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Autore Discussione: Il maestro Pasolini  (Letto 3352 volte)
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« inserito:: Febbraio 21, 2011, 04:01:38 pm »

Il maestro Pasolini

di Piergiorgio Paterlini

A trentacinque anni dalla sua morte, continuiamo a sorprenderci per le sue intuizioni sui giovani.

E se non fosse andato quel giorno all'Idroscalo, forse oggi sarebbe un anziano e fiero insegnante di campagna

(02 novembre 2010)

Cinque mesi prima di essere ammazzato, Pier Paolo Pasolini scriveva questa lettera a un ipotetico ragazzo di 15 anni chiamato Gennariello: «I tuoi coetanei, in questo momento della tua vita, sono i tuoi più importanti educatori. Essi esautorano ai tuoi occhi sia la famiglia che la scuola. Riducono a ombre boccheggianti padri e maestri. E non hanno affatto bisogno di un grande sforzo per ottenere questo risultato. Anzi, non ne sono nemmeno coscienti. Essi hanno in mano un'arma potentissima: l'intimidazione e il ricatto. Cosa, questa, antica come il mondo. Il conformismo degli adulti è tra i ragazzi già maturo, feroce, completo. Essi sanno raffinatamente come far soffrire i loro coetanei: e lo fanno molto meglio degli adulti perché la loro volontà di far soffrire è gratuita: è una violenza allo stato puro. La loro pressione pedagogica su te non conosce né persuasione, né comprensione, né alcuna forma di pietà, o di umanità» (Lettere luterane, 15 giugno 1975).

Questa faccenda noi non l'abbiamo ancora capita. Nonostante ci riempiamo la bocca di parole come "bullismo", che nel 1975 non avevamo mai sentito nemmeno nominare, nonostante abbiano tentato di spiegarcela anche personaggi come Musil, come Sartre... noi dormiamo, o pensiamo al Lupo Cattivo, e non sospettiamo nemmeno lontanamente la violenza distruttiva, umiliante, indenunciabile che i ragazzi infliggono ai ragazzi. Magari per un paio di scarpe "sbagliate", ma che diventano il segno, fisico, scavato nella carne e nel cuore, di un'esclusione che appare – ed è, in quel momento e forse per sempre – universale, totale, senza rimedio; un dolore, un buco, una ferita che a volte non si rimargina più.

Trentacinque anni dopo se mi chiedo – per uno di quegli esercizi che appartengono solo alla straziante inesorabilità del lutto e al tentativo maldestro di colmare un vuoto incolmabile – se mi chiedo: ma allora chi era Pier Paolo Pasolini? Un poeta? Un profeta? Uno scrittore? Un polemista? Un giornalista? Un viaggiatore? Un regista? Un cattocomunista? Mi viene da rispondere: un maestro. Era un maestro. Ma con la "m" minuscola, non un Maestro. E mi invento un'altra storia, questa volta a lieto fine. Lui, oggi, a 88 anni, il maestro Pasolini, famoso e celebrato in tutto il Paese per una sola cosa, 10 righe, ma memorabili, la "lettera a Gennariello".

Un fiero maestro di campagna, e non di una campagna purchessia ma una precisa, quella tra Casarsa Sacile Valvasone... Una campagna da cui non fosse stato costretto a fuggire, di notte, a causa di "una storia sbagliata" che lo avrebbe portato a un'altra storia e a un'altra notte, altrettanto e ancor più "sbagliata", laggiù, all'Idroscalo di Ostia.

«Una spiaggia ai piedi del letto /stazione Termini ai piedi del cuore / una notte un po' concitata /una notte sbagliata. / Notte diversa per gente normale / notte comune per gente speciale. / È una storia vestita di nero / è una storia da basso impero / è una storia mica male insabbiata /è una storia sbagliata». (Fabrizio De Andrè In morte di Pier Paolo Pasolini).

   
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