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Autore Discussione: FRANCESCO SISCI  (Letto 4148 volte)
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« inserito:: Febbraio 12, 2010, 02:16:42 pm »

12/2/2010

Pechino non ci crede
   
FRANCESCO SISCI

Qualche anno fa l’ex cancelliere tedesco Helmut Kohl a una cena riservata a Pechino con un altissimo funzionario cinese sollevò la questione di sanzioni contro la Corea del Nord che allora, tanto per cambiare, si sottraeva ai colloqui sul disarmo nucleare.

L’ospite cinese allargò le braccia: «Per indurre qualcuno a spogliarsi cosa è meglio fare: abbassare la temperatura e strappargli i vestiti di dosso? Oppure aumentare la temperatura fin quando, per il troppo caldo, non si spoglia da solo?». Secondo il cinese usare le sanzioni era come abbassare la temperatura e spogliare qualcuno: avrebbe provocato solo resistenza e fatica per tutti.

In questa storia c’è tutto il profondo, filosofico, scetticismo cinese verso l’uso di sanzioni, anche contro l’Iran oggi. Non si tratta solo di una teoria, secondo Pechino, ma di esperienza. La Corea del Nord, da decenni in isolamento politico ed economico, non è cambiata e anzi si è arroccata sempre di più. La Cina viceversa, accolta economicamente e politicamente nel consesso internazionale, si è trasformata profondamente.

È con questo scetticismo profondo che la Cina si appresta a votare per le sanzioni dell’Onu contro l’Iran, in sostanza solo per fare un favore all’America di Barack Obama alla ricerca di un qualche successo diplomatico da mostrare. Ci sono certamente anche spinte economiche forti: la Cina è un grande investitore nella Repubblica islamica ed è il singolo maggiore acquirente di gas iraniano. Ma anche questo impegno economico è stato dettato insieme da un calcolo di convenienza e da opportunità politica: rompere l’isolamento iraniano secondo Pechino aiuta al cambiamento del regime.

Le dichiarazioni bellicose di Teheran sul nucleare sono certo una provocazione verso gli Stati Uniti, i quali non possono che replicare. E la Cina non può sottrarsi, specie se vuole abbassare l’attuale febbre di nervosismo bilaterale con gli Usa. In queste ore Pechino è estremamente guardinga a rivelare le sue mosse e le sue intenzioni riguardo al voto sulle sanzioni. Però sembra probabile che alla fine voterà a favore, cercando di attenuarne al massimo l’impatto effettivo. Ma se aderisce (in fondo per fare un favore all’America), questo voto diventerà moneta di scambio politico con Washington.

La trattativa in queste ore sarebbe dunque in questi termini: cosa l’America è disposta a dare alla Cina in cambio della «vendita» delle sanzioni? Per alcuni americani questa Cina che mercanteggia sulle sanzioni è traditrice due volte: perché è amica dell’Iran e perché mette in vendita questa amicizia. Per la Cina invece si tratta di dover fare, in omaggio agli Usa, qualcosa di irragionevole e inutile se non dannoso. Allora, visto che lo si deve fare, almeno che gli Usa paghino un prezzo. Quindi il voto sulle sanzioni contro l’Iran diventa una moneta di scambio geopolitica in cambio di concessioni, per esempio sulle armi a Taiwan o sul Dalai Lama.

Le questioni profonde, le differenze filosofiche nell’approccio politico generale verso nazioni che non condividono la nostra visione politica, restano sullo sfondo, intatte. Ciò anche perché esistono diverse urgenze tra America e Cina. Gli Usa, incalzati anche da Israele, temono il sostegno iraniano ai vari movimenti insurrezionali sciiti del Medio Oriente, e il cambiamento degli equilibri strategici che il nucleare iraniano porterebbe nella regione. La Cina invece non ha sposato la causa di nessuno nell’area, e anzi vede la presenza Usa come un altro errore dell’America, che interviene in prima persona là dove sarebbe opportuno limitarsi al più efficiente principio del «dividere e comandare».

da lastampa.it
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« Risposta #1 inserito:: Luglio 12, 2010, 10:07:43 am »

12/7/2010

I militari separano Usa e Cina
   
FRANCESCO SISCI

La Cina si sta già preparando a pieno regime e l’America senza dubbio sta facendo altrettanto. Infatti nell’agenda politica globale non c’è appuntamento da qui alla fine di novembre più importante.

