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Autore Discussione: INGRAO.  (Letto 6197 volte)
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« inserito:: Settembre 02, 2007, 12:25:22 pm »

POLITICA

L'INTERVISTA. "Il 20 ottobre una manifestazione contro il governo Prodi? No, è contro le ingiustizie di questo Paese"

Ingrao a D'Alema: "Non capisco le sue paure" "Massimo, con la piazza si dialoga"

di GIOVANNA CASADIO

 
ROMA - "Massimo, con la piazza si dialoga. Non sono proprio d'accordo con D'Alema, non ne comprendo le paure". Pietro Ingrao, lo storico leader comunista, è stato tra i primi a sottoscrivere l'appello per la manifestazione del 20 ottobre. Una "sveglia" al governo per "dare risposte ai problemi fondamentali che abbiamo di fronte. Non è una mobilitazione contro Prodi. Almeno a me non pare". Con i suoi 92 anni, Ingrao è un pezzo di storia vivente delle lotte dei lavoratori. "Non mi convince quello che si sta dicendo in questi giorni sull'appuntamento del 20 ottobre...", ragiona. E a proposito di chi sarebbe stato bene ascoltare su questa questione, gli piace ricordare Bruno Trentin al quale il "compagno Pietro" ha reso l'ultimo saluto lunedì scorso, accompagnandolo con il pugno chiuso.

Ingrao, Massimo D'Alema chiede ai ministri della sinistra di fare un passo indietro e giudica la loro presenza in piazza "una contraddizione insostenibile". Lei condivide?
"No, io non sono d'accordo. Fossi al posto di D'Alema mi preoccuperei piuttosto di come il governo risponde alle domande che vengono evocate dalla manifestazione del 20 ottobre".

Il corteo chiederà al governo Prodi una svolta?
"Chiede un mutamento nella vita del paese. Non penso che sia una manifestazione indirizzata specificamente contro il governo Prodi. Chiama invece a intervenire contro una società ingiusta e pesante. Molto dura per ciò che riguarda le condizioni di vita dei lavoratori. Perché deve essere intesa come una manifestazione contro il governo? Penso che sia contro una situazione di questo paese, in cui ci sono grandi masse le quali vivono in una condizione aspra e difficile. Allora portano in piazza le loro rivendicazioni".

La polemica in particolare è sugli esponenti di governo che vanno anche loro a protestare. Non è effettivamente comprensibile, non crede?
"Oddio, ma bisogna discutere di questo? Il problema con cui abbiamo a che fare mi pare siano le condizioni sociali della gente. Chiedo a mia volta: perché le masse organizzate che sono presenti in Italia non dovrebbero fare sentire la loro voce e chiedere, non solo al governo ma alla società tutta, una svolta".

D'Alema è troppo riformista?
"Vuole scherzare! Dico una cosa forse paradossale, ma se venisse avanti e si affermasse un movimento di massa e di popolo attorno ad alcune rivendicazioni di cui c'è grande bisogno tra i lavoratori, allora anche D'Alema sarebbe più sorretto. Vado a ricordi molto lontani, agli anni in cui le masse erano attive, le piazze rappresentavano la consapevolezza dei propri bisogni. Le forze di sinistra e più in generale quelle di orientamento democratico, dovrebbero rallegrarsi, non preoccuparsi delle manifestazioni. Io ad esempio, mi inquieterei se le piazze il 20 fossero vuote, deboli, con poca gente. Bene invece se saranno dense e affollate di lavoratori e cittadini. Con la piazza si dialoga, D'Alema non lo dimentichi".

C'è il rischio che la sinistra massimalista mandi in crisi il governo?
"La domanda da porsi è: questa sinistra promuove cose sbagliate? E così fosse, perché lo sono? Il governo per prima cosa parli alla gente, la chiama allora ad altri obiettivi. Un governo democratico come quello attuale non deve spaventarsi dove ci sono masse attive. Nella mia vita, io ho desiderato sempre che i lavoratori non stessero inerti, fermi e muti".

Con il Partito democratico teme si vada verso una asse centrista?
"C'era già un certo orientamento centrista nei Ds... ma questo non cambia il discorso. Bruno Trentin è stato uno dei grandi che in Italia ha cercato e ragionato sui diritti e il potere dei lavoratori e su questo ha fatto lotte memorabili".


(2 settembre 2007)

da repubblica.it
« Ultima modifica: Marzo 06, 2009, 05:42:43 pm da Admin » Registrato
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« Risposta #1 inserito:: Novembre 17, 2007, 10:30:25 pm »

Ingrao: Il mio Berlinguer? Un solitario in mare

Pietro Ingrao e Claudio Carnieri


L’autobiografia di Pietro Ingrao, Volevo la luna, si ferma a una fase cruciale della sua vita, la morte di Moro e il rifiuto di fare il presidente della della Camera per la seconda volta. Da qui, dalla fine degli anni 70, parte la conversazione tra Claudio Carnieri e il leader politico raccolta nel libro La pratica del dubbio, della quale proponiamo qui di seguito uno stralcio.

E tu che pensavi? Quali erano a tuo avviso i limiti della linea berlingueriana?

