LA-U dell'OLIVO
Novembre 24, 2024, 07:49:40 am *
Benvenuto! Accedi o registrati.

Accesso con nome utente, password e durata della sessione
Notizie:
 
   Home   Guida Ricerca Agenda Accedi Registrati  
Pagine: [1]
  Stampa  
Autore Discussione: RIZZO e STELLA raccontano come e perché l'Italia stia distruggendo la sua ...  (Letto 2989 volte)
Admin
Utente non iscritto
« inserito:: Febbraio 11, 2011, 03:36:53 pm »

Un Paese da salvare: I 45 siti Unesco in Italia

Se l'Italia distrugge la Bellezza

In «Vandali» Rizzo e Stella raccontano come e perché l'Italia stia distruggendo la sua unica ricchezza: l'arte



Non abbiamo il petrolio, noi. Non abbiamo il gas, non abbiamo l'oro, non abbiamo i diamanti, non abbiamo le terre rare, non abbiamo le sconfinate distese di campi di grano del Canada o i pascoli della pampa argentina. Abbiamo una sola, grande, persino immeritata ricchezza: la bellezza dei nostri paesaggi, la bellezza dei nostri siti archeologici, la bellezza dei nostri borghi medievali, la bellezza delle nostre residenze patrizie, la bellezza dei nostri musei, la bellezza delle nostre città d'arte.
E ce ne vantiamo. Ce ne vantiamo sempre. Fino a fare addirittura la parte dei «ganassa» («Abbiamo il 40% dei capolavori planetari!», «No, il 50%!», «No, il 60%!») giocando a chi la spara più grossa. Primato che, per quanto ne sappiamo, spetta all'unica «rossa» che piace al Cavaliere, la ministra del Turismo Michela Vittoria Brambilla. Che nel portale in cinese con il logo «Ministro del Turismo» lancia un messaggio al popolo dell'Impero di mezzo e sostiene non solo che «le grandi marche di moda sono italiane» e «tutti i tifosi del mondo seguono il campionato di serie A italiano» ma anche che l'Italia «possiede il 70% del patrimonio culturale mondiale». Bum! E il Machu Picchu, i templi di Angkor, le piramidi, Santa Sofia e il Topkapi a Istanbul, il Prado, San Pietroburgo, la Torre di Londra, la cittadella di Atene, i castelli della Loira, Granada, la città proibita di Pechino, il Louvre, la thailandese Sukothai, il Taj Mahal, il Cremlino, l'esercito di terracotta di Xi'an, Petra, Sana'a e tutto il resto del pianeta? Si spartiscono gli avanzi.

Un'intervista di Marcello di Falco all'allora ministro del Turismo Egidio Ariosto sul Giornale ci ricorda che nel maggio 1979 l'Italia era «il secondo Paese del mondo per attrezzatura ricettiva, il primo per presenze estere, il primo per incassi turistici, il primo per saldo valutario». Tre decenni più tardi siamo scivolati al quinto posto. E la classifica per la «competitività» turistica, che tiene conto di tante cose che richiamano, scoraggiano o irritano i visitatori (non aiutano ad esempio le notizie su «1 spaghetto aragosta: 366 euro» al ristorante La Scogliera alla Maddalena) ci vede addirittura al ventottesimo posto.

Certo, è verissimo che abbiamo la fortuna di avere ereditato dai nostri nonni più siti Unesco di tutti. Ne abbiamo 45 contro 42 della Spagna, 40 della Cina, 35 della Francia, 33 della Germania, 28 del Regno Unito, 21 degli Stati Uniti. Ma questa è un'aggravante, che inchioda i nostri governanti, del passato e del presente, alle loro responsabilità. Al loro fallimento. Spiega infatti un dossier del dicembre 2010 di Pwc (Pricewaterhouse Coopers, la più grossa società di analisi del mondo per volume d'affari) che lo sfruttamento turistico dei nostri siti Unesco è nettamente inferiore a quello degli altri. Fatta 100 l'Italia, la Cina sta a 270, la Francia a 190, la Germania a 184, il Regno Unito a 180, il Brasile e la Spagna a 130. Umiliante.

