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Autore Discussione: Claudio FAVA.  (Letto 11437 volte)
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« inserito:: Settembre 03, 2007, 02:34:59 pm »

La vera emergenza

Claudio Fava


Ci voleva il presidente dell’Associazione degli Industriali siciliani per farci capire che, nel Paese reale, l’emergenza mafiosa non sono i lavavetri ma i mafiosi: con un gesto senza precedenti Ivan Lo Bello ha comunicato che caccerà dalla sua associazione gli imprenditori che pagano il pizzo a Cosa Nostra. Sono bastate due righe d’agenzia per ribaltare il suggerimento di consociativismo mafioso che l’ex ministro dei Trasporti Lunardi propose qualche anno fa ai siciliani spiegando che alla mafia non c’è rimedio, e che dunque conviene abituarsi a conviverci. Un rimedio dunque c’è: basta non pagare. Ci perdonerà l’assessore Cioni di Firenze, ma ci sembra lontanissima, parole da un altro pianeta, anche la sua fiera intervista di qualche giorno fa.

Quella con cui annunciava la crociata contro gli stracci e i secchi dei maghrebini agli incroci della città. Se parliamo di sicurezza (e di rischi: quelli veri), il Paese reale oggi non sono i semafori di Firenze ma la periferia di Catania. Al signor Vecchio, presidente dei costruttori edili, hanno fatto quattro attentati in otto giorni: bombe, incendi, saracinesche divelte... L’ultimo, due giorni fa, dopo che era già stata disposta dal prefetto la protezione ventiquattrore su ventiquattro nei suoi confronti: una tanica piena di benzina lasciata davanti al deposito di un suo cantiere. Come dire: lo Stato può pure tentare di proteggervi con scorte e vigilanza, ma se noi mafiosi vogliamo farvi saltare in aria l’azienda, non ci ferma nessuno. Dal canto suo, il signor Vecchio ha fatto sapere, per la quarta volta (con una lettera aperta che l’Unità ha pubblicato ieri in prima pagina), che alle cosche lui non pagherà un centesimo.

In altri tempi, tempi non troppo remoti, a un imprenditore così tenace nel rivendicare la propria dignità di cittadino e di uomo, avrebbe fatto subito eco il saggio ammonimento degli altri imprenditori: non fare l’eroe, paga, campa tranquillo, pensa ai figli,che tanto per recuperare i piccioli ti basta evadere un poco di tasse... Andò più o meno così sedici anni fa con l’imprenditore Libero Grassi a Palermo. Grassi non pagò, andò il televisione e davanti a qualche milione di italiani spiegò che se si fosse piegato a quel miserabile ricatto mafioso non avrebbe più avuto la forza di guardare in faccia i figli. Due giorni dopo il presidente della sua associazione di categoria gli fece sapere, a mezzo stampa, che era un fesso, che a Palermo pagavano tutti e che quel baccano non serviva nemmeno al buon nome della Sicilia. Per Grassi fu una condanna a morte: isolato, umiliato, a completare il lavoro ci pensarono un paio di ragazzotti assoldati dalla cosca che pretendeva il pizzo. Lo ammazzarono sotto casa scaricandogli una pistola in testa, così gli altri avrebbero imparato da che parte stare.

Non tutti hanno imparato, non tutti si sono rassegnati. Il presidente degli industriali siciliani, che non fa solo accademia ma rischia anche le proprie aziende e la propria pelle, è uno che non s’è rassegnato. E che ha deciso di portare solidarietà al signor Vecchio senza chiacchiere ma nell'unico modo possibile: mandando a dire ai mafiosi che in Sicilia, tra quelli che non pagheranno più il pizzo, non ci sarà solo il costruttore catanese.

Certo adesso arriveranno i primi pelosissimi distinguo. Qualche commerciante si agiterà dicendo che lui il pizzo non sa cosa sia. Qualche collega di Lo Bello argomenterà che sì, certo, adesso denunciamo, però lo Stato, signori miei, dov’è lo Stato? che fanno a Roma? e cosa c’entriamo noi poveri cristi siciliani? Qualche gioielliere palermitano continuerà a pensare quello che ha sempre pensato: lui non paga il pizzo, al massimo fa un regalo, ecco, un regalino ogni tanto a certi amici, che così non gli fanno più rapine, risparmia sulla vigilanza e tiene la saracinesca alzata fino alle dieci di sera. E a Firenze qualcuno continuerà a lustrarsi con lo sguardo con gli strofinacci sequestrati durante la giornata ai lavavetri. Come se fossero kalashnikov e non scopette.

Pubblicato il: 02.09.07
Modificato il: 02.09.07 alle ore 13.01   
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« Ultima modifica: Ottobre 31, 2008, 11:29:31 pm da Admin » Registrato
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« Risposta #1 inserito:: Maggio 12, 2008, 11:50:26 pm »

Claudio Fava: «Ora proviamo a rifondare la sinistra. Democratica»

Eduardo Di Blasi


«C’è bisogno di maggiore partecipazione e soprattutto di contaminarsi. Noi non possiamo essere la mozione dei Ds che ha scelto di andare altrove. Fino ad oggi siamo stati questo: una mozione congressuale che con grande senso della coerenza ha tenuto ferma la propria posizione, e di questo va dato atto a Fabio Mussi. Però noi non possiamo essere più i “reduci” della mozione». Nell’indicare l’orizzonte nel quale si muove la Sinistra Democratica, il nuovo coordinatore Claudio Fava usa spesso la parola «apertura», ma parte dall’analisi della sconfitta elettorale, che, se «solo in parte» imputa «alle menzogne degli altri, al voto utile», ritiene da attribuire fondamentalmente alla «mancata verità nella Sinistra Arcobaleno quando diceva: “Siamo un nuovo soggetto politico alla prima prova elettorale”. Eravamo soltanto un cartello elettorale. Nel momento in cui insieme ci presentavamo sul palco di un congresso tenendoci per mano come boy scout, alcuni dei soggetti fondatori di Sa nelle piazze organizzavano il tesseramento per i loro partiti».

Che fare adesso?
«È un errore da non ripetere quello di ritenere che a sinistra si debba stare tutti insieme, a prescindere dalle vocazioni, dalle volontà, dalle categorie interpretative che si mettono in campo. Abbiamo condiviso questo percorso elettorale parlando allo stesso Paese ma con linguaggi diversi. C’era chi riteneva che il malessere, il disagio, la povertà diffusa potesse essere interpretata con il concetto di classe e di lotta di classe, senza rendersi conto che ormai la povertà sociale e la precarietà economica è una categoria profondamente interclassista che affligge il ricercatore universitario, l’operaio, il pensionato, l’operatore del call center. E quindi pieno rispetto per chi ritiene di dover rispondere a questo voto con la Costituente comunista. Noi scegliamo un’altra strada, che è quella di considerare una Costituente di sinistra un modo intanto per ripensare profondamente al modo d’essere, di parlare e di agire di questa sinistra».