«Lo direi con una parola: l’Europa. Le carenze del Pci su questo nodo erano antiche. Persino con i compagni francesi la nostra intesa era spesso turbata da quella loro ostinata gelosia, emersa già - lo avevo vissuto di persona - in alcuni degli incontri fra i partiti comunisti avvenuti a Mosca. Con quei compagni francesi da anni ci giuravamo fratellanza; poi scattava la loro gelosia irrefrenabile. Già a metà degli anni ’70 Berlinguer aveva cercato di allargare lo schieramento comunista in Occidente, dando vita a una alleanza tripolare con i «rossi» di Francia e di Spagna, e i loro leader (Carrillo, Marchais): sotto la formula dell’euro comunismo. L’intesa a tre fra comunisti italiani, francesi e spagnoli, s’era compiuta soprattutto per l’impulso, e l’autorità di Enrico, molto appoggiato innanzitutto dai compagni spagnoli, da Carrillo prima di ogni altro. La durata di quella stagione fu breve, fino al 1977, quando si aprirono contrasti soprattutto con i francesi e con Marchais.Il tema più importante che avevamo dinanzi era però l’intesa con i socialdemocratici e con le correnti cattoliche avanzate, che erano di nuovo fortemente presenti sulla scena d’Europa. Berlinguer stesso cominciò a lavorare in quella direzione, ma non senza qualche esitazione che venne meno solo nei primi anni ’80. Poi venne la tragedia che ci sconvolse e commosse tutti. Berlinguer lavorava freneticamente in quegli anni: nel suo sforzo di collegamento con i comunisti d’Europa, e con le correnti innovatrici del Paese, dove non s’era affatto consumato il veleno del terrorismo e poi perseguendo quelle sue nuove attenzioni verso la sinistra europea e il Terzo mondo. Quel leader stava in piazza. Entrava nella lotta quotidiana. Girava l’Europa. Quando fulminea precipitò la sventura. Stava tenendo un comizio a Padova. Mentre parlava da una tribunetta di fortuna, nel vivo di una frase, fu colto da un ictus fulminante. Crollò di schianto a terra. Tra lagrime e sgomento fu trasportato di corsa in ospedale. E là, a Padova, visse giorni disperati di lotta tra la vita e la morte: senza mai riuscire a pronunciare una sola parola. Mi precipitai in quell’ospedale, e vissi quella sua agonia ora per ora. Venne anche Pertini, e si fermò giorni accanto a quel malato muto, che sembrava fermo a scrutare un orizzonte lontano e indicibile. Poi venne la fine. E i pianti dirotti dei compagni prostrati sulla salma, le invocazioni senza speranza, con un dolore che era pari all’amore per lui che era grande. Infine quella salma coperta da manti e da fiori cominciò il suo dolente viaggio per la penisola: con soste in decine di stazioni, gremite da un popolo in lacrime: e infine nelle strade di quella capitale dove lo accompagnò fino a piazza San Giovanni un fiume di folla mai visto, impietrito in un incredibile silenzio. Vennero a salutare quella salma persino avversari di sempre: Guido Carli, conservatore dichiarato…»

E oggi, da così lontano, come ti appare quel leader? Come lo leggi? Che senti?

«Prima di tutto provo un senso di orgoglio umano. Orgoglio per quel suo legame ad una causa: quella causa storica di liberazione dell’umano. E poi simpatia per le sue passioni singolari: come vagava solitario nel mare, quasi a interrogare l’orizzonte. Vagabondo e silente. Vederlo crollare da quel podio dove parlava del futuro del continente, mi parve una violenza crudele».

Tu però non sei mai stato «berlingueriano». Non avesti mai un rapporto confidenziale con lui. Perché?

«È difficile dire. La memoria di quella persona è troppo vicina. L’immagine stampata nella mia mente è quella di lui in una barca, che avanza scrutando l’orizzonte. Un solitario in mare… E come mischiate nella sua vita, nel profondo del suo sentire, una sete di solitudine e al tempo stesso una capacità di comunicazione straordinaria con la gente. Forse perché non era mai finto. Con un limite forse: pesava ossessivamente tutto. Non si abbandonava mai (almeno così mi sembrava) alla fantasia. Fra noi due ci furono stima grande e rispetto reciproci. Confidenza no. In fondo, i nostri vocabolari erano diversi».

Torniamo agli inizi degli anni ’80, quando vai a lavorare al Crs. Che facevi? Che cercavate? Prima di tutto dove eravate allocati?

«Ricordi quella strada circolare che a Roma dalla fine di via Nazionale porta a Piazza Venezia? In una rientranza c’era un breve spiazzo, dov’era sita una fontanella, a cui spesso ci abbeveravamo. La sede del nuovo Crs stava proprio di fronte a quella fontanella e al palazzo in cui fino al ’56 era stata la sede de l’Unità: là - in quel gomito di strada - io avevo lavorato furiosamente per circa dieci anni: prima come capo cronista e poi come direttore del’Unità. In quello stesso edifizio c’era un piccolo e prelibato negozio che amavamo tanto: la libreria Tombolini. La rividi quando da Botteghe Oscure passai a lavorare al Crs. Era gradevolissimo scendere dalle nostre stanze e - dopo aver preso l’agognato caffè - andare a frugare fra i banchi di quel libraio intelligente, sperando sempre di mettere mano su qualche nuova pista interpretativa di quell’ardente Novecento».

