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Autore Discussione: FRANCESCA SCHIANCHI.  (Letto 33329 volte)
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« Risposta #45 inserito:: Ottobre 05, 2017, 10:53:06 am »

Vince la linea D’Alema. Crisi tra Mdp e maggioranza, tensione con Pisapia
L’ex sindaco: almeno li ho convinti a votare lo scostamento

Pubblicato il 04/10/2017 - Ultima modifica il 04/10/2017 alle ore 08:03

FRANCESCA SCHIANCHI
ROMA

«I gruppi di Mdp all’unanimità hanno scelto di non votare la relazione sul Def e di votare a favore dello scostamento di bilancio». È tardo pomeriggio quando il coordinatore del partito, Roberto Speranza, si affaccia da un’uscita laterale del Senato per dichiarare a giornalisti e telecamere quello che, fin dal mattino, si sussurra come retroscena nei Palazzi: l’uscita dell’ala più di sinistra dalla maggioranza, suggellata in serata dalle dimissioni del loro unico rappresentante al governo, il viceministro Filippo Bubbico. Un «messaggio politico forte», come si compiace Speranza, che allontana il drappello dei parlamentari scissionisti del Pd ed ex Sel dal governo di Gentiloni, ma anche dal progetto di una fusione con Campo progressista di Giuliano Pisapia. Sulla cautela dell’ex sindaco vince la linea barricadera di Massimo D’Alema, che da tempo predica la sfida al governo fino alle estreme conseguenze: «Ora abbiamo le mani libere», rivendica soddisfatto in tv da Bianca Berlinguer.


 
«In questi giorni mi sono impegnato affinché Mdp votasse a favore dello scostamento di bilancio per evitare non solo l’aumento dell’Iva ma più in generale un peggioramento delle condizioni di vita degli italiani», fa sapere non a caso in serata Pisapia, lasciando aperta la porta al governo per l’appuntamento più importante, quello di fine anno sulla manovra: «Prendo atto che il ministro Padoan ha dichiarato che è stato avviato un percorso» per inserire le richieste fatte proprio da lui lunedì, in un incontro a Palazzo Chigi, «confido che arrivino risposte in quella che sarà la discussione e il confronto sulla legge di bilancio». Parole che lasciano aperto un dialogo con il governo, senza bacchettare i compagni di strada di Mdp, come invece fanno i suoi uomini a Roma. «E’ un errore, la scelta di Mdp è un frutto malato della scissione: sono convinti di guadagnare più spazio politico andando all’opposizione», sbotta Bruno Tabacci, che alla Camera voterà la risoluzione. Così come faranno a Palazzo Madama sei senatori che si riconoscono in Campo progressista, a partire da Dario Stefano: «Perché dovremmo votare contro? Noi abbiamo interesse a rafforzare il centrosinistra, non a indebolirlo».
 

 
La decisione arriva dopo due riunioni degli scissionisti Pd, una dei 43 deputati della Camera, l’altra dei 16 senatori. Il via libera alla tattica di votare lo scostamento di bilancio (perché «noi ci sentiamo vincolati alla responsabilità verso l’Italia – spiega Pier Luigi Bersani – non rischieremo di far arrivare la troika») e non votare la risoluzione viene deliberata all’unanimità, come chiede Speranza. Una richiesta precisa, per dare una sensazione di unità, proprio mentre la distanza con Pisapia e i suoi è evidente: solo tre giorni fa, insieme su un palco, a precisa richiesta del giovane coordinatore di Mdp di svolgere insieme un’assemblea fondativa del nuovo partito, l’ex sindaco ha evitato di fissare una data. Decisivo allora il voto unanime di ieri, per restituire la sensazione di un gruppo compatto e allineato. «Il dato è che i nostri parlamentari si comporteranno in modo omogeneo e unitario», ripete non a caso il senatore bersaniano Miguel Gotor. Un gruppo capace di alzare la voce col governo: come da tempo chiede D’Alema, convinto della necessità di smarcarsi dalle politiche del Pd, «se siamo alternativi come dice Pisapia – sottolineava ieri – vuol dire che non abbiamo più il vincolo di votare tutto quello che il Pd propone». Non è passato inosservato, ieri, all’indomani della visita di Pisapia a Gentiloni, elogiato dall’ex sindaco per la sua discontinuità di metodo con Renzi, un articolo su Lettera 43 firmato da Peppino Caldarola, direttore della rivista dalemiana Italianieuropei, che definiva il premier rappresentante «di quella sinistra che teme più del fuoco la radicalità delle proposte».
 

 
A Palazzo Chigi hanno seguito la giornata con comprensibile interesse: è cominciata la campagna elettorale, si sono detti, è successo qualcosa di talmente significativo che forse non si tornerà più indietro. Ergo, il governo potrebbe ballare nei prossimi mesi. Soprattutto perché sanno bene che alla partita sui provvedimenti finanziari si intreccia quella, delicatissima, sulla legge elettorale. Dove il Pd non sembra intenzionato ad andare incontro agli ex compagni di partito, dipinti ora come irresponsabili impegnati «nei giochini della vecchia politica». 

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Da - http://www.lastampa.it/2017/10/04/economia/vince-la-linea-dalema-crisi-tra-mdp-e-maggioranza-tensione-con-pisapia-HVbBTBExzqZKusO1udJngM/pagina.html
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« Risposta #46 inserito:: Ottobre 28, 2017, 11:33:58 pm »

Governo irritato: “Condizioni irricevibili è una pre-secessione”
Ma Renzi: “Bisogna tener conto del risultato”


Pubblicato il 24/10/2017

FRANCESCA SCHIANCHI
ROMA

«Il presidente Maroni discute nel merito. Zaia invece chiede tutte le competenze, i nove decimi delle tasse e il Veneto a statuto speciale: un’operazione pre-secessionista di chi non ha a cuore l’unità nazionale». A metà pomeriggio del day after, la risposta del governo alle pretese venete è durissima. Agli occhi del sottosegretario Gianclaudio Bressa, responsabile degli Affari regionali e delegato a trattare la questione per il premier Gentiloni, è chiara la differenza di approccio tra Lombardia e Veneto: l’una responsabile, attenta a muoversi entro il perimetro della Costituzione; l’altra “oltranzista”, lesta a far balenare ai cittadini un’autonomia assoluta impossibile da ottenere. Pronti a incontrare entrambe, è la posizione dell’esecutivo, ma solo a condizione di confrontarsi con richieste ricevibili, altrimenti «non ci sono margini di trattativa». Non a caso, a ieri sera un contatto telefonico c’era stato con il governatore lombardo Maroni, ma non con il collega veneto Zaia. 

È Maroni ad alzare la cornetta per un «cordiale» colloquio sia con Bressa - due parole amareggiate sul Milan di cui entrambi sono tifosi, prima di ricevere disponibilità a discutere - e poi con Gentiloni: «Mi ha confermato - racconta il presidente leghista - il via libera al confronto su tutte le materie previste dalla Costituzione, con anche il coinvolgimento del ministero dell’Economia». Un primo passo verso il percorso già intrapreso senza referendum dal presidente dell’Emilia Romagna, Stefano Bonaccini, che ieri ha sentito Gentiloni e oggi incontrerà Bressa: «Disposto anche a fare incontri collettivi con Lombardia e Veneto», ha dato la sua disponibilità al premier. Perché anche nel Pd si sono accorti che il tema è sentito: «Il risultato dei referendum non va minimizzato», ammette il segretario Renzi, che va oltre la procedura di cui si discute: «Bisogna ridurre la pressione fiscale», la sua proposta, arrivando a sperare in un «accordo» tra forze politiche nella prossima legislatura per riuscire a farlo.
 