E suicida. Non abbiamo molte altre carte da giocare. Ce lo dicono i dati del Fondo monetario internazionale e il confronto con le nuove grandi potenze. Dal 1994 a oggi, in quella che per noi è stata la Seconda Repubblica, mentre il nostro Pil cresceva di 1,9 volte in valuta corrente, inflazione compresa, quello brasiliano si moltiplicava per 3,6 volte, quello indiano per 4,9 volte, quello cinese addirittura di 11,5 volte (...).

Alla fine di gennaio del 2011 Giampaolo Visetti scriveva sulla Repubblica che «sarà il turista cinese ad alimentare la crescita dei viaggi a lungo raggio ed entro il 2015 diventerà il padrone assoluto dei pacchetti organizzati e dello shopping di lusso in Europa. Il rapporto annuale dell'Accademia cinese del turismo prevede che nell'anno in corso trascorreranno le ferie all'estero 57 milioni di cinesi (...) e il Piano turistico nazionale calcola che entro il 2015 si recheranno all'estero tra i 100 e i 130 milioni di persone, arrivando a spendere oltre 110 miliardi di euro» (...).

Peccato che non ci capiscano. L'Italia, agli occhi di Pechino, rappresenta un incomprensibile caso a sé. Dieci anni fa era la meta preferita dei pionieri dei viaggi in Europa. I cinesi amano il mito dello «stile di vita», il clima mediterraneo, la passata potenza imperiale e culturale, la moda e il lusso, la natura, la varietà gastronomica che esalta la qualità dei vini. «Eravate il punto di partenza ideale» dice Zhu Shanzhong, vicecapo dell'Ufficio nazionale del turismo cinese «per un tour europeo. Poi ci avete un pochino trascurati». Al punto che «la promozione turistica dell'Italia in Cina è inferiore a quella dei Paesi Bassi». Una follia.

Ma per capire la fondatezza dell'accusa basta farsi un giro sul portale turistico aperto dal governo italiano in cinese, www.yidalinihao.com. Costato un occhio della testa e messo su con una sciatteria suicida che grida vendetta. Per cominciare, le quattro grandi foto di copertina che riassumono l'Italia mostrano una Ferrari, una moto Ducati, un pezzo di parmigiano e un prosciutto di Parma. In mezzo: Bologna. Con tanto di freccette sulla mappa che ricordano la sua centralità rispetto a Roma, Milano, Venezia e Firenze. Oddio: hanno sbagliato capitale? No, come ha scoperto il Fatto Quotidiano, è solo un copia-incolla dal sito cinese della Regione Emilia-Romagna aimiliyaluomaniehuanyingni.com (...).

Ma ancora più stupefacenti sono i video che illustrano le nostre venti regioni. Dove non solo non c'è un testo in cinese (forse costava troppo: i milioni di euro erano finiti...) ma ogni filmato è accompagnato da un sottofondo musicale. Clicchiamo il Veneto? Ecco il ponte di Rialto, le gondole, il Canal Grande, le maschere, i vetrai di Burano... E la musica? Sarà di Antonio Vivaldi o Baldassarre Galuppi, Tomaso Albinoni o Benedetto Marcello, Pier Francesco Cavalli o Giuseppe Tartini? Sono talmente tanti i grandi compositori veneziani del passato... Macché: la Carmen del francese Georges Bizet rivista dal russo Alfred Schnittke! La musica dell'Umbria? Del polacco Fryderyk Chopin. Quella della Campania? Del norvegese Edvard Grieg. Quella del Lazio? Dell'austriaco Wolfgang Amadeus Mozart. Quella dell'Abruzzo? Dell'inglese Edward Elgar. E via così: tutti ma proprio tutti i video che dovrebbero far conoscere l'Italia ai cinesi, fatta eccezione per quello della Basilicata dove la colonna sonora è del toscano Luigi Boccherini, sono accompagnati dalle note di musicisti stranieri. Amatissimi, ma stranieri (...).

