Molto più difficili. Come dimostra un episodio recente...

(04 gennaio 2012)

Si racconta il seguente episodio. Alquanto illuminante. Un pomeriggio, ultimi giorni del quarto governo Berlusconi, Gianni Letta aveva convocato a Palazzo Chigi l'ennesima riunione nella speranza di chiudere uno di quei contenziosi che ciclicamente affliggono i governi e toccano da vicino le tasche dei cittadini: l'aumento delle tariffe aeroportuali, cioè la royalty che le compagnie aeree pagano alle società che gestiscono gli scali. Tariffe che sono basse nei piccoli aeroporti che hanno aperto ai voli low cost (e che per questo hanno fatto la fortuna loro e degli operatori); e più alte in quelli maggiori, con le inevitabili conseguenze sul prezzo dei biglietti.

La questione era delicata assai perché vedeva di fronte la compagnia di bandiera, l'Alitalia - alle prese con il difficile tentativo di rimettere i conti a posto e che dunque mal sopportava l'idea dell'ennesimo aumento - e gli Aeroporti di Roma, gestori dello scalo di Fiumicino. Per risolvere finalmente la faccenda, Letta aveva chiamato nel suo studio un po' di ministri, gli azionisti degli Aeroporti (Benetton in testa) e gli amministratori della Compagnia. Questi contestavano il meccanismo degli aumenti che indicizza le entrate del gestore e penalizza i bilanci delle compagnie, ma non si traduce in investimenti adeguati per migliorare il servizio; gli altri invece giustificavano gli aumenti proprio per finanziare gli investimenti che, promettevano, sarebbero arrivati solo più avanti.

La bilancia sembrava pendere a favore degli Aeroporti. Per chiudere la partita serviva solo una firma, quella del ministro dell'Economia. Che si presentò al vertice all'ultimo momento, ma per bocciare senza appello la richiesta: niente soldi. Punto e a capo. Fermissimo. Con la Sea, però, la società che controlla Linate e Malpensa, assai cari alla Lega, Giulio Tremonti non s'è comportato allo stesso modo: lì le tariffe sono aumentate...

Morale? Il principio della concessione con la quale lo Stato affida a privati la gestione di alcuni servizi vincolandoli a precise clausole contrattuali - come l'obbligo degli investimenti per migliorare l'offerta - fa acqua da tutte le parti: o non si riesce a pretendere il rispetto degli accordi o si concedono aumenti di tariffe a seconda della stagione politica, dei governi che la interpretano, dei destinatari del beneficio. E così si oscilla eternamente tra l'invocare la liberalizzazione, che dovrebbe stimolare la concorrenza e dunque portare a prestazioni migliori e più efficienti capaci di favorire la crescita, e uno stanco dirigismo senza criteri né controlli.

Nei giorni scorsi, per esempio, sono aumentati di nuovo i pedaggi autostradali, ma la rete che dovrebbe essere ammodernata dalla concessionaria è la stessa da decenni; c'è stato un abbozzo di liberalizzazione nel settore dei trasporti che ha concesso alla Ntv di Montezemolo e Della Valle di sfidare i Frecciarossa delle Ferrovie dello Stato, ma nessuno ha pensato a vincolare gli investimenti fortemente remunerativi dell'alta velocità a un impegno contemporaneo su linee meno ricche ma socialmente strategiche come quelle del trasporto locale; i capitali privati sono entrati nei colossi dell'energia, ma la rete di distribuzione del gas è ancora in mano a un solo operatore, l'Eni, lo stesso che il gas lo vende, e che su questo fonda un quarto dei suoi proventi. In quanto ai tassisti, i soli con i quali tutti se la prendono, l'inchiesta svela che alle loro spalle è cresciuta una lobby potente e diffusa legata ai mille cacicchi locali: alleanze politico-elettorali strette perché tutto resti com'è.

Il sistema così regolato è di fatto bloccato e tutto si riproduce uguale a se stesso da anni. Pochi giorni fa gli azionisti di Aeroporti di Roma sono tornati alla carica: il dossier è lì, uguale a come l'avevano lasciato quel pomeriggio a Palazzo Chigi. Solo che ora Tremonti, Letta e Berlusconi non ci sono più, e governa il gabinetto Monti-Passera. Vedremo presto se qualcosa è cambiato davvero.

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« Risposta #32 inserito:: Gennaio 07, 2012, 11:09:17 am »

L'antitaliano che è in noi

di Bruno Manfellotto

Bocca era come il titolo della sua rubrica su l'Espresso, duro e tenace, rigoroso e moralista, esigente e incontentabile. Era un modo di essere, ma anche un metodo di lavoro che ci lascia: scavare, dubitare, indignarsi. Per capire

(29 dicembre 2011)

Bisognerebbe prendere l'abitudine di celebrare gli uomini in vita. Specie quando sono destinati a lasciare un segno del loro passaggio. Non necessariamente, celebrare: magari chiedere loro conto delle scelte fatte, contestarle, farsi spiegare perché abbiano imboccato una strada e non un'altra. Farebbe bene a loro e a noi. Ed eviterebbe il ripetersi di quello stanco rituale che immancabilmente rischia, alla fine, o la retorica dell'addio o la retorica dell'antiretorica dell'addio. Due atteggiamenti che Giorgio Bocca già non sopportava quando era vivo e vegeto, figuriamoci se avesse immaginato che non gli sarebbero stati risparmiati da morto né l'uno né l'altro. E da parte di chi nemmeno lo conosceva, poi.

Bocca non era retorico né si sforzava di essere il suo contrario. Era così com'era, duro e tenace, e così bisognava prenderlo, con le sue contraddizioni e i suoi nodi irrisolti. Era tutto nel titolo che aveva voluto per la sua rubrica, L'antitaliano, la prima pagina de "l'Espresso". Livio Zanetti, molti anni prima, gli aveva affidato "Il cittadino e il potere" e lui, fedele come sempre all'incarico e al dovere professionale della scrittura, aveva onorato l'impegno per anni. Fino al momento di diventare antitaliano, una definizione di sé che forse cercava una qualche assonanza con l'arcitaliano di Malaparte, un uomo politicamente e intellettualmente inquieto che, come lui, aveva vissuto grandi delusioni dopo grandi illusioni e che non si faceva affascinare dai quadretti di maniera: certe pagine malapartiane di "La pelle" oscurano la facile solarità di Napoli proprio come le analisi urticanti sul sud e sui meridionali che hanno reso Bocca indigesto a tanti.

Ma a chi come lui temeva il pensiero unico più di ogni altra cosa, suggerire argomenti di moderazione non poteva fare né caldo né freddo. Enrico Arosio che tante volte lo ha intervistato per "l'Espresso" e che oggi ne traccia un ritratto, ricorda che una volta, nel pieno delle polemiche sul suo antimeridionalismo, gli chiese: "Non ti dispiacciono queste accuse di razzismo?". La risposta fu secca: "No". Lo metteva nel conto e non se ne preoccupava più di tanto.

Durezza? Cinismo? Forse solo metodo di lavoro e di indagine. Il giornalista di razza sapeva che il suo compito principale era cercare la verità, a tutti i costi. Ed era convinto che tanto più ci si vuole avvicinare a essa tanto più bisogna essere estremi, provocatòri, insolenti, non accontentarsi mai di quello che abbiamo visto e sentito, cercare ancora, interrogarsi, capire. Il buon giornalismo d'opinione non distilla certezze, ma alimenta domande proprio con l'arte del pregiudizio. "Il pregiudizio è ferro acuminato del mestiere", come ha scritto Giuliano Ferrara che proprio per questo amava e odiava Bocca. Anche perché di intelligente pregiudizio si nutre lui stesso.