In quel periodo il presidente cinese Hu Jintao comincerà la sua visita in Usa che dovrebbe dare nuovo impulso alle relazioni bilaterali tra le due maggiori potenze attuali America e Cina, comunque si voglia chiamare questo rapporto, G2 o «AmeriCina». Eppure, da qui a novembre, perché la visita sia davvero un successo, i due Paesi dovranno sormontare una serie di problemi complessi. Oggi il rapporto è ostaggio di contorte questioni strategico militari.

Il dialogo bilaterale è bloccato perché Washington vorrebbe parlare senza cambiare nulla; Pechino invece vuole che prima l’America risolva la questione della vendita delle armi a Taiwan e le missioni Usa di sorveglianza/spionaggio intorno alla Cina. Le armi a Taiwan sono una spina nel fianco attuale per Pechino. I rapporti tra Pechino e Taipei sono migliorati nettamente negli ultimi anni. Le due parti hanno stabilito per la prima volta canali di comunicazioni e trasporti diretti e non più attraverso Hong Kong, e all’inizio di luglio hanno firmato un accordo di libero scambio che integra di fatto l’economia dell’isola con quella del continente. La riunificazione quindi è una questione ora solo politica che però nessuna delle parti intende affrettare. Su questo percorso l’unico motivo che potrebbe spingere una marcia indietro è una teorica forza militare di Taiwan in grado di respingere un eventuale attacco dal continente. È una questione molto teorica, ma con effetti tanto pratici: se Taiwan ha un esercito in grado di difendersi a pieno potrà sempre non solo resistere ai canti di sirena del continente, ma anche decidere improvvisamente di dichiarare l’indipendenza formale.

Se Taiwan, abitata da gente di etnia Han, come la maggioranza della Cina, diventa formalmente indipendente, perché dovrebbero rimanere cinesi il Xinjiang o il Tibet, abitati da etnie non Han? Ma se Xinjiang e Tibet diventano indipendenti, Pechino perde metà del suo territorio nazionale. In altre parole, la vendita di armi americane a Taiwan gioca all’interno della politica cinese e taiwanese a favore di forze che vogliono allontanare le parti. D’altro canto l’America è obbligata alla vendita per una legge del congresso. E comunque, se smettesse di vendere armi ciò potrebbe essere visto dall’opinione pubblica Usa come se una timida America consegnasse l’agnello taiwanese al lupo cinese. In passato la vicenda era secondaria, ora è diventata più urgente perché Pechino sta registrando molti passi avanti bilaterali e quindi vorrebbe e assicurare i suoi successi chiudendo il problema delle armi. Inoltre ci sono le missioni di sorveglianza americane sulla Cina. Navi e aerei Usa ne compiono circa un migliaio con vari scopi: rilevazioni di fondali o accertamento delle capacità militar tecnologiche cinesi.

In queste occasioni ci sono stati degli incidenti, nel 2001 o l’anno scorso, cose che potrebbero sempre accendere conflitti più importanti. Gli Usa vorrebbero stabilire quindi un codice di condotta per le missioni. La Cina si oppone perché un codice di condotta stabilirebbe un rapporto con gli Usa di avversario, da guerra fredda. Poi ciò varrebbe solo per gli Usa, Pechino non è in grado di compiere simili azioni intorno al territorio americano. Infine c’è il problema della vendita di tecnologia duale americana alla Cina, cosa che servirebbe spesso, come col nucleare, anche a ridurre le crescenti emissioni di carbone di Pechino. Qui Washington ha fatto delle concessioni, ma sono minime secondo la Cina che vorrebbe molto di più.