Era insomma il ritorno ad una frequentazione più antica. Ecco. In quei viaggi fra gli scaffali, nei tuoi anni giovanili, che ti incuriosiva? Che cercavi?

«Prima di tutto cercavo testi che riguardavano le mie passioni di sempre: cinema, poesia. Ma anche classici della politica, o testi eretici per i quali il fascismo stranamente aveva lasciato qualche pertugio, se mai da case editrici impensate come Corbaccio, per esempio. Quanto alla letteratura cercavo non tanto autori italiani che da tempo stavano negli scaffali di casa mia (Ungaretti, Montale, Quasimodo e tutto il gruppo di quella rivista di poesia Circoli impiantata in Liguria e diretta da Adriano Grande). Ora mi avvincevano autori del Novecento europeo o della letteratura americana roosveltiana: Faulkner soprattutto e Steinbech, i suoi testi più giovani: Uomini e topi per esempio, quel libro singolare e ambiguo. In cima a tutti c’erano però per me i grandi autori che avevano mutato, insieme con il vocabolario e il catalogo delle parole, la lettura dell’umano: Joyce innanzi a tutti, e Kafka che ci parlava da quella città indimenticabile che era Praga. Impallidiva il piacere del fraseggio letterario a cui mi aveva trascinato il cenacolo fiorentino. Agiva una nuova lingua che si interrogava sul senso della vicenda dell’uomo».

Pubblicato il: 17.11.07
Modificato il: 17.11.07 alle ore 12.49  
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« Ultima modifica: Luglio 22, 2013, 06:36:01 pm da Admin » Registrato
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« Risposta #2 inserito:: Aprile 12, 2008, 12:47:00 am »

Ingrao: «Non vinca il disimpegno. A Roma votate per Rutelli»

Pietro Ingrao


Carissimi amici romani,
sento l’ansia e il bisogno di rivolgermi a voi, quando oramai manca pochissimo tempo al momento del voto. Ho conosciuto Roma quasi un secolo fa, quando dal liceo di Formia passai a studiare all’Università della Sapienza. E da allora, in quei lontanissimi anni 30, in questa città scritta nella storia e simbolo per il mondo intero, ho vissuto con la mia famiglia, per tutta una vita.

Ricordo con emozione le aspre battaglie combattute quando a dirigere la capitale c’era una brutta destra clericale e poi invece l’emozionante svolta che portò alla direzione del Campidoglio i nuovi sindaci, da Petroselli ad Argan, che misero in campo ardite, fresche idee sull’avvenire della città e sui modi di governare: prima di tutto guardando alle fasce più deboli ed esposte delle immense periferie.
Tenere alta questa linea è compito essenziale della sinistra, che ha radici profonde nel popolo romano e oggi si raccoglie insieme - ad altre componenti- attorno alla candidatura di Francesco Rutelli.

Io voterò Rutelli. È stato già un buon sindaco di Roma. Ha avviato un lungo periodo di trasformazioni positive, e oggi, all’esperienza egli aggiunge un’autorevolezza che gli deriva anche dal suo ruolo nazionale.
Roma ha bisogno di essere guidata da una personalità che le consenta di rappresentare l’unità del Paese e di respingere l’odio leghista e di una destra non a caso raccolta attorno ad un cupo e velenoso reazionario come Berlusconi, incapace di garantire il respiro universale e pacifico che spetta a un centro mondiale come è Roma.
A Roma Rutelli lotta contro Alemanno, un candidato chiuso all’ampio spirito che segna il volto di questa nostra città e che non nasconde il suo fastidio per la cultura e la storia antifascista, che sono il fondamento della rinascita della Capitale. Tale è la prova che dobbiamo affrontare.

Io mi rivolgo prima di tutto agli incerti, ai delusi, a coloro che si sentono dimenticati dalla politica. Capisco le loro ragioni, ma ho fiducia e speranza nella passione pacifista e antifascista del nostro amato popolo italiano.
Soprattutto, amici che leggete, io vi chiedo, vi prego che nessuno scelga il disimpegno. I problemi della nostra patria sono brucianti, il Campidoglio è tuttora un luogo di eco mondiale. Schieratevi con Rutelli perché da Roma capitale continui a levarsi una spinta per la pace e per la redenzione degli umili. Buona fortuna a voi. Con l’affetto di sempre.

Pubblicato il: 11.04.08
Modificato il: 11.04.08 alle ore 15.25   
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« Risposta #3 inserito:: Maggio 01, 2008, 07:43:18 pm »

Ingrao: «È mancata ogni unità a sinistra. Nella falla è passata l’ondata xenofoba della destra»

Bruno Gravagnuolo


«Che dite a l’Unità e tu che pensi della sconfitta?». Comincia così, questa intervista con Pietro Ingrao sul «day after», con lui che chiede «lumi» all’intervistatore prima di iniziare. Ha le idee chiare in realtà, il vecchio leader. Infatti, appena arrivati in casa sua, troviamo sul tavolo giornali spiegati e sottolineati, e un foglio con gli appunti su quel che vuole dirci. Gli diciamo la «nostra», ma solo per farlo partire e concordare una «scaletta». E lui parte, dopo la prima domanda. Senza disperdersi e attorno a tre chiodi fissi. La xenofobia, gli sbagli di Veltroni e quelli della Sinistra Arcobaleno. Sentiamo.