Un metodo. Proprio nell'anno in cui l'Italia celebrava 150 anni di unità, l'Antitaliano ne sottolineava invece gli elementi di disunità. Nell'anno in cui si esultava alla resa di Berlusconi e al debutto del governo dei tecnici, Giorgio prendeva parte contro le banche e la finanza che mettono in secondo piano la politica e riducono gli spazi di democrazia. Nell'anno della primavera araba e delle piazze in tumulto, Bocca stava dalla parte degli indignati senza se e senza ma, ma ormai con poche, pochissime residue speranze.
Si può non essere d'accordo con lui, amare o coltivare altre forme di giornalismo, ma come si fa a non ringraziarlo per averci spinto anno dopo anni sulla strada del dubbio? Per averci distillato ogni settimana il suo spirito di antitaliano rigoroso e moralista? Lo serberemo con noi, assieme al racconto dell'uomo che, lasciate le montagne, scende a valle e racconta la sua Torino liberata. E' un ideale passaggio di testimone dal partigiano, che si era battuto contro il nazifascismo, al grandissimo cronista - il miglior Bocca - che da allora racconterà la nuova Italia della libertà e della rinascita. Senza mai venir meno al suo impegno combattente.

Un'Italia che non c'è più, un italiano che se ne va proprio ora che sembra aprirsi una nuova stagione di ricostruzione.

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http://espresso.repubblica.it/dettaglio/lantitaliano-che-e-in-noi/2170619/18
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« Risposta #33 inserito:: Gennaio 13, 2012, 05:06:09 pm »

I Gattopardi non vogliono capire

di Bruno Manfellotto

A Palazzo Chigi c'è un "governo strano" il cui stile comincia a piacere e che fa apparire vecchi e superati i partiti.

I quali però sembrano non accorgersene, convinti che tutto tornerà come prima

(12 gennaio 2012)

"Il mio è un governo strano", sillabava Mario Monti chez Fabio Fazio con quel suo tono apparentemente distaccato, lontano dai comuni mortali. E Intanto, si sarebbe detto una volta, sorrideva sotto i baffi pensando probabilmente ai vecchi partiti spompati che lo appoggiano in silenzio, un po' per dovere, non certo per piacere. Magari controvoglia. "L'E'lite si è ripresa il potere", spiegava l'indomani Carlo Freccero, uno che se ne intende. Insomma, un governo strano al potere, in nome di un'E'lite. è proprio così? E quali effetti avrà tutto questo sulla politica made in Italy?

Intanto una conseguenza già si registra, i giornali riempiono pagine e pagine non più di bunga bunga ma di spread, di Merkel e non di Minetti, di liberalizzazioni e non di alibi per gli evasori. Già questo conta. E perché Carlo Malinconico si decidesse al gesto saggio di lasciare la carica di sottosegretario dopo che s'era saputo ogni dettaglio dei suoi sontuosi week-end al Pellicano a spese della Cricca ci sono volute poche ore e nessuna scusa, non mesi di arrogante resistenza. Impensabile solo pochi mesi fa.

Però nel profondo certe cose non cambiano, proprio nel comportamento delle forze politiche costrette a subìre la soluzione Monti. In realtà il loro piano era più o meno questo: lasciamo fare al professore ciò che serve e che noi non riusciremmo a fare mai, se non a costi politici ed elettorali altissimi. Ma a un patto: che non si mettano in discussione gli assetti di fondo del potere, l'ossatura della politica politicante, perché - dicono - quella è competenza dei politici, non di un governo tecnico a tempo.

Guai dunque a toccare le nomenklature (anzi, eccone un bel po' da piazzare tra vice ministri e sottosegretari e di cui si conoscono le gesta da anni), e niente spoil system anche se una bella ventata di professori e tecnici e non di deboli figliocci della politica nelle aziende e nell'amministrazione pubblica ci vorrebbe proprio. Giù le mani dai tg Rai, dalle tv del Cavaliere e da quelle che, opportunamente rinvigorite, al Cavaliere potrebbero dare ombra e dispiacere. Calma anche sulle liberalizzazioni, e sui tagli alla spesa, e sulla lotta all'evasione. Insomma, è come se dicessero: questa è tutta cosa nostra. Sono Gattopardi - come dice la nostra copertina - disponibili a cambiare tutto purché nel profondo non cambi nulla. Proprio ora che l'Europa ci chiede una svolta.

Per fortuna, però, la realtà si preoccupa di smentire tanti progetti politici apparentemente logici e perfetti ma preparati a tavolino. Il fatto è che il premier Monti ha cominciato a lavorare mostrando che è possibile governare senza tante mediazioni e perdite di tempo. Che esistono altri comportamenti e stili di vita: lo dimostra l'uscita di scena di Malinconico il cui rapido esito potrebbe servire da apripista, in nome della trasparenza, per altri casi. Che si può decidere senza dover sottostare agli interessi di categoria o di corporazione difesi dal partito di riferimento. E questo agli italiani piace, come dimostrano i sondaggi che danno in crescita il non voto (quasi la metà degli elettori) e premiano quelle forze politiche, come il Pd, che hanno più sinceramente voluto la nascita del governo Monti. Italiani che hanno accettato duri sacrifici, ma che in cambio di questo non tollereranno più la malapolitica che ci siamo lasciati alle spalle.

Gli unici che sembrano non accorgersene sono proprio loro, i partiti, i Gattopardi convinti che quando questo governo sarà passato tutto tornerà nelle loro mani come prima. Non vedono, invece, che i tecnici stanno facendo breccia nell'opinione pubblica e sarebbe molto più saggio da parte loro prenderne atto e assorbire dentro di sé tutto ciò che di positivo c'è nell'esperimento Monti. "Provo pena per questi politici così maltrattati", ha detto ammiccante Monti. Giusto, ma potrebbero prenderne atto, comprenderne le ragioni e intanto prepararsi al futuro che verrà. Con altre facce, altri comportamenti, altre priorità.

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« Risposta #34 inserito:: Gennaio 28, 2012, 12:04:20 am »

Editoriale

Rigore non fa rima con evasore

di Bruno Manfellotto

C'è chi dice che Monti ha esagerato con le tasse. Ed è vero. Ma i dati del fisco mostrano ancora molte zone d'ombra e disparità.

E invece quando si parla di sacrifici non possono esserci sconti e aree franche per nessuno

(19 gennaio 2012)

Bruno Manfellotto Bruno ManfellottoIl rigore ha debuttato il 16 novembre scorso, giorno in cui ha giurato il governo tecnico-politico del professore-senatore a vita Mario Monti. Ma fatica assai a imporsi. Il muro degli interessi di categoria, dei grandi potentati come delle piccole corporazioni è sempre lì, assai arduo da abbattere, perfino da scalare. In queste ore i taxisti urlano dinanzi a Palazzo Chigi minacciando - testuale - "l'inferno" (ma i pensionati cui è stata tolta l'indicizzazione non hanno automobili per bloccare le strade delle grandi città...); commercialisti, avvocati e notai protestano; benzinai e petrolieri minacciano la serrata.

E mentre i Tir paralizzano la Sicilia contro gli aumenti dei carburanti, i parafarmacisti s'incatenano in piazza contro le liberalizzazioni dalle quali essi stessi sono nati tre anni e mezzo fa con le lenzuolate di Pier Luigi Bersani ministro. A me sì, a te no. Intanto, di ramazzate che riguardino la prima delle lobby, quella politica, non si vede traccia, nemmeno di quelle simboliche, di facciata, tanto per fare, ma utili a dire che siamo tutti nella stessa barca. In quanto ai tagli della spesa pubblica improduttiva, agli sprechi di Stato, alla cancellazione degli oneri impropri derivati da antichi appalti inciucisti c'è tanta strada da fare.

Insomma il rigore, quello vero duro e puro, non c'è ancora e però già se ne denunciano fondamentalismi ed esagerazioni. Contro l'eccesso di rigore, del resto, sono state scritte intere biblioteche e una scuola economica, premiata poi con un Nobel, ne ha teorizzato i pericoli e gli effetti controproducenti. Giusto, vero: il caso Irlanda, ridotta alla recessione e alla disoccupazione da una troppo rigida cura fiscale, sta lì a confermarlo. E però la questione, al tempo di Monti & C., andrebbe vista anche da un'altra angolazione.