L’America diede e fece dare molte tecnologie a Pechino fino al 1989, ma dopo i fatti di Tiananmen impose un embargo che dura fino ad oggi. Ci vorrebbe un grande patto politico bilaterale per togliere l’embargo, ma a oggi tale patto è complicato anche dal fatto che molti vicini, dal Giappone all’India, si sentono schiacciati dalla crescita cinese. Essi temono che uno spostamento americano verso Pechino possa cambiare definitivamente equilibri politici ed economici in Asia e quindi nel mondo. Questi tre livelli di problemi poi si intrecciano tra loro e si mischiano ad altri dossier: quello della cessione delle tecnologie tocca per esempio tutta la delicata questione ambientale, dello sviluppo delle future alte tecnologie, o anche della crescita economica futura. Una massiccia cessione di tecnologie americane alla Cina farebbe ripartire l’industria Usa e farebbe uscire il mondo dalla crisi. Ma a quale costo politico e strategico, si chiedono i generali americani? Sono vicende che è impossibile pensare di risolverle in pochi mesi. La novità è che per la prima volta le due parti sembrano mettere tutto sul tavolo e questo è certamente un progresso importante, perché solo dalla chiarezza su cosa veramente pensa e sente l’altra parte si fanno passi avanti.

Vista poi la crescente importanza delle due nazioni, un maggiore chiarimento tra Washington e Pechino è di beneficio per tutti in quanto a sicurezza e sviluppo globale. La nuova «AmeriCina» mette però in un cono d’ombra l’Europa. Ciò tanto più che l’Usa-Cina deve comprendere i nuovi equilibri dell’Asia Pacifico. Così, anche sul nostro benessere grava un punto di domanda: visto che la visione militare in questo caso viene prima di quella industriale, anche l’economia dell’Europa potrebbe subirne conseguenze. Ciò probabilmente non domani, ma già il dopodomani è in forse.

http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=7583&ID_sezione=&sezione=
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« Risposta #2 inserito:: Ottobre 08, 2010, 01:02:52 pm »

8/10/2010

Ma Pechino ci vuole più "tedeschi"

FRANCESCO SISCI

Dopo i tanti sorrisi, gli abbracci, le dichiarazioni di intenti la domanda a Pechino è: riusciranno finalmente Italia e Cina a trasformare la simpatia in affari, in denaro contante che arricchisca davvero i due Paesi?

I cinesi sono infatti innamorati dell’Italia.
A loro piacciono la nostra moda, il nostro cibo, le nostre città, la nostra cultura... e persino i nostri ingegneri, visto che quasi il 70% delle nostre esportazioni a Pechino sono di macchine utensili. Ma tutto sommato l’interscambio Italia-Cina, pur crescendo rapidamente, rimane al di sotto di quello di altri paesi e molto al di sotto delle possibilità di tanta simpatia. Secondo i cinesi infatti noi italiani siamo «romantici», che tradotto dalla frase gentile significa che promettiamo molto ma concludiamo poco.

La storia non è lontana, agli inizi degli Anni 90 la Cina offrì all’Italia di sviluppare il raddoppio di Shanghai, quella metropoli da 10 milioni di abitanti che è oggi Pudong. L’Italia firmò i contratti ma poi l’inchiesta di «mani pulite» azzerò tutto, affari sporchi e candidi. L’Italia non mantenne le promesse, i cinesi aspettarono qualche anno, ma poi dovettero fare tutto da soli. Qualche tempo dopo fu la volta di Tianjin, la megalapoli alle porte di Pechino. I cinesi avrebbero voluto un nostro intervento che partisse dal quartiere italiano al centro della città. Politici nostrani sfilarono, promisero ma poi non accadde quasi nulla.