“I partiti tradizionali sono in ritardo, non afferrano i motivi della protesta”
Il fatto è che le richieste di Luca Zaia vanno ben al di là di un aumento dei margini di autonomia. Prova a stopparle il ministro Maurizio Martina, ricordando che le materie fiscali non sono oggetto di trattativa, e si becca una rispostaccia: «Il nostro interlocutore è Gentiloni». Il premier, che ha evitato anche nelle settimane scorse di intervenire sul tema, convinto che il risultato fosse abbastanza irrilevante essendo il governo già da tempo pronto a intavolare una trattativa, ufficialmente non parla nemmeno oggi che il Veneto chiede condizioni da statuto speciale che necessiterebbero di un cambio di Costituzione, appannaggio eventualmente del Parlamento. Una «provocazione» la fa però l’uomo che ha incaricato di occuparsene: «La sentenza della Corte costituzionale che ha consentito il referendum già aveva bocciato l’ipotesi di trattenere in Veneto l’80 per cento delle risorse definendola “un’alterazione stabile e profonda della finanza pubblica”. E far diventare tutte e 23 le materie concorrenti di competenza regionale significherebbe stravolgere la Costituzione», smonta una a una le richieste venete il sottosegretario Bressa, «l’atteggiamento di Zaia è pericoloso: se tutti facessero come lui non ci sarebbe più la Repubblica italiana». Bellunese di nascita, Bressa conosce bene le spinte autonomiste venete, tanto che fu lui a scrivere quel terzo comma dell’art. 116 che oggi consente alle Regioni di trattare. «Zaia pensa di essere El Cid Campeador del Veneto, ma ci vuole serietà. Il Veneto ha un debito previdenziale di alcuni miliardi: per pagare le pensioni, è debitore rispetto alla finanza nazionale. Quando si passa dalla poesia alla prosa la gente comincia a dire “vediamo un attimo” ...».
 
A queste condizioni, la trattativa con Venezia e dintorni è in stallo. Ma oggi il premier sarà a Marghera, ad accoglierlo troverà il presidente Zaia e chissà se i due potranno avere un confronto. In realtà, a Palazzo Chigi sanno che il problema si porrà per il prossimo governo: stretti i tempi della legislatura, lunghi quelli di un negoziato che è una “prima volta”. Anche solo delineare i confini delle varie materie di competenza non sarà facile. Per chi vorrà provare a discuterne.

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Da - http://www.lastampa.it/2017/10/24/italia/politica/governo-irritato-condizioni-irricevibili-una-presecessione-Uhrx92U5EsU9XQRbOVUxkI/pagina.html
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« Risposta #47 inserito:: Novembre 04, 2017, 07:30:07 am »

Matteo e Gentiloni firmano la tregua.
Il segretario: “Non metto veti a Mdp”
“Pronti alla coalizione, anche se non era il mio sogno segreto”. Il premier lo punge: non dissipiamo i nostri risultati

Pubblicato il 29/10/2017 - Ultima modifica il 29/10/2017 alle ore 07:06

FRANCESCA SCHIANCHI
INVIATA A PORTICI (NAPOLI)

«Parliamo con tutti, siamo pronti alla coalizione anche se non era il mio sogno segreto. Aver fatto una legge che obbliga alla coalizione, tiene insieme Salvini e Berlusconi, che avrei preferito tenere divisi, ma ormai è andata. Noi non mettiamo veti, nemmeno su Mdp che ci insulta tutti i giorni: cosa vogliono ancora da noi?». A sera, quando ormai la sala del grande deposito treni di Pietrarsa si è svuotata e il presidente del consiglio Paolo Gentiloni è già in viaggio verso l’aeroporto per un viaggio istituzionale in India, Matteo Renzi è soddisfatto. «È andata molto bene», commenta coi collaboratori più stretti: una giornata complicata iniziata con la lettura delle critiche dei giornali è girata come sperava, la tregua con il premier è stata siglata sotto gli occhi di giornalisti e telecamere, tra sorrisi e battute. Dopo i giorni della tempesta e degli scontri su Bankitalia, è il momento di ricucire: e Renzi tenta di farlo platealmente, dal palco della conferenza programmatica del Pd. 

«C’è stata in queste settimane qualche differenza di vedute», ammette Renzi introducendo il premier a una visita guidata sul treno Pd con cui sta girando l’Italia, «ma questa è casa tua». E il premier si concede all’abbraccio: chiedendo unità, ma anche con una puntura di spillo, chiedendo aiuto a chiudere il mandato in modo ordinato, pur sottolineando la leadership di Renzi. «Spalle larghe, poche chiacchiere, gioco di squadra e discussione aperta», invita tutti parlando dal palco, occhi negli occhi con Renzi in prima fila, «gli ultrà delle nostre divisioni sono la famiglia più numerosa d’Italia», e invece bisogna lavorarci perché «il primo punto del mio programma siamo noi», e «De Coubertin non è nel nostro Pantheon»: cioè «giochiamo per vincere». E in quel noi c’è la richiesta, che suona polemica al modo felpato di Gentiloni, di «prendere l’impegno solenne a una fine ordinata della legislatura» e a «non dissipare i risultati raggiunti in questi anni». E a fare una campagna elettorale «per l’Europa» non contro l’Europa.
 
Dalla prima fila Renzi applaude, poi lo accompagna all’uscita scherzando sul calcio, una battuta anche per Bankitalia, ma solo per ricordare insieme sorridendo quando Berlusconi al nome di Visco, sei anni fa, pensò al «comunista» Vincenzo anziché a Ignazio. Il saluto con il premier è solo l’ultima fotografia di una giornata passata a incontrare il suo sfidante alle primarie Michele Emiliano e a scherzare sul treno tra il ministro Marco Minniti e il collega Graziano Delrio («sono tra l’ala destra e l’ala sinistra del partito», dice in una diretta via Facebook). Delrio è tra i ministri che erano assenti al Consiglio dei ministri di venerdì che ha confermato Visco: un’influenza presa «nella galleria della Agrigento-Caltanissetta», si giustifica, ma ieri era presente. «Avevo parlato a lungo il giorno prima con Paolo - garantisce - sapeva che non sarei andato, tanto la scelta era già fatta. Io la penso come Matteo, ma è una decisione che ha preso Paolo e va bene così», tenta di tagliare corto sull’argomento: «Basta fare pettegolezzi sulle istituzioni».
 
Così, con l’abbraccio tra premier e segretario, si chiude il caso Visco. Con tutto il partito riunito, oppositori inclusi, dal ministro Orlando che ha parlato il primo giorno di lavori ma torna ad ascoltare, a Emiliano. Manca Franceschini. Sono tra i sospettati di poter ordire un agguato a Renzi, dopo le elezioni siciliane, se i risultati dovessero essere pessimi come si temono. «Mi spiace per la Sicilia, non per il Pd. Cosa volete che succeda? - sbotta coi suoi il segretario -. Vi immaginate se qualcuno avrà la forza di venire in direzione a contestare? E per cosa, poi? Non credo: sarebbe una mossa azzardata». Anche perché, aggiunge malizioso qualcuno dei suoi, a chiedere primarie avrebbero paura di una sua vittoria. «Andiamo avanti», ripete. La tregua è siglata. Quanto durerà, si scoprirà a breve.

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Da - http://www.lastampa.it/2017/10/29/italia/politica/matteo-e-gentiloni-firmano-la-tregua-il-segretario-non-metto-veti-a-mdp-pKekLjAvTOgKtP6P4dgl4M/pagina.html
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« Risposta #48 inserito:: Novembre 20, 2017, 05:28:37 pm »

Renzi ne parla con il sacerdote: “Vedrete, approveremo la legge”
Ma in soli venti giorni ci sono anche Ius soli e regolamenti

Pubblicato il 17/11/2017 - Ultima modifica il 17/11/2017 alle ore 11:18

FRANCESCA SCHIANCHI
ROMA

«Della legge sul biotestamento ho parlato con il mio don, il mio prof di religione, che è uno molto rigoroso, attento a sottolineare l’appartenenza alla dottrina: anche lui dice che, coi livelli raggiunti dalla scienza, impedire il fine vita rischia di essere anticristiano». A chi nei giorni scorsi gli ha chiesto un’opinione sul biotestamento, anche a interlocutori cattolici, il segretario del Pd Matteo Renzi ha risposto così. Ora, le parole di papa Francesco, quel richiamo a evitare cure «non proporzionali», vanno in direzione di quello di cui anche lui è convinto: «Sono d’accordo col Santo padre», ripete. Dinanzi ai tanti che – a partire dai senatori a vita - intervengono per chiedere che venga finalmente discussa la legge ferma al Senato, si dice sicuro parlando con i collaboratori: «Vedrete: la approveremo». Passato alla Camera in aprile con una strana maggioranza formata dai voti di Pd, Si, Mdp e M5S, da allora il provvedimento è fermo, arrivato nell’Aula del Senato senza mandato al relatore. «Il biotestamento è uno dei nostri obiettivi prioritari», garantisce oggi il capogruppo dem di Palazzo Madama, Luigi Zanda. Il problema sono i tempi: la legge di bilancio verrà licenziata dal Senato il 28 o 29 novembre, a quel punto ci sarà una ventina di giorni o giù di lì, durante i quali la manovra sarà alla Camera, disponibili per lavorare ad altro. Ma, oltre al testamento biologico, aspettano di essere approvati anche lo Ius soli e la modifica dei regolamenti parlamentari, per stare alle preferenze del gruppo di maggioranza, il Pd. Poco tempo per tutti quei provvedimenti. A meno che, ma questo ancora non si sa, le Camere non vengano sciolte dal Presidente della Repubblica a fine gennaio, regalando qualche altra settimana di lavoro. 