Ingrao, perché il centrosinistra ha perso Roma dopo 15 anni, e come è potuto accadere che una destra ex missina abbia conquistato il Campidoglio?
«A mio avviso la ragione di fondo è stata l’ondata di paura e di insicurezza alimentata dalla presenza degli immigrati nel nostro Paese: e dunque prima di tutto un’ondata xenofoba, che ha aperto la strada ad Alemanno. La gente lo ha votato, sperando che espellerà “gli stranieri” dall’Italia. Il limite politico e di civiltà di questo atteggiamento mi sembra evidente. Nasce dal provincialismo e dal nazionalismo, anche localistico e leghista, di questa destra che grida: “fuori gli stranieri criminali e fuori quelli che li hanno fatti entrare!”. Tale mi sembra la fonte, l’impronta della vittoria della destra. L’altro aspetto che mi sembra evidente è la frantumazione delle forze di sinistra: sia sul fronte dell’Arcobaleno, sia su quello prodiano. Il soggetto che doveva sconfiggere quella destra reazionaria si è rotto in più pezzi: tra liti interne e partitini rissosi».

Veltroni però ha detto: noi siamo il partito maggioritario e andremo da soli. Eppure la sua non si definiva come una proposta «unitaria»?
«Non è stata così: la sua azione non ha saputo e voluto trovare il giusto raccordo con il mondo articolato e plurimo della sinistra che doveva sostenerlo e con cui doveva realizzare un accordo. Qui ha fallito».

Il Pd ha sostenuto che un accordo con la Sinistra Arcobaleno sarebbe stato oneroso e impopolare.
«Eppure da solo il Pd non poteva bastare: per l’entità delle forze che riusciva a mobilitare e per la debolezza della sua azione unitaria. Ai miei tempi avevamo l’ossessione dell’unità a sinistra per reggere lo scontro. Stavolta invece non c’è stata alcuna colleganza tra i moderati del Partito Democratico (perché tali sono) e le forze, seppure limitate, della sinistra classista. E alla fine è passata una confusa moltiplicazione dei soggetti, e Veltroni ha accentuato ancora di più la divaricazione. Persino lasciando intravedere un accordo bipartitico con Berlusconi. È mancata insomma la costruzione forte e articolata del soggetto alternativo. Lo si è visto in modo clamoroso a Roma, dove difatti Rutelli da solo non ce la ha fatta: non è riuscito a far fronte alla ondata xenofoba, tesa alla cacciata degli “stranieri” visti da tanta parte del popolo romano come una messa a rischio delle proprie condizioni di vita».

Ma non c’è stata anche l’insicurezza legata al disagio economico e alle politiche fiscali e rigoriste del governo Prodi?
«Sì, anche questo ha pesato. Ma più che politiche rigoriste, preferirei dire politiche di compressione della domanda e del salario. Padoa Schioppa non era un ciarlatano, e non mi pare sia stato il rigore di bilancio il vero problema. Semmai, fermo restando che il punto cruciale è stata la xenofobia, va riconosciuto che non c’è stato un terreno di incontro col sindacato sui salari. Va bene il rigore, ma andava conquistata l’adesione dei lavoratori a quella politica, con contrappesi adeguati che non ci sono stati. Il che ha messo in crisi l’asse tra lavoro, risanamento e sviluppo. Un’alleanza che invece era fondamentale, per l’intesa con la classe operaia e col lavoro dipendente. E così Prodi s’è trovato sotto l’attacco della destra xenofoba senza avere il sostegno della forze classiche del movimento operaio. In Italia fino agli anni 80 c’è sempre stato un soggetto plurale di sinistra, ben articolato nella sua faccia politica e in quella sindacale. Questo rapporto è saltato. Non si è realizzata e forse non è stata nemmeno tentata una intesa corposa tra Prodi e il sindacato. E in questa falla, sotto il peso della xenofobia, è passata la destra».

Oltre al Pd, la tua critica tocca dunque anche la Sinistra Arcobaleno. Dove ha sbagliato? E qual è il suo deficit di identità?
«A sinistra si sono spaccati in troppe sigle, in risse di gruppo, invece di realizzare la necessaria compattezza per incalzare l’ala moderata della coalizione. Dunque: da un lato i “moderati” di Veltroni e del PD hanno ammiccato a Berlusconi, dall’altro la sinistra radicale s’è smarrita nei suoi molti rivoli, senza trovare un baricentro programmatico e culturale chiaro».

