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Autore Discussione: Callas il Mito, Morì nella notte fra il 15 e il 16 settembre di trent'anni fa...  (Letto 3939 volte)
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« inserito:: Settembre 02, 2007, 03:54:52 pm »

Maria Callas il Mito
di Riccardo Lenzi

Trent'anni fa moriva a Parigi la soprano che ha cambiato il modo di cantare l'opera lirica. Ora, con 'L'espresso' e 'la Repubblica', sei cd con le sue più belle interpretazioni 

Maria Callas morì nella notte fra il 15 e il 16 settembre di trent'anni fa, non ancora cinquantaquattrenne. Stando al primo referto del medico, per un collasso circolatorio in seguito a uso eccessivo di sonnifero. A nessuno fu permesso di vedere la salma, che venne frettolosamente cremata. Le ceneri furono sottratte dal loculo in cui erano state deposte al cimitero di Père Lachaise a Parigi e chiuse in una banca; poi i suoi resti furono dispersi nel mare Egeo. Questa superficialità nel ricercare, magari semplicemente attraverso un'accurata autopsia, le cause scientifiche della sua morte, ha poi insospettito molti, alimentando l'ipotesi del 'non suicidio', ovvero dell'assassinio. Certo è che Maria, in quel triste autunno parigino, non doveva passarsela molto bene. Disperatamente sola, quasi reclusa nella lussuosa casa di rue Georges Mendel, dove viveva con i domestici, placava le angosce con i tranquillanti, ascoltando e riascoltando all'infinito le registrazioni del passato che le restituivano, come il ritratto di Dorian Gray, lo splendore della giovinezza, la voce che aveva entusiasmato i melomani di tutto il mondo. L'ultima foto, alla vigilia della morte, ritrae il suo volto triste, stanco, gli occhi una volta nerissimi e palpitanti ormai spenti, in mano una torta con la quale festeggia il compleanno del suo cane.

Ma in questo misterioso e deprimente finale una cosa è certa, appena dileguate le spoglie terrene, la Callas divenne un mito, destino che ha condiviso con molti semidei ed eroi della sua terra d'origine. "La storia dell'opera lirica si divide in due parti: il prima e il dopo Callas", affermò Franco Zeffirelli suo regista e pigmalione; "è stata la più grande cantante drammatica del nostro tempo", il direttore d'orchestra Leonard Bernstein; "il suo canto entrava dentro il cuore, produceva melodia. Aveva dentro di sé, dentro la sua voce, il segreto della vita", il tenore Franco Corelli. Mito a cui 'L'espresso' e 'la Repubblica'dedicano sei cd, ciascuno accompagnato da 64 pagine di foto e testi, in edicola dal 7 settembre ...

Razionalizzando, grave errore in questioni d'arte, la sua voce non era, dal punto di vista fino agli anni Cinquanta considerato, 'bella', 'perfetta', 'puro diamante' come quella della sua amica e rivale Renata Ersilia Clotilde Tebaldi, giunonica, neoclassica come una matrona romana, un busto del Canova. Il registro grave talvolta aspro, il medio leggermente velato, l'acuto che, in gioventù poco ammanierato, poteva apparire stridente. Non soprano leggero, né lirico, data la corposità degli accenti drammatici, né soprano drammatico, con quella sua straordinaria padronanza del canto fiorito.