«Dobbiamo provarci – insiste però Zanda – dobbiamo tentare di approvare il testo così com’è, perché chi propone modifiche non vuole che venga approvato». A chiederle sono in primis gli alleati di governo di Ap, che non vedono nella posizione del pontefice nulla che determini un cambio di linea: «Quel testo va corretto, così non lo votiamo», insiste Maurizio Lupi; «la legge va migliorata», aggiunge la ministra Beatrice Lorenzin. Una chiusura che, ragionano nel Pd, rende difficile il ricorso alla fiducia, strumento a cui si è qualche volta pensato, panacea di tutti i mali quando bisogna superare un ostruzionismo-monstre e i tempi sono ristretti. Ma, appunto, difficile da praticare se una forza di maggioranza è contraria e, per di più, il tema è così delicato e discusso. 
 
Difficoltà oggettive che però Renzi e chi gli è più vicino sono convinti si possano superare. «Alla Camera l’abbiamo approvata con numeri enormi – sottolinea Ettore Rosato, il capogruppo che lavorò per condurla in porto, ricordando i 326 voti a favore (37 i contrari e 4 gli astenuti) – dobbiamo tornare a quei numeri: le parole del Papa sono come coltello nel burro di una opinione pubblica che da tempo chiede quella legge». Basterà la pressione della società? Oltre alla corsa contro il tempo, a preoccupare i dem è anche la maggioranza inusuale. Perché sulla tenuta dei Cinque stelle, sul fatto che ripeteranno il voto a favore anche nel secondo ramo del Parlamento, al Senato non ci giurerebbero. «Siamo sicuri che non si rimangeranno la parola?», s’interroga Zanda, dopo che già sulle unioni civili il Pd si era illuso di potere contare sui loro voti e poi la trattativa è saltata. Un rischio che considerano ancora più alto a fine legislatura, quando l’imminenza della campagna elettorale potrebbe indurre l’opposizione a prendere le distanze dal Pd. Ma il punto vero per farcela è la volontà dei dem di calendarizzare in Aula e provarci. Una ventina di giorni sono pochi, ma non è impossibile: «Vedrete - sparge ottimismo Renzi - ce la faremo».

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Da - http://www.lastampa.it/2017/11/17/italia/politica/renzi-ne-parla-con-il-sacerdote-vedrete-approveremo-la-legge-d9v3l0kLyS8rM3jrpPex9M/pagina.html
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« Risposta #49 inserito:: Novembre 20, 2017, 05:50:12 pm »

Renzi cambia e apre alle alleanze a sinistra
Il segretario unisce il Pd: «Forse c’è stato l’uomo solo al comando, ma non è più così». Poi lancia la palla ai bersaniani: «Chi si tira indietro si assume una pesante responsabilità»

Pubblicato il 14/11/2017

FRANCESCA SCHIANCHI
ROMA

«Chi si tira indietro dall'invito all'unità del centrosinistra si assume una pesante responsabilità». Nella frase con cui ieri sera il segretario Matteo Renzi ha chiuso la direzione del Pd c’è il senso di tutto il suo discorso. Atteso come l’oracolo, preceduto da caldi inviti della minoranza ad aprire a un’alleanza con le altre forze di sinistra, si è risolto in un appello agli ex compagni di strada di Mdp, Possibile e alla Sinistra italiana di Fratoianni, senza però accennare nessun passo indietro sui contenuti, dal Jobs Act alla politica sui migranti: quanto basta per poter dire che «chi vorrà rompere lo dovrà fare in modo trasparente perché da noi non troverà alcuna sponda». 
 
Una nuova chiamata a una «coalizione più larga possibile», considerato che con gli scissionisti di D’Alema e Bersani già si governa «in 14 Regioni» e «con le persone da cui siamo stati divisi da discussioni e polemiche c’è più sintonia che con gli avversari storici», ma partendo dalla rivendicazione delle politiche di questi anni di governo («Chi si esercita in richieste di abiura non si rende conto di dove eravamo tre anni fa», dice): abbastanza per compattare il partito su un documento unitario (resta scettico solo Orlando: insieme ai 15 della sua corrente si astiene), ma non per convincere Bersani e compagni: «Le chiacchiere stanno a zero».
 
Per cercare di dare impulso e sostanza alle dichiarazioni di buona volontà, per tentare di passare agli «atti concreti» che ieri ha evocato anche il solitamente taciturno Enrico Letta («positivi gli appelli all’unità, ma auspico che il Pd faccia anche proposte concrete»), Renzi incarica Piero Fassino «di darmi una grande mano con il mondo della sinistra»: sarà l’ultimo segretario dei Ds, che con D’Alema e gli altri ha condiviso un bel pezzo di strada, ad avere il ruolo di pontiere. Lui ieri ha cominciato dai Radicali di Magi, Emma Bonino e Benedetto Della Vedova, incontrati prima della direzione con il delegato alle trattative con le forze di centro, Lorenzo Guerini: «Credo sia cruciale che venga coinvolta l’area moderata così come i Verdi, Idv e i Radicali, con i quali c’è una discussione non scontata né chiusa». Una coalizione da lì a Campo progressista, e anche oltre, se si potesse, anche se, da Fratoianni a Civati, le premesse non sono incoraggianti. «Dentro Mdp si aprirà una discussione, vedrete. Ma nulla si muoverà prima della loro assemblea del 2 dicembre», prevedono ai vertici del Pd.
 
«Sulla rivendicazione del passato non faremo alcun passo indietro», garantisce il segretario dem - rinnegarlo «sarebbe assurdo, illogico e inspiegabile» - ma «il futuro è una pagina totalmente bianca da scrivere: o la scriviamo noi o la destra», avverte, convinto che «il M5S è ampiamente sovrastimato nei sondaggi». Un appello a tutti quelli che stanno fuori dal Pd a stare insieme se non per amore, almeno per fermare l’avanzata delle destre. Sgomberando il campo dal tema dei diritti («non è che facciamo lo Ius soli per fare l’accordo con Mdp, ma perché è un diritto: cercheremo di farlo senza creare difficoltà alla chiusura ordinata della legislatura»), e condendo la richiesta con una timida autocritica, consapevole di essere per gli scissionisti dem il vero ostacolo a un’alleanza: «Non c’è un uomo solo al comando: forse c’è stato in passato, forse, ma adesso c’è una pagina bianca da scrivere insieme», ripete. «Sono tre anni che mi dicono che ho fatto l’accordo con Berlusconi: i fatti dicono il contrario, non credo di essere esattamente la persona che gli sta più simpatica. Adesso dobbiamo agire in maniera unitaria e coesa» per essere «il primo gruppo parlamentare della prossima legislatura».
 