Il guaio è che da molto tempo immaginiamo che tutto ci sia dovuto. Che gli stranieri, per mangiar bene, bere bene, dormire bene, fare dei bei bagni e vedere delle belle città, non abbiano altra scelta che venire qui, da noi. Che cortesemente acconsentiamo a intascare i loro soldi, quanti più è possibile, concedendo loro qualche spizzico del dolce vivere italiano. Peggio: siamo convinti che questi nostri tesori siano lì, in cassaforte. Destinati a risplendere per l'eternità senza avere alcun bisogno di protezione. Di cura. Di amore. Non è così (...).

Spiega uno studio dell'Associazione europea cementieri che l'Austria nel 2004 ha prodotto 4 milioni di tonnellate di cemento, il Benelux 11, la Gran Bretagna 12, la Francia 21 e mezzo, la Germania 33 e mezzo, la Scandinavia meno di 36 e noi 46,05, battuti di un soffio solo dalla Spagna. Solo che la Spagna ha 90,6 abitanti per chilometro quadrato, noi 199,3: più del doppio. Insomma, di territorio ne abbiamo già consumato troppo (...).

Pochi mesi prima di morire, rispondendo a un lettore che gli chiedeva aiuto per salvare la riviera ligure, Indro Montanelli maledì sul Corriere questo nostro Paese che tanto aveva amato. E scrisse che le ruspe sono sempre in agguato per «dare sfogo all'unica vera vocazione di questo nostro popolo di cialtroni che non vedono di là dal proprio naso: l'autodistruzione» (...).

Diamo qualche flash sullo spreco. Le gallerie della Tate Britain hanno «fatturato» nell'ultimo anno fiscale 76,2 milioni di euro, poco meno degli 82 milioni entrati nelle casse con i biglietti di tutti i musei e i siti archeologici statali italiani messi insieme. Il merchandising ha reso nel 2009 al Metropolitan Museum quasi 43 milioni di euro, ben oltre gli incassi analoghi di tutti i musei e i siti archeologici della penisola, fermi a 39,7. Ristorante, parcheggio e auditorium dello stesso museo newyorkese hanno prodotto ricavi per 19,7 milioni di euro, tre in più di tutte le entrate di Pompei, il nostro gioiello archeologico. Dove i «servizi aggiuntivi» sono stati pari a 46 centesimi per visitatore: un ottavo che agli Uffizi, un quindicesimo che alla Tate, un ventisettesimo che al Metropolitan, un quarantesimo che al MoMa, il Museum of Modern Art. Un disastro. Per non dire di come custodiamo le nostre ricchezze (...).

Dice l'Ufficio delle Nazioni unite per il controllo della droga e la prevenzione del crimine di Vienna che quello delle opere d'arte trafugate è il terzo business mondiale del crimine dopo i traffici di droga e di armi. Eppure tra i 69.000 detenuti nelle carceri italiane all'inizio del 2011 neanche uno era in cella per avere scavato una tomba etrusca, rubato un quadro o trattato la vendita di un vaso antico a un ricettatore straniero. Se sei ricercato per «tentato furto di una mucca», come capitò all'albanese Florian Placu, puoi restare sei mesi a San Vittore. Se cerchi di vendere all'estero la statua di Caligola non vai in carcere. Se poi trovi certi giudici, puoi perfino tenerti la merce.

È successo ad Angelo Silvestri, un sub laziale denunciato per essersi «impossessato di beni culturali appartenenti allo Stato». Aveva trovato, guardandosi bene dall'avvertire la soprintendenza, 28 pezzi tra i quali varie anfore antiche e un set di preziosissimi strumenti chirurgici romani con tanto di astuccio, perfettamente integri. Il pubblico ministero chiese una condanna ridicola: sei mesi e 2500 euro di multa. «Esagerato!», pensò il giudice di Latina Luigi Carta. E il 3 maggio 2004 assolse l'imputato perché «di anfore, piatti di terracotta, crateri e vasi, manufatti di vario genere, sono pieni i nostri mari» (...).