Con Shanghai e Tianjin sono sfumati affari di decine di miliardi di euro, roba che avrebbe risanato un paio di finanziarie di emergenza. Ma la verità è che il sistema politico italiano, il sistema Italia, non era in grado di fare sistema, o di seguire con attenzione, nel dettaglio, le questioni cinesi, come fanno invece i leader cinesi. Forse era colpa dell’Italia in Cina, forse si poteva provare a fare il contrario, pensarono i cinesi sempre invaghiti di casa nostra. Così quando Roma offrì loro di comprare i porti loro si precipitarono. Mandarono squadre di tecnici a compilare voluminosi rapporti, ma le conclusioni furono quasi sempre deludenti. Per i porti ci vogliono infrastrutture e in Italia tempi e costi delle infrastrutture sono un mistero.

Qualcuno comunque è venuto, la Cosco, la compagnia di logistica di Pechino, è a Napoli, e la Hutchinson Whampoa, di Hong Kong, è a Taranto, ma anche lì le cose vanno a rilento e con difficoltà.

Ciascuno di questi non è un semplice affare, sarebbe (o forse sarebbe stato) un punto di leva per trasformare l’economia e la politica dell’Italia e con essa quella dell’Europa. Ma l’Italia, forse incredula di tanta fortuna quasi caduta dal cielo, forse troppo occupata in altre faccende, forse troppo ricca e grassa e oberata di questioni interne, non ha finora mai colto tali occasioni. Singole aziende grandi e piccole dei due Paesi fanno bene in Cina e in Italia, ma sono sforzi, appunto, singoli, in ordine sparso. Questi sforzi sono tanto più difficili in quanto il mercato cinese è il più competitivo del mondo e gli italiani affrontano non concorrenti stranieri isolati ma aziende potentemente sostenute dai loro stati.

La Cina ha bisogno certo di entusiasmo, ma anche di studio, di sistematicità, di approfondimento. I cinesi sotto un’apparenza quasi napoletana poi sono molto «tedeschi». Infatti non a caso, pur senza la nostra simpatia, l’interscambio Cina-Germania è più grande di quello della Cina con il resto dell’Europa messo insieme. I cinesi senza l’organizzazione, la continuità si confondono, non capiscono, pensano che siano promesse «romantiche», teste di tigre e code di serpente, un modo cinese per dire che si fanno i proclami ma poi non si andrà avanti.

A Pechino si chiedono se mai impareremo a essere un po’ tedeschi, oppure se semplicemente cambieremo il modo di affrontare la Cina, se smetteremo l’idea di cercare inutilmente di intrupparci in reggimenti, per adottare una tattica da guerriglia, in ordine sparso.

La guerriglia è come l’Italia è stata finora in Cina. La guerriglia ci si addice, visto che fu inventata da Garibaldi e che quasi il 90% del nostro prodotto interno lordo è creato da piccole e medie imprese ultra-diffidenti verso lo Stato e le sue istituzioni. Ma neanche la guerriglia è semplice, ha bisogno di una profonda conoscenza del territorio, ci vuole qualcuno che abbia informazioni solide e affidabili.

È un’equazione complicata, perché oltre alle difficoltà dell’Italia poi ci sono quelle della Cina, a cui spesso i cinesi non pensano e che dall’Italia, lontana in geografia e cultura, paiono più grandi dell’Himalaya. Di certo non basteranno l’entusiasmo e i sorrisi, ma occorre essere ottimisti, e da qualcosa bisogna pure cominciare. Inoltre possiamo contare sul bene fatto in passato. I cinesi ancora si ricordano che la prima centrale nucleare moderna venne loro donata da Vittorino Colombo, negli Anni 70. Allora l’Italia era all’avanguardia della tecnologia atomica, ma aveva deciso di abbandonarla per la moda politica del momento.

http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=7930&ID_sezione=&sezione=
« Ultima modifica: Novembre 14, 2010, 09:05:30 am da Admin » Registrato
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« Risposta #3 inserito:: Novembre 14, 2010, 09:04:16 am »

14/11/2010

Il frutto di un patto con la Cina
   
FRANCESCO SISCI

Di certo la liberazione dopo sette anni e mezzo di arresti domiciliari di Aung San Suu Kyi è una festa ma è probabile che ciò non significhi troppo per l’avanzamento della democrazia nel Paese e nella regione.