Un eccesso di rigore, è vero, può dare spazio a forme di populismo pericoloso e incontrollabile, come dimostrano in questi giorni le piazze corporative delle grandi città sulle quali si è stesa l'ala protettrice dei partiti del "governo precedente" (fateci caso, ormai nessuno più, chissà perché, lo chiama "governo Berlusconi"). L'eccesso di populismo, a sua volta, rischia di far passare in secondo piano la necessità di nuove regole e di una riduzione di privilegi piccoli e grandi che suonano iniqui e risultano poco produttivi.

E così, tra chi alza la voce contro i piccoli ma non riesce a colpire contemporaneamente anche i grandi e chi se la cava dicendo che il problema è ben altro, si rischia che non partecipino alla generale chiamata alle armi né tassisti, parafarmacisti e benzinai, né assicurazioni, banche, l'Eni e il suo gas, le Ferrovie dello Stato e la sua rete ferroviaria. Del resto, per anni, sono stati lasciati in pace gli uni per non dover affrontare gli altri, e viceversa. Il risultato è stato l'immobilismo totale dell'ultimo ventennio: non ce lo possiamo più permettere.

Certo, gli economisti hanno ragione quando ricordano che troppe tasse gelano l'economia. Ma, davanti alle ultime cifre dell'Agenzia delle entrate, anche il più attento alle ragioni della crescita vacilla: gioiellieri e pellicciai denunciano più o meno quanto il giovane co.co.co di un call center; un farmacista incassa il doppio di un medico; una discoteca 400 euro al mese; un dentista, un tabaccaio, un avvocato quanto il dipendente di un ministero. Se fossero vere queste denunce dei redditi, il tassista di una grande città incasserebbe 14 mila euro l'anno, molto meno di un operaio, e impiegherebbe una decina d'anni solo per ripagare la licenza (di concessione pubblica) che ha comprato a caro prezzo non dal Comune ma da un altro tassista.

Qualcosa non torna. Non torna l'equità, che si richiede e si pretende quando il Paese è chiamato a sacrifici durissimi. Da qui la necessità di affinare gli strumenti per la lotta all'evasione (inchiesta a pag. 38). Del resto la sfida è proprio quella di far convivere quel principio con le necessità della crescita. Ma è una sfida che riguarda tutti, non solo alcuni.
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« Risposta #35 inserito:: Gennaio 30, 2012, 12:05:53 pm »

A essere maligni ci si azzecca

di Bruno Manfellotto

Dinanzi alle rivolte di piazza, i partiti tacciono o fanno finta di non vedere.

Per ora. Intanto un Berlusconi di nuovo pimpante annuncia che si batterà per cambiare in meglio il decreto sulle liberalizzazioni.

È la verità? Diceva Giulio Andreotti...

(26 gennaio 2012)

Alla fine ha sorriso amaro, però un po' si è seccato Pier Luigi Bersani quando "l'Espresso" lo ha sbattuto in copertina assieme ad Alfano, Casini e Berlusconi in una galleria di gattopardi in frac, leader di partito imbarcati nella stessa maggioranza, che però sembrano pronti ad annacquare le decisioni del governo Monti e ad allontanare le riforme elettorale e del lavoro che l'Europa invoca. E che soprattutto guardano a tecnici e professori come a una parentesi d'emergenza, chiusa la quale tutto ricomincerà più o meno come prima.

Esagerazioni? Provocazioni? Per definizione una copertina enfatizza gli avvenimenti cercando di coglierne il senso profondo. E però il dubbio che sia proprio lo spirito del gattopardo a incombere dalle parti di Montecitorio e di Palazzo Madama, viene forte. Del resto lo stesso capo dello Stato non perde occasione per chiedere alle forze politiche che sostengono questo "governo strano" di impegnarsi a non fare passi indietro e a proporre rapidamente una nuova legge elettorale che sostituisca il famigerato Porcellum. Se Giorgio Napolitano insiste e insiste, vuol dire che sul colle più alto le risposte ancora arrivano fioche e lontane.

I sospetti si sono poi rafforzati da quando è stato approvato il decreto sulle liberalizzazioni che sta provocando la rivolta dei tassisti e degli autotrasportatori, e la protesta di notai, farmacisti, avvocati, benzinai, parafarmacisti... Forse per la prima volta, però, l'insurrezione è caduta in un ufficiale silenzio della politica. Per ora. Si sono distinti la Lega, Raffaele Lombardo e singoli esponenti del Pdl (Gasparri, Cicchitto) a sostegno di questo o quello, ma per il resto i partiti che hanno dato il via all'esperimento Monti hanno quasi fatto finta di non vedere. Finora non hanno alzato la voce per sposare le rivendicazioni della piazza, è vero, ma nemmeno si sono sgolati per dare ragione al premier. E questa è una significativa novità che non lascia intravedere per ora nulla di chiaro e definito. Anzi.

Per anni i politici si sono contesi il consenso di lobby e corporazioni, professionisti e categorie. Difendevano i loro interessi particolari e si davano da fare solo per impedire che venissero intaccati. Sindaci, parlamentari e sottosegretari si sono visti chiamare al loro ufficio solo in virtù del consenso conquistato. All'insegna di un diffuso benaltrismo, essi scacciavano dai propri protetti ogni minaccia denunciando "un ben altro problema", che quasi sempre portava a un'altra categoria. Il gioco dei veti incrociati faceva sì che tutto restasse com'era.
In verità, il primo a rompere l'equilibrio consolidato di interessi di parte è stato proprio Bersani ministro dell'Industria del governo Prodi facendo risuonare per la prima volta in Italia la parola "liberalizzazioni". Negli anni successivi, però, la corsa a vanificare quasi tutto quello che era stato fatto è ricominciata e gli interessi particolari sono tornati a prevalere su quelli generali. La politica ha lasciato il passo alla tutela.

Adesso, però, alibi non ce ne sono più. Un pacchetto di liberalizzazioni è stato approvato - in pochi giorni, cosa che non era riuscita finora a nessun governo - e presto tutti dovranno pronunciarsi in Parlamento, a cominciare da Bersani che quell'antica pratica di lenzuolate liberalizzatrici ha rivendicato. Con una responsabilità in più.
Il rischio che i partiti facciano quel passo indietro che il Quirinale teme, diventa ogni giorno più concreto. Se da una parte, infatti, la protesta dilaga, dall'altra un Silvio Berlusconi di nuovo scalpitante annuncia battaglia in Parlamento, ufficialmente per rendere ancora più incisive le misure del governo: a voler essere maligni, la si potrebbe definire una versione aggiornata del benaltrismo, e proprio non saprei se in questo caso - come si chiederebbe Andreotti - ci si azzecca o si commette peccato. Lo sapremo molto presto.
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« Risposta #36 inserito:: Febbraio 10, 2012, 12:01:09 am »

Editoriale

Se Voltaire entrasse in carcere

di Bruno Manfellotto

Privilegi, auto blu, sprechi, consulenze agli amici degli amici. L'ennesima casta di apparato cresce a spese nostre e di detenuti che vivono in cella stipati come polli. Se da questo si misura il tasso di civiltà di un paese...

(02 febbraio 2012)

Scrive un lettore a "l'Espresso" che governi e parlamento non si occupano dello scandalo di carceri disumane per una semplice ragione: delle patrie galere, in fondo, non interessa a nessuno anche perché, sotto sotto, molti italiani, molti elettori - spiega quel lettore - si augurano che il carcerato resti dietro le sbarre e sia trattato male, magari peggio, perché altro non merita. Di fronte a un così agghiacciante sospetto viene alla mente quello che disse due anni fa il deputato leghista Gianluca Buonanno dopo il suicidio di un detenuto, e cioè che se altri avessero seguito il suo esempio non sarebbe poi stato tanto male...