Ma allora, da dove ricominciare dopo una sconfitta di queste dimensioni?
«Immagino dal realizzare l’unità sul programma, dinanzi a questioni che oggi chiaramente sono inscritte in una vicenda mondiale che ha travolto molti argini. È il ciclo del capitalismo mondiale dopo il 1989 che va ancora decifrato, con tutte le conseguenze che ne sono seguite: dal crollo dell’Est europeo, alla globalizzazione, alla guerra in Medioriente e oggi - temo - dinanzi a un probabile ritorno della recessione nel mondo. Sono sviluppi pesanti che dobbiamo guardare in faccia con chiarezza. È in questo quadro corrusco che Pd e Sinistra Arcobaleno devono ritrovare il loro ruolo. E penso innanzitutto alla riconquista di una tutela di classe per i ceti subalterni e diseredati; alla urgenza di rimettere al centro il tema della pace e della guerra, di cui non parla più nessuno. E invece la guerra, come sai, continua in zone cruciali del globo...».

E per il domani del Partito Democratico che strada, che sviluppi vedi?
«Tu mi chiedi del Pd. Ebbene il Pd è ormai una forza chiaramente centrista e moderata. E sia; ma dovrebbe evitare di civettare con Berlusconi, come mi pare abbia provato a fare Veltroni. In ogni modo non credo oggi che una tale forza tenda a spostarsi a sinistra. Forse è più realistico lavorare a costruire un rapporto attivo e fruttuoso con la sinistra radicale, essendo consapevoli della differenza netta che corre tra i due soggetti...».

Non potrebbero, almeno nella sinistra radicale, cominciare una buona volta a definirsi socialisti?
«Non tocca a me dare consigli del genere. Né mi interessa molto un discorso sui nomi, sulle sigle, e tantomeno dare giudizi su vicende che conosco limitatamente. Semmai io direi: a ciascuno il suo. L’Arcobaleno tenga fede alla sua connotazione di sinistra di classe. Il Pd faccia la sua parte "moderata", ma in chiave coerente e non compromissoria. E soprattutto, però, la sinistra in senso lato la smetta di dilaniarsi e ritrovi un minimo di unità».


Pubblicato il: 01.05.08
Modificato il: 01.05.08 alle ore 6.33   
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« Risposta #4 inserito:: Marzo 28, 2009, 04:02:08 pm »

«Sì, la sinistra non sta bene ma nel mondo oggi c’è una grande novità: Obama»


di Pietro Spataro


«Tu domanda, io rispondo...», ripete spesso Pietro Ingrao. Ha voglia di parlare: della sinistra, del mondo in crisi, della speranza Obama, della lotta per la pace, di Di Vittorio e anche di se stesso. In un angolo del salotto della sua casa a Roma c’è una marionetta di Charlot, l’eroe buffo di Chaplin che tanto ha amato. Su un mobile, tra una foto di Che Guevara e una che lo ritrae con Togliatti, c’è l’immagine (che pubblichiamo qui sotto) di un giovane direttore de “l’Unità” che fa la diffusione. Gliela regalammo noi del giornale per i suoi novantanni. «Mi piaceva molto il lavoro all’Unità...», dice. Il 30 marzo questo storico leader del Pci, ex presidente della Camera e poeta, compie 94 anni.
Cominciamo da qui: il Pd fatica, Rifondazione è in crisi. Che fine ha fatto la sinistra in Italia?
«Tu parli degli errori e della confusione della sinistra italiana: ma io credo che il Pd non sia una forza di sinistra. È un partito moderato, centrista. Quanto alla sinistra – “Rifondazione” e gli altri – purtroppo si è spaccata nelle sue risse. M’auguro ardentemente che torni a discutere costruendo».

Insomma sei pessimista?
«No, non sono pessimista. Cerco di guardare in viso le nostre debolezze. Ma nel mondo ci sono oggi figure e novità profonde. Faccio un nome prima di tutto: Obama. So bene che in Italia il panorama è profondamente diverso. E non è alle viste un Obama italiano».

Dobbiamo rassegnarci a Berlusconi?
«No. Ci mancherebbe altro. Berlusconi ha vinto soprattutto per la debolezza e gli errori dei suoi avversari: ma non ha legami e comunicazione con le forti novità che maturano nel pianeta. È uomo del passato, la sua è una destra vecchia».

Eppure l'Italia somiglia sempre più a lui. Basta pensare alla cultura della paura, alle ronde...
«Io non penso che l’Italia sia diventata tutta berlusconiana. Ma c’è un tumulto più alto e più drammatico nel globo. Si sta scatenando una crisi economica che ha fatto ricordare quella terribile del ’29. Sono prove dure che evocano e ripropongono fortemente la questione del ruolo e della forza del soggetto di classe: le sue forme preziose di autonomia, la sua lettura del mondo, il patrimonio di idee che ha seminato e che ha alimentato una grande storia. Proprio in questi giorni abbiamo visto raccontata in tv la vicenda straordinaria di un umile bracciante pugliese: Giuseppe Di Vittorio, che visse e guidò lo scendere in campo del proletariato del Sud e, attraverso lotte memorabili, divenne un grande capopopolo, un trascinante protagonista della battaglia di libertà e di riscatto delle masse lavoratrici italiane».

Che ricordo hai di lui?
«Ricordo un episodio del lontano ’56: quando pressoché tutto il Pci, me compreso, si schierò a favore dell'aggressione sovietica all'Ungheria, Di Vittorio disse di no e rimase nel partito: e anche per questa ardita limpidezza nelle decisioni, lo amammo molto. Lo rispettavamo tutti, persino Togliatti che pure era cocciuto nelle sue convinzioni, in alcuni momenti anche feroce come fu nella disgraziata polemica con Elio Vittorini».