Quando parla di Costituente di sinistra guarda a quello che sta succedendo dentro il Prc...
«Certamente. Ma tutto questo vorremmo farlo senza aspettare i congressi degli altri, e quindi senza dover dipendere dalla legittima discussione che si svolge a casa degli altri. Vogliamo rivolgerci a una parte di società che probabilmente nulla ha a che fare con Sd o con Prc, e che in questi anni si è mostrata e ha chiesto un nuovo senso politico. Penso alla provocazione salutare di Nanni Moretti a Piazza Navona, ai tre milioni che si ritrovano a Roma per tutelare l’articolo 18, agli autoconvocati di piazza San Giovanni, fino ai centomila di Bari, della grande manifestazione di Libera per riprenderci la lotta alla mafia come lotta civile di tutto il Paese. Insomma, esiste un Paese che non so se oggi partecipa, è schierato, milita nel nostro movimento, nel Prc, nei Verdi o altrove, ma che vuole essere rappresentato e che ha difficoltà ad accettare l’autosufficienza del Pd».

Come vi muoverete rispetto al Pd?
«Dobbiamo lavorare per un nuovo centrosinistra che nulla abbia a che fare con l’esperienza dell’Unione, che è stata pessima per la sua stagione di governo ma anche per la molteplicità di voci, di storie, anche di interessi che rappresentava . Noi pensiamo che il centrosinistra sia un luogo di politica coerente, ma dentro questo crediamo che ciascuno debba fare la propria parte con autonomia. Allo stesso tempo deve esserci una convinzione di fondo, e cioè che nessuno è autosufficiente. Che non è autosufficiente il Pd e non è autosufficiente nemmeno questa sinistra di nuovo conio. Questa autosufficienza sta nel senso e nella qualità di una collaborazione nel rispetto delle reciproche autonomie».

Per lei la fase è ancora fluida...
«Noi pensiamo di lavorare per un centrosinistra che possa incontrarsi nel merito delle scelte politiche. Tutto questo va fatto non attraverso processi di annessione ma nell’autonomia delle nostre posizioni e in un convincimento comune che soltanto un centrosinistra rinnovato può offrire una stagione di governo a questo Paese».

Pubblicato il: 12.05.08
Modificato il: 12.05.08 alle ore 9.33   
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« Risposta #2 inserito:: Settembre 02, 2008, 09:51:38 pm »

La vera emergenza


Claudio Fava


C’è solo un modo per rendere onore ai due poveri operai stritolati da un convoglio ferroviario ieri in Sicilia: trovare il coraggio per dire che la vera emergenza, l’ignobile, drammatica, irrisolta emergenza in questo Paese sono i morti sul lavori. Non le zingarelle, non i barboni che occupano abusivamente le panchine dei nostri parchi, non i lavavetri che sciupano la nostra attesa ai semafori ma le donne e gli uomini d’ogni razza e paese che in Italia crepano sul luogo di lavoro. Un morto al giorno dall’inizio dell’anno, dice il Censis: il doppio degli omicidi commessi nel Paese. Come intende farsi carico, di questi ammazzati, lo Stato? Un bel funerale, un’inchiesta rigorosa, un sussidio alle vedove e agli orfani?

C’è un tempo per il cordoglio e un tempo per fare. Cioè per produrre fatti. Definendo e applicando tutti gli strumenti normativi e amministrativi che in parte già esistono e che servono a prevenire, a impedire, a scongiurare, a punire.

A meno che non ci si convinca, come qualche esegeta del governo Berlusconi suggeriva nei giorni scorsi, che i millecentosettanta poveracci crepati l’anno scorso cadendo dalle impalcature dei cantieri, affogati negli invasi d’acqua in campagna, stritolati dall’acciaio di un macchinario impazzito fossero tutto sommato un numero sostenibile, un prezzo dignitoso da pagare alla crescita del paese per poi non pensarci più. Mi ricordano un vescovo siciliano che anni fa spiegò ai suoi parrocchiani di non perderci il sonno sui morti di mafia, che tanto ne ammazza più l’aborto che Cosa Nostra...

Pubblicato il: 02.09.08
Modificato il: 02.09.08 alle ore 8.25   
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« Risposta #3 inserito:: Settembre 20, 2008, 11:59:51 pm »

Fava: «Al via la Costituente, parleremo alla sinistra senza rappresentanza»

Maria Zegarelli


Tutti intorno a un tavolo, politici, sindacalisti, intellettuali, per fondare la Costituente di sinistra, primo passo per avviare un processo unitario a sinistra. Oggi alla Casa delle donne di Roma riparte il progetto a cui guarda Sinistra democratica, la minoranza di Rifondazione di Vendola e Giordano, i Verdi di Cento, la minoranza per Pdci di Katia Belillo. Ci saranno Alberto Asor Rosa, Moni Ovadia, Ascanio Celestino, Pietro Folena, Fabio Mussi, Aurelio Mancuso dell’Arcigay, il segretario della Fiom Rinaldini, Paolo Hutter, Aldo Tortorella, Mario Tronti, Flavio Lotti. Claudio Fava, coordinatore di Sd, di una cosa è convinto: «È il momento». L’interlocutore privilegiato è il Pd, non certo l’Udc.

Fava, il progetto è ambizioso, ma partite con pezzi di Sd, Rc, Verdi. Non è un po’ poco?
«È un progetto diverso da quello immaginato prima delle elezioni. Non vogliamo più costruire l’unità della sinistra perché la campagna elettorale e gli esiti dei congressi mostrano che ci sono due opzioni inconciliabili: l’opzione di chi lavora per l’unità dei comunisti con un ritorno fortemente identitario alle ragioni e ai simboli della tradizione del secolo scorso e l’opzione di chi vuole una nuova sinistra che vuol rinnovare se stessa, aggiornare il proprio sguardo nei confronti di un paese profondamente cambiato, che si pone l’obiettivo di una profonda riforma delle pratiche politiche. Dobbiamo porci il problema della trasformazione del paese e dunque anche di una cultura di governo nelle forme e nelle circostanze in cui tutto questo è possibile. C’è invece chi ritiene che la funzione della sinistra sia quella di presidiare uno spazio minoritario».

Quale è l’obiettivo che vi ponete?
«Recuperare in parte i semi positivi dell’Ulivo e seppellire per sempre lo spirito malato dell’Unione è uno degli obiettivi che un processo di aggregazione politica a sinistra deve porsi».

Quali sono gli interlocutori politici a cui guarda la Costituente?
«Intanto ci sono alcuni protagonisti naturali, coloro che hanno costruito in questi anni una esperienza di militanza civile e politica a sinistra, un tessuto connettivo di associazioni e di esperienze fuori dai partiti come i movimenti pacifisti, il movimento antimafia. Penso anche alle grandi battaglie di un’associazione come Libera, a tutti coloro cioè, che hanno mirato a trasformare la coscienza civile del Paese. Poi, ci sono Sd e una parte significativa di compagni di Rc e del Pdci che non hanno condiviso le conclusioni di quel processo, i Verdi e la cultura ambientalista che ormai è orizzontale e tutta la sinistra non connotata nella militanza politica».