Se le cose stessero davvero così, è ancora più encomiabile l'impegno di chi si batte contro carceri stipate come pollai da detenuti in attesa di giudizio, immigrati e tossicodipendenti. Il pensiero corre a Marco Pannella che con i suoi ripetuti scioperi della fame e della sete - sfidando il suo corpo e allo stesso tempo la reiterazione di un gesto radicale che può diventare malsopportata routine - mette la sua vita a disposizione di una battaglia di civiltà. E naturalmente il pensiero va anche a Giorgio Napolitano che in questi anni non ha perso occasione per spingere governi e parlamento ad affrontare una realtà divenuta insostenibile con parole come queste: "Una situazione che ci umilia in Europa e ci allarma per la sofferenza quotidiana".

Del resto, venerdì 27 gennaio, inaugurando l'anno giudiziario a Catania, è stato lo stesso ministro della Giustizia Paola Severino a ricordare - evocando Voltaire senza citarlo - che è proprio dallo stato delle carceri che si misura il tasso di civiltà e democrazia di un paese. Se prendessimo questo principio alla lettera, l'Italia precipiterebbe nel fondo di ogni classifica, appunto, di civiltà e democrazia. Lo dicono i numeri e ciò che può vedere chiunque visiti un penitenziario.

Mentre il Parlamento ignorava il problema e si occupava di leggi ad personam e di cancellare il falso in bilancio, le carceri si sovraffollavano anche in conseguenza della nuova legislazione sugli immigrati, sul possesso di stupefacenti e sui termini di prescrizione. Così, secondo un rapporto dell'associazione Antigone, le prigioni italiane rinchiudono oggi almeno 26 mila persone in più di quante ne potrebbero sopportare; più prudente, ma poi non tanto, il ministero della Giustizia che ha calcolato in 44 mila 218 il numero accettabile di detenuti e in 67 mila 593 quelli che realmente vi sono ospitati: almeno 23 mila di troppo. Evidenti condizioni di invivibilità provocano morti precoci - quasi 600 dal 2009 a oggi - e un'ondata di suicidi: 72 nel 2009, 66 sia nel 2010 che nel 2011, quattro già nel primo mese del 2012.

E neppure questo basta. "L'Espresso" ha svolto una sua inchiesta  e, a fronte della realtà che abbiamo appena riassunto, ha anche scoperto un'incredibile voragine di sprechi, privilegi, investimenti mancati, auto blu, consulenze e appartamenti a ministri, politici e amici degli amici. Roba anche qui da casta e da cricca - che sembra aver avuto come unico scopo quello della propria comoda conservazione e non lo svolgimento del proprio dovere - per di più in un ambito che esigerebbe per mandato non solo quella sobrietà divenuta proverbiale al tempo di Monti, ma soprattutto un quotidiano impegno morale e civile.

Niente di tutto questo. Qui l'inefficienza sfocia nella mala amministrazione se non nel malaffare, il dovere sociale nel tornaconto personale, l'impegno nella negligenza. Mentre le carceri esplodono. Questo governo - come spiega  Ignazio Marino che tanto si è battuto per questa storica conquista - ha avuto il coraggio di chiudere finalmente gli ospedali psichiatrici giudiziari, quelli che una volta si chiamavano più crudamente manicomi criminali. Speriamo che ora trovi la forza e le risorse per affrontare finalmente lo scandalo delle carceri. Che umilia questo paese e lo regredisce al grado zero della civiltà.

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« Risposta #37 inserito:: Febbraio 12, 2012, 07:37:38 pm »

Editoriale

Le mazzette non finiscono mai

di Bruno Manfellotto

Esplode di nuovo il problema del finanziamento dei partiti, dei troppi soldi alla politica, delle spese fuori controllo.

Come vent'anni fa quando nacque Mani pulite. Ma allora non è cambiato niente?

(09 febbraio 2012)

Il paradosso vuole - ma sarà poi un paradosso? - che mentre si celebra il ventesimo anniversario di Mani pulite, di nuovo calda si faccia la questione morale. Con al centro, ancora, il finanziamento dei partiti - con i suoi illeciti e, se va bene, con i suoi intrallazzi - trasformato nel meccanismo arrogante dei rimborsi elettorali che fa perfino di Giuseppe Scopelliti un uomo da un milione di euro e del tesoriere dell'ex Margherita il dominus di un tesoretto di 20 milioni di euro destinati a un partito che non c'è più e finiti chissà dove e chissà a chi.

Tutto cominciò convenzionalmente il 17 febbraio del 1992, quando il socialista Mario Chiesa, durante una perquisizione, fece scivolare banconote per sette milioni di lire in uno sciacquone del Pio Alberto Trivulzio di cui era presidente lottizzato, frutto della prima tangentina rivelata del secondo millennio. Bettino Craxi minimizzò definendo il suo uomo "un mariuolo", ma ciò non fermò la valanga scatenata dal pool di pm della Procura di Milano: l'intero panorama politico ne sarà devastato, la storia degli anni a venire condizionata. In carcere, come aveva profetizzato Mario Zamorani, finiranno migliaia di piccoli e grandi mariuoli.

Vent'anni dopo la faccenda è ancora lì, con l'aggravante di un generale imbarbarimento della lotta politica e di un avvilente decadimento delle truppe in campo: "Da Citaristi a Lusi", sintetizza amaramente Bruno Tabacci. Del resto basta leggere Claudio Rinaldi, un rigoroso testimone del tempo che ci manca assai, per rendersi conto di quanto tutto si ripeta uguale a se stesso: basta cambiare nomi e circostanze ed ecco la violenta mazzettopoli degli anni Novanta trasformarsi nella squallida e generalizzata "accettazione di un sistema" (Gherardo Colombo) degli anni Duemila.

Del resto, la combattiva Lega di Bossi, che nacque e si impose sulle macerie dei partiti in agonia, che sostenne Di Pietro nella sua battaglia, ruppe l'alleanza con Berlusconi, poi urlò "Roma ladrona" e agitò cappi nell'aula della Camera, oggi investe in Tanzania i soldi del finanziamento pubblico, vota contro l'abolizione del vitalizio dei parlamentari e a favore della responsabilità civile dei magistrati.

Si legga dunque con questo spirito il dossier dell'"Espresso", con i documenti originali che fotografano ciò che accadde, le testimonianze di chi c'era e capì, e le proposte per battere un mostro che tuttora ci perseguita. Certo, Tangentopoli non è stata esente da demagogie e forzature, ma la sacrosanta denuncia degli errori non deve cancellare il mare di corruzione e concussione che dilagò allora e, a quanto pare, sopravvive alla grande anche oggi. E tanto più spazio ha avuto la magistratura quanto più la politica s'è mostrata incapace di frenare le ruberie.
In vent'anni è stato fatto poco o nulla in direzione della moralizzazione della vita pubblica, anzi le uniche leggi approvate hanno aumentato i fondi ai partiti e diminuito i controlli, fino alla follia di escludere il finanziamento pubblico dall'orbita della Corte dei conti. Le forze politiche si sono ulteriormente blindate con una legge elettorale fatta apposta per perpetuare l'esistenza di ristrette oligarchie. Una blanda lotta all'evasione fiscale ha fornito la cornice in cui far crescere il malaffare. All'emergere di scandali (da Penati a Lusi) anche i meglio intenzionati non sono andati oltre generiche invettive moralistiche un po' patetiche. E prova ne siano i sondaggi che fissano in un misero 9 per cento la fiducia nei partiti.

Francamente non si comprende questo suicidio di casta se non come un miope tentativo di personale sopravvivenza. Eppure la parentesi benefica del governo Monti - l'abbiamo scritto e scritto - darebbe la possibilità di approfittare per rigenerarsi, cambiare volti, linguaggi e contenuti. Così non è, e l'unica novità che si vede all'orizzonte è il tentativo di alcuni - Montezemolo, Tremonti, Passera - di sostituire l'organizzazione partito con la candidatura ad personam. E la guerra alle mazzette? Se si vuole davvero voltare pagina è da lì che si deve ricominciare.
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« Risposta #38 inserito:: Febbraio 25, 2012, 04:32:56 pm »

Editoriale

Aiuto, ho il mal di primarie

di Bruno Manfellotto

Milano, Cagliari, Napoli. E ora Genova. Ogni volta il candidato del Pd viene smentito dal voto della sua base.