Abbiamo evocato la crisi economica del 1929. Ci sono somiglianze con le vicende di oggi?
«Credo ci siano tratti in comune su un nodo essenziale: la sorte del lavoro subalterno e la caduta dello sviluppo produttivo. Manca lavoro per gli operai e si producono meno beni».

La crisi del capitalismo sembra ridare vitalità al pensiero di Marx e a quello di Gramsci...
«Tu evochi grandi maestri. Ma da allora tante cose sono mutate. C'è una lettura di un secolo- il grande e terribile Novecento- tutta da rifare. E qui nemmeno Marx e Gramsci bastano. E lo sguardo deve allargarsi all’intero globo».

Ma non sarà che è in crisi il modello del consumismo? Zanzotto, un poeta che conosci, parla di teologia del prodotto interno lordo...
«Amo Zanzotto, ma ho dubbi su questa lettura. Penso alla grande fame che c’è ancora oggi nel mondo, basta pensare all'Africa, all’Asia, all'America Latina. E c’è tanta fame anche qui in Italia, a cominciare dal mio amato Sud. Conosco tanti lavoratori che guadagnano molto poco e hanno scarsissime garanzie quanto al posto di lavoro. Chiedetelo a Epifani e vi dirà se ho ragione».

Rievocando Berlinguer non c’è bisogno, oggi, di austerità, di maggiore sobrietà?
«L'idea dell'austerità non mi convinceva ai tempi di Berlinguer e ancor meno la credo attuale oggi. La grande massa degli uomini non mangia troppo ma troppo poco: alcuni non hanno nemmeno un tozzo di pane...».

Abbiamo ricordato che alla Casa Bianca è cambiato inquilino. Che novità è?
«Prima di tutto la novità sta nell'avere un presidente degli Stati Uniti "nero". Ricordo un libro che si chiamava “La capanna dello zio Tom”: mi prese e mi affascinò, quando lo lessi da adolescente. E non lo dimenticai più. Ebbene, oggi un erede dello zio Tom è presidente degli Stati Uniti. A me colpisce e dà speranza. Poi – certo - è da vedere quanto tutti noi nel mondo sapremo aiutare i tentativi di quel "nero". Intanto però alla Casa Bianca c'è lui, con quel nome: Obama».

Il presidente americano ha già compiuto alcuni passi contro l'idea della guerra. Ma tu credi davvero che sia possibile scacciare la guerra dall'orizzonte degli uomini?
«È una speranza che mi porto da tanto nel cuore. Certo so bene, e amaramente, che la lotta per la pace ha avuto sinora confini troppo limitati e subìto troppe omissioni. È rimasta l'idea di una minoranza. Io stesso per la mia parte sono riuscito a fare troppo poco. Eppure resto testardamente convinto che tener viva l’idea di un mondo in pace sia scegliere un cammino dell’uomo, un’idea di civiltà. Significa leggere in altro modo le facce degli esseri umani che incontriamo per strada ogni mattina».

Alle prossime elezioni Ingrao per chi voterà?
«Per Rifondazione comunista. Non condivido numerose delle posizioni di Ferrero. Tuttavia ritengo che nell’attuale lotta politica sia essenziale la presenza a sinistra di un soggetto politico organizzato. Faccio qualche esempio: in Sinistra e Libertà ci sono tanti compagni che stimo e che mi hanno dato speranza. Penso però che quello che hanno da dire persone come Bertinotti, Vendola, Mussi e la Bandoli è meglio che lo dicano e facciano vivere operando dentro la struttura di un partito, di un soggetto politico “formato”».

Sollecitiamo il poeta: dovessi scegliere una poesia che rappresenti il tempo presente?
«Ti dirò invece la poesia che fra tutte mi piace di più al mondo: “L'infinito” di Leopardi, grande testo lirico su una enorme domanda umana. Se poi dovessi citare due autori del mio tempo che amo da matti ti rispondo: Joyce e Kafka».

E da cinefilo, un regista e un film?
«Dico subito Chaplin: quello di “Tempi moderni”, straordinaria rappresentazione dello sfruttamento capitalistico nella macchina fordista. E poi ne aggiungo un altro, italiano, più scarno, più malinconico: penso a Ladri di biciclette (di De Sica) con quel suo stupendo finale: lui, lo sconfitto, solo nella strada con il figlioletto accanto».

Sembri quasi pentito di non aver fatto cinema, la tua grande passione...
«No, alla fine mi piaceva di più la musica delle parole: più delle immagini».

Ingrao, hai intitolato una tua autobiografia “Volevo la luna”. A 94 anni come ti definiresti: deluso, sconfitto, ottimista?
«Deluso no. La vita è appassionante: mi piace vivere. Mi piacciono i colori della terra, e anche le musiche che da essa stranamente si diramano. Quanto alla luna - se posso dire - l’ho desiderata molto. Sconfitto? Forse mi ci sento e accetto la botta. Ottimista, invece, mi pare difficile esserlo con tanti e tanti anni sulle spalle».
pspataro@unita.it

28 marzo 2009
da unita.it
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« Risposta #5 inserito:: Gennaio 21, 2010, 05:42:21 pm »

Pietro Ingrao: “Di Craxi non salvo nulla”

Il leader storico della sinistra comunista: "Di luci nell'agire del leader Psi non ne ho mai viste.