Ma un modo di cantare che ha segnato la storia della musica d'opera, con un sovvertimento di valutazioni storiche, di repertorio, di tecnica, di gusto interpretativo che ancora lasciano il segno. Secondo il musicologo Rodolfo Celletti fu una rivoluzione musicologica più che vocale: punto di partenza fu il ripristino di un'emissione 'preverista' che ristabilì un fraseggio vario, analitico, teso, attraverso gradazioni d'accento e di colori, non soltanto a realizzare i segni d'espressione dei compositori, ma a dare al significato delle parole il maggior risalto psicologico attraverso un gioco sottilissimo di contrasti chiaroscurali e di sfumature; segnò il ritorno al vero virtuosismo, che consiste nel dare espressione alla coloratura e nel rivelarne quelli che Rossini definiva come 'gli accenti nascosti'; ripropose un 'cantabile', preromantico o romantico, eseguito con morbidezza di suono, purezza di legato, continuità di cavata, abbandono patetico o elegiaco, intensità di effusione lirica; infine sancì la rinascita di tipi vocali-psicologici del melodramma neoclassico e protoromantico. In sostanza la Callas arrivò a far rivivere il cosiddetto soprano drammatico di agilità della prima metà dell'Ottocento e questo significò richiamare l'attenzione del pubblico e d'una parte della critica su quelle che dovevano essere le vere modalità d'esecuzione di opere come 'Norma', 'Lucia', 'Sonnambula' o i 'Puritani'.

Teodoro Celli sostenne che la Callas "riproponeva, per quelle vie misteriose che in natura come nella cultura fanno riaffiorare modelli del passato anche lontano in un presente che sembra averli dimenticati, la vocalità dei castrati settecenteschi". Rossini un secolo innanzi aveva proclamato che l'arte del canto era finita con i castrati; non solo perché questi innestarono una vocalità femminile in un corpo maschile, ponendo e risolvendo il problema del passaggio o dell'unificazione fra registro di petto e registro di testa, ma perché il loro enorme studio contagiò e trasformò sia il canto maschile che quello femminile. La Callas combinava alla voce di mezzosoprano, scura e robusta nel registro grave, un registro acuto e sovracuto. "Ma la sua agilità", scriveva ancora Celli, "era sempre al servizio degli stati d'animo del personaggio: un trillo era in realtà un sorriso, una scala cromatica un brivido di terrore; mai semplice sfoggio di bravura, drammaticamente vano".

Esiste anche una Callas 'minore' che segnò la storia del costume, con trent'anni trascorsi fra trionfi e successi artistici e mondani, amicizie importanti e amori intensi, fra liti e dispute con gli altri cantanti. Gli abiti in seta grigia, da sera in voile verde, in giallo con pietre dure di Lanvin e con pizzo veneziano, gli eleganti tubini neri, i kaftani da camerino. Lo sguardo che ti trapassava sprezzante nonostante gli occhialoni neri, sensazione sottolineata dal pesante trucco a matita attorno agli occhi sfavillanti, che terminava, come si usava allora, con una freccina rivolta all'insù. Il marito Giovanni Battista Meneghini, cummenda grassoccio e più anziano di quasi trent'anni, provincialotto e inelegante, proprietario d'una dozzina di stabilimenti di laterizi. Le amicizie e le collaborazioni con Visconti e Pasolini. La serata scandalo del 2 gennaio 1958, quando abbandonò al primo atto di 'Norma' l'apertura della stagione del Teatro dell'Opera di Roma alla presenza del presidente Gronchi. La travolgente passione per l'ipermondano armatore Aristotile Onassis e così via.

Una Callas ancora protagonista della cronaca, come testimoniano le numerose iniziative di queste settimane. Mostre sui costumi, sulle foto, sui gioielli di scena. Un film di Philipe Kohly. La sua immagine su calendari, francobolli e schede telefoniche. La richiesta di intitolazione a Maria Callas del Palais Garnier, sede dell'Opéra di Parigi e di una strada di Amburgo. Da Los Angeles è poi arrivato un Grammy alla carriera. Fra i tanti libri curiosi quello curato da Bruno Tosi (Trenta editore) sulle ricette segrete della Callas da prendere cum grano salis, considerato che nel 1953 la Callas cantava a Firenze una 'Medea' con addosso 90 chili e pochi mesi dopo, nel 'Don Carlo' alla Scala, ne pesava appena 64.
 
