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Autore Discussione: MARCO ROSSI-DORIA. Ripartiamo dalla voglia di educare  (Letto 3038 volte)
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« inserito:: Febbraio 21, 2011, 04:03:45 pm »

21/2/2011

Ripartiamo dalla voglia di educare

MARCO ROSSI-DORIA

150 anni dall'Unità d'Italia quale è il bilancio riguardo al formare le nuove generazioni? E' possibile farne oggetto «di riflessione seria e non acritica e di valorizzazione di tutto quel che ci unisce», come ci ha invitato a fare il Presidente Napolitano?

E’bene partire dalla scuola. Che è nata con l'Italia unita. Prima c'erano i precettori presso i ricchi. E le scuole strettamente confessionali. E' merito del regno sabaudo e della destra storica se la scuola fu subito resa pubblica e obbligatoria. E' stato il regio decreto legislativo 13 novembre 1859, n. 3725 del Regno di Sardegna - noto come legge Casati - entrato in vigore nel 1860 e successivamente esteso a tutta l'Italia che ha dato il via all'alfabetizzazione del paese. Un'opera titanica: l'analfabetismo maschile era al 74% e quello femminile del 84%, con punte del 95% nell'Italia meridionale. Un'opera che è continuata lungo i decenni nelle scuole la mattina e in quelle serali e poi via radio e con i primi anni della televisione pubblica. Un'opera che è stata compiuta all'inizio da maestri, che furono spesso promotori delle grandi culture politiche che hanno forgiato il paese: liberalismo, anarchismo, socialismo, cattolicesimo sociale; e da poche maestre, che diffusero per prime le ragioni del movimento delle donne. Questo esercito civile ha popolato la vita di città e campagne insegnando a milioni di bambini a leggere, scrivere, far di conto, conoscere la storia, le scienze, la geografia. Con i soldi dello Stato. E non più grazie alla pia carità dei fedeli né sotto l'imprimatur sui libri siglati dal Papa.

Dunque, va ricordato che l'unità è stata anche il poter leggere del bambino veneto come di quello calabrese. Che è avvenuto entro un modello di scuola pubblica che ha sempre saputo affiancare lo sviluppo della nostra meravigliosa lingua al rispetto per le lingue locali. E che questo ha prodotto, per oltre un secolo, una faticosa ma costante mobilità sociale.

Ma oggi abbiamo anche il dovere di riconoscere che, dalla fine degli anni settanta del secolo scorso, questa spinta verso il sapere per tutti e verso il superamento della povertà grazie all'istruzione si è arrestata. Tanto che oggi il 20,8 % dei nostri ragazzi non ottiene un diploma di scuola superiore né una formazione professionale compiuta. E si tratta dei figli dei poveri, quelli per i quali la scuola pubblica è nata. Bambini e ragazzi poveri, che sono quasi due milioni, il 18% del totale. Se si guardano, poi, con attenzione questi dati, si vede che essi rivelano una disunità dell'Italia tra nord e sud. Infatti nel sud risiede il 70% dei minori poveri, 1 milione e trecentomila. E mentre la media italiana di chi cade fuori dal sistema di istruzione è 1 su 5, nel sud è quasi 1 su 3. La corrispondenza tra dispersione scolastica e povertà delle famiglie è ovunque di nuovo evidente; ma nel Mezzogiorno ha caratteri macroscopici. E non è solo questione di povertà. Nel sud i bambini hanno enti locali meno capaci di spendere bene per servizi, istruzione, salute, ambiente, sviluppo locale, cultura. Hanno scuole più vecchie, brutte e meno manutenute e sicure. Hanno meno mense, asili nido, tempo pieno, palestre, spazi verdi attrezzati. Conoscono ospedali meno efficienti, minori opportunità di cure preventive e anche una aspettativa di vita un po' meno lunga. Usufruiscono di trasporti, informazioni e infrastrutture peggiori. Hanno famiglie e comunità che usano banche più care e ancor meno propense a prestare denaro a chi non lo ha già. E la Banca d'Italia ha calcolato che i bambini e ragazzi del Sud hanno un investimento annuo medio pro-capite per l'istruzione - da parte di enti locali, stato, famiglie - di oltre mille euro in meno. Certamente, intorno all'educare ci sono o

ggi profondi mutamenti rispetto ai molti decenni dell'unità d'Italia. Mutamenti antropologici sui quale faremmo bene tutti a soffermarci di più e meglio: scuola, famiglie, media.