C'è poi da stupirsi se i musei stranieri, davanti alla nostra richiesta che venga restituito questo o quel pezzo ricettato, che magari loro con amore custodiscono e con amore offrono in visione a milioni di visitatori, fanno resistenza pensando che quel pezzo finirà anonimamente nel mucchio delle tante ricchezze abbandonate in qualche museo di periferia?

Sergio Rizzo e Gian Antonio Stella

11 febbraio 2011© RIPRODUZIONE RISERVATA
da - corriere.it/cronache/11_febbraio_11
« Ultima modifica: Febbraio 12, 2011, 10:17:49 am da Admin » Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #1 inserito:: Febbraio 12, 2011, 10:18:42 am »

Il saccheggio impunito dei predatori dell'arte

«Vandali»: come il nostro Paese sta sperperando la sua ricchezza

   
Il traffico dei tesori artistici rubati, il degrado dei musei, il cemento abusivo che deturpa il paesaggio: è lo scempio che l’Italia sta facendo di se stessa raccontato in «Vandali», il libro-denuncia di Sergio Rizzo e Gian Antonio Stella. Un abbandono culturale, spiegano i due inviati del «Corriere della Sera», che penalizza pesantemente il turismo, altra risorsa che dovrebbe essere strategica per il nostro Paese. «Vandali», edito da Rizzoli, è in libreria al prezzo di 18 euro. Pubblichiamo qui alcuni stralci tratti dell’ottavo capitolo


Ma ce la meritiamo, la Venere di Morgantina? Ti torce le budella questo dubbio, leggendo ciò che diceva a metà novembre del 2010 l'assessore siciliano ai Beni culturali, Sebastiano Missineo, entusiasta per il ritorno dalla California della preziosissima statua: «Stiamo valutando se allestire una sala provvisoria...».

Che storia è questa? Quattro anni dopo l'annuncio che sarebbe tornata? Cinque dopo le manifestazioni di piazza per accelerare il rientro? Dieci dopo l'avvio ufficiale da parte del governo della procedura di restituzione? Dodici dopo l'indagine giudiziaria su una guerra mafiosa intorno al traffico dei reperti antichi che aveva visto anche l'assassinio di qualche «archeologo» clandestino? Ventidue dopo l'apertura di un'inchiesta sull'itinerario seguito dal capolavoro, trovato dai tombaroli nel 1977 in contrada San Francesco e finito al J. Paul Getty Museum di Malibu, e le prime richieste di riconsegna?

Eppure è così. C'è da vergognarsi a dirlo, ma è così. Un mese prima che la grande galleria
La Venere di Morgantina: dopo 10 anni di contenzioso con il Getty Museum di Malibù è tornata in Italia, che non ha ancora deciso dove sistemarla
d'arte californiana, sconfitta in tribunale e nella trattativa diplomatica, esponesse per l'ultima volta quella meravigliosa scultura comperata a un'asta nel 1988 per 18 milioni di dollari e da allora cuore ammiratissimo del museo visitato ogni anno da un milione e mezzo di persone, il Comune di Aidone nel cui territorio sono i ruderi di Morgantina, la Provincia di Enna e la Regione Sicilia non avevano ancora deciso dove mettere quel tesoro in arrivo dall'America.

Sulle prime pareva che dovesse andare, su consiglio anche di Vittorio Sgarbi, alto commissario della Villa Romana a Piazza Armerina («Sennò è meglio lasciarla in America»), nella chiesa sconsacrata di San Domenico ad Aidone. La Regione aveva anzi ottenuto dallo Stato per restaurarla un milione e mezzo di euro ricavati dal Lotto, ma ritarda oggi, ritarda domani, i soldi sono stati accreditati dallo Stato sul conto palermitano solo ai primi di novembre del 2010, due mesi prima del rientro. (...)
Sia chiaro: fin da quando la magistratura ha accertato che la statua in marmo (testa, braccia e mani) e in pietra calcarea (il resto del corpo) era stata trovata a Morgantina, nessuno ha messo mai in discussione i diritti di Aidone. Dove dal primo istante reclamano a gran voce la scultura: «È nostra! È nostra!». (...) Mettetevi al posto degli abitanti isolati da secoli in questo borgo fuori dal mondo: come è possibile non sognare, davanti all'arrivo dall'America («La Merica! La Merica!») di un capolavoro che a Los Angeles richiamava un milione e mezzo di visitatori l'anno? «I turisti! Arriveranno i turisti! A frotte! Con le tasche gonfie di soldi!».