«Bravo segretario, mi hai convinto», interviene dalla minoranza Michele Emiliano. Soddisfatta anche la prodiana Sandra Zampa, come il ministro Dario Franceschini. Resta perplesso il leader della corrente più corposa di minoranza, Orlando: «Siamo in un vicolo cieco: abbiamo approvato una legge che prevede le coalizioni e al momento le coalizioni non le abbiamo», predica, chiedendo di smetterla con la riproposizione del passato («non mi interessa cosa pensa Speranza o Bersani, ma quelle 3-400 mila persone che non sono convinte che abbiamo fatto tutto bene») e chiedendo passi certi per costruire la coalizione. Per questo, pur non presentando ordini del giorno alternativi, lui e i suoi si astengono sul documento finale. Dove si legge di voler aprire un confronto su temi come lavoro, scuola e lotta alla precarietà, e si prende l’impegno a migliorare la legge di bilancio: 164 sì, nessun voto contrario. 

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Da - http://www.lastampa.it/2017/11/14/italia/politica/renzi-cambia-e-apre-alle-alleanze-a-sinistra-UAfEPJD1ZKtbwY0EWtBtQK/pagina.html
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« Risposta #50 inserito:: Dicembre 21, 2017, 02:33:13 pm »

Renzi dopo l’audizione di Visco: “Contento abbiamo fugato ogni dubbio”
L’ex premier: «Nessun ministro ha mai fatto pressioni, ma solo legittimi interessamenti legati al proprio territorio»


Pubblicato il 19/12/2017 - Ultima modifica il 19/12/2017 alle ore 14:06

FRANCESCA SCHIANCHI

C’era grande attesa per l’audizione di oggi del governatore della Banca d’Italia Ignazio Visco alla commissione d’inchiesta sulle banche. In tarda mattinata, dopo le prime tre ore di intervento, il segretario Pd Matteo Renzi diffonde un comunicato per compiacersi di come il governatore abbia «fugato ogni dubbio sul comportamento dei ministri». Vista da Firenze, dove il leader dem segue la giornata, un altro ostacolo sembra superato, dopo gli interventi dei giorni scorsi che hanno riacceso la polemica su Banca Etruria e l’ex ministra Boschi: ecco a seguire il testo completo della nota di Renzi. 

«Ringrazio molto il Governatore Visco per le parole di apprezzamento che ha rivolto al mio Governo nella sua audizione di questa mattina. Confermo che abbiamo sempre avuto la massima collaborazione istituzionale, anche quando non eravamo d’accordo su tutto nel merito. Mi fa piacere che egli finalmente fughi ogni dubbio sul comportamento dei ministri. Nessuno di loro ha mai svolto pressioni, ma solo legittimi interessamenti legati al proprio territorio: attività istituzionalmente ineccepibile svolta anche da amministratori regionali di ogni colore politico. Ringrazio dunque il Governatore Visco che mette la parola fine a settimane di speculazione mediatica e di linciaggio verbale verso esponenti del mio governo». 

 «Confermo anche che il nostro interesse per Etruria era decisamente minore rispetto ad altri gravi problemi del sistema del credito e il tempo che abbiamo impiegato a informarci di questo lo conferma: decisamente più rilevante è stato il lavoro congiunto su altri dossier, a cominciare da quello di Atlante. Rivendico tuttavia il fatto di essermi interessato a tutti i singoli territori, nessuno escluso, oggetto di crisi bancarie. Le difficoltà del calzaturiero marchigiano o del settore orafo aretino o dell’export Veneto o del turismo pugliese stavano a cuore a me e al mio Governo come possono testimoniare le mie iniziative pubbliche e i numerosi incontri con Banca d’Italia, svoltisi sempre alla presenza di collaboratori e colleghi, quali Pier Carlo Padoan e Graziano Delrio».

«Nessuna “insistenza”, nessuna “pressione”, nessuna richiesta di “violazione del segreto” è stata mai formulata da parte nostra e del resto essendosi svolti gli incontri in presenza di testimoni il fatto è facilmente verificabile. Il nostro stile istituzionale è sempre stato ineccepibile come peraltro riconosciuto dallo stesso Governatore».

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Da - http://www.lastampa.it/2017/12/19/italia/politica/renzi-dopo-laudizione-di-visco-contento-abbiamo-fugato-ogni-dubbi-gKXJ6cSxRxpo0y1o6kB4eM/pagina.html
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« Risposta #51 inserito:: Dicembre 22, 2017, 04:22:17 pm »

Renzi: ho incontrato Visco è stato lui a parlarmi di Etruria
Il segretario spinge la Boschi alla battaglia campale: candidarsi contro Di Maio

Il leader Pd ricorda che i suoi incontri con Visco non sono stati a tu per tu «È tutto verificabile: non l’ho mai incontrato da solo La prima volta era con me Delrio, le altre volte Padoan»

Pubblicato il 19/12/2017

FRANCESCA SCHIANCHI
ROMA

A metà pomeriggio, Matteo Renzi digita un sms sul suo smartphone. Il destinatario è Pier Carlo Padoan, che ha appena dichiarato di non aver autorizzato nessuno a occuparsi di banche, poche parole che rimbalzano sulle agenzie e poi sui siti con una sola, univoca lettura: anche lui sta mollando Maria Elena Boschi. «Ma no, Matteo, sono stato uno dei pochi ministri a sostenerla pubblicamente», lo rassicura il titolare dell’Economia alludendo al tweet di pochi giorni fa, prima di diffondere un comunicato informale che cerca di ridimensionare la presa di distanza dalla sottosegretaria al centro della bufera.

Tentando di chiudere l’ennesimo caso di queste giornate complicate, per il segretario del Pd e la sua fedelissima, che si preannunciano ancora più cariche di tensioni oggi e domani, quando a sedersi davanti ai commissari a Palazzo San Macuto saranno il governatore di Bankitalia Ignazio Visco e l’ex Ad di Unicredit Federico Ghizzoni.

«Ho incontrato Visco varie volte. Nel febbraio 2014, ricevuto l’incarico di formare il governo, gli domandai un incontro perché il presidente Napolitano riteneva fosse consuetudine durante le consultazioni sentire anche il governatore. Lo avevano fatto anche Monti e Letta». Ritirato a Firenze, Renzi ripercorre con alcuni amici gli albori del suo rapporto con il capo di Banca d’Italia, di cui solo poche settimane fa ha cercato invano di silurare la riconferma con una mozione di sfiducia in Parlamento. 

«Non credo la prima, ma la seconda volta che l’ho visto mi ha parlato, lui, di Banca Etruria», fa mente locale su discorsi e incontri: «Comunque sia, è tutto verificabile: non l’ho mai incontrato da solo. La prima volta era con me Delrio, le altre volte Padoan», ricorda il segretario dem. Ostentando tranquillità, cercando di trasmettere a un partito sull’orlo di una crisi di nervi nessuna preoccupazione per quello che il governatore potrebbe dire: che il loro rapporto si sia deteriorato a causa dell’istituto di credito aretino. «Nessuna mancata collaborazione, il governo e la Banca centrale hanno lavorato insieme senza nessun problema istituzionale», insiste con chi, in questo periodo, ha avanzato l’ipotesi.

Per quanto riguarda la Boschi, è convinto di sapere già quello che Visco potrà raccontare, un incontro con il vicedirettore generale dell’istituto Panetta che lei, giocando d’anticipo, ha già commentato ieri in un’intervista. Minimizzandone il significato e il peso, come ripete anche il segretario a chi gliene chiede conto. «Leggo agenzie che parlano di una Boschi che si aggira negli uffici di Bankitalia: da quanto ne so non ci è mai andata». Superato il primo cerchio di fuoco, oggi, domani ne arriva un altro, con la deposizione di Ghizzoni, a cui, secondo Ferruccio De Bortoli, la ex ministra delle Riforme si sarebbe rivolta chiedendo di valutare l’acquisizione di Banca Etruria da parte di Unicredit. Frase per la quale lei ha intentato una causa civile contro l’ex direttore del Corriere della sera. «Non c’è nulla da temere», ripete Renzi, «anche altri ministri si sono occupati di banche: Delrio, ma anche Poletti quando abbiamo fatto la riforma delle Bcc o Franceschini sulla Banca di Ferrara».