Agli appuntamenti elettorali come pensate di arrivare?
«Preferisco pensare alle elezioni come la conseguenza di un processo. Il centrosinistra in sé non è un valore, lo è in quanto frutto di un processo politico. Per noi l’interlocutore naturale della sinistra è il Pd, quello innaturale, impossibile, è l’Udc non per pregiudizio ma per merito politico. Sarebbe lo stesso errore che ha portato a tenere fino all’ultimo nel centrosinistra Mastella e Dini. Al tempo stesso noi troviamo che questo processo di coalizione debba essere davvero arricchito di politica rimettendo anche in discussione esperienze fallimentari come l’Abruzzo, la Calabria e la Campania. Dove non abbiamo saputo, come centrosinistra, riaffermare l’autonomia della politica».

Pubblicato il: 20.09.08
Modificato il: 20.09.08 alle ore 8.18   
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« Risposta #4 inserito:: Settembre 22, 2008, 10:24:31 pm »

di Claudio Fava


L’àncora è stata levata, il viaggio è cominciato
 

Cari compagni,
da ieri la Costituente di Sinistra ha un suo primo mattone, un inizio, un punto di partenza: non è ancora un soggetto politico, ma non è più una lontana profezia. Quando nascerà, quel soggetto politico dovrà nutrirsi del contributo e della passione di tanti: ma se qualcuno non si fosse assunto la responsabilità di levare l’ancora, rsaremmo rimasti inchiodati nel punto in cui gli elettori ci hanno confinati il 14 aprile: a contemplare i nostri lividi, a vagheggiare l’unità di tutta la sinistra, ad aspettare l’epifania.

E’ cosa nota che questa responsabilità  ce la siamo assunta noi di Sinistra Democratica: accelerando, animando la discussione, a volte forzzando, costruendo comunque tappe di buona volontà. Adesso però si naviga insieme.

Insieme a chi? Qualcuno insiste: insieme a tutta la sinistra. Per me va bene: per altri meno. Ferrero e Diliberto hanno concluso i loro congressi decidendo che non parteciperanno ad alcuna Costituente di sinistra e che il loro orizzonte strategico è l’unità dei comunisti. Insomma, non ci stanno. Che facciamo: aspettiamo i loro ripensamenti? Riassembliamo sinistra arcobaleno a prescindere? Continuiamo a ritenere che l’unità sia più importante della verità? Lo scorso primo maggio il partito dei comunisti italiani, segretario in testa, ha sfilato per le vie di Torino intonando l’inno russo, e cantandolo in russo: cosa ci unisce a loro? Quale idea di paese condividiamo con quei compagni? Se qualcuno vuole portare la salma di Lenin in Italia, affar suo: ma ci sarà consentito dire che questo paese ha bisogno di un’altra sinistra?  Che servono meno maestri d’ortodossia e più compagni di strada?

Ci sono centinaia di migliaia di donne e uomini che sentono di essere ancora comunisti e che vogliono declinare questa loro identità non per custodire un museo di sacri paramenti ma per impegnarsi a fare, a trasformare il paese, a ripensare pratiche e linguaggi della politica. Senza fare finta che il voto di aprile sia stato solo un incidente di percorso. La Costituente di sinistra alla quale stiamo lavorando si rivolge a loro e ai tanti che vengono da altre culture, da altre storie o semplicemente dalla loro storia personale ma che sono pronti a mettersi in discussione per un progetto più ampio, più responsabile, meno “identitario”. Ci fa paura questo viaggio, compagni? Ci fa paura misurarci con chi non viene dai nostri recinti? Preferiremmo un bel rogito notarile tra segretari come si fece un anno fa?

Diciamoci la verità: alla riunione di sabato scorso i contributi più intensi e più positivi verso la Costituente sono arrivati da chi non ha mai avuto (o non ha più) una tessera di partito in tasca: Moni Ovaia, Ascanio Celestini, Alberto Asor Rosa, Flavio Lotti, Diego Novelli, Mario Tronti… Le loro parole (“facciamo bene, facciamo presto..”) ci raccontano il paese reale, quel paese che esiste oltre le nostre finestre sbarrate, che chiede di noi e che s’è stufato d’attendere le nostre liturgie, i nostri seminari, le nostre immense prudenze. Quel paese vuol sapere se ci siamo ancora, se siamo in condizioni di raccogliere la sfida per una nuova sinistra e per un nuovo centrosinistra.

Per un nuovo centro sinistra: proprio così. O preferiamo restare per sempre custodi dell’opposizione lasciando che questo paese si sbricioli nelle mani della destra? Vogliamo limitarci a testimoniare il nostro sdegno, la nostra purezza, la nostra “indisponibilità”? Non so voi: io no. Vengo da una terra in cui se avessimo risposto soltanto con l’indignazione all’aggressione dei poteri mafiosi saremmo stati fatti a pezzi. A me interessa battermi per liberare questo paese dall’egemonia della destra, per restituirgli coscienza di sé, dei suoi diritti e dei suoi doveri, per rimettere in piedi un alfabeto di beni comuni, di valori, di parole perdute. Se non lo facciamo noi, se non diventa il punto d’onore di un progetto della nostra Costituente, di che sinistra stiamo parlando? Una sinistra che non si ponga il problema di riguadagnare l’egemonia perduta, di trasformare il paese, di rappresentarlo sarebbe un circolo di lettura. Afflitto perchè Lenin è sepolto a Mosca e non qui, ma incapace di assumere su di sé l’urgenza della sfida politica.

E la sfida della politica pretende capacità di confrontarsi. Anche con il PD. Senza fraintendimenti né ammiccamenti. Il PD si è arenato su una deriva politica moderata e reticente, noi ci stiamo impegnando a ricostruire una sinistra autonoma, responsabile, popolare. Il PD s’accontenta di dialogare con Berlusconi, noi siamo convinti che non vi sia spazio per alcun dialogo con questa destra ma solo per un rigoroso confronto parlamentare nelle forme e nei luoghi istituzionali. Differenze profonde, di cultura e di pratica politica, che non ci sottraggono però dalla responsabilità di provare a ricostruire, se ne saremo capaci, un centrosinistra che recuperi almeno in parte lo spirito positivo del primo Ulivo. Sbagliamo? Dovremmo dire al PD ciascuno per la propria strada, felici di riproporre una separazione consensuale? Continuare a regalare, saecula saecolorum, il paese a questa destra? Non fingiamo di non capirci: confronto è solo confronto, punto! L’11 ottobre noi saremo in piazza per rilanciare l’opposizione: e il PD non ci sarà. Il 25 ottobre Veltroni costruirà il suo PD pride: e noi non ci saremo. Ma questo non ci sottrae dal dovere di capire cosa fare, insieme, per questo paese.

Insieme a tutti coloro che non dovranno chieder permesso a chiese e vescovi. Abbiamo chiesto anche ai radicali di contribuire con il loro patrimonio di battaglie civili; lo abbiamo chiesto anche ai socialisti, convinti che esiste un comune spazio a sinistra più fertile d’una mera somma di identità. Insomma, stiamo provando a mettere insieme un campo di forze e di idealità che non parla solo ai partiti ma che non intende prescindere da loro; che propone alla sinistra civile di assumersi responsabilità e sovranità; che chiede alle donne e agli uomini di cultura di spendere per una volta questa loro cultura non nel chiuso d’un seminario ma dentro la carne viva di un processo politico che sta nascendo adesso.

Non è facile.

Molte diffidenze, molte prudenze, molti bizantinismi.