Non posso riconoscermi nel quadro che ha delineato il Capo dello Stato".

Riccardo Barenghi intervista Pietro Ingrao,

La Stampa, 19 gennaio 2010

Ripete le stesse parole che pronunciò in quello storico discorso all'XI congresso del Pci, nel 1966: «Cari compagni, non mi avete convinto». Allora si rivolgeva ai suoi compagni di partito che l'avevano sconfitto nella battaglia congressuale, oggi si parla di Craxi e della lettera che il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano ha inviato alla vedova dell'ex leader socialista morto dieci anni fa. Quindi, in qualche modo si parla ancora dei suoi ex compagni di partito e di battaglie interne, non a caso nel Pci Napolitano fu, dopo Giorgio Amendola, il rivale del leader della sinistra comunista, ossia Pietro Ingrao.

Ingrao, cos'è che oggi non la convince?
Ho trovato francamente esagerate tutte le cose che ho letto in questi giorni, non credo che una rivalutazione di Craxi - nel mondo comunista si sarebbe chiamata con un orrendo termine: riabilitazione - sia politicamente giusta e corretta.

Ma Napolitano, e non solo lui, sostiene che ci furono luci e ombre nella politica di Craxi...
Potrei dire che Napolitano è stato molto generoso, anche troppo. Io comunque non condivido il suo giudizio, molte chiacchiere ma non una parola dura, anche cattiva. Sinceramente io luci non ne vedo, perché nel corso di quegli anni molto aspri per la vicenda politico-sociale del nostro Paese, Craxi si è schierato con la parte più conservatrice della Dc, con Forlani e Andreotti e non certo con Zaccagnini. E contemporaneamente ci ha fatto la guerra, a noi comunisti. Dopo la morte di Moro venne fuori la sua natura di anticomunista che non aveva alcuna intenzione di promuovere l'unità delle sinistre. Un progetto politico che invece avrebbe potuto contribuire a rinnovare la società. Ecco perché ho sempre sostenuto che Craxi era un conservatore.

Ma molti al contrario dicono che fosse un uomo di sinistra e per di più un innovatore...
Ma manco per idea. Era distante anni luce da un socialista come Riccardo Lombardi, lui sì di sinistra insieme ad altri nel Psi. Craxi era un'altra cosa, e francamente non vedo proprio dove abbia innovato, semmai ha usato la sua spregiudicatezza per crearsi spazio nel quadro politico. Ma allora entriamo in un'altra categoria, quella dei politicanti...

Eppure molti suoi ex compagni di partito, per esempio Piero Fassino, lo hanno rivalutato in questi anni. Secondo lei perché?
Risponderei in poche parole che per dicono tutto: perché c'è un forte vento di destra che spira sull'Italia.

E della questione di Tangentopoli, lei che idea s'è fatto?
Sulla vicenda strettamente giudiziaria che ha riguardato Craxi non mi va di intervenire. Capisco la delicatezza che il Presidente della Repubblica ha usato nell'affrontare questo capitolo difficile, ma anche qui non mi sento di condividere i suoi giudizi.

Ma lei di Craxi non salva nulla?
Nulla, proprio nulla. Perché ha agito in modo negativo nella vicenda politica italiana. E anche qui, mi dispiace, pur capendo il garbo del Capo dello Stato, non posso riconoscermi nel quadro che ha delineato.

E invece del suo esilio ad Hammamet che giudizio dà?
Ecco, qui invece vedo un orgoglio umano nella sventura, un orgoglio che rispetto.

(19 gennaio 2010)
da temi.repubblica.it/micromega-online
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« Risposta #6 inserito:: Aprile 08, 2013, 06:52:33 pm »

«La politica siamo tutti noi»

di Pietro Ingrao


«Non mi avete convinto» di Filippo Vendemmiati è una lunga intervista con l'intellettuale, poeta e leader della sinistra.

Dietro quegli ordigni, e dietro quelli che avevano tramato la strage di Brescia, c’erano una volontà e un odio che andava oltre l’atto che compivano.

Credo ci fosse un attacco profondo contro tutta una storia del nostro Paese, contro la sua eredità e la sua ricchezza più grande. Contro una svolta storica che si era compiuta nel nostro secolo, contro quell’atto fondante di tutta la nostra vita, quella pagina alta che si chiama la Resistenza italiana. Furono anni grandi e terribili ma straordinari quelli che vivemmo allora, quell’esperienza occupò tutta la vita del pianeta e per quelli di noi che vi parteciparono fu davvero uno scontro totale per la vita e per la morte.

Sentimmo che era in gioco la ragione per cui scriviamo questo nome «antifascismo» e lo portiamo dentro l’animo nostro, le nostre carni, la nostra vita e lo facciamo vivere nelle nostre bandiere.