Il problema è quante scorie resteranno di questa vicenda, a pochi mesi dal voto. Non a caso il tentativo del segretario e dei suoi, ieri, è stato quello di spostare il fuoco, di intervenire sulle parole di Di Maio a proposito del referendum sull’euro. E intanto, a Largo del Nazareno si ragiona su come trattare la candidatura della Boschi. Non farà un passo indietro, sarà nelle liste. Un modo per garantirle l’elezione potrebbe essere nel listino del proporzionale, sfuggendo al confronto diretto con altri candidati. Eppure, l’idea che ronza in testa al segretario è quella di spingerla alla battaglia campale: candidarsi nel collegio uninominale di Di Maio. Che dovrebbe essere Pomigliano, per la regola del M5S di cercare l’elezione nel luogo di residenza. Una scelta da ponderare bene, però: quel collegio è considerato incerto, il rischio di schiantarsi è molto alto. 

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Da - http://www.lastampa.it/2017/12/19/economia/renzi-ho-incontrato-visco-stato-lui-a-parlarmi-di-etruria-s4nBXQcymSBmauXJCijzhI/pagina.html
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« Risposta #52 inserito:: Febbraio 25, 2018, 11:09:02 am »

Sei saggi per il Trattato del Quirinale. In autunno l’accordo Francia-Italia

Il 2 marzo l’incontro tra le parti per avviare il tavolo. Al centro, istruzione e industria

Pubblicato il 21/02/2018 - Ultima modifica il 21/02/2018 alle ore 07:34

FRANCESCA SCHIANCHI
ROMA

La prossima riunione è fissata per venerdì 2 marzo. Alla vigilia delle elezioni, mentre altrove sarà tutto un fibrillare in attesa dei risultati, a Roma, nelle aule ovattate dell’Università Luiss, un gruppo di lavoro dovrà concentrarsi su come rafforzare la cooperazione italo-francese nell’industria, la conoscenza, l’istruzione. 

Sei personalità con competenze e percorsi diversi dovranno avanzare nel compito che, con una lettera chiara nei tempi e negli obiettivi, i presidenti Macron e Gentiloni hanno affidato loro: stilare una proposta del «Trattato del Quirinale». Un nuovo documento tra i due Paesi «cugini» che - sulla falsariga di quello dell’Eliseo, firmato da Francia e Germania nel 1963 - vuole favorire i rapporti bilaterali. Dovranno fare alla svelta: la firma è prevista in autunno.

«Alle relazioni storiche tra Italia e Francia abbiamo deciso di dare una cornice più stabile e più ambiziosa», ha presentato l’iniziativa il presidente del consiglio quando, qualche settimana fa, ha accolto a Roma l’inquilino dell’Eliseo. «Cooperiamo da sempre in modo straordinario, ma siamo convinti che il Trattato possa rendere ancora più forti e sistematiche le nostre relazioni». Un’idea balenata già in un incontro dell’anno scorso e messa in campo ora: scelti i sei «saggi», le persone incaricate di lavorare al progetto, la prima riunione è stata venerdì della settimana scorsa, nella Sala verde di Palazzo Chigi, organizzata dal sottosegretario per gli Affari europei Sandro Gozi e dalla sua omologa ministra di Parigi, Nathalie Loiseau. I lavori sono partiti: ora, entro fine aprile, si incontreranno sei volte tra le due capitali per presentare la proposta. E arrivare appunto alla firma in autunno: sempre ammesso che il nuovo governo che si insedierà a Roma dopo le urne non intenda interrompere il percorso.

A cimentarsi con un testo così delicato e un precedente tanto impegnativo quanto il Trattato dell’Eliseo, l’Italia ha scelto due uomini e una donna. Lei è Paola Severino, avvocato penalista molto quotata e rettore della Luiss, già ministra della Giustizia nel governo Monti, dove legò il suo nome alla nota legge sulla incandidabilità e decadenza dei politici condannati. Insieme a lei, c’è Franco Bassanini, ex parlamentare, ex ministro della Funzione pubblica negli anni Novanta sotto Prodi, D’Alema, Amato, poi più di recente presidente della Cassa depositi e prestiti. A completare la squadra italiana, Marco Piantini, oggi consigliere per gli affari europei del premier Gentiloni, prima nella segreteria del presidente Napolitano al Quirinale. Poi ci sono i colleghi francesi, che parlano tutti un buon italiano: l’unica donna è Sylvie Goulard, oggi vice governatrice della Banca di Francia, ex eurodeputata del partito centrista MoDem, per un mese ministro della Difesa con Macron, prima di lasciare quando proprio MoDem venne messo sotto i riflettori da un’inchiesta preliminare sulle condizioni di impiego di alcuni assistenti al Parlamento europeo. Con lei, tornerà a Roma a discutere del Trattato l’imprenditore Pascal Cagni, esperto di digitale e innovazione, presidente di Business France, e lo storico Gilles Pécout, specializzato in Risorgimento italiano, rettore dell’Académie de Paris. 


Il Trattato che hanno il compito di scrivere «dovrà dare un forte impulso alle relazioni tra i nostri Paesi - si legge nella lettera di incarico - strutturandole e dando loro nuovi obiettivi, arricchiti di una duplice dimensione bilaterale ed europea». Tra i settori di cooperazione che i sei proporranno «di approfondire o di istituire», le relazioni «in campo economico, industriale e dell’innovazione», e poi quelle che riguardano «istruzione, cultura, ricerca, insegnamento superiore». Non solo: dovranno individuare anche gli strumenti di cui avvalersi, che, sul modello del Trattato dell’Eliseo, possono essere scambi di funzionari tra ministeri gemelli, o riunioni prima di eventi particolari. «Questa cooperazione deve servirci perché Italia e Francia siano motori della spinta a rifondare l’Europa con chi ci sta», spiega Gozi. Che infatti ritiene «auspicabile» un richiamo alla riforma dell’Europa nel preambolo. I saggi sono al lavoro: pochi mesi per svelare la loro proposta.

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Da - http://www.lastampa.it/2018/02/21/italia/politica/sei-saggi-per-il-trattato-del-quirinale-in-autunno-laccordo-franciaitalia-1GtsxuX2RUwdFL1QbSDEiO/pagina.html
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« Risposta #53 inserito:: Febbraio 27, 2018, 05:29:33 pm »


Renzi: “Mai un governo con i grillini. Camere, presidenti condivisi”
Il segretario Pd: «Famiglie, Europa e lavoro per continuare a crescere»

Pubblicato il 26/02/2018

Francesca Schianchi
Torino

Matteo Renzi, quale risultato definirebbe una vittoria? 
«Chiamerei vittoria essere il primo gruppo parlamentare».

Prende in considerazione l’ipotesi di un passo di lato per indicare Gentiloni come candidato premier? 
«Questa legge elettorale non prevede la figura del candidato premier. Chi sarà il premier lo deciderà Mattarella in base alle dinamiche post-elettorali. Il segretario, invece, lo scelgono le primarie».

Il governatore Emiliano dice che dovreste sostenere un eventuale governo del M5S. Se vi proponessero un contratto alla tedesca per un governo insieme con premier Di Maio, si siederebbe a parlarne? 
«Vedo gente che sale al Quirinale o che giura: non mi risulta però che sia stato già scelto il capo del governo. Penso che il Pd sarà il primo partito e lavoro perché lo sia: credo che tutti i dirigenti del Pd potrebbero fare questo sforzo. Per quanto riguarda un governo coi Cinque stelle: noi non faremo mai nessun governo con gli estremisti».

Giudica i Cinque stelle estremisti? 
«Stanno dentro l’Europa o fuori? Sono per l’obbligatorietà dei vaccini o no? La realtà s’incarica di dimostrare che le prese di posizione del M5S sono profondamente lontane da ciò che l’Italia ha sempre conosciuto».

C’è un canale aperto tra Pd e Fi in vista di possibili larghe intese? 
«Smentisco che esista, nel modo più categorico».

Visto il ritorno a un sistema in gran parte proporzionale, sarebbe il caso di adottare un metodo più largo di elezione dei presidenti delle Camere? 
«Fateci fare l’ultima settimana di campagna e vediamo. Il ragionamento di per sé non fa una grinza, visto che siamo tornati a un modello istituzionale ben diverso da quello che sognavo».