La vecchia politica spesso è dentro di noi. Ma quell’àncora l’abbiamo tirata su: non sappiamo se sarà america o nuove indie, ma indietro non si torna.


da sinistra-democratica.it
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« Risposta #5 inserito:: Settembre 23, 2008, 10:32:53 am »

23/9/2008
 
Il territorio come partito
 
 
GIUSEPPE BERTA
 
All’apparire delle prime formazioni leghiste, oltre vent’anni fa, nessuno avrebbe scommesso sul fatto che la rappresentanza di un territorio in quanto tale fosse destinata a emergere come una tendenza politica caratterizzante. La Liga Veneta e la Lega Nord furono giudicate come fenomeni di protesta contro le insufficienze, le inerzie e l’inefficacia dei governi e dei partiti nazionali, troppo lontani dalle richieste di aree toccate da vistosi processi di cambiamento economico e sociale. Eppure, a lungo i grandi partiti italiani avevano mostrato di sapersi radicare in alcuni territori a tal punto da identificarsi nei loro assetti di società locale: era avvenuto per la Dc in Veneto e per il Pci in Emilia, esempi da manuale di un intreccio fra capacità di mediazione e rappresentanza locale. Ma il «modello» veneto e quello emiliano erano stati accolti all’interno di formazioni dotate di una potente vocazione nazionale. Al contrario, l’ascesa della Lega ha mobilitato le ragioni del territorio contro la politica romana, ha contrapposto sistematicamente le une all’altra, ha elevato l’identità locale a valore e simbolo assoluti.

Il particolarismo leghista, in origine, cozzava frontalmente contro le pretese di universalismo dei grandi partiti. Attaccava la mediazione democristiana, ma anche la rappresentanza comunista di vasti aggregati sociali. Non a caso, in certi momenti il leghismo sembrò coagulare il sistema politico nel suo insieme contro uno sfidante che metteva in questione le sue prerogative.

Vent’anni dopo, invece, si direbbe che la Lega sia riuscita a permeare dei suoi moventi la politica. Ha dato cittadinanza al federalismo, nel centrodestra (che promette di attuarlo, pur dilazionandone l’attuazione) come nel centrosinistra, che ha accettato di misurarsi sul terreno un tempo ostico del federalismo fiscale. Soprattutto ha imposto la questione della rappresentanza del territorio. Anche con effetti laceranti: pensiamo a quanto è avvenuto nel campo del centrosinistra, dilaniato da lotte intestine che hanno imperversato per tutta l’estate 2008. Considerate pressoché indecifrabili dai più, rivelano tuttavia in controluce una tensione permanente fra il manipolo degli amministratori locali più in vista e un apparato di partito assai riottoso a riconoscere la loro leadership e la loro supremazia politica.

È sintomatico che le aperture maggiori verso i temi del federalismo siano venute dagli amministratori, che domandano mezzi maggiori per il loro territorio e rivendicano come un loro merito specifico la capacità di ottenere il consenso di un elettorato più vasto e articolato di quello orientato in senso stabile per il centrosinistra. Proprio qui sta l’aspetto cruciale: gli amministratori che affermano il loro primato rispetto alle segreterie e ai gruppi dirigenti locali del Pd sono convinti che a loro tocchi il ruolo politico preminente. Mentre coloro che li contrastano tendono a insistere sulle forme consolidate della rappresentanza, stemperando la dimensione del territorio.

Questi temi non sono certo appannaggio del centrosinistra. Anche nel centrodestra c’è chi vorrebbe una politica che abbia nel territorio il referente dominante e magari esclusivo. Il presidente della Regione Veneto, Galan, ha scritto addirittura un libro per sostenere che il suo partito dovrebbe mutare la denominazione da Forza Italia in Forza Veneto. Insomma, in entrambi gli schieramenti politici esiste chi vorrebbe una politica modellata integralmente sul territorio, nella convinzione che quello costituisca oggi il discrimine fondamentale piuttosto dell’appartenenza a un gruppo sociale o all’altro.

Il dilemma pesa naturalmente di più a sinistra, dove non si dispone di una cultura e di un armamentario a cui attingere per far fronte alla crescente richiesta di rappresentanza territoriale. Lo si scorge nell’imbarazzo dei laburisti davanti al nazionalismo scozzese (proprio quando al governo vi è lo scozzese Gordon Brown) e, in generale, nell’incertezza dinanzi alle sempre più numerose e robuste manifestazioni di autonomia locale. Nell’Europa di oggi, che è anche un’Europa dei borgomastri, le forze del centrosinistra sono scese al minimo storico.

Ecco perché esse non possono più rinviare il confronto sul tipo di rappresentanza che intendono perseguire.

 
da lastampa.it
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« Risposta #6 inserito:: Settembre 28, 2008, 12:15:30 pm »

Fava a Castel Volturno
 
CAMORRA

ON. CLAUDIO FAVA Coordinatore Nazionale Sinistra Democratica

A CASTELVOLTURNO


Il coordinatore nazionale di Sinistra Democratica, on. Claudio Fava ha avuto questa mattina una serie di incontri a Castelvolturno (Caserta), teatro la settimana scorsa della strage di camorra.

L'on. Fava, accompagnato dal capogruppo SD alla Regione Campania Tonino Scala e da Arturo Scotto della segreteria nazionale SD, ha incontrato il sindaco di Castelvolturno, Francesco Nuzzo e - presso il Centro Fernandes della Caritas - i responsabili del centro e rappresentanti  degli immigrati.

"Non è guerra civile, è peggio: da Castelvolturno la camorra ci manda a dire che non esistono - afferma l'on, Fava - altre autorità e altra legge che non sia la sua.

A questa sfida occorre rispondere senza reticenze e senza debolezza.

Chiedendo intanto, con forza, che i parlamentari indicati nelle indagini in corso come legati alla camorra facciano subito un passo indietro. La permanenza dell'on. Costantino nelle file del governo del Paese, toglie all'esecutivo ogni credibilità nella lotta alla criminalità organizzata e rischia di rendere l'invio dei militari in Campania un'operazione di pura facciata."

Prosegue il leader SD: "Al sindaco di Castelvolturno ho garantito il concreto sostegno politico ed istituzionale di Sinistra Democratica, dei suoi europarlamentari e dei nostri rappresentanti istituzionali campani - nelle settimane che verranno,e quando i fari dei media di attenueranno -  nel continuare la lotta e l'iniziativa contro la camorra e il degrado.

Al direttore del centro Caritas, che dà speranza ed ospitalità  a centinaia di extracomunitari- conclude l'europarlamentare del PSE - abbiamo offerto piena disponibilità a stabilire insieme tutti i percorsi di inserimento sociale, per dare a quei migranti opportunità concreta di lavoro e futuro"


Roma, 27 settembre 2008

da sinistra-democratica.it
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« Risposta #7 inserito:: Ottobre 05, 2008, 04:50:59 pm »

La solitudine di un siciliano scomodo

Claudio Fava


Non c’è niente di peggio che provare a catalogare anche la morte, come ormai accade con le nostre vite, dentro la sua opportuna casella di significato.
Non c'è niente di peggio che costruire facili didascalie tra il tempo in cui abbiamo vissuto e l'istante in cui ce ne siamo andati: soprattutto se quella morte ce la siamo andata a cercare noi, con un ultimo atto di consapevole volontà. Adolfo Parmaliana, compagno e militante siciliano, la sua morte l'ha trovata in fondo a un viadotto, dopo un salto di 35 metri. Ha scelto di andarsene così, quasi cinquantenne, senza dare troppe spiegazioni.