Tutta colpa di un meccanismo che non funziona, si spiega.

E se invece sbagliati fossero i nomi e i motivi per cui sono stati scelti?

(16 febbraio 2012)

A pensarci bene, sembrerebbe proprio che le primarie all'italiana siano state inventate per mettere nei guai il Pd. E magari chi qualche anno fa aveva cominciato a parlarne e a sollecitarle, aveva in mente proprio questo, uno strumento per far saltare l'alleanza, che a molti appariva fasulla e innaturale, intorno alla quale era nato il partito democratico e mettere in difficoltà un gruppo dirigente che non ne vuol sentire di cambiare. E vabbè, forse è andata proprio così, ma allora è ancora più sorprendente che non se ne siano resi conto i big del partito e non siano corsi ai ripari.

E' stata fin dall'inizio una maledizione. A Milano la maldigerita candidatura di Stefano Boeri ha favorito il trionfo di Giuliano Pisapia; a Cagliari la pallida figura indicata dal Pd ha lasciato spazio al giovane Massimo Zedda, pupillo di Nichi Vendola; a Napoli è stato affidato alle primarie un compito improprio, quello di risolvere decennali beghe di partito e di coalizione. La telenovela si è conclusa con una denuncia di brogli e con la vittoria dell'outsider Luigi De Magistris.

Il caso Genova che oggi chiude il cerchio - in attesa dei prossimi appuntamenti, Palermo in testa - è da manuale. La sindaca in carica Marta Vincenzi non piaceva allo stato maggiore del Pd che non ha avuto il coraggio di non ricandidarla, ma la sfrontatezza di metterle contro un'altra Pd, Roberta Pinotti, cara alle segreterie ma non al popolo genovese di sinistra. Il quale alle due che s'accapigliavano ha preferito il giovane Marco Doria, trovata di Don Gallo e Vendola che, come quel cinese, sta sulla riva del fiume e aspetta. Più che primarie, un suicidio.

Poiché anche un bambino capisce che presentandosi divisi si va incontro a sicura sconfitta, vengono alla mente domande e sospetti. Ci si chiede per esempio se il Pd sappia che cosa sono davvero le primarie, a cosa servano e come funzionino, visto che anche dopo la sconfitta di Genova è continuato il dibattito su come farle, se di partito o di coalizione, senza che nessuno si chiedesse se per caso fossero sbagliate non le primarie ma le candidature. Il sospetto, eccone uno, è che non si vogliano quelle di partito per evitare che esplodano divisioni, correnti, punti di vista diversi. Proprio quello che certa sinistra, unitaria nei sogni e a parole, non sopporta. E però cosa sono le primarie se non l'occasione di mettere a confronto idee, programmi, atteggiamenti necessariamente diversi?

Forse si teme anche - ecco un altro sospetto - che i giochi di un congresso o di un qualunque vertice di partito possano bocciare il candidato della nomenklatura. O magari c'è il timore che il nome proposto possa perdere nel confronto con altri del centrosinistra, con le inevitabili conseguenze politiche che investirebbero lo stesso vertice che quella proposta ha fatto. Così ragionando si può arrivare all'assurdo di preferire, nel primo caso, una sconfitta con Vendola a una resa dei conti con pezzi del proprio partito; oppure di accomodarsi nella posizione un po' masochista di chi può dire di essere stato battuto dalle eterne divisioni della sinistra e non dal voto di chi si è stufato di giochini e divisioni incomprensibili ai più. Amen.

E questo poi è alla fine ciò che più stupisce. Se il gruppo dirigente di un partito, spinto dall'opinione pubblica, è costretto a misurarsi in una sfida che ama poco come quella delle primarie, allora tanto vale che si impegni nel tentativo di voltarle a proprio vantaggio e farne davvero uno strumento di selezione della classe dirigente e di trasparente lotta interna. Ma evidentemente è proprio questo che non si vuole o che non si riesce a imporre a un gruppo dirigente riottoso a ogni novità al punto di preferire una sconfitta che non porta responsabilità a una vittoria che può significare alti costi.

Ci auguriamo, naturalmente, che le nostre supposizioni siano fantasiose e i sospetti del tutto infondati. Perché se le cose stessero davvero come le abbiamo raccontate, e temiamo sia così, allora questa più che politica è roba da psicanalisi.

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« Risposta #39 inserito:: Marzo 07, 2012, 05:10:28 pm »

Ma ormai non si parla più di Tav

di Bruno Manfellotto

Non si può tornare indietro, quel treno si farà. E vabbè. Però le proteste continuano e continueranno.

Perché quella valle in fermento è diventata il simbolo di ogni dissenso. Per questo la politica dovrebbe occuparsene

(01 marzo 2012)

Dicono le analisi dei servizi segreti che i no Tav della Val di Susa sono "determinati a resistere a oltranza" e che hanno in cantiere altre azioni clamorose. E non solo in Piemonte, come le diffuse proteste di questi giorni confermano. Ma soprattutto, aggiungono, la battaglia contro l'alta velocità per alcuni sta diventando il simbolo di un più generale mal di vivere indotto dalla crisi e dalle sue conseguenze: disoccupazione, precarietà del lavoro, degrado ambientale, aumento di prezzi e tariffe, riduzione dei servizi sociali. Così ogni occasione è buona per far esplodere la rabbia: l'apertura di una discarica, il tracciato di un'autostrada, un impianto di rigassificazione, la chiusura di una fabbrica (il Nimby Forum calcola che siano oggi 331 i progetti contestati). Si legge ancora: "La crisi può favorire la nascita di un articolato fronte di lotta capace di unire anime storicamente diverse". Non c'è da stare tranquilli.

IL CASO HA VOLUTO CHE QUESTE note siano state diffuse nelle stesse ore in cui l'alta tensione folgorava Luca Abbà su un traliccio in Val di Susa, e ciò spingeva i manifestanti a un'ulteriore escalation di proteste: autostrade invase, treni bloccati a Pisa a Roma a Lecce, leader politici contestati in piazza evocando Gandhi e lasciando immaginare domani altri manifestanti sdraiati in strada e sui binari.

Nel corso dei mesi la contestazione ha cambiato di qualità. I locali comitati anti Tav si sono assottigliati lasciando il posto a gruppi di diversa natura: dagli anarchici ai quali faceva riferimento Abbà, alle frange più estremiste protagoniste delle tristi minacce a Giancarlo Caselli. Le ragioni del mutamento di pelle? Dopo lunghe e pazienti trattative si è deciso che quella striscia di Val di Susa fosse attraversata quasi tutta in galleria: il treno non si vedrà e non si sentirà. E questo ha rassicurato molti valligiani facendoli desistere dalla protesta. Altri invece hanno abbandonato la battaglia perché, pur condividendone motivazioni e finalità, ne contestano violenze e minacce.

In realtà ormai si parla di Tav per parlare d'altro, anche perché - com'è noto - non si può fare più niente per fermare un progetto che impegna due Stati, Italia e Francia, e i rispettivi Parlamenti, e per il quale dall'altra parte della frontiera già si scava da tempo. La contestazione insomma non riguarda più solo un treno, ma ciò che quel treno rappresenta, un certo modello di sviluppo che si rifiuta alla radice e di cui la crisi ha evidenziato limiti e conseguenze: eccesso di finanza, bolla immobiliare, inaccettabili disparità sociali e retributive, invidia sociale, disoccupazione. Non solo. L'avvento di un governo tecnico sorretto dalla quasi totalità del Parlamento, ha messo nell'angolo le forze politiche, specie quelle ieri impegnate nel duro lavoro dell'opposizione. Con qualche conseguenza.