Veniamo al programma: non le sembra che manchino tre parole chiave? 
«Non è vero, le tre parole chiave ci sono: lavoro, famiglia e ruolo dell’Italia in Europa e nel mondo».

Non pensa però che la campagna elettorale faccia discutere solo di una novità proposta del centrodestra, la flat tax? 
«La flat tax non è una novità, Berlusconi la propone ogni cinque anni, è un’idea credibile come Babbo Natale. Noi abbiamo lavorato sull’articolo 18, l’Irap costo del lavoro, industria 4.0: la concretezza del lavoro fatto in questi anni a mio giudizio meriterebbe un riconoscimento diverso. La nostra esperienza di governo ha dalla sua i fatti».

Veniamo al Pd: se dopo le elezioni glielo chiedessero, sarebbe disponibile a concedere un congresso anticipato? 
«Almeno per questa settimana discutiamo di cosa vogliamo fare. Quel che succederà al Pd lo vedremo dopo».

In lista molte donne sono pluricandidate: così entreranno molti più uomini… 
«Il problema è vero. Resta una delle righe più preziose del mio curriculum essere stato il primo premier a fare un governo metà di donne. Ma le dinamiche che portano alle candidature sono molto complicate da spiegare: sicuramente avremmo potuto fare di più anche sulle candidature femminili».

Non sarebbe stato meglio evitare di candidare la Boschi? 
«La Boschi ha lavorato molto bene: decine di riforme sono state approvate in questi anni anche grazie al suo lavoro. Si concentra l’attenzione solo su qualcuno, che in questi anni ha fatto molto bene in Parlamento».

Altre candidature colpiscono, come “i figli di”, da Piero De Luca a Daniela Cardinale… 
«Io difendo con forza tutta la mia squadra: mai uno che fa il leader può permettersi di mollare qualcuno dei suoi per esigenze mediatiche o di visibilità. Io spero che i miei figli non facciano politica, o che almeno diano il tempo di smettere a me, ma che tutta questa discussione su Piero De Luca cancelli le altre 500 candidature mi sembra uno standard di valutazione del Pd che non vedo da altre parti».

Teme interferenze digitali russe a ridosso del voto? 
«Sono certo che ci siano state interferenze digitali durante la campagna referendaria, e in questa stagione, ma non le definisco geograficamente. Sono certo che vi sia almeno una doppia struttura di diffusione di notizie false che viene usata da canali anche un official vicini a partiti politici. Avrebbe senso che la prossima legislatura si aprisse con una commissione parlamentare d’inchiesta sulle fake news».

Esclude che dentro al Pd ci siano esempi di questa comunicazione aggressiva? 
«Che ci siano scontri verbali tra attivisti sui social credo di non poterlo escludere. Quello che sono in grado di escludere è la creazione di reti parallele che lanciano fake news».

Firmerà la petizione dell’Anpi per sciogliere le formazioni neofasciste? 
«La Costituzione vieta la ricostituzione del partito nazionale fascista: a questo si è sempre fatto riferimento, la valutazione spetta al ministero dell’interno e io sono totalmente in linea con ciò che pensa Minniti. Mi colpisce Berlusconi quando, per tranquillizzare i moderati, dice che Salvini non sarà premier ma ministro dell’Interno. Se fossi un moderato torinese saprei che, qui, la partita è davvero indecisa in molti collegi, con un risultato al fotofinish. Chi mette la croce su Fi, con questa legge elettorale, deve sapere che dà quel voto alla Lega, perché la leadership culturale è nelle sue mani. Non gioco questa campagna sugli aspetti ideologici, ma su quelli pratici».

Sull’immigrazione la linea della coalizione di centrosinistra è quella di Minniti o della Bonino? 
«Ho grande rispetto per Emma Bonino, ma la nostra posizione è quella di Minniti».

Come si vede fra cinque anni? 
«Con qualche capello bianco in più, temo».

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Da - http://www.lastampa.it/2018/02/26/italia/speciali/elezioni/2018/politiche/renzi-mai-un-governo-con-i-grillini-camere-presidenti-condivisi-rvzANCXG3Zrui9YQ8yevIJ/pagina.html
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« Risposta #54 inserito:: Aprile 11, 2018, 04:52:23 pm »

Scontro nel centrodestra.   E i 5 Stelle prendono tempo 

Pubblicato il 09/04/2018 - Ultima modifica il 09/04/2018 alle ore 12:14

FRANCESCA SCHIANCHI
ROMA

Doppio vertice nella domenica di riflessione tra la fine delle prime consultazioni con il capo dello Stato e l’inizio di un secondo tentativo. Nella villa di Berlusconi ad Arcore si incontrano i tre leader del centrodestra; nella casa di Casaleggio sulle colline di Settimo Vittone si riuniscono davanti a una grigliata il padrone di casa, Luigi Di Maio, e Beppe Grillo. Confronti e discussioni da cui escono linee che sembrano confermare le distanze: rivendicano la guida del governo e la compattezza della loro alleanza Salvini, Meloni e l’ex Cavaliere; nessuna apertura a sostenere «la grande ammucchiata», è la pronta risposta del M5S. Ma si nascondono crepe dietro l’apparenza di unità della coalizione riunita ad Arcore: appena uscito dall’incontro, il leader della Lega si smarca e ribadisce la volontà di dialogo con i grillini.

«Gli elementi dai quali i tre leader non intendono prescindere sono: un presidente del Consiglio espressione dei partiti di centrodestra, l’unità della coalizione e il rispetto dei principali punti del programma sottoscritto prima del voto», si legge nel comunicato finale di Salvini, Berlusconi e Meloni, che in settimana andranno uniti in una sola delegazione al Quirinale. Segue elenco di punti di programma «quali il taglio delle tasse, incentivi al lavoro, il blocco dell’immigrazione clandestina, garanzie per la sicurezza dei cittadini e sostegno alle famiglie». Chiari quindi i paletti, a cominciare dalla premiership da riservare al capo del Carroccio, perché «dopo anni di governi nati da giochi di palazzo», il prossimo esecutivo deve essere, raccomandano, «rispettoso della volontà espressa dai cittadini alle elezioni».

Condizioni che allontanano i Cinque stelle: «Vedo che la Lega ha promesso il cambiamento, ma preferisce tenersi stretto Berlusconi e condannarsi all’irrilevanza - scrive su Facebook Di Maio - Da noi la grande ammucchiata non avrà un solo voto. Quando Salvini vorrà governare per il bene dell’Italia ci faccia uno squillo». Apparentemente, dunque, distanze ormai siderali. Eppure, quello squillo di telefono il capo politico del Movimento lo riceverà molto presto, visto che, appena messo piede fuori da Arcore, Salvini fa sapere di voler incontrare Di Maio e di essere «fiducioso in un governo con i Cinque stelle». Prendendo le distanze dalla posizione congiunta di centrodestra, dichiarandosi aperto a una ipotetica terza figura di premier («terza, quarta, quinta: sono a disposizione, se sono figure valide che rappresentano tutti, perché no?») ma soprattutto indisponibile a rischiare una conta in Aula alla ricerca dei voti, come invece suggerirebbero di fare Berlusconi e Meloni. La strada per un governo appare ancora lunga.