Al di là dei principi, però, c'è modo e modo. E viene un groppo alla gola a scoprire (...) «come» il paese, arroccato sui monti Erei, 5.176 abitanti, zero librerie, zero cinema, zero teatri, zero Internet point, si prepara ad accogliere quell'opera meravigliosa alta due metri e venti centimetri, scolpita a quanto pare da un allievo di Fidia, che in origine era probabilmente policroma e rappresentava non tanto Venere (quello è solo il nome che le è stato appiccicato) quanto Demetra o Persefone. I turisti! I turisti! Mettetevi ora nei panni di un turista che cerca Aidone su Google maps: un albergo, quattro bed&breakfast, tre trattorie, una pizzeria, 98 chilometri dall'aeroporto di Catania, 195 da quello di Palermo senza un solo autobus diretto, nessuna informazione (tranne venti righe copia-incolla sulla statua prese da Wikipedia) sul sito comunale.

E meno male che gli americani hanno detto che no, loro non avevano alcuna intenzione di spaccare la statua in tre parti per il trasporto, così come era stata rotta da quei bastardi dei tombaroli, riportarla in nave in Italia, rimontarla per una mostra a Palermo (che sarebbe piaciuta tanto alla Regione), smontarla di nuovo, rimontarla per un'altra mostra a Enna (che sarebbe piaciuta tanto alla Provincia), per arrivare infine ad Aidone dopo un viaggio da incubo. (...) C'era il rischio che la dea si svegliasse come nel film "Il bacio di Venere" con Ava Gardner e che soavemente dicesse: «Scusate, ma con tutti questi casini, perché non avete lasciato che mi adorassero a Malibu?». (...)

Luigi Palma di Cesnola, un piemontese di Rivarolo che dopo avere combattuto per l'Unità d'Italia se n'era andato negli Stati Uniti dove era diventato comandante di vari reggimenti di cavalleria nella Guerra di secessione americana, non si poneva proprio il problema. Premiato da Abramo Lincoln con l'incarico di console a Cipro, tornò a New York con un carico di 275 casse, ognuna lunga nove piedi cioè quasi tre metri, piene di ogni ben di Dio: statue, statuette, vasi, bracciali, braccialetti d'oro massiccio, orecchini, anelli, spille, amuleti, spilloni, collane. (...)

Era il 1873 ed erano davvero altri tempi. Che l'ufficiale sabaudo-americano avesse approfittato degli anni ciprioti per saccheggiare tutto quello che aveva potuto saccheggiare sembrava, allora, del tutto normale. Fatto sta che ancora oggi sono tanti gli italiani che, in un contesto totalmente cambiato e con motivazioni assai più affaristiche di Palma di Cesnola, continuano a fornire «pezzi» artistici o archeologici a tutti i musei del pianeta. (...)
«La Razzia è immensa» scrive nel suo libro «I predatori dell'arte perduta» Fabio Isman. «Nel luglio 2000, un'indagine della Camera dei Comuni di Londra valuta che il traffico illecito di antichità e cultura superi i 6 miliardi di dollari all'anno. Per buona parte, oggetti italiani. E la Razzia coinvolge vari importanti, e spesso anche insospettabili, musei al mondo. Il Metropolitan di New York, che per primo ha restituito reperti trafugati al nostro Paese; e il californiano J. Paul Getty, pure autore di numerose restituzioni...» (...) In Giappone, senza scandalo, esiste un museo, il Miho, fondato dalla soave signora Mihoko Koyama con un investimento di 750 milioni di dollari, dove tutti ma proprio tutti i reperti antichi italiani sono ricettati da trafficanti di arte senza scrupoli.
Trafficanti ai quali ricorrono ancora, senza alcun problema di coscienza, molte altre gallerie sparse per il mondo. Le quali, visto che anche il pezzo più prezioso non varrebbe nulla senza le necessarie garanzie d'autenticità (dov'è stato trovato esattamente, a che profondità, cosa c'è intorno, cosa c'era sopra...), hanno potuto spesso contare sulla premurosa e interessata «collaborazione» di importanti storici e critici d'arte. (...)