Ma ci sono anche sfide immediate, compiti urgenti per la tenuta stessa della coesione sociale. Perciò, negli anni a venire, quale che sia la direzione politica del paese e quella di regioni e città, il primo grande banco di prova per le classi dirigenti nazionali e locali è quello del rilancio delle politiche attive per chi fin da bambino è escluso dal sapere e quindi dalle opportunità. Sarebbe, insomma, urgente, a 150 anni dall'unità, poter riparlare di vera politica. E cimentarsi con il come aumentare scuole materne e nidi e rafforzare l'istruzione di base, dando più ore e didattiche migliori a chi parte svantaggiato; come rilanciare il sistema della formazione professionale intorno al sapere fare e anche alle competenze di cittadinanza - saper leggere e scrivere, capire discorsi, seguire procedure logiche; come creare zone di intervento straordinario nelle aree più depresse, che coinvolgano, in progetti ad personam, scuole, imprese, parrocchie, centri sportivi; come rafforzare le ore di alfabetizzazione nell'apprendistato; come offrire una ripresa di istruzione agli adulti che non ne hanno, per acquisire le competenze indispensabili per stare al mondo.

Dal tempo di Cavour, i politici savi dell'Italia unita, il movimento sindacale, gli imprenditori, il pensiero meridionalista hanno saputo superare divisioni, rigidità e interessi di parte quando si sono occupati di queste cose. Con spirito rivolto alla comunità nazionale e a quella locale, in modo concreto, evitando sprechi e concentrandosi sui risultati. E ora di ricominciare.

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« Risposta #1 inserito:: Settembre 12, 2011, 10:35:23 am »

12/9/2011

Apriamo il cantiere della speranza

MARCO ROSSI DORIA


Riaprono le scuole. Bisogna raccontare tutto quello che non va. Ma c'è anche da immaginare possibilità, sogni da costruire, speranze.

Parlare di scuola oggi vuol dire immaginare una sua rinascita, un cambiamento. Del resto si apprende solo grazie ai cambiamenti. E se lo fanno i nostri ragazzi lo deve fare il Paese.

Bisogna partire da una constatazione: non si può guardare alle generazioni future senza permetterne i sogni. Ed è la scuola ben fatta la prima sorgente di quei sogni. Ovunque nel mondo. Eppure, in questa brutta stagione italiana, due tsunami si stanno abbattendo sulle scuole. Il primo tsunami è partito dai tagli lineari del governo. Otto miliardi in tre anni. Che riducono classi, numero dei dirigenti e docenti, ore di scuola e per l'integrazione dei bambini in difficoltà. Il secondo ci arriverà addosso come diretta conseguenza dei tagli agli enti locali, che li costringerà a ridurre i soldi per asili nido, mense, progetti per i giovani, scuole d'infanzia, assistenza ai disabili, edilizia scolastica e sicurezza. Nessun Paese occidentale o emergente lo ha fatto, nonostante la crisi. Oggi siamo a 4,2% del Pil investito in istruzione, penultimi in Europa. E il Def prevede di far scendere gli investimenti alla scuola fino al 3,4% del Pil. La media Ocse è 5,7%. E tutti conservano o aumentano i soldi per la scuola. Obama ha appena annunciato investimenti per rispondere alla crisi e tra questi vi sono aumenti agli insegnanti ed edilizia scolastica. Il governo ha operato una scelta folle. Che l'Italia non aveva mai fatto. Né quando, poverissima, iniziò la sua vita di nazione cento cinquanta anni fa, né durante le crisi e le guerre dello scorso secolo. Mai. Perché l'investimento in istruzione contribuisce grandemente allo sviluppo. Infatti ha favorito il nostro boom economico e ora quello di India, Cina, Corea, Brasile.