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Da - http://www.lastampa.it/2018/04/09/italia/politica/scontro-nel-centrodestra-e-i-stelle-si-allontanano-jgWd0OBsyfZbZBoZ5ZkIGJ/pagina.html
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« Risposta #55 inserito:: Aprile 25, 2018, 03:59:15 pm »

Ma Renzi blocca il negoziato: “Martina sbaglia ad aprire così”
La provocazione dei falchi: allora Matteo ministro dell’Economia Il Pd rischia la scissione dopo la resa dei conti in Direzione

Pubblicato il 25/04/2018 - Ultima modifica il 25/04/2018 alle ore 07:15

CARLO BERTINI, FRANCESCA SCHIANCHI
ROMA

Inchiodare i grillini e fargli rimangiare, anche simbolicamente tutti gli attacchi subiti per quattro anni: ponendo pure una condizione capestro irricevibile sulla carta, il riconoscimento dell’azione di governo di Matteo Renzi, fino al punto di pretendere nel caso una sua presenza di primo piano nell’ipotetico esecutivo guidato da Di Maio. Questa suggestione che aleggia nei discorsi dei colonnelli del «giglio magico» renziano, fa capire bene come l’approccio sia quello di chiedere una sorta di abiura sapendo che non arriverà, per complicare, se non sabotare in partenza il tentativo di costruire un governo politico con i 5 Stelle. Una richiesta che in questi termini non è stata posta ieri a Fico, ma che verrebbe messa sul tavolo dai renziani se si sviluppasse una trattativa. Nell’incontro burrascoso ieri al Nazareno prima del colloquio con Fico tra i quattro della delegazione Martina, Orfini, Marcucci e Delrio, presente Guerini, sono volate urla captate a distanza da tutti: tra Martina, che avrebbe aperto ai grillini senza condizioni sul passato e Marcucci, che invece ha preteso fosse rivendicata l’eredità dei governi Renzi-Gentiloni. «Così è una follia», gli ha ribattuto il capogruppo al Senato, «e per tenere insieme il rispetto che si deve a Mattarella e l’orgoglio del Pd, dobbiamo andare da Fico con i cento punti del nostro programma elettorale, solo quelli possono essere la base di partenza di un dialogo». 

Renzi infatti bolla come sconsiderata la gestione di Martina e avrebbe condotto la partita in tutt’altro modo: con un percorso più lungo, senza accelerazioni, col metodo adottato per l’elezione di Mattarella al Colle. Convinto che si possano superare dubbi e perplessità del partito solo con una sua conduzione del gioco, e dopo aver fatto maturare nel tempo il divorzio tra 5 Stelle e Lega. Conscio di aver perso di credibilità in vari passaggi, dall’ascesa a Palazzo Chigi senza passare per il voto, fino alle dimissioni a metà dopo il referendum, ora l’ex leader si rimangerebbe il suo no ai grillini solo per una mission più alta e non sotto il ricatto delle urne. Che secondo lui è la vera arma di pressione sui «governisti» del Pd.

Il segretario dimissionario non vuole un governo con una maggioranza politica, altra cosa sarebbe un governo istituzionale. Per questo prova a mettere una zeppa tra le ruote del carro. «Per noi - alza il tiro un falco renziano - è arduo far digerire un accordo con i grillini ai nostri e il solo modo sarebbe se Matteo facesse da garante assumendo un ruolo centrale nel governo, come quello di super ministro dell’Economia».

E siccome le voci girano, pure i big del «partito dei governisti» del Pd sono preoccupati della piega che possono prendere gli eventi. Dario Franceschini ne parlava l’altro ieri con un politico di lungo corso che da mesi tesse la tela con il mondo grillino: dopo aver pronosticato lo «scongelamento» del Pd, il ministro della Cultura spiegava appunto che il problema sta in Renzi che vorrebbe condurre la partita rivestendo un ruolo da protagonista, addirittura come vicepremier. Di fatto, una sorta di reciproco riconoscimento politico tra l’ex segretario e Di Maio, che a quel punto verrebbe sdoganato come premier. 

Ma al di là di questa che suona come minaccia per far saltare il tavolo, il confronto con i 5 Stelle deve passare il fuoco della Direzione Pd: dove i renziani dispongono di una maggioranza, a sentir loro blindata, per dire no all’insegna dell’hashtag «#senzadime». Su 209 componenti, Renzi ne avrebbe 117, Orfini 8 e Delrio 3, Martina 9, Franceschini 20, Orlando 32 ed Emiliano 14, più altri sparsi. Insomma, la strada del governo 5 Stelle-Pd è una via crucis. Un bagno di sangue che rischia di produrre un’altra scissione nel Pd.

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Da - http://www.lastampa.it/2018/04/25/italia/ma-renzi-blocca-il-negoziato-martina-sbaglia-ad-aprire-cos-PehO9DBHt3sNXneqhqZv8H/pagina.html
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« Risposta #56 inserito:: Aprile 29, 2018, 09:49:19 pm »

Renzi: “Governo con il M5S? Una gigantesca presa in giro”
L’ex segretario scettico sulla trattativa. Martina: vediamo le carte
Finora Renzi ha adottato una strategia attendista, in attesa della decisiva Direzione del Pd del 3 maggio

Pubblicato il 28/04/2018 - Ultima modifica il 28/04/2018 alle ore 17:38

FRANCESCA SCHIANCHI
ROMA

«Prego tutti di riflettere avendo a cuore l’unità del Pd e della nostra comunità». A cinque, lunghi giorni dalla Direzione dem che dovrà decidere la posizione da tenere nei confronti del M5S, il reggente Maurizio Martina invoca compattezza e unità. Investito nei giorni scorsi dalle dichiarazioni di guerra dei renziani, consapevole delle difficoltà del passaggio, ha dato un significato preciso alla riunione di giovedì prossimo: non il via libera a un accordo di governo con i Cinque Stelle, perché tutta l’ala renziana si era ribellata all’idea e lo aveva minacciato di mandarlo in minoranza con una conta, ma più modestamente l’occasione per «decidere se accettare il confronto o meno, per giudicarne gli esiti solo alla fine di un vero lavoro di approfondimento». Un esito che secondo il segretario dimesso Renzi è comunque già scritto: «Un governo Pd-M5S sarebbe una gigantesca presa in giro agli elettori». 

Lui domani andrà a ripeterlo in tv, a «Che tempo che fa» da Fabio Fazio. Ieri, ospite da Lilli Gruber a «Otto e mezzo», è andato il presidente Matteo Orfini a sostenere il no a qualsiasi accordo, al grido di «Salvini e Di Maio sono la stessa cosa». Fino a qualche giorno fa, lo stesso ex premier era tentato dalla mission impossibile di incaricarsi lui di convincere un partito in gran parte ostile al dialogo con Di Maio e compagnia, riprendendo così centralità e potendo dire di essere stato quello che ha evitato le urne garantendo un governo al Paese. Ora, dopo la gestione secondo lui malaccorta di Martina, lo scenario è cambiato. E in Direzione, dove è convinto di avere ancora la forza dei numeri, farà pesare la sua posizione.

Non mettendosi di traverso alla discussione, ma inzeppando la proposta del reggente di dialogare con Di Maio di condizioni imprescindibili. La premiership diversa da quella del capo politico grillino, la garanzia di non toccare il Jobs Act, ma magari anche la Buona scuola, oppure la proposta di intervenire sull’art. 49 della Costituzione che regola la democrazia interna ai partiti. Insomma un elenco di richieste difficili da accettare per i Cinque Stelle, utili per far saltare il banco forse prima ancora di aprirlo. Saranno gli interventi dei renziani che seguiranno quelli del reggente a segnare il cammino; lui, l’ex premier, non ha ancora deciso se andare, nonostante le sollecitazioni di chi, come la ex portavoce di Prodi, Sandra Zampa, lo invita a esserci: «Si presenti anche lui a dire la sua posizione, senza lasciarla filtrare dai “suoi”. Chi ha portato il partito al 18 per cento – aggiunge una stoccata – se ne deve prendere la responsabilità». 

È possibile, ragionano in ambienti renziani, per mantenere un’unità almeno di facciata del partito, la Direzione si chiuderà con un documento condiviso. Dopodiché, bisognerà vedere come i Cinquestelle giudicheranno quel documento votato dai dem e se si andrà avanti, e come: con un incontro tra delegazioni, si chiedevano ieri alcuni renziani, o addirittura potrebbe arrivare un preincarico a Di Maio? In ogni modo, l’ex premier ieri ha ribadito la sua previsione: un nulla di fatto. A partire dalla constatazione che non ci sono i numeri, ripete a chi gli chiede quante possibilità abbia il tentativo, perché Pd più Cinque stelle al Senato arriva al filo della maggioranza, 161. Ed è anche convinto che, in realtà, quello di Di Maio sia solo un modo per prendere tempo, nella speranza che, passate le elezioni in Friuli Venezia Giulia, la sua prima scelta, cioè il leader leghista Matteo Salvini, si decida a lasciare Berlusconi. In serata, La7 ha diffuso un sondaggio secondo cui il 40 per cento degli elettori Pd sarebbero favorevoli a un accordo: ma la settimana scorsa la percentuale era il 42, ha fatto notare Renzi, e si tratta degli elettori, non degli iscritti. Un no, insomma, a cui arrivare attraverso un percorso che impedisca di prendersi tutta la colpa del fallimento. Difficile che dalla Direzione di giovedì esca la «bella notizia» di un governo comune che vorrebbe Michele Emiliano.