Ma lasciando i segni di una vita e di una militanza vissute con incredibile intensità.

Vivere intensamente, nella Sicilia malata di questo tempo, vuol dire assumersi il peso d’una terra che ha smarrito se stessa, la propria corda civile, il senso elementare delle regole. Quel peso, Parmaliana se l’era preso facendo politica nel suo paese, nel suo vecchio partito, tra la sua gente. E provando con disperata perseveranza a indicare i luoghi e i momenti in cui la politica si faceva affare, miseria, clientela: anche nel suo partito. Per questo non stava simpatico. Anzi, diciamolo pure: un uomo come Adolfo era destinato alla solitudine e al fastidio di tanti. Me lo ricordo, in certe feste dell’Unità, con la sua cartellina di cuoio sotto il braccio e un repertorio lucidissimo di cose non digerite, non accettate, che aveva bisogno di raccontare, di condividere, di spiegare agli altri. Mi ricordo le sue telefonate, le sue lettere dentro le quali leggevi anche la fatica di chi temeva di parlare solo per sé. Adolfo aveva onestamente paura di questo: che nella sua terra, nel suo partito non ci fosse più spazio per le cose che custodiva dentro la quella vecchia borsa di cuoio.

Ora, io non so perchè Adolfo si sia ucciso. E non mi interessa, con le liturgie consolatorie del giorno dopo, annoverare anche lui tra le vittime di Cosa Nostra. Non è questo il punto. Il punto sono le parole che per anni Adolfo ha offerto agli altri e se l’è viste rotolare tra i piedi. Il punto è l’abitudine dei siciliani a ingoiare tutto, a digerire tutto e a considerare, alla fine della giostra, uno come Parmaliana un irriducibile rompicoglioni. Non so se Adolfo se ne sia reso conto e abbia deciso di farla finita per questo.

So che faremmo bene a ricordarlo non come un morto di mafia ma come un vivo che si batté contro i nostri sguardi d’abitudine, contro le nostre agende troppo cariche d’appuntamenti per potergli dare ascolto, contro i tempi di una politica che è solo ribalta, applauso, finzione: mai verità. Anche di questo è morto Adolfo Parmaliana.

Pubblicato il: 05.10.08
Modificato il: 05.10.08 alle ore 8.36   
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« Risposta #8 inserito:: Ottobre 31, 2008, 11:30:00 pm »

Claudio FAVA


Per la legge elettorale Pd decisivo



Dunque, sei mesi fa è andata più o meno così: elezioni regionali in Sicilia, le forze politiche della sinistra s'impegnano tutte su un'unica lista per sostenere, assieme al PD, la candidata presidente Anna Finocchiaro. E' andata come sappiamo: una mezza tragedia. Ciò che forse s'ignora è che quella lista di sinistra si è fermata al 4,99%. E siccome in Sicilia lo sbarramento è al 5 per cento, per duemila voti Rita Borsellino, nostra capolista, non è stata eletta. E con lei sono rimasti fuori almeno altri quattro parlamentari della sinistra. Ripeto: per duemila voti in una regione di sei milioni di cristiani.

Cos'è stato, un trionfo della democrazia? Una cosa buona e giusta? Ne ha tratto giovamento la politica siciliana? Aver tenuto fuori la Borsellino e dentro qualche inquisito in più del centrodestra servirà a restituire trasparenza, rigore e decenza all'assemblea regionale più inquisita nella storia repubblicana? Ovviamente no. Solo che questa domanda non va fatta a quelli della Casa della libertà: se non è presente la sinistra nel parlamentino di Palermo, per il governo regionale vorrà dire qualche margine di impunità in più, qualche pratica clientelare in più per il governatore Lombardo. Non possiamo aspettarci che siano lui e i suoi soci a strapparsi le vesti per quel furto di democrazia.

La domanda va rivolta al Pd. Dobbiamo sfrondare questo malinconico dibattito sulla legge elettorale per le elezioni europee da una punta di reticenza o, se preferite, di ipocrisia: pensiamo davvero che il governo Berlusconi, capace di furti ben più gravi alla democrazia del paese, si impietosisca e decida che il 5% e il blocco delle preferenze sono solo sciacallaggio politico? Berlusconi se ne fregherà delle nostre suppliche, dei nostri sit in, della nostra civilissima e sacrosanta denuncia fino a quando questo punto non diventerà «il» punto politico sul quale la maggioranza è messa a nudo. E questo passa attraverso il Pd, attraverso la sua disponibilità a non limitarsi, sulla riforma elettorale, a un'opposizione a colpi di fioretto.


da sinistra-democratica.it
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« Risposta #9 inserito:: Novembre 09, 2008, 04:49:26 pm »

Fava

Riscostruire la sinistra ma non con un nuovo listone arcobaleno


Firenze, 8 nov - 'Noi vogliamo ricostruire un'idea di sinistra di cui questo Paese ha estremo bisogno ma non vogliamo ricostruire un altro listone arcobaleno: una lista che metta insieme tutte le parti e i soggetti politici per le europee e' una cosa che non ci interessa'.
Lo ha detto Claudio Fava, segretario di Sinistra democratica, parlando con i giornalisti a Firenze a margine della prima assemblea nazionale degli amministratori locali di Sd.

'Noi - aggiunge Fava - crediamo che la sinistra si debba assumere la responsabilita' di guardare in faccia la sconfitta di aprile. Se a quella sconfitta rispondiamo ricostruendo una lista che sia una somma di sigle e di gruppi dirigenti, Sd dice no. E poi - precisa - dobbiamo porci anche con responsabilita' il tema del governo di questo Paese'.

Per quanto riguarda i rapporti con Rifondazione, Fava si limita a sottolineare che 'ieri il segretario Ferrero, persona a cui va il mio rispetto, ha ritenuto di ricordare l'attualita' della rivoluzione di ottobre nel terzo millennio'. Piena disponibilita', poi, a un eventuale rapporto con il Pd, ma senza confluire nei democratici. 'Al Pd - ricorda Fava - abbiamo sempre detto che noi siamo pronti a ragionare con loro in condizioni di assoluta autonomia. Se ci sono le possibilita' si lavorera' insieme al Pd, con delle condizioni precise come quella che la coalizione non si allarghi al centro verso l'Udc, perche' si rimetterebbe insieme uno scipito minestrone di poche idee e molta confusione'.