Gli stessi tombaroli del resto, racconta Isman, si sono attrezzati. Vale per tutti la storia delle tre intere pareti di affreschi pompeiani staccati da chissà quale villa forse dalle parti di Boscoreale, vicino a Pompei, e trovati nel 1995 nel deposito ginevrino di Giacomo Medici, un trafficante d'arte italiano. C'erano le foto, quella volta. Scattate dai criminali nel ventre stesso della Domus. (...)
Cosa dovrebbe fare un Paese sottoposto a un tale saccheggio come il nostro? Ovvio: dovrebbe avere regole feroci contro predatori, trafficanti, ricettatori. È in gioco la nostra memoria, la nostra faccia, la nostra storia. Il nostro turismo. Eppure, non una sola sentenza di condanna, in questi anni, è mai arrivata fino alla conferma in Cassazione senza essere svuotata prima da un'amnistia, un condono, una prescrizione. Neppure una. (...)

Se possibile, poi, la situazione è peggiorata dopo l'approvazione, nel 2004, del codice dei Beni culturali che porta il nome dell'allora ministro Giuliano Urbani. Da allora, nemmeno in flagranza di reato i tombaroli rischiano l'arresto. La pena massima prevista è tre anni, e per quella c'è la denuncia a piede libero. Le manette possono scattare solo per danneggiamento, ma anche questa possibilità è spesso legata alla sensibilità del magistrato. E poi, vallo a dimostrare che i danni sono stati procurati dallo scavo clandestino. Esattamente come nel caso della Venere di Morgantina tagliata in tre pezzi perché era più facile da far sparire e portare al di là dei confini. Così fanno i tombaroli: amputano le statue, spaccano i sarcofagi, tagliano e sezionano i quadri per venderli a tranche, come accadde qualche anno fa a un dipinto di Lorenzo Lotto, i cui frammenti sono stati poi recuperati dalla Finanza. Solo facendoli a pezzi, in molti casi, i reperti archeologici si possono trasportare, nascondere, commerciare. In più, una volta venduto un frammento, il frammento successivo può essere proposto a un prezzo ancora maggiore allo stesso acquirente, invogliato a entrare in possesso dell'opera completa.
È successo a un meraviglioso monumento funerario decorato con bassorilievi che rappresentano scene di combattimenti fra gladiatori scoperto casualmente sbancando un terreno nel 2007 nella zona del sito di Lucus Feroniae, vicino a Fiano Romano: per farlo sparire lo ridussero e lo sotterrarono in 12 pezzi, troppo tardi trovati dalla Finanza. È successo al fantastico tetto in terracotta del tempio arcaico di Caprifico, fatto edificare intorno al 520 a.C. da Tarquinio il Superbo nel territorio di Cisterna di Latina. Ridotta in centinaia di pezzi venduti separatamente, l'opera è stata sparpagliata in mezzo mondo: 80 frammenti all'Ashmolean Museum di Oxford, 137 all'Antikenmuseum Basel und Sammlung Ludwig di Basilea, 20 al Metropolitan di New York, 20 al British Museum di Londra, 20 al Fogg Museum del Massachusetts...

Sergio Rizzo e Gian Antonio Stella

12 febbraio 2011© RIPRODUZIONE RISERVATA
da - corriere.it/cronache/speciali/2011/vandali
Registrato
Pagine: [1]
  Stampa  
 
Vai a:  

Powered by MySQL Powered by PHP Powered by SMF 1.1.21 | SMF © 2015, Simple Machines XHTML 1.0 valido! CSS valido!