Fummo costretti a combattere un nemico totale, implacabile, che non chiedeva questo o quello, ma che voleva tutto, che mirava al dominio del mondo. Perciò in quei giorni sentimmo che ci giocavamo tutto e che si discuteva non della sorte di uno o di altri e nemmeno di un solo popolo ma davvero di qualcosa di profondo e di generale.

Scoprimmo un orizzonte nuovo, imparammo cose che fino ad allora a tanti di noi, quale che fosse la loro corrente, ancora non erano pienamente chiare. Scoprimmo un senso dell’uomo, una concezione nuova della libertà, una visione dei popoli, della loro identità, della loro storia. E imparammo che la libertà non poteva essere divisa e valere solo per alcuni e non per altri e l’indipendenza non poteva essere riconosciuta a un popolo senza che fosse minacciata poi anche per altri popoli (...).

Non per caso si trovarono improvvisamente l’uno di fianco all’altro uomini che avevano pensieri distanti, uomini di fede cristiana e altri di fede marxista, e collettivisti e liberali, e laici e socialisti. Ma tutti imparammo a condurre una battaglia comune per affermare la volontà di riconoscersi come nazione, di affermare il diritto e la capacità di decidere da sé. La vera vittoria che noi cercavamo non era solo colpire il nemico, ma fare crescere il popolo, la sua unità, la sua volontà di combattere e di difendere se stesso, la sua capacità di vivere un’esperienza comune. E così diventare più forti, ciascuno come individuo, conquistare una libertà più grande, una capacità di trasformare non solo piccole cose, ma tutta intera la vita intorno a noi (...).

Proprio questa grande speranza di fare crescere una vita del popolo, in cui non tutte le teste diventano uguali ma restano diverse e riescono lo stesso a ritrovarsi e a costruire insieme un avvenire comune, era quella che più odiavano gli uomini della strage di Piazza della Loggia. Avevano paura che ci incontrassimo, che ci ritrovassimo. Questo volevano colpire e distruggere. Perché la crescita di questo grande incontro, di questa civiltà nuova di un mondo del lavoro che si organizza, non solo era la negazione totale del fascismo, ma era un fatto straordinario. È la grande impresa cominciata in questo secolo e che, se riusciremo a farla camminare, romperà domini secolari, spezzerà antiche oligarchie, chiamerà ciascuno di noi finalmente a pensare, vivere, organizzarsi in modo nuovo. Perciò quello che avvenne il 28 di maggio del 1974 a Brescia non fu un episodio tra i tanti, ma fu un punto nodale di un grande scontro nella vita italiana. Dinnanzi a questo popolo che cresceva c’è stato chi, terrorizzato, mise in piedi e portò avanti la strategia della tensione che non fu solo morte e sangue, ma fu un disegno, un complotto, un tentativo di spaccare il Paese.

Chi spara e mette le bombe non vuole che ci siano organismi, partiti, sindacati, circoli, di idee diverse, che imparano a tessere un dialogo e a fare crescere la lotta comune. Non vuole che a contare siano molti perché chi vuole ridurre la vita dell’Italia a uno scontro di killer ha voi lavoratori nel mirino. Vi vuole cacciare dentro le case, vuole bloccare le assemblee in cui si discute, colpire quello che invece noi vogliamo ardentemente. Quante volte hanno raccontato, nei secoli, che chi decideva erano quelli che stavano in alto? E voi avete sperato, insieme, che venisse un tempo in cui non decide uno o un altro, ma tutti insieme. Questa speranza della politica è di tutti, non la lasceremo morire, la porteremo avanti con tutte le forze nostre.

Perché abbiamo imparato che così davvero possiamo contare e fare crescere noi stessi. Se ci dividiamo, se ci rompiamo, se abbiamo paura, se ci chiudiamo nelle case, se lasciamo la decisione alla pistola e alle bombe tutti perdiamo il meglio di noi stessi e alla fine, anche quando viene ammazzato uno che non è della parte nostra, siamo anche noi che paghiamo perché diventiamo più deboli (...). Noi rispondiamo che vogliamo e possiamo difendere insieme il diritto alla vita, il diritto alla libertà e al tempo stesso l’unità del nostro Paese senza cancellare le differenze, il confronto delle idee, proprio perché abbiamo imparato a concepire l’unità non come qualcosa in cui diventiamo tutti uguali e tutti gli stessi, ma come ricchezza, creatività, pluralità di idee che però sa darsi un orizzonte, un progetto, un metodo comune. La democrazia voluta nella Costituzione sa aprire nuovi orizzonti, sa rinnovare la vita nostra, sa correggere guasti, ingiustizie, sa cancellare oppressioni. E qui c’è un messaggio che dobbiamo far arrivare alle nuove generazioni per impedire che passi chi predica ai giovani sfiducia, chi insinua il disprezzo della libertà e della vita comunitaria, chi addirittura gli dice ma sì, dedicati all’esaltazione della prepotenza, buttati alla guerra dell’uomo contro l’uomo.

Testo tratto dal discorso di Pietro Ingrao a Brescia per il quinto anniversario della strage di Piazza della Loggia

da - http://www.unita.it/culture/la-politica-siamo-tutti-noi-br-ingrao-le-speranze-per-il-futuro-1.472627?page=3
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