Comunque, conclude il segretario di Sd, ricostruire il centrosinisitra sottintende in primo luogo il fatto che 'si superi l'onanismo che fa parte della tradizione politica italiana'

da sinistra-democratica.it
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« Risposta #10 inserito:: Dicembre 03, 2008, 12:01:07 pm »

La solitudine di un siciliano scomodo

Claudio Fava


Non c’è niente di peggio che provare a catalogare anche la morte, come ormai accade con le nostre vite, dentro la sua opportuna casella di significato.
Non c'è niente di peggio che costruire facili didascalie tra il tempo in cui abbiamo vissuto e l'istante in cui ce ne siamo andati: soprattutto se quella morte ce la siamo andata a cercare noi, con un ultimo atto di consapevole volontà. Adolfo Parmaliana, compagno e militante siciliano, la sua morte l'ha trovata in fondo a un viadotto, dopo un salto di 35 metri. Ha scelto di andarsene così, quasi cinquantenne, senza dare troppe spiegazioni.

Ma lasciando i segni di una vita e di una militanza vissute con incredibile intensità.

Vivere intensamente, nella Sicilia malata di questo tempo, vuol dire assumersi il peso d’una terra che ha smarrito se stessa, la propria corda civile, il senso elementare delle regole. Quel peso, Parmaliana se l’era preso facendo politica nel suo paese, nel suo vecchio partito, tra la sua gente. E provando con disperata perseveranza a indicare i luoghi e i momenti in cui la politica si faceva affare, miseria, clientela: anche nel suo partito. Per questo non stava simpatico. Anzi, diciamolo pure: un uomo come Adolfo era destinato alla solitudine e al fastidio di tanti. Me lo ricordo, in certe feste dell’Unità, con la sua cartellina di cuoio sotto il braccio e un repertorio lucidissimo di cose non digerite, non accettate, che aveva bisogno di raccontare, di condividere, di spiegare agli altri. Mi ricordo le sue telefonate, le sue lettere dentro le quali leggevi anche la fatica di chi temeva di parlare solo per sé. Adolfo aveva onestamente paura di questo: che nella sua terra, nel suo partito non ci fosse più spazio per le cose che custodiva dentro la quella vecchia borsa di cuoio.

Ora, io non so perchè Adolfo si sia ucciso. E non mi interessa, con le liturgie consolatorie del giorno dopo, annoverare anche lui tra le vittime di Cosa Nostra. Non è questo il punto. Il punto sono le parole che per anni Adolfo ha offerto agli altri e se l’è viste rotolare tra i piedi. Il punto è l’abitudine dei siciliani a ingoiare tutto, a digerire tutto e a considerare, alla fine della giostra, uno come Parmaliana un irriducibile rompicoglioni. Non so se Adolfo se ne sia reso conto e abbia deciso di farla finita per questo.

So che faremmo bene a ricordarlo non come un morto di mafia ma come un vivo che si batté contro i nostri sguardi d’abitudine, contro le nostre agende troppo cariche d’appuntamenti per potergli dare ascolto, contro i tempi di una politica che è solo ribalta, applauso, finzione: mai verità. Anche di questo è morto Adolfo Parmaliana.

Pubblicato il: 05.10.08
Modificato il: 05.10.08 alle ore 8.36   
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« Risposta #11 inserito:: Gennaio 31, 2009, 11:51:41 am »

Fava: «Nel baratto Pd-Pdl sulla legge elettorale c’è la lotta alla mafia»

di Simone Collini


«Persino la lotta alla mafia diventa uno dei prezzi da pagare in questo baratto per la nuova legge delle europee». Il segretario di Sinistra democratica Claudio Fava ci va giù pesante col Pd.
Stiamo al merito: c’è un accordo Pd-Pdl per introdurre la soglia di sbarramento nel voto europeo.
«Io non mi indigno per lo sbarramento del 4%, ma per i tempi di questa operazione e per il prezzo politico che è stato pagato. In nessun paese europeo si fa una legge elettorale quattro mesi prima del voto, per di più in modo fortemente punitivo nei confronti delle minoranze».

Lei parla di punizione, il Pd di spinta all’aggregazione.
«È una spinta a boicottare la presenza della sinistra nel Parlamento europeo. Ma la cosa più grave è che questa legge è figlia di un baratto che sta devastando le istituzioni democratiche. La prova certificata è il voto sulla mozione di sfiducia per il sottosegretario Cosentino, quando cento parlamentari del Pd non hanno votato o si sono astenuti o hanno votato contro. E così si scopre che persino la lotta alla mafia diventa uno dei prezzi da pagare».

Non ha prove di questo.
«Spero che sia così perché se dovesse trattarsi di una distrazione o di un inciucio d’aula sarebbe persino più grave. Se avessero votato tutti i parlamentari presenti del Pd Cosentino, che è accusato da cinque collaboratori di giustizia di essere il portavoce dei casalesi nella politica, non sarebbe più sottosegretario».

Non si può essere garantisti a corrente alternata, non crede?
«Non si aspetta che ci sia una sentenza passata in giudicato perché il rappresentante presunto della camorra nel governo venga cacciato. Questa è complicità, non garantismo».

Torniamo al voto di giugno: secondo lei cosa dovrebbe fare la sinistra?
«Di fronte allo scippo di democrazia dovremo chiedere al paese di riaffermare il primato delle regole e della rappresentatività. Ma al tempo stesso vogliamo un progetto politico al quale ancorare questa proposta».

Vendola propone un cartello che vada dai socialisti al Prc: che ne pensa?
«L’importante è che ci sia una proposta politica che contenga il tema della resistenza civile istituzionale ma anche il progetto di una nuova sinistra.
Noi vogliamo cioè fare in modo che la sinistra abbia voce, presenza istituzionale, coerenza politica da spendere nel Parlamento europeo.
Dovremo saper dimostrare di avere ragioni e forze per stare nelle istituzioni».

Sd si alleerà con il Pd alle amministrative?
«Ho difficoltà ad immaginare di fare campagna elettorale per candidati del Pd sapendo che quel partito ha deciso che la sinistra deve essere espulsa dalla politica italiana. O si lavora insieme per la ricostruzione di un centrosinistra oppure il Pd pecca di presunzione e irresponsabilità se pensa di rappresentare da solo il centrosinistra nei parlamenti e di aver bisogno dei nostri voti nelle amministrazioni locali».
scollini@unita.it

30 gennaio 2009
da unita.it
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« Risposta #12 inserito:: Marzo 17, 2009, 04:01:37 pm »

La Sicilia degli anni '90 e le occasioni perse contro la Mafia

di Claudio Fava


Negli anni Novanta la Sicilia non è più un’isola in guerra: è una terra invasa e occupata. L’80 per cento della spesa pubblica è controllato direttamente o indirettamente dalle cosche, la filiera dei subappalti è cosa loro, dai movimenti terra al mercato del calcestruzzo. Al brusco declino dei cavalieri del lavoro è subentrata direttamente Cosa Nostra: sono sue le imprese, create e smontate secondo la necessità, che vanno all’assalto degli appalti pubblici. E in quell’assalto, alla baionetta si preferiscono tecniche raffinate da capitalismo estremo, capaci di sfruttare tutte le pieghe dei bandi, di giocare al ribasso nelle offerte, di distribuire le commesse con la mano esperta di chi smazza le carte al tavolo da poker.

