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Autore Discussione: SILVIA RONCHEY. Vecchioni, un televoto per l'Italia  (Letto 2161 volte)
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« inserito:: Febbraio 21, 2011, 10:37:34 am »

21/2/2011

Vecchioni, un televoto per l'Italia

SILVIA RONCHEY

Quando nel 1970, all’indomani dell’autunno caldo, a meno di due primavere dal maggio ‘68, un cantautore triste e intellettuale, Sergio Endrigo, arrivò in finale a Sanremo con una trascinante ballata dal testo apparentemente ingenuo, in realtà leggibile come un preciso messaggio rivolto alle masse degli spettatori, l’austera intellettualità torinese seguì la serata finale del Festival con corrucciata, concentrata attenzione. «Partirà, la nave partirà». Se quella canzone avesse vinto avrebbe fatto la differenza. Analisti dell’una o dell’altra parte politica consideravano già all’epoca il palcoscenico di Sanremo una sorta di palcoscenico ombra della politica. Se quelle parole avessero trionfato, conquistato il pubblico, si fossero sparse di bocca in bocca, sarebbe stato, pensavano, più che un indicatore: un segnale.

Endrigo non vinse il Festival, ma la nave partì lo stesso. Dove sarebbe arrivata, questo allora non lo si sapeva. Si inaugurava un decennio, quello degli Anni Settanta, che all’epoca nessuno poteva prevedere dove sarebbe approdato. Almeno nel grande pubblico, che acclamò quel refrain come un inno al rinnovamento, se non — ritenevano alcuni — alla rivoluzione.

Quando sabato notte, tra mezzanotte e l’una, il televoto degli utenti televisivi italiani ha decretato vincitrice, sullo stesso palcoscenico, a distanza di quattro decenni, la ballata incalzante e malinconica di un altro cantautore, Roberto Vecchioni, è stato impossibile, per molti, non fare un parallelo. Il testo era ancora più esplicito di quello del 1970. Si parlava di operai senza lavoro, di soldati ventenni catapultati nei deserti dalle nuove tempeste belliche del terzo millennio. Di studenti sospinti in piazza col sogno di difendere libri e pensieri. Di donne alla cui collettiva saggezza è affidato il futuro. Di una memoria civile gettata al vento. Di un’umanità da difendere. Di idee che non bisogna lasciar spegnere. Di una maledetta notte che deve pur finire.

A cantare era un professore di liceo. Un professore di greco e latino dallo sguardo diretto e insieme pacato dietro gli esili occhiali da lettore di libri. Capace di portare con dignità la giacca, ma anche di togliersela, all’esibizione finale, per cantare nella sua camicia scura, ormai in tutto il mondo divisa dell’intellettuale, con decoro ma anche con passione, con una severità illuminata a tratti da sorrisi che davano al suo volto malinconico di sessantenne ben vissuto qualcosa di trionfalmente infantile, una sintesi di vecchiaia e gioventù, uno scintillio di disincantata e però inesauribile, contagiosa speranza.

Una figura ben diversa da quelle che siamo abituati a vedere sulla scena televisiva, ormai apertamente diventata, nel giro di quarant’anni, il palcoscenico per eccellenza. Una figura che, però, è riuscita a tenere sveglia, tra mezzanotte e l’una di un sabato, alla fine di una settimana di lavoro, l’attenzione e la voglia di votare di dodici milioni di italiani.

Dall’antica Grecia a oggi, un voto è un voto, e qualunque sia la sede in cui lo si emette significa qualcosa. Dall’antica Roma a oggi, un volto è un volto. Se quello della classe politica allevata negli Anni Settanta è ormai il volto bendato e smangiato di un lebbroso, forse oggi, dopo il crollo delle ideologie, dopo il naufragio degli estremismi, quello cui gli italiani sono tentati di dare fiducia è il volto dimesso e pacato di un esponente della classe media intellettuale ancora capace di ricordare che esistono i libri e la cultura. La faccia di un professore di greco e di latino, prestata al frastornante palcoscenico su cui sono puntati gli sguardi di milioni di persone migliori di tutti i loro governanti, di destra o di sinistra che siano.

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