Anzi paradossalmente questa sua libertà potrebbe essere testimonianza oggi della sconfitta della sua causa, o almeno del suo metodo di lotta. La sua liberazione arriva infatti dopo che la giunta militare al potere a Rangoon è riuscita a vincere le elezioni domenica scorsa.

L’opposizione, che ha boicottato il voto, grida ai brogli, ma le proteste non paiono al momento in grado di intaccare il potere dei militari. La libertà della Suu Kyi pare facesse parte di un patto del leader della giunta, generale Than Shwe, con alcuni Paesi asiatici e con la Cina. Pechino dopo anni di gelo (avrebbe preferito come leader il generale Khin Nyunt) aveva accolto Than Shwe questa estate con tutti gli onori. Tecnicamente la detenzione del Premio Nobel scadevano alle 19 di ieri (ora locale) e quindi la «Signora», ormai 65 enne, andava rilasciata. Però l’Occidente, che ha sempre difeso la Suu Kyi, è diventato sempre più debole e meno influente sulle sorti della Birmania; avrebbe avuto ben poche leve per opporsi a nuove eventuali limitazioni della libertà della donna. In realtà la spinta democratica di Aung San Suu Kyi in Birmania e in Asia si è esaurita. I generali sono di fatto al potere nella vicina Thailandia e collaborano con i birmani. A Bangkok Thaksin Shinawatra, populista ma comunque eletto democraticamente, è stato spodestato fra l’indifferenza generale dell’Occidente. Se la democrazia non si può difendere dove c’era, a Bangkok, come si può pretendere di farla arrivare dove non c’è, a Rangoon?

Così, mentre migliaia di persone per le strade gettano fiori alla Aung San Suu Kyi, le cancellerie della regione sostengono che lei per prima è stata ed è un ostacolo alla democratizzazione del Paese. È Aung San Suu Kyi ad aver rifiutato più volte appelli al compromesso con i generali, disposti a concedere spazi in cambio di una qualche assicurazione per il loro futuro. E qui la politica si intreccia con la vita personale. Leader carismatica, figlia di uno dei fondatori della Birmania moderna, la Suu Kyi non ha potuto vedere il marito Aris, morto di cancro nel 1999, ed è da anni lontana dai figli, cresciuti in Inghilterra. Una persona che ha trascorso 15 degli ultimi 21 anni agli arresti lontano dalla famiglia, non ha compromessi da proporre. Ma senza compromessi una soluzione di forza appare improbabile, visto che in Asia la giunta birmana significa comunque stabilità e nessuno appoggia un intervento militare esterno.

Così oggi la libertà della Suu Kyi, dopo una sconfitta politica, potrebbe essere un astuto compromesso di fatto, almeno per poter segnare qualche punto in avanti, e consegnare alla Cina, in attesa del prossimo vertice con l’America a gennaio, una piccola carta da mostrare all’Occidente di idealismo condito di pragmatismo.

http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=8081&ID_sezione=&sezione=
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« Risposta #4 inserito:: Dicembre 02, 2010, 06:40:01 pm »

2/12/2010

E la Cina teme di perdere un modello culturale

FRANCESCO SISCI


Come sarà il futuro della Cina? Come finirà il processo di modernizzazione, cioè di occidentalizzazione del Paese? Cosa c’è dietro l’angolo per Pechino, e quindi per il mondo che si trova a fronteggiare la corsa di questo mastodontico elefante che va più veloce più di una Ferrari?

A tutte queste domande la Cina per prima, come il resto del mondo, non ha chiare risposte. Ma da un po’ di anni Pechino queste risposte cominciava a scavarle tra le macerie di Pompei. A gruppi di 20, cinque volte all’anno, da sei anni, delegazioni della Scuola centrale del partito, l’istituto di massima formazione e selezione degli alti quadri dirigenti del Paese, andavano, sommessi, in pellegrinaggio tra le rovine di Pompei. I cinesi, senza dei e con poche fedi, credono che per capire il loro destino e il Dna del loro quasi-faro politico e culturale, l’America, bisogna prima capire la storia antica. E circa il 90% dei 3 mila anni di storia dell’Occidente, dai greci di Pitagora all’illuminismo di Beccaria, è in Italia.