In principio fu Norma
 
Se assieme al nome di Maria Callas si vuole evocare un personaggio della lirica questo sarà prima di tutti Norma. Dall'omonima opera di Vincenzo Bellini sono tratte alcune arie che compongono la prima uscita di questa Callas edition: si va dalla seducente 'Casta diva' a 'Mira, o Norma' e 'In mia man al fin tu sei'.



da espressonline.it
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« Risposta #1 inserito:: Settembre 14, 2007, 11:51:00 pm »

Callas, l´impossibilità di essere «normale»

Giordano Montecchi


Ieri Pavarotti; trent´anni fa, il 16 settembre 1977, Maria Callas. Settembre è nero per l´arte del belcanto. Maria Callas morì nel suo appartamento parigino, al 36 di Avenue Georges Mandel per cause mai del tutto chiarite dai medici. E molti anni prima, nel 1835, sempre in settembre, a Parigi, per un malanno rimasto dubbio, morì Vincenzo Bellini, giovanissimo e caro agli dei, autore che ai nostri eroi deve molto (alla Callas moltissimo), e senza i quali oggi godrebbe certamente di una popolarità assai minore.

Data la prossimità degli eventi, il paragone, fra due artisti come Pavarotti e Callas che nell´opinione comune si vogliono ineguagliabili, è quasi d´obbligo. Sì, i due hanno condiviso certamente un tratto comune: l´essere stati beniamini e bersagli dei rotocalchi allora, della mondovisione adesso, preda ambitissima dei paparazzi e delle cronache, oggi rosa, domani scandalistiche. «Icone mediatiche» si sente dire, un termine nel quale si racchiude in realtà un conflitto, un´identità contesa. Da un lato c´è chi, unicamente concentrato sull´inestimabile valore di quell´arte vocale, può olimpicamente affermare che «soffermarsi sulle polemiche di natura extra-artistica suscitate da taluni atteggiamenti della Callas affini al "divismo" esula dalle nostre finalità» (così Rodolfo Celletti nel 1964).

Dall´altro invece c´è chi è totalmente disinteressato ai fondamenti su cui la star di turno ha costruito la propria fama, che nulla vuol sapere di registri di petto, filature, vibrati eccetera, e invece consuma golosamente l´appetibilità divistica del suo bravo idolo, curiosando inesorabilmente, condannando e venerando «a prescindere», a rimorchio dei ritratti forniti da giornali o tv, adescato dalle vicende amorose, le ricchezze da capogiro, i numeri da record, le celebrità in passerella.

Non c´è dubbio: per i melomani e per chi ama la musica, il modo col quale i media si appropriano di «big Luciano» o della Divina ha un che di usurpazione, di «inquinamento probatorio» che tende a ignorare o addirittura a contraffare quei caratteri e quei valori che, pur opinabili, si vorrebbe restassero sempre a fondamento di un successo. Poiché troppo spesso succede, nel canto come altrove, che il successo arrivi per ragioni che nulla hanno a che fare con il valore estetico.

Ma questo non è certo il caso dei nostri, i quali a causa di una pressione mediatica forse insostenibile hanno ambedue consumato la loro preziosissima materia prima, quella voce così ricca di fortunate «anomalie», in un arco relativamente breve, logorandosi a ritmi forsennati e accentando di cantare tutto e il contrario di tutto, da Lucia a Carmen, da Nemorino a Otello, grosso modo come un atleta che facesse oggi salto in alto e domani lancio del peso. L´esito comune ai due è stato il passaggio dalle riviste specializzate e dalle pagine di spettacolo, alle pagine di cronaca man mano che la loro arte vocale declinava vistosamente (non senza qualche clamoroso «crac»), godendo di un crepuscolo tanto mesto per gli amanti della loro arte, quanto redditizio per la loro popolarità planetaria.