Questo accade nel Paese reale. Ma nei lindi locali del suo giornale, Mario Ciancio vive e governa come se Catania fosse la città del sole e la Sicilia una terra benedetta dagli dei. Sulle colonne del suo quotidiano non si parla mai di amici dei mafiosi, di appalti saccheggiati, elezioni truccate, amministratori corrotti. E quando si è proprio costretti a darne notizia per ragioni giudiziarie, sono sempre le parole degli avvocati difensori a proporre la versione dei fatti, a insinuare i dubbi sull’accusa, a recitare il rosario dell’equivoco. Un vizio antico, la reticenza. Quando ammazzano il generale Dalla Chiesa, i quotidiani di tutto il mondo pubblicano il nome di Nitto Santapaola come colui che probabilmente ha guidato l’assalto mafioso in via Carini. L’unico giornale che buca la notizia, tace sui mandati di cattura e omette il nome di Santapaola è La Sicilia. Che, il giorno dopo, di fronte all’evidenza dei fatti, s’inventerà nel titolo un imbarazzante virtuosismo verbale: «Un noto boss». Tutto, pur di non pronunciare invano il nome di Santapaola. Che in quegli anni verrà evocato solo in poche, commosse occasioni: per esempio, per dare notizia della morte del padre, ricordato in cronaca con parole di sofferto rispetto. Come si usa per gli uomini di Stato e per i padri della patria.

C’è un episodio, all’inizio degli anni Novanta, che dà la cifra esatta del grado di subalternità alla mafia. Alla famiglia degli Ercolano, cognati di Santapaola, erano stati affidati due compiti: ad Aldo quello di ammazzare, eseguendo personalmente gli omicidi oppure distribuendoli alla sua squadretta di sicari; al padre Giuseppe spettava invece il compito di riciclare i denari della Famiglia attraverso imprese di trasporti, supermercati, sale gioco. A volte accadeva che le due attività si sovrapponessero, per esempio quando c’era da scortare il grande capo Nitto Santapaola da un rifugio all’altro durante la sua latitanza. Era Giuseppe Ercolano che s’occupava di procurare un camion su cui il boss potesse viaggiare comodo, mentre il figlio Aldo si premurava di garantire il servizio d’ordine e la disponibilità di una gazzella dei carabinieri per far da battistrada, caso mai s’incappasse in un posto di blocco. È in questo clima senza pudori che il nome di Giuseppe Ercolano viene infilato, quasi per necessità, in un rapporto di polizia. Quel rapporto finisce nelle mani di un giovane cronista, un «biondino», come s’usava dire dei giornalisti precari, apprendisti senza contratto in attesa che in redazione s’aprisse uno spazio anche per loro. Il «biondino» si chiama Concetto Mannisi, dalla cronaca lo spediscono ogni mattina a fare il giro degli ospedali, a raccogliere i mattinali in questura, a mettere in fila le cifre sugli scippi e sui tabaccai rapinati. La sua corvée quel giorno è fortunata: gli capita tra le mani la denuncia all’autorità giudiziaria nei confronti di uno degli Ercolano. E Mannisi ne dà notizia, riportando fedelmente quanto sta scritto nel rapporto dei carabinieri.

Il giorno dopo, appena il «biondino» mette piede nel giornale, il capocronista lo manda a chiamare e se lo trascina dietro nella stanza dell’editore. Ad aspettarlo, assieme a Mario Ciancio, c’è Giuseppe Ercolano. Denunciato ma ancora inspiegabilmente a piede libero. E dunque libero di venire a protestare con il padrone del quotidiano per quell’articolo così poco garbato nei suoi confronti. In qualunque altra redazione, se un mafioso fosse venuto a lamentarsi per una notizia (vera) che lo riguardava, il direttore avrebbe telefonato al 113. Mario Ciancio invece riceve Ercolano nel suo studio, convoca il cronista colpevole d’aver dato la notizia (vera) e, in presenza del capomafia, gli fa un solenne cazziatone: «Che mai più ti accada di chiamare mafioso il qui presente signor Ercolano!» Veramente l’hanno scritto i carabinieri, prova a giustificarsi il cronista. Noi non facciamo i carabinieri, replica Ciancio: e di quello che c’è scritto sul loro rapporto non gliene frega nulla. Ercolano, stravaccato sulla sua poltrona, annuisce con paterno silenzio. Sono i suoi ultimi giorni di gloria: lo arresteranno pochi mesi dopo con l’accusa di associazione mafiosa.

Per i giudici, Ercolano è il reggente della Famiglia, il capo indiscusso della cosca per conto del cognato Santapaola. Per Ciancio è solo un onesto commerciante. In qualunque altra città del regno, appena il racconto di quella ridicola recita avesse varcato la soglia del giornale sarebbero intervenuti l’Associazione della stampa (per dare solidarietà al cronista che ha chiamato mafioso un mafioso), l’Ordine dei giornalisti (per farsi restituire il tesserino di giornalista da Mario Ciancio) e la Procura della Repubblica (per aprire nei suoi confronti un regolare procedimento penale). In qualsiasi altra città. Non a Catania, non nei confronti di Mario Ciancio. Per una ragione piuttosto ovvia: a rappresentare in quei giorni il sindacato dei giornalisti e l’Ordine in Sicilia sono dipendenti di Ciancio. E il procuratore della Repubblica è buon amico dell’editore che ne ha accompagnato con discrezione la carriera. Stupiti? E di cosa? Di una Procura addestrata a far le fusa come un gattino? O di un sindacato dei giornalisti incapace per dodici anni di costituirsi parte civile nel processo contro gli assassini mafiosi di Giuseppe Fava?

Ma poi, davvero crediamo d’aver il diritto di stupirci? Di guardare le cose oscene di questi tempi con l’animo leggero di chi non sa, non capisce, non immagina? L’abbiamo perduta, quella leggerezza, amici miei. Barattata in cambio di sonni tranquilli, di carriere quiete, di provvidenziali amnesie. Tanto per fare un esempio, quanti conservano memoria e sdegno di ciò che sta scritto nella sentenza che ha mandato assolto il senatore a vita Giulio Andreotti dopo averne prescritto i reati?

Un padre della patria indicato come il garante politico, fino al 1980, delle famiglie mafiose di Palermo e graziato per il troppo tempo che è venuto a separare il processo da quei suoi peccati: ce ne sarebbe abbastanza per volerla riscrivere, la storia di questa patria. Non ne ha voglia nessuno. Meglio continuare a sorridere per le garbate apparizioni televisive del senatore, riverirlo – da destra e da sinistra – come s’ha da fare con un vero statista e intanto dimenticare quella sentenza, le storie terribili che racconta: vecchie fuliggini, cose antiche, polvere d’archivio.

17 marzo 2009
da unita.it
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« Risposta #13 inserito:: Marzo 31, 2009, 11:34:45 pm »

5 risposte da

Claudio Fava


Europarlamentare di Sinistra e Libertà

di Federica Fantozzi

Giornalisti «abusivi»
Il direttore di Telejato è rinviato a giudizio perché non ha il tesserino dell’ordine. Eppure rischia la vita con un lavoro difficile e solitario in una regione dove l’80% dell’informazione è subalterna alle regole del silenzio. Ricordo le reazioni di tanti legulei e farisei quando uccisero Rostagno e Impastato: li hanno ammazzati ma non erano giornalisti.