Pompei in questo è il passato che risorge dalla terra e che parla non solo al presente, ma anche al futuro, perché le macerie strappate dalla sepoltura della lava restano per le generazioni future. Ciò non certo solo per l’Italia ma per il mondo che oggi insegue il sogno della velocità e del cambiamento di quell’America fondata in inglese ma con un motto latino «e pluribus unum» sotto l’insegna dell’aquila imperiale romana.

O forse questo è davvero il passato-passato perché anche le rovine rinate man mano, quasi per pitagorica metempsicosi, dal 1700 grazie agli scavi del proto-archeologo tedesco Johann Winkelmann stanno risparendo nella terra.

Il terzo muro delle rovine di Pompei che per incuria, sciocchezza o altro si frantuma e si sbriciola, tornando terra come la terra che tre secoli fa la copriva, non è solo un piccolo o grande scandalo nazionale, è un segno. Visto da fuori, da tanto lontano come in Cina, è il simbolo di un’Italia che si sbriciola, si sfarina senza una colpa chiara e dolosa.

Nessuno ha voluto distruggere le rovine di Pompei sbattendoci contro una ruspa, facendole saltare con la dinamite o strappando le pietre ad una ad una con un piccone.

Nessuno è così cattivo, nessuno ha un piano. È solo successo tutto per assenza di piani, di una visione generale, perché nella costante guerra delle mille piccole tattiche di cortile si è persa la strategia. Qual è il senso di Pompei per il mondo, prima ancora che per l’Italia? Che diritto ha l’Italia di avere un monumento che le porta ammirazione, attenzione, e denaro contante con il turismo e con i consumi indotti, se poi lo fa crollare?

La Cina che sta appena riprendendosi dalla frenesia della distruzione a tappeto dei suoi centri storici, Pechino che si era proposta di studiare la tradizione della conservazione dei monumenti italiana, oggi è sgomenta. C’è poco da studiare, se cade Pompei cadono la storia e l’identità dell’Italia, il senso della sua unità politica e culturale, il suo ruolo di culla della civiltà occidentale in Europa e nel mondo. Se fallisce il compito di conservare i monumenti l’Italia ridiventa un’espressione geografica come diceva Metternich. Infatti quelli che rimpiangono l’impero austro-ungarico puntano il dito contro i «sudisti». In questo c’è tutta la voglia di secessione, il ritorno all’immagine del Meridione arabo-borbonico contro un Nord attaccato al centro Europa germanico.

Sicuramente, visto dall’Italia che è a pochi passi dalle rovine, tutto questo sembra troppo, forse solo un’esagerazione provocatoria. Ma se la distanza fa perdere i dettagli fa guadagnare in prospettiva, e la storia è fatta di segni, momenti che indicano svolte. Così forse, secondo la Cina, da ieri sotto le nuove rovine di Pompei è crollata l’Italia. All’Italia oggi provare il contrario.

http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=8159&ID_sezione=&sezione=
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« Risposta #5 inserito:: Dicembre 05, 2010, 12:30:54 am »

4/12/2010

Usa-Cina, senza l'Europa non c'è dialogo

FRANCESCO SISCI

In Occidente non c’è niente di paragonabile. Per decenni è stato il sancta sanctorum del partito e del Paese, il centro di formazione e selezione della dirigenza cinese. Persino il Presidente entrante deve fare un periodo di «training» dirigendo la scuola.

