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Autore Discussione: Roger Abravanel - La svolta tedesca che manca  (Letto 2086 volte)
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« inserito:: Gennaio 13, 2011, 06:31:53 pm »

La svolta tedesca che manca


Tutti sembrano d'accordo sul rimedio allo stallo della nostra economia: copiare il modello tedesco, basato sull'export industriale e su investimenti pubblici in ricerca e sviluppo. Ma questo modello è oggi replicabile dalle imprese italiane? Sembra difficile per tre ragioni. La prima è che le nostre aziende sono dieci anni indietro nel recuperare produttività rispetto alle tedesche. Queste hanno reso più flessibile il loro mercato del lavoro e hanno sfruttato la delocalizzazione per negoziare con successo un ripensamento totale delle relazioni industriali: se i sindacati non accettavano le loro condizioni, chiudevano le fabbriche in Germania investendo di più all'estero. La battaglia solitaria del «tedesco» Marchionne e il disallineamento con quella parte della Confindustria che continua a privilegiare la contrattazione nazionale sono un esempio del nostro ritardo. La seconda ragione è che le imprese industriali italiane sono ancora in larga parte troppo piccole per investire in tecnologia, delocalizzare con successo e crescere sul mercato asiatico, come hanno fatto quelle tedesche negli ultimi anni. La terza ragione infine è che le aziende invece di essere aiutate a crescere in dimensione, sono incentivate a restare minuscole da regole come l'articolo 18; vale a dire quella norma che impedisce licenziamenti alle imprese con più di 15 dipendenti.

Servono per questo due riforme chiave. La prima è quella del mercato del lavoro per eliminare l'attuale garanzia incondizionata del posto a tempo indeterminato che disincentiva le assunzioni, promuove il precariato e non consente alle aziende industriali di seguire i cicli del mercato e della concorrenza, assieme a tutte le rigidità sugli orari che limitano la competitività delle imprese. La seconda riforma è la lotta all'evasione fiscale che diventa essenziale non solo per ragioni morali e di equità, ma per consentire di ridurre il carico delle imposte sul lavoro alle società che rispettano le regole, finanziare la creazione di un sussidio nazionale di disoccupazione e, soprattutto, rendere la concorrenza più leale e favorire la crescita delle imprese efficienti.

Ma per ripartire, dobbiamo aspettare che si moltiplichino i Marchionne o i decenni necessari perché in Italia nascano e crescano medie e grandi imprese industriali come quelle tedesche?
Assolutamente no, perché le due riforme chiave permetterebbero di aumentare rapidamente la produttività della economia italiana di servizi (turismo, commercio, professioni, difesa dell’ambiente), una vera «arma segreta» dove si possono peraltro creare rapidamente nuovi posti di lavoro per assorbire e abbondantemente quelli persi nell’inevitabile delocalizzazione industriale che ci troveremo ad affrontare. Nel mondo sviluppato i servizi rappresentano già l’80% dell’occupazione. Nel nostro caso la percentuale è del 70%, quindi inferiore, ma con produttività bassissima.

Se questa aumentasse, andrebbe tutta a contribuire la crescita del Prodotto interno lordo e creerebbe nuovi impieghi, perché la maggioranza delle imprese dei servizi, al contrario di quelle industriali, non sono delocalizzabili (un supermercato o un ospedale italiano in Cina non possono andarci, una fabbrica d’auto o un calzaturificio sì). Però di questa opportunità non parla nessuno. Alla base di questa miopia c’è una visione ottocentesca dell’economia: si dimentica che, dopo la rivoluzione industriale di 150 anni fa, ne è avvenuta una seconda, quella post-industriale del XX Secolo.

A questo contribuiscono diversi pregiudizi: molti ritengono che nei servizi si creino posti di lavoro sottopagati (falso), che non esportano (è vero, ma non peggiorano necessariamente le importazioni e in compenso aumentano gli investimenti dall’estero), che fanno parte di quell’«economia di carta» che la crisi ha spazzato via (falso, la finanza ne è solo una piccola parte), che «l’industria è anche servizi» (vero, ma è anche vero che servizi ad alta produttività sono essenziali per la manifattura). Il requisito necessario per il rilancio della nostra economia passa quindi per il ridisegno della struttura del mercato del lavoro e delle imprese italiane, a cominciare da quelle dei servizi. Dobbiamo abbandonare molti miti. Il tessuto delle aziende italiane è fatto di milioni di piccole e medie società. Ma non tutte sono efficienti. Anzi, molte sopravvivono grazie al sommerso, non creando quella domanda di capitale umano che normalmente emerge nelle economie post-industriali.

È soprattutto un problema di regole, importanti nell’industria ma ancora più nei servizi che per loro natura non sono esposti alla concorrenza internazionale come accade nella manifattura. Oltre alla battaglie «solitarie» quanto indispensabili di Marchionne, sono quindi necessarie regole giuste e rispettate da tutti perché senza di esse il libero mercato non nasce, non per ragioni etiche. Questa è l’unica ricetta che ci può permettere di recuperare posizioni nella più significativa delle classifiche che ci vede in coda a tutti i Paesi sviluppati: l’Italia è solo al 74˚ posto per la libertà economica. E senza libertà economica non possono esistere libertà civile e libertà politica.

Roger Abravanel

12 gennaio 2011(ultima modifica: 13 gennaio 2011)© RIPRODUZIONE RISERVATA
http://www.corriere.it/editoriali/11_gennaio_12/la-svolta-tedesca-che-manca_06612d80-1e13-11e0-8f93-00144f02aabc.shtml
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