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Autore Discussione: CHRIS PATTEN Un messaggio a tutto l'Occidente  (Letto 2014 volte)
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« inserito:: Febbraio 21, 2011, 10:39:33 am »

21/2/2011

Un messaggio a tutto l'Occidente

CHRIS PATTEN*

Chi abbia letto Palazzo Yacoubian, un romanzo del 2002 dell’egiziano Alaa Al-Aswani, guarderà alla rivoluzione in Egitto come a qualcosa da lungo tempo atteso. I lettori del romanzo non saranno stupiti dalla facilità con cui il relitto in disfacimento del regime di Hosni Mubarak sì è schiantato contro gli scogli, né dallo spirito e dal coraggio di quelli che hanno progettato questo straordinario pezzo di storia.

Innanzitutto è un libro molto divertente e perspicace sui personaggi che abitano un elegante condominio del Cairo (che esiste davvero) e che si accampano in tuguri sul tetto. Come il fatiscente hotel Majestic nel romanzo «Troubles» di JG Farrell, che racconta la fine del dominio britannico in Irlanda del Sud, il condominio era una metafora dello stato, e i suoi abitanti rappresentano i diversi aspetti dell’Egitto di Mubarak. Suppongo che i censori non abbiano mai un grande senso dell’umorismo, e che l’ironia e la parodia di solito siano oltre la loro comprensione intellettuale. Ma ho trovato curioso che Palazzo Yacoubian non sia stato vietato in Egitto - o in altri Paesi arabi - e che successivamente sia diventato anche un film popolare e diffusissimo.

Al-Aswani ha detto ai suoi lettori in modo molto chiaro che cosa c’era di sbagliato nell’Egitto moderno, pur dimostrando che, nonostante la corruzione e la polizia di sicurezza, i cairoti sono pieni di carattere e di «savoir faire» molto cittadino.

Così, ora che lo Stato Yacoubian è crollato, la domanda più interessante non è «Perché è accaduto?», Ma «Perché non è successo prima?». Per anni, noi in Occidente - vergogna - abbiamo parlato di democrazia diffusa in tutto il mondo, ma, nonostante un occasionale, delicato schiaffo sul polso dei despoti arabi, abbiamo accettato che ci fosse un’eccezione araba al desiderio di libertà e responsabilità. Abbiamo avallato comodi stereotipi culturali per sostenere quello che credevamo fosse un espediente per il perseguimento del nostro interesse nazionale. Mentre la ricerca del Pew Center suggeriva che le aspirazioni delle famiglie in Medio Oriente erano simili alle altre, molti di noi si affidavano alla comoda illusione che le società a maggioranza musulmana non riuscissero a governare e non volessero la democrazia. Nessuno ha visitato la Turchia o l’Indonesia?

Questa presa di posizione ha convenientemente evitato dissidi con i dittatori del petrolio. Inoltre, sempre che non fossero politicamente troppo fastidiosi su Israele, potevano guadagnarsi un posto ben pagato al nostro tavolo. Non dovevano amare Israele, bastava che non fossero troppo duri sul pregiudizio americano pro-Israele e sul suo rifiuto di accettare che insistere sul diritto inalienabile di Israele a esistere non è lo stesso che permette ad Israele di fare quello che vuole. Molti tra gli stessi arabi sapevano cosa c’era di sbagliato nella loro regione. Già a inizio 2000, il programma di sviluppo dell’Onu aveva pubblicato due rapporti di funzionari e docenti universitari arabi che esaminavano i fattori alla base della stagnazione economica del Medio Oriente. In troppi Paesi, avevano detto, le donne erano emarginate (anche se, ad essere onesti, non in Tunisia), l’istruzione era dominata dalla religione, e il governo era autocratico, inaffidabile e corrotto. Nonostante tutto il petrolio e il gas sotto la sabbia del deserto, la crescita tardava e la disoccupazione era alle stelle. Giovani uomini e donne in tutta la regione restavano delusi nelle loro speranze e talvolta si rivolgevano all’Islam militante come unica alternativa a uno Stato repressivo. Cosa accadrà ora? Beh, forse per cominciare, quelli di noi che vivono in Stati democratici opporranno resistenza a futuri suggerimenti su questo o quel Paese immune al fascino della libertà, dello Stato di diritto, e del governo rappresentativo. Se non c’è un’«eccezione araba» non c’è nemmeno un’«eccezione cinese». Più nell’immediato, noi in Occidente dovremmo evitare la presunzione di essere stati in qualche modo gli eroici progenitori dietro le quinte dei cambiamenti fondamentali in Tunisia e in Egitto. Invece di parlare di un grande gioco della democrazia - per il quale ci guadagneremmo il giustificato disprezzo degli arabi - dobbiamo offrire con umiltà e generosità assistenza pratica nella gestione della transizione verso società più aperte.

L’Unione europea, per esempio, è stata assai parca nell’assistenza allo sviluppo dello Stato di diritto, della buona politica e delle istituzioni rappresentative del mondo arabo, nonostante la collaborazione in campo economico e politico con i suoi governi. Per i Paesi che vogliono questo tipo di assistenza, c’è un bel po’ di soldi nelle tasche dell’Unione europea destinato a questo.

Dobbiamo anche capire che il clima è cambiato per quanto riguarda il «non-processo» che ha così miseramente fallito l’obiettivo della pace in Medio Oriente. Il fallimento di Israele in questi ultimi anni nel negoziare seriamente e responsabilmente con i palestinesi significa che dovranno ora essere prese in considerazione le opzioni diplomatiche nello scenario di un mondo arabo in cui i governi saranno costretti ad ascoltare con più attenzione le opinioni dei loro cittadini sulla Palestina. Il comandante americano in Afghanistan, generale David Petraeus, e altri hanno richiamato l’attenzione sull’impatto dannoso della parzialità filo-israeliana americana sui suoi interessi in alcune delle regioni geopoliticamente più sensibili del mondo. Forse ora avranno l’attenzione che meritano.

Se il 2010 si è concluso nel segno dello scoramento, il nuovo decennio è iniziato con un glorioso esempio dell’instancabile coraggio dello spirito umano. Quello che ci aspetta non sarà facile. Ma sarà migliore e più promettente? Ci potete scommettere.

*Ultimo governatore britannico di Hong Kong ed ex commissario europeo per gli Affari Esteri, è Rettore dell'Università di Oxford.

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