Sul piano artistico il confronto finisce qui: i due interpreti hanno avuto infatti caratteristiche e personalità che non potrebbero essere più diverse. Sul terreno mediatico lo slalom parallelo potrebbe invece continuare. Ancora ieri Wikipedia concludeva la voce «Maria Callas» con l´affermazione che: «Stando alle vendite dei dischi, Maria Callas è a tutt´oggi la cantante lirica più nota e amata al mondo». Il dato dovrà essere presto aggiornato presumo. Non so a quanto ammonti il totale delle sue vendite e di quanto eventualmente superi i cento milioni di Pavarotti. Tuttavia, sempre ieri, su Google, Callas totalizzava poco meno di 6 milioni, mentre Pavarotti superava 61 milioni. Quanto ai dischi, su Amazon Callas valeva ieri 927, Pavarotti 1063. Un dato è certo: il potenziale mediatico del XXI secolo è enormemente superiore a quello del secolo scorso.

Lasciamo quindi Pavarotti e veniamo a Cecilia Sophia Anna Maria Kalogherópoulos, che nacque a New York nel 1923, che ritornò nella sua patria d´origine dove studiò al Conservatorio di Atene, e che alla fine della guerra, giovane cantante in cerca di fortuna, tornò in America per approdare finalmente in quello che, all´epoca, era davvero il paese del belcanto: l´Italia. Era il 1947, ma i trionfi veri arrivarono solo più tardi, mai disgiunti da allora in poi dalle censure di chi invece non tollerava quella sua forza travolgente e coinvolgente, così aspra e indisciplinata rispetto al lirismo levigato di Renata Tebaldi. Alla Scala l´esplosione si ebbe finalmente nel 1951 coi Vespri Siciliani cui seguì un´ascesa durata quasi ininterrottamente fino al celebre incidente del 1958, all´Opera di Roma, quando, alla presenza del presidente Gronchi e di un interminabile codazzo di autorità, abbandonò per un malore la recita di Norma. Lo scandalo e l´impopolarità che ne seguirono furono pesantissimi; di lì a poco litigò col sovrintendente della Scala e poi col direttore dal Metropolitan di New York. Successi ne vennero ancora, ma stagione sublime era finita. Seguirono gli anni di Onassis, il gran mondo e infine la solitudine e la depressione.

La Divina, si diceva, era troppo diva, avanzava pretese giudicate arroganti, come l´uscire da sola sul proscenio a ricevere l´ovazione del pubblico. A posteriori sappiamo che spesso fu proprio lei e lei sola a meritarli quegli applausi, lei che addirittura stava cambiando la storia non solo della vocalità operistica, ma dell´opera stessa. Fu lei a far risorgere Lucia di Lammermoor e Norma, Macbeth e Anna Bolena, Medea e La sonnambula, e dietro ad essi un´intera e dimenticata epoca del melodramma della quale nessuno fino ad allora aveva saputo trovare la giusta chiave d´accesso e di cui la Callas seppe imporre un imprescindibile paradigma interpretativo. Scura e drammatica come un contralto, acrobatica e svettante come un soprano leggero, vi agggiungeva però quello slancio arroventato e tagliente che nessuno ha mai potuto eguagliare.

Immensa e disuguale è l´eredità discografica che la Callas ha lasciato, dagli anni d´oro fino a certe desolanti performances degli anni Sessanta e Settanta. Scarsissime invece sono, malauguratamente, le testimonianze in video. Perché la Callas bisognava (e bisognerebbe) anche vederla. Significativo a questo proposito fu il più grande dei tanti rischi che si prese nella sua carriera: dimagrire 30 chili. Era il 1954. Avrebbe potuto morire, o compromettere le sue qualità vocali. Invece fu la metamorfosi: da Giunone a Venere, il rifiuto di una fisicità sgraziata nel quale si mescolavano i suoi intimi tormenti con l´inderogabile scelta poetica di un´artista che non poteva concepirsi cantante senza essere attrice pienamente padrona di se stessa e della scena. Da allora il carisma della Callas ebbe nel fascino soggiogante della sua presenza scenica il suo secondo pilastro, la giustificazione ultima di quella voce che passava alla storia sacrificando la levigatezza a un´idea di espressività totale. Perché Maria Callas, cantante d´opera, aveva colto il senso profondo della sfida: l´opera o è teatro o non è affatto.

Pubblicato il: 14.09.07
Modificato il: 14.09.07 alle ore 13.12   
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