La dittatura della mafia
Apprezzo le parole di Fini. Ma il suo partito, il PdL, in tre giorni non ha mai nominato la mafia. Per dire che c’è un problema di sicurezza che non dipende dagli immigrati ma dalle leggi parallele della criminalità organizzata.

La mano sul fuoco
Rischia di bruciarsela garantendo per 630 deputati. A meno che abbia informazioni che noi ignoriamo per ritenere Cosentino accusato ingiustamente da 5 pentiti.

I disarmati
Chi ha smarrito o mai estratto le armi della parola e della memoria. Giornalisti in cerca di carriera. Politici per farsi sinistra di governo. Lo Stato: perchè la memoria è l’arte dei vivi, non il ricordo dei morti.

Il tunnel
La mafia non uccide più ma c’è ancora. È la prima azienda italiana per fatturato, dipendenti, controllo del territorio.

da unita.it
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« Risposta #14 inserito:: Dicembre 11, 2009, 09:54:44 pm »

Mio padre ammazzato per aver denunciato i cavalieri della mafia

di Claudio Fava


Potremmo metterla così, per semplificarci la vita: «Non è che possiamo fare l’analisi del sangue a tutte le imprese siciliane!». Parole, efficacissime, della buon’anima di Michelangelo Russo, uomo forte dei miglioristi siciliani attorno agli anni Ottanta. Oppure possiamo dirla con Carlo Alberto Dalla Chiesa, agosto 1982: «Senza una nuova mappa del potere mafioso, i cavalieri di Catania non sarebbero mai andati all’assalto degli appalti di Palermo». Parliamo delle stesse imprese, e dello stesso cono d’ombra che da trent’anni a questa parte inghiotte, mescola e confonde mafiosi e finanzieri, appalti e ammazzatine, affari leciti e affari illeciti. GiuseppeFavaebbe il merito di farsela, qualche domanda. Correva l’anno 1982, il mese era dicembre e in edicola era arrivato il primo numero del nostro giornale, I Siciliani, un mensile bello da vedersi e difficile da leggersi. Difficile per certi palati fini che preferivano non sentir nominare mai invano i nomi di certi galantuomini.

Quei nomi, fin dal primo numero, c’erano tutti.Nonagitando manette ma producendo ragionamenti, riacciuffando il filo che il prefetto Dalla Chiesa aveva tenuto in mano fino alla sua morte: chi erano davvero quei quattro imprenditori catanesi, così gagliardi e impuniti da poter confessare di essersi divisi a tavolino tutti gli appalti dell’isola? Cos’era che li legava alle cosche di Cosa Nostra, un semplice patto di sopravvivenza o un reciproco interesse? E quanta parte dell’economia siciliana, quanti pubblici appalti, quanti rivoli di pubblico denaro erano serviti a consolidare le ricchezze e l’impunità dei mafiosi siciliani? Bastò farsi queste domande. Bastò farsele ad alta voce, scegliendo con misura e perizia le parole, decidendodi calar giù queinomiirriferibili, bastò questo per segnare la sorte di Giuseppe Fava, ammazzato dai sicari di Santapaola esattamente unan no dopo, anche per rendere un buon servizio agli amici cavalieri.

Mafia e affari sono parole sdrucciolevoli, infide, taglienti. Vanno accostate e poi spiegate. Senza la mafia, parecchi affari non si sarebbero mai fatti, taluni grandi appalti sarebbero andati in altre mani, taluni imperi finanziari sarebbero crollati al primo stormir di fronde come giganti dai piedi d’argilla. E molti rampanti imprenditori sarebbero rimasti capimastri, geometri, palazzinari di provincia. Viceversa, senza la compiacenza di certi uomini d’affari, i mafiosi sarebbero rimasti «peri incritati», scarpe sporche di fango, comediceva di sé e dei suoi Totò Riina. Senza porte spalancate per far fruttare nelle banche e nei cantieri i loro bottini di guerra. Decifrare il geroglifico di quell’alleanza, negli anni Ottanta voleva dire dare un nome, un volto e una consistenza definitiva a Cosa Nostra. Pochi vollero farlo. Pochi ne sono sopravvissuti. Colpa di quelli come Santapaola? Della bassa macelleria mafiosa? Troppo comodo. In quegli anni mafia e affari non erano un incesto ma un titolo di merito in società. Al matrimonio di un suo nipote, il cavaliere Carmelo Costanzo esibiva tra i propri invitati – politici, finanzieri, amministratori – il boss Nitto Santapaola. Non era una forzatura: era un fatto. Quell’amicizia era il segno di una forza che non temeva giudizi. Era l’impunità. Per tutti: per il politico, per il cavaliere, per il capomafia. Facevano a pugni per farsi ritrarre, nelle foto del matrimonio, accanto al capomafia della città. Criminale, certo, e assassino, corruttore, trafficante: ma non è anche questa una declinazione della parola «potere »?

Quando esce il primo numero de I Siciliani con quel lungo articolo di Giuseppe Fava in apertura, «I cavalieri dell’apocalisse mafiosa», accadono due cose: quell’espressione entra di diritto nel gergo delle cose di mafia, un’ingiuria che s’incollerà sul destino di quei quattro imprenditori per tutta la loro vita. La seconda cosa è che Giuseppe Fava comincia a morire. Per quel titolo, per quello che ci sta sotto, per l’ostinazione di ungiornalismo che non voleva più limitarsi a censire i cadaveri e a raccontare le macerie. Scriveva Fava: «A questo punto della storia avanzano sul palcoscenico i quattro cavalieri di Catania: loro avanti di un passo e dietro una piccola folla di aspiranti cavalieri di ogni provincia del Sud, affabulatori, consiglieri, soci in affari, subappaltatori… Chi sono dunque i quattro cavalieri? Qual è il loro ruolo in questotempo di autentica apocalis se?». La risposta la forniranno, negli anni a venire, mezza dozzina di inchieste giudiziarie. Carmelo Costanzo, ottava impresa italiana nel settore delle costruzioni, quello del banchetto di matrimonio con Nitto Santapaola ospite d’onore, era organicamente affiliato a Cosa Nostra. Gaetano Graci, il più risoluto, potente e rispettato banchiere del sud, ospitava i summit delle cosche catanesi nei suoi uffici di Catania. Mario Rendo appuntava sulla sua agenda il nuovo organigramma della Repubblica: questore: spostare! Prefetto: trasferire! Procuratore: promuovere!

Ecco: la storia del rapporto tra mafia e affari è un lungo censimento di sottovalutazioni, ritardi, opportunismi, silenzi. Anche da sinistra. Mentre qualcuno provava a comprendere e a spiegare cosa stesse accadendo nelle vene aperte della società siciliana, c’era il raffinato pragmatismo di quellicomeMichelangelo Russo, profeta con vent’anni d’anticipo dell’infelice battuta del ministro Lunardi (“I Siciliani con la mafia debbono imparare a conviverci…”). Oggi a capo della confindustria siciliana c’è un signore, Ivan Lo Bello, che ha deciso di buttar fuori dall’associazione gli imprenditori che non denunziano gli estorsori. Un altro mondo, un altro tempo: eppure è la stessa terra. Che ogni tanto, bontà nostra, ritrova la forza per raddrizzare la schiena.

10 dicembre 2009
da unita.it
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