La prima è il rischio di confondere in un unico pentolone Monti e la sinistra, i tecnici di governo e i politici che li sostengono, dando l'impressione che dinanzi alla crisi il necessario diventi ineluttabile. Così aumentano sfiducia nella politica e voglia di astensionismo: se non posso fare niente che voto a fare? La seconda riguarda la sinistra messa ovviamente in difficoltà. Le fasi di massimo antagonismo si sono manifestate, nelle forme più diverse, proprio quando questa ha fatto i conti con i suoi radicalismi. L'acme fu toccato negli anni Settanta quando l'avvicinamento del Pci a maggioranze di governo provocò la radicalizzazione di frange estreme politiche e sindacali. E oggi i servizi segreti segnalano il ritorno sulla scena di ex Br.

CERTO, PARAGONI CON QUELLA lontana stagione sono improponibili, né la sinistra può fare marce indietro e rinunciare a un ruolo conquistato anche in anni di governo. Ma non si può nemmeno pensare che l'opposizione abbia i connotati della piazza, che il dissenso non meriti di essere ascoltato, che le proteste servano solo a ingaggiare continui bracci di ferro. Che insomma non si eserciti quotidianamente la faticosa ricerca del consenso. Che poi è l'arte della politica.
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« Risposta #40 inserito:: Marzo 24, 2012, 03:06:50 pm »

Editoriale

Un Bersani, anzi due

di Bruno Manfellotto

C'è il responsabile uomo di governo che appoggia Monti e spiega le misure economiche alle sue truppe.

E c'è l'uomo di partito che subisce veti, condizionamenti e primarie beffa.

Certo, se i due si incontrassero...

(08 marzo 2012)

Dunque c'è un Bersani di governo e un Bersani di partito. Un leader responsabile che non ha paura di esporsi in Parlamento o sulle piazze e di portare le sue truppe a condividere sacrifici indigesti, e il paziente amministratore di un condominio rissoso sul quale non riesce a imporsi. Un Bersani pragmatico e attento alla crisi economica, e un Bersani magmatico costretto a subìre controvoglia divisioni, lacerazioni, mediazioni. Quale dei due prevarrà?
Quando Berlusconi è stato costretto dalla sua stessa paralisi a lasciare Palazzo Chigi, il segretario del Pd è stato tra i più sinceri sostenitori di un governo di decantazione, strano o tecnico che fosse. E da allora non c'è stato giorno in cui non abbia sinceramente appoggiato Mario Monti nella convinzione che una crisi politica avrebbe trascinato l'Italia verso precipizi greci. E' vero, anche il Cavaliere ha fatto un passo indietro, ma ci è stato costretto dai sondaggi che in caso di elezioni anticipate davano perdente lui e vincente il Pd.

Non solo. Con determinazione il compagno Bersani ha spiegato ai suoi che bisognava di nuovo mettere mano alle pensioni; ha resistito alla carica delle corporazioni e appoggiato le liberalizzazioni del professor Monti, ricordando che quelle che aveva firmato lui da ministro dell'Industria erano state ancora più incisive; sta abilmente mediando sulle questioni del lavoro senza farsi trascinare dall'ala più estrema della Cgil; e nel momento più caldo, mentre Luca Abbà cadeva folgorato da un traliccio in Val di Susa, ammetteva coraggiosamente che il progetto Tav non può essere rimesso in discussione. Atti di governo che lasciavano via via ingiallire la foto di Vasto con Di Pietro di qua e Vendola di là.

Ma quando si tratta del partito tutto cambia e il Bersani che attraversa le sale di via Sant'Andrea delle Fratte non è lo stesso che sale al Quirinale. L'uomo di governo deve lasciare il passo all'uomo di apparato. Che nulla ha potuto fare per accelerare il rinnovamento dei gruppi dirigenti, o per aggredire le questioni di fondo, politiche e di potere, che minano il matrimonio con l'ala cattolica del Pd. Per non dire della beffa delle primarie, trasformate ogni volta da momento di rilancio e di democrazia, in occasione di scontro. Ultimo caso, Palermo.

Bersani ricorda giustamente che le primarie non sono la soluzione dei problemi, lo è la politica; ma proprio la debolezza della politica che, incapace di appianare prima i contrasti tra le diverse anime di una coalizione, ha condotto alla farsa di candidare non due concorrenti, come insegnano gli Usa che usano le primarie da centosettant'anni, e in più di insistere con personaggi logori, scontati, vecchi favorendo così il fiorire di altri competitor che spesso hanno dalla loro solo la freschezza dell'età e la possibilità di presentarsi alternativi ai nomi di apparato. E che per questo vincono.

Da una parte, dunque, l'amministratore cresciuto alla scuola concreta del socialismo riformista in salsa emiliana e poi maturatosi nell'esperienza di governo; dall'altra l'uomo di partito che invoca un'unità fittizia e non si rende conto che una politica di mera gestione dell'esistente non basta più e rischia anzi di diventare controproducente. O meglio, se ne rende conto eccome, ma le resistenze che incontra sono ancora tante.

E invece nella società qualcosa di profondo si muove, come le stesse primarie dimostrano: fare politica significa proprio intercettare questi umori e riuscire a trasformarli in proposta convincente. Del resto, mai occasione fu più propizia. La "sospensione" del governo Monti offrirebbe al Pd l'occasione per fare il salto decisivo, rompere regole stanche, cancellare vecchi riti, prepararsi al dopo con fatti e volti nuovi. Bersani dovrebbe farlo subito, agire prima delle elezioni, soprattutto ora che dissidenti interni ed esterni cercano di condizionarlo, indebolirlo, metterlo in difficoltà. Sono i suoi stessi elettori a chiederglielo.

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« Risposta #41 inserito:: Aprile 09, 2012, 05:23:29 pm »

Cosa c'è dietro l'articolo 18

di Bruno Manfellotto

Un governo "strano" può fare a meno del Parlamento?

E i partiti possono già fare a meno di Mario Monti?

La risposta giusta è no. A entrambe le domande.

Vediamo perché

(29 marzo 2012)


Temo un incidente di percorso", lamentava Mario Monti addirittura il 16 dicembre scorso. Era passato appena un mese dal suo arrivo a Palazzo Chigi e nella maggioranza già cominciavano i primi mal di pancia per le misure anti crisi. E sì, da quando questo governo è in carica c'è sempre stato il rischio dell'agguato, dello sgambetto, della palude parlamentare. Figuriamoci poi se la discussione riguarda il lavoro e lo spinoso articolo 18 e fuori del palazzo soffiano sindacati insoddisfatti per un'intesa che non c'è stata. Due totem travolti insieme, lo statuto dei lavoratori e l'imprescindibilità di un accordo tra le parti: inevitabile che sul governo s'addensassero nere nubi. Fino a spingere Mario Monti all'insolito affondo di Seul. Che merita qualche riflessione.

Innanzitutto, che cosa ha detto il premier? Che la riforma del lavoro, per usare le parole di Elsa Fornero alla "Repubblica", non può essere "ridotta in polpette" dal Parlamento; che lui, a differenza di Giulio Andreotti, non vuole tirare a campare e dunque "se il paese non è pronto" molla tutto e se ne torna alla Bocconi. Amen. Il fatto che la cruda dichiarazione sia stata rilasciata nel pieno di un viaggio all'estero, che Monti abbia sentito la necessità di parafrasare Belzebù, che i partiti fibrillino in attesa che la riforma approdi in Parlamento e qualcuno evochi addirittura improbabili elezioni anticipate, ha diffuso sulla scena un vago sentore del tempo che fu, insomma degli anni in cui non c'era premier in missione che non fosse costretto a parare qualche colpo sparatogli contro nella patria lontana.

E però le cose stanno in modo assai diverso perché la stagione Monti non ha niente a che vedere con quanto è successo prima. A lui si è ricorsi per fare ciò che i partiti non potevano, incapaci com'erano di trovare un accordo e di decidere alcunché. E lo si è fatto accogliendo quelle che sono state da sempre le condizioni poste a chiunque gli proponesse un impegno di governo: arrivarci non attraverso una campagna elettorale, ma su indicazione del Capo dello Stato e sostenuto da un'ampia maggioranza. E così è andata: senatore a vita e poi premier per volontà di Giorgio Napolitano e con il sostegno forte dei maggiori leader di destra, di centro e di sinistra.