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Da - http://www.lastampa.it/2018/04/28/italia/renzi-governo-con-il-ms-una-gigantesca-presa-in-giro-B1kEHLFGHHnGM6XptAdlUP/pagina.html
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« Risposta #57 inserito:: Giugno 02, 2018, 12:12:52 pm »

L’ipotesi di un governo neutrale, Mattarella ora torna al piano B
Nessun cambio di rotta sul nodo Tesoro, la crisi politica precipita verso lo scontro istituzionale. Si fa strada lo scenario di un esecutivo del Presidente che porti il Paese a elezioni a settembre
Pubblicato il 27/05/2018

FRANCESCA SCHIANCHI
ROMA

Nella giornata più lunga dall’inizio della crisi, quella più drammatica, scandita dagli hashtag contrapposti sui social network (#iostoconMattarella contro #VogliamoSavona) preludio di uno scontro istituzionale che si staglia minaccioso sullo sfondo, il presidente della Repubblica Sergio Mattarella ha atteso con pazienza un cenno dal presidente del consiglio incaricato. Chiuso nel Palazzo crocevia in questi 84 giorni di incontri, scontri e tentativi di accordi, ha letto i giornali, seguito la giornata sulle agenzie, è venuto a conoscenza della telefonata del presidente francese Emmanuel Macron al non ancora premier Giuseppe Conte, ma soprattutto ha assistito alle dichiarazioni di chi, da Giorgia Meloni all’ex consigliere di Trump, Steve Bannon, insiste perché Lega e M5S tengano duro sul nome di Paolo Savona a ministro dell’Economia. Cioè, vadano allo scontro frontale con lui, o più precisamente con l’istituzione che rappresenta, la presidenza della Repubblica: perché non solo per le considerazioni anti-tedesche o le tentazioni no euro del professore, ma anche per il metodo che gli azionisti del governo hanno usato, per il tentativo di imporre quel nome come un aut aut («mi rifiuto di andare avanti ancora per giorni con le trattative: o siamo in condizioni di lavorare o qualcuno se ne prenderà la responsabilità», ha ribadito ieri Matteo Salvini), il Colle non può e non farà nessun cambio di rotta. Non darà il via libera a Savona nel ministero di via XX Settembre: e se questo significherà, come da minaccia leghista, precipitare il Paese verso il voto, allora si considera che quello sarà il destino che le due forze politiche avranno deciso per l’Italia. 

Dallo staff ci sono stati contatti informali coi partiti, ma non ci sono stati contatti del presidente con il professor Conte, né con Salvini o Luigi Di Maio. Nel chiuso delle stanze del Colle più alto, si ricomincia a ragionare, obbligati dalle circostanze, a un governo neutrale, o balneare, o più semplicemente elettorale, per traghettarci al voto. Al piano B, insomma, quello che Mattarella aveva sventolato davanti ai partiti indecisi a tutto una ventina di giorni fa, e poi riposto in un cassetto quando Carroccio e Cinque stelle si erano convinti a far cadere qualche veto per formare un governo insieme. Ora, però, questa battaglia all’ultima dichiarazione per Savona ministro dell’Economia comincia ad assumere quasi più le fattezze di una battaglia contro la presidenza della Repubblica, contro la sua importante funzione di contrappeso e controllo del potere esecutivo. E se in un primo momento, nell’entourage del capo dello Stato, qualcuno ha sperato che fossero Di Maio e il M5S a riuscire a placare i furori salviniani, le dichiarazioni delle ultime ore, a cominciare da quelle di Alessandro Di Battista, non fanno più sperare in un cambio di rotta.

Difficile – e forse ormai inutile - che il professor Savona, da giorni nell’occhio del ciclone, si presti a fare una dichiarazione pacificatrice, che ammorbidisca le sue posizioni anti-Berlino. Altrettanto improbabile che l’incaricato Conte lo provi a spostare altrove, magari al suo fianco come consigliere economico, ma insomma in una posizione meno visibile e cruciale di quella da responsabile dell’Economia: il capo dello Stato non commenta naturalmente ipotesi, ma chissà forse quella potrebbe essere una mossa capace di risolvere l’impasse. Oggi per tutta la giornata tranne la parentesi della messa, il capo dello Stato sarà al Colle ad aspettare. Pronto a ricevere l’incaricato Conte: se però dovesse insistere con Savona all’Economia, se la lista prevedesse per quella casella solo quel nome, allora a Mattarella non rimarrebbe che spiegargli con garbo che no, non può dare il via libera. E predisporsi all’idea delle urne in settembre.

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« Risposta #58 inserito:: Giugno 04, 2018, 06:20:58 am »

Dall’impeachment all'inno di Mameli.

Nella piazza del M5S: “Lo Stato siamo noi”

Tanti tricolori tra i pentastellati. Grillo: il populismo non significa nulla.
Sul palco anche Bramini, l’imprenditore in crisi per i crediti con lo Stato

Pubblicato il 03/06/2018 - Ultima modifica il 03/06/2018 alle ore 08:59

FRANCESCA SCHIANCHI

Quando, alle nove passate, Luigi Di Maio sale finalmente sul palco, tra le note dell’inno cantate con la mano sul cuore da tutti i ministri Cinque stelle, e presenta il consulente che ha appena nominato al ministero dello Sviluppo economico, Sergio Bramini, l’imprenditore mandato sul lastrico da crediti con lo Stato, è costretto a fermare le proteste: «Non c’è bisogno di fischiare: da oggi lo Stato siamo noi». Alla piazza gremita che gli sta di fronte, ai tanti che hanno aspettato ore sotto un sole estivo, in un tripudio di tricolori e bandiere del Movimento, spillette e magliette-reliquie del 4 dicembre «Io voto no», il neo ministro reduce dalla prima diretta Facebook dal dicastero deve ricordare che non sono più lì a protestare, a fischiare, a strillare contro il governo o la casta o i potenti: ora, nella stanza dei bottoni, ci sono loro.

Da protesta a festa 
«Con Mattarella non siamo più arrabbiati, diciamo che ci siamo passati sopra», sorride convinta Maria Grazia mentre il sole è ancora alto e i tecnici stanno finendo di mettere a punto il palco. «Il presidente ha avuto un ravvedimento operoso molto rapido», aggiunge Angela. Sono arrivate in pullman dall’Alto Adige, partenza alle 6 da Bolzano, 53 posti, altrettanti attivisti entusiasti di questa manifestazione che doveva essere di protesta ed è diventata invece una festa. Quando, lunedì scorso, Di Maio con la faccia stravolta dalla rabbia ha chiamato via Facebook alla piazza al grido di «Il mio voto conta», questo raduno a Bocca della Verità doveva servire a contestare il Quirinale e chiedere l’impeachment del capo dello Stato. E invece, col governo che ha giurato e la schiera dei ministri grillini sul palco a salutare la folla, sono sorrisi larghi così e cartelli con la frase di Gandhi «Prima ti ignorano, poi ti deridono, poi ti combattono, poi vinci» (lo scriveva anche Renzi alle prime edizioni della Leopolda) e «Grazie Beppe e Gianroberto», a ricordare i fondatori.

Mattarella ragionevole 
«Questa piazza era stata convocata in un momento di tensione del Paese - riconosce Di Maio, nella solita uniforme, abito scuro e cravatta bordeaux - sono stato il primo a essere critico con il presidente della Repubblica ma gli riconosco la ragionevolezza di avermi incontrato», cerca di chiudere “l’incidente diplomatico”, ringraziando il presidente della Camera Fico e «i tanti che hanno lavorato dietro le quinte