Ci sono sprechi da tagliare? Certamente sì. Ma un conto è fare una seria disamina degli sprechi e metterci mano e altro sono tagli che rivelano un massiccio disinvestimento e che, inoltre, si sono operati in modo lineare, senza alcun criterio pedagogico, nella mera ottica del risparmio.

Quando togli cifre così grandi in questo modo, succedono molte cose e gli effetti sono maggiori della loro somma. Se aumentano gli alunni per classe diminuisce la possibilità di attenzione rivolta a ciascuno, cala la probabilità di differenziare gli approcci didattici e mettere su laboratori, c'è meno tempo per mettere in contatto le competenze da costruire in classe e le tante cose che i ragazzi imparano anche fuori da scuola. Diventa più difficile creare buone situazioni di verifica e correggere i compiti di ognuno, ecc. Se diminuiscono le ore questi effetti negativi si moltiplicano e, inoltre, c'è meno tempo per parlarsi tra scuole e famiglie. Se, poi, le nuove immissioni in ruolo dei docenti coprono appena i posti di chi è andato in pensione, allora a gestire le nuove difficoltà sono un numero immutato di precari. I quali cambiano scuola quasi ogni anno. Così diminuisce ancor più la possibilità di costruire una relazione e una costanza di lavoro tra docenti e ragazzi. Se chi ha difficoltà ha meno sostegno, ciò punisce i più deboli ma anche tutti gli altri. Se, in aggiunta, questa situazione è governata da un dirigente che non si occupa più di una sola scuola ma di tre - un terzo delle scuole è oggi in questa situazione - allora aumenta il caos e il senso di solitudine di scuole, docenti, genitori. Fin quando se ne parla così è un conto. Quando si pensa al proprio figlio è un’altra cosa. «Perché il prof. non ti ha ancora restituito il compito corretto?». «Perché si sono chiusi i laboratori?». «Perché a Angelina hanno tolto le ore nonostante stesse faticosamente affrontando la dislessia?». «Perché si va meno in palestra?». «Perché non fate più i gruppi di livello di inglese?».

Sì, è una follia. Ma anche una miseria umana. Perché qualsiasi comunità che non sa puntare sui suoi figli ha poco cervello ma anche poco cuore. E questo è ancor più vero perché le sfide educative sono aumentate e non diminuite. I modelli educativi sono diventati più fragili e cresce il bisogno di accordarsi tra genitori e docenti. I bambini poveri e la dispersione scolastica non diminuiscono. L'uso diffuso dei media, l'aumento delle complessità del sapere, e delle interconnessioni tra discipline una volta ben distinte o tra teorie e costruzioni pratiche sono tutte cose che comportano un più ricco uso di spazi, tempi e modi di apprendimento. Le rivoluzioni culturali, politiche, tecnologiche in atto richiedono una scuola più ricca e non certo ridotta a meno ore svolte come ai tempi dei nostri padri.

Si impone una radicale riflessione su come cambiare a fondo l'idea stessa di scuola. Un esame di sprechi e conservatorismi inaccettabili è urgente. Molti propongono finalmente stimoli all'innovazione. Ma una stagione di tagli lineari non favorisce affatto queste cose. Si deve subito invertire una rotta basata sul disinvestimento e mettersi nel solco delle politiche internazionalmente accreditate: investimenti efficaci e innovazione. Molte idee già ci sono. Molte scuole creano cose promettenti. E' tempo di aprire un cantiere che ridia speranza e opportunità ai docenti, ai genitori e soprattutto ai ragazzi. L'agenda-scuola deve ritornare in cima alla lista.

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9187
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