È come se il Vaticano avesse una specie di centro studi dove devono passare vescovi e cardinali prima della eventuale promozione. La scuola centrale del partito comunista, al di là del suo nome moderno, ha origine nell’alta accademia di formazione degli antichi mandarini imperiali ed è l’àncora culturale e politica tra la Cina millenaria e il suo futuro. Niente di strano che per anni sia stata avvolta nel segreto e nel mistero, molto più significativo che oggi invece si sia aperta: è come se la Cina più recondita aprisse al mondo il suo cuore.
La prima conferenza internazionale organizzata dalla scuola del partito insieme all’Aspen italia, per l’Europa, e all’Aspen Usa che si apre oggi a Pechino, è per la Cina una grandissima scommessa, è un cuore gettato oltre l’ostacolo ed è la promessa che, se tutto andrà bene, ci saranno ancora maggiori aperture in futuro.

L’obiettivo per Pechino è costruire una piattaforma auspicabilmente stabile di scambi informali tra stranieri ed esperti e funzionari di governo cinesi che sono tutti però integrali al processo decisionale del Paese. Si tratta quindi di creare un vero flusso di informazioni e comunicazione che dovrebbe essere la base di un aumento di fiducia reciproca al di là delle arene formali della diplomazia e dei vertici internazionali.

Questa piattaforma, voluta per la spinta del vicepresidente esecutivo della Scuola e con gli auspici della leadership cinese, dovrebbe aiutare la maggiore comprensione della Cina nel mondo e anche far capire il mondo ai dirigenti cinesi e ai loro più diretti consiglieri. Ciò, a sua volta, dovrebbe creare un humus migliore ai lavori delle diplomazie e degli scambi politici, che arriveranno alle trattative cruciali non completamente separati da distanze abissali di cultura e punti di vista.

In Cina l’Italia, grazie a un lavorio di molti anni di contatti a livello personale, può svolgere un ruolo unico. Il ministro Giulio Tremonti in ciò ha visto e colto un’opportunità unica per il Paese. Dopo decenni di contatti strettissimi con l’America le distanze di comprensione reciproca tra Usa e Cina paradossalmente forse non sono diminuite ma sono aumentate. In Usa la Cina diventa talvolta quasi una macchietta coperta da facili etichette come «comunista» o «ladra di posti di lavoro». In Cina invece, per gli ultranazionalisti che soffiano sul fuoco delle controversie, gli Usa sono il grande diavolo che congiura per fermare la crescita della Cina lasciarla povera e arretrata. In questo, secondo la Cina, manca un approccio storico, che fa vedere le contraddizioni e i problemi in prospettiva, non fa confondere i dettagli con la strategia, non si ferma ai singoli ostacoli ma vede il percorso di lungo termine.

Il vecchio continente, e l’Italia in particolare, come culla della cultura occidentale e americana possono dare un senso più ampio al rapporto tra Cina e Usa. Questo rapporto tra l’altro diventa fragile e instabile senza la gamba europea. In qualche modo il G2, il rapporto tra Usa e Cina è difficile da reggere senza la gamba europea, senza diventare G3. Da Pechino è un cenno di fiducia, una spinta per una maggiore integrazione, anche politica oltre che monetaria, dell’Europa. Ma soprattutto, in questa occasione a Pechino, esprime una voglia di confronto vero sui grandi temi internazionali posti con l’inizio della crisi economica americana del 2008 che in questi giorni è arrivata a agitare i destini dell’Euro.

L’ordine internazionale economico ma anche politico che si reggeva sulla centralità del dollaro è scosso da crisi del biglietto verde e questo pone questioni di nuovo ordine globale. Per Pechino la conferenza a porte chiuse di oggi è una primissima occasione per scambi informali e multilaterali tra quelli che sono i primi tre poli economico-politici del mondo, ed un’occasione per accogliere questi stranieri nel suo cuore, alla scuola del partito.
La speranza, da qui, è che la sua voglia di maggiore apertura e trasparenza sia capita e apprezzata e che questa sia solo una prima volta.

Francesco Sisci ha creato nel 2004 il primo programma di scambi della Scuola con l’estero ed è il coordinatore del programma di scambi con
l’Italia. Tale programma è tuttora il più significativo tra quelli instaurati tra la Scuola e i Paesi stranieri

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