Un governo "strano", ha riconosciuto subito lo stesso premier. Strano sì, ma al punto di sottrarsi del tutto al vaglio di Camera e Senato? Anche se si è interrotta una difficile trattativa sul lavoro e si è rimandata la palla al Parlamento? Ma se la manovra economica è passata a colpi di decreti legge e di fiducia, non si può certo fare lo stesso con una riforma che mette in discussione diritti fondamentali, e dunque Monti deve accettare che deputati e senatori dicano la loro.

Ecco, la vera partita è tutta qui, nei rapporti tra un Parlamento voglioso di recuperare a tutti i costi - anche spendendosi per un post Porcellum un po' affrettato e pasticciato - un ruolo incrinato dai veleni dell'antipolitica e indebolito da un governo nato fuori di esso, ma cui deve la sopravvivenza e di cui non opuò ancora fare a meno, e un premier deciso ad andare avanti e per questo accusato dal Parlamento di chiedere solo un timbro su provvedimenti già presi. E così va dunque letta quella frase: "Se il Paese non è pronto", e cioè se i partiti che lo rappresentano non se la sentono di decidere, sono pronto a passare la mano. Ciascuno si assuma le sue responsabilità.

Messaggio, pare di capire, indirizzato sia di qua che di là. A quel pezzo di politica e di sindacato che vorrebbe l'intangibilità delle attuali regole sul lavoro e a quel Pdl che con sinistra gioia alza la bandiera dei licenziamenti a go-go. Se è così, non sarà impossibile trovare in Parlamento un accordo che non smentisca l'intesa che, articolo 18 escluso, fin qui c'è stata, e non stravolga l'impianto costruito in un mese di trattativa. In nome della responsabilità e di una concertazione non paralizzante Bersani ci sta, Camusso pure. Non buttiamo tutto all'aria per una questione di principio. O per la campagna elettorale.

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« Risposta #42 inserito:: Aprile 18, 2012, 04:15:08 pm »

Chi non taglia è perduto

di Bruno Manfellotto

Nuove tasse, era inevitabile. Assalto alle pensioni, e vabbè. Ma di tagli alla spesa pubblica (e dei costi della politica) non si parla.

Meglio darsi da fare subito da soli che costretti dallo spread e dall'incubo default

(12 aprile 2012)

Le ultime illusioni le hanno cancellate un ministro e un vice ministro del governo Monti, subito prima che lo spread ricominciasse a far ballare le Borse. Ecco il numero due dell'Economia, Vittorio Grilli, a Cernobbio: "Dal processo di spending review non dobbiamo aspettarci un taglio della spesa di decine di miliardi". Amen. Qualche giorno dopo, alla "Stampa", Piero Giarda, ministro per i rapporti con il Parlamento incaricato di radiografare la spesa pubblica, ha messo le mani avanti: "Dalla spending review non c'è da attendersi nessun tesoretto da destinare a riduzione delle tasse, ma una razionalizzazione degli apparati dello Stato per non far crescere la spesa". E per chi non avesse ancora capito l'antifona ha aggiunto: "Finora il governo non ha annunciato progetti di riduzione della spesa". Ecco, appunto.

E però, ora che il fantasma greco svolazza di nuovo sulle capitali europee, il guaio di una spesa incomprimibile dovrebbe tornare al primo posto dell'agenda economica, non solo per ragioni di equità, ma - come osserva Massimo Riva - anche per trovare risorse utili a finanziare uno straccio di crescita. Finora, però, nulla è stato fatto. Nella prime settimane di vita, è vero, Monti ha dovuto affrontare una drammatica emergenza: il baratro era lì a un passo, e bisognava trovare subito 80 miliardi. Sappiamo com'è andata: aumenti di tasse e tariffe e assalto alle pensioni (compresa la figuraccia degli esodati). In quanto alle vittime dei sacrifici, basta consultare l'ombrellometro costruito prendendo a prestito da Altan l'irridente metafora di copertina. Di tagli, e meno che mai dei costi della politica (vedrete che aumenteranno i controlli, ma non ridurranno i rimborsi), invece non si parla.

Del resto per anni così si è ragionato: bloccare, non tagliare la spesa pubblica. Che adesso tocca gli 800 miliardi, più o meno la metà della ricchezza prodotta in Italia. Ma soprattutto, il doppio di vent'anni fa. Anche il debito non si è fermato, arrivando alla cifra record di 1.830 miliardi di euro. E se non tagli, tocca inventare nuove tasse. Tanto che la pressione fiscale supera oggi il 46 per cento (contro il 38 di vent'anni fa).

Tasse molte, risparmi pochi. E invece da qualche parte bisognerebbe pur cominciare. In tempi di crisi e di recessione, non c'è famiglia che non stringa la cinghia, e non c'è impresa che non si adatti a tagliare almeno il 10-20 per cento delle spese. Inevitabile. Ebbene, ogni anno, per l'acquisto di beni e servizi - dalla benzina alla cancelleria, dalle auto blu all'acqua minerale - la pubblica amministrazione sborsa 130 miliardi di euro. Possibile che non si possa ridurre qualcosa? Per esempio sprechi e imbrogli? Dieci per cento significherebbe 13 miliardi; il venti per cento 26. Ventisei!

E la sanità? Nel 2010 il sistema sanitario nazionale è costato quasi 150 miliardi di euro dei quali, per esempio, 26 per i farmaci e 80 per forniture sanitarie. Lungi da noi l'idea di "smontare la sanità pubblica" (come teme Giarda), ma possibile che non ci sia modo di tagliare, risparmiare il 10-20 per cento? Cioè 15-30 miliardi di euro. E ancora. Dinanzi all'ennesima richiesta di abolire le Province, Antonio Saitta, combattivo presidente della Provincia di Torino, sventola l'elenco di enti, istituzioni, authority che fanno capo alla pubblica amministrazione: una decina di fogli dattiloscritti, un elenco fitto in cui non è difficile trovare sovrapposizioni, duplicazioni, orpelli. Niente da tagliare nemmeno qui?

Il premier inglese Cameron ha annunciato la riduzione della spesa pubblica dal 45,8 al 40,3 per cento entro il 2015; data entro la quale i dipendenti pubblici passeranno da 700 mila a 500 mila. Certo, l'Italia non è la Gran Bretagna, e la filosofia delle lacrime e sangue poco si attaglia al nostro costume, ma all'idea di un piano pluriennale di rientro potremmo arrivarci perfino noi. Cominciando a lavorarci subito. Magari approfittando di Mario Monti e del suo governo.
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« Risposta #43 inserito:: Aprile 28, 2012, 05:28:00 pm »

E la chiamano antipolitica


di Bruno Manfellotto

D'Alema sente nell'aria che tira un feroce attacco ai partiti, specie a quelli di sinistra.

È vero. Ma si chieda anche perché, e quel che potrebbe fare lui per ridare vita a una cosa che non c'è più

(19 aprile 2012)

Negli ultimi giorni, complice la campagna elettorale e l'aria che tira, quella dell'antipolitica dilagante, Massimo D'Alema ha ritrovato lo spirito di un tempo: parla, sferza, denuncia. E mette in guardia. "L'antipolitica è più pericolosa della destra. C'è in atto un'operazione ideologica che non vuole la sinistra al governo e mette i tecnici contro i partiti" (16 aprile, Palermo). "Il dramma non è stata l'invadenza dei partiti, ma la loro disgregazione" (14 aprile, Catanzaro). Ancora: "E' preoccupante l'atteggiamento di certe élites del "basta con i politici" che in epoche recenti hanno dato spazio a Berlusconi: non vorrei che la storia si ripresentasse sotto forma di farsa" (12 aprile, Roma). E infine, dedicato al papa dell'antipolitica: "Grillo è un mix tra il primo Bossi e il Gabibbo". Amen.
E sì, c'è poco da fare, è questa l'aria che tira. Ma Baffino, che pure l'ha colta bene, non la racconta giusta. Pensa ancora una volta all'attacco dei soliti poteri forti e finge di non vedere che se oggi la metà degli italiani non andrebbe a votare è perché rifiuta la politica di chi intasca mazzette, compra ville a Genzano o investe in lingotti i soldi del finanziamento pubblico. E davvero sorprende che i partiti non se ne rendano conto e non corrano subito ai ripari, magari approfittando dello scudo del governo tecnico.

Già, ma per fare cosa? Solo qualche esempio. Cominciamo dai rimborsi elettorali, che tali non sono visto che durano un'intera legislatura. Sì, una qualche forma di finanziamento pubblico è sacrosanta, ed è vero pure che i partiti se lo sono già autoridotto: 189,2 milioni di euro nel 2011, cioè 100 in meno dell'anno precedente, che scenderanno a 165 l'anno prossimo per arrivare a 143 milioni nel 2015. Bene, bravi. Ma la trasparenza? Fino a quando non potremo sapere come sono stati spesi quei soldi pubblici, cioè di tutti i cittadini, si lascerà spazio ai Lusi e ai Belsito, i migliori attori a disposizione nel teatrino dell'antipolitica. Che ha toccato l'acme in questi mesi in cui tracimano le inchieste sui partiti e i loro tesorieri.

Certo, perfino nella notte della politica non tutti i gatti sono bigi, ma a pagare il prezzo più alto sono proprio quei partiti, specie a sinistra, che hanno fatto della questione morale e della buona amministrazione le loro carte vincenti: perché più forte è la delusione di chi li ha votati e perché da loro, che non dovrebbero essere gattopardi ma innovatori, ci si aspetta di più. E dunque si diano da fare.

E' dall'antipolitica, ripete per esempio D'Alema, che nascono i Grillo, le mille liste civiche (pag. 36), la personalizzazione della politica. Bene, bravo. Ma allora si cambi la legge lì dove consente rimborsi elettorali per cinque anni anche a chi raggiunge solo l'1 per cento dei voti e non conquista seggi: è un meccanismo che favorisce la nascita di piccole liste e l'arrembaggio di un ceto politico acchiappasoldi.
Secondo, occorre una nuova legge elettorale. Subito e di qualità. Sono almeno quattro mesi che ci sentiamo dire che la riforma arriverà "entro quindici giorni", ma nessuno ancora l'ha vista e quella di cui si parla sembra fatta apposta - come dice Romano Prodi - per non far vincere nessuno, premessa a una stagione in cui si rischia di spendere tempo e risorse non per governare, ma alla sfibrante ricerca di accordi di coalizione e di sopravvivenza: non è questo che si chiede alla politica.

Ancora. Fondamentale sarebbe la rinuncia a piccoli e grandi privilegi, visto che la sfiducia nella Casta è cresciuta a mano a mano che i cittadini elettori venivano scoprendo auto blu, doppi stipendi e assenteismi lautamente retribuiti. Dunque ridurre, tagliare, cedere. E infine, mollare un po' la presa abbandonando la pratica della lottizzazione becera in favore della scelta di ineccepibili curriculum.

Insomma, se è vero come dice perfino Napolitano che "il partito e la politica non sono il regno del male, del calcolo particolaristico e della corruzione" chi si sente fuori da questo girone di dannati si svegli e faccia qualcosa. Per salvare dalla demonizzazione i partiti e la vera politica .

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« Risposta #44 inserito:: Maggio 07, 2012, 10:48:33 pm »

Casta non morde Casta

di Bruno Manfellotto

Il governo dei tecnici commissaria il governo dei tecnici con un commissario tecnico.

Non è uno scioglilingua, ma attenzione: è l'ultima chance. Perché il problema della spesa è prima di tutto politico

(04 maggio 2012)

Proprio quando sembrava che le mollezze romane stessero stremando perfino un esercito di freddi tecnici e rigorosi bocconiani; mentre il premier vedeva assottigliarsi tassi di fiducia bulgari e dietro di lui si agitava il partito del voto anticipato; bene, proprio a quel punto Monti ha tirato fuori del cappello Enrico Bondi - ieri risanatore di Montedison e Parmalat e domani, si spera, della scassatissima Azienda Italia - affidandogli la mission impossible di tagliare la spesa pubblica. Insomma, il governo dei tecnici commissaria il governo dei ministri tecnici. Con un commissario tecnico. Al tecnico non c'è mai fine.

E però bene, bravo, applausi. Del resto a novembre "l'Espresso" salutava l'esordio di Monti con una copertina che lo trasformava in Mario mani di forbice invitandolo ("Taglia qua") ad abbattere sprechi e privilegi; ma tre settimane fa segnalavamo ("Chi non taglia è perduto") le difficoltà, se non l'impossibilità, del governo di disboscare la giungla pubblica, e la settimana scorsa paventavamo in copertina che non ce la facesse neanche lui, il premier-tecnico, augurandoci che l'irriconoscibile Mister Mario degli ultimi giorni tornasse a essere il Dottor Monti della prima ora. Del resto, senza un drastico taglio di spesa non ci potranno mai essere risorse sufficienti per abbassare le tasse o spingere sugli investimenti. Tutto bene, dunque? Un momento.

Berlusconi & C. non hanno accolto Bondi con un coro di evviva, anzi. Hanno temuto da subito di perdere ulteriormente terreno e centralità e guardato all'appuntamento elettorale di domenica 6 maggio con timori crescenti. Dunque se hanno frenato ieri, al punto da costringere il premier a un colpo di teatro, a maggior ragione freneranno domani.

Il Pd di Pier Luigi Bersani, invece, sostenitore sincero dell'esperimento Monti, ha sempre puntato sul buon esito delle amministrative, e scommesso perfino sulla vittoria di Hollande in Francia per spezzare il tradizionale asse franco-tedesco, offrire all'Italia un ruolo più centrale in Europa e spianare la strada ai sostenitori della crescita. E dunque il Pd favorirà Monti & Bondi, ma - c'è da giurarci - fino a quando il loro lavoro non andrà a toccare delicate aree di consenso.

Fin qui i partiti. Ma evidentemente perfino i tecnici - liberi sì da vincoli elettorali, ma pur sempre legati a doppio filo alla maggioranza politica che li sostiene in Parlamento - non possono più di tanto se alla fine, pur di affondare il coltello dopo mesi di spending review e di appelli al rigore, sono stati costretti ad affidarsi ad altri tecnici, stavolta garantiti non direttamente dai partiti politici ma dagli stessi tecnici che li hanno prescelti.

La spiegazione di tanta evanescenza è semplice e amara, e la sottolinea bene anche Gian Giacomo Migone  ricordando altre stagioni, altre speranze, altre velleità - ma con lo stesso spending reviewer, Piero Giarda - finite nel nulla. Semplicemente, è difficile tagliare perché spesa pubblica e politica sono troppo contigue e ogni intervento drastico può colpire amici, sodàli e poteri vicini, e dunque ogni volta non se ne fa nulla. Casta non morde casta, verrebbe da dire.

Ora tocca al tecnico dei tecnici. Attenzione, però. Questa è davvero l'ultima chance, l'esperimento non potrà conoscere un bis. E se non dovesse riuscire nell'impresa nemmeno Bondi, il Paese verrebbe risucchiato dalle cattive abitudini di sempre con tragica rapidità. Perché il problema della spesa, come tutti sanno, è politico, non tecnico. Di conseguenza, non si può pensare di vivere in eterno di soli tecnici o di affidare a loro il lavoro sporco o difficile, e non per una questione di democrazia e rappresentatività, che pure esiste; ma perché è necessario che le forze politiche si rendano conto che questa operazione di tagli, razionalizzazioni e abolizione di sprechi e privilegi è argomento che deve entrare subito e al primo posto nella loro agenda. Altrimenti i partiti continueranno a perdere consensi e il Paese scivolerà sempre più lontano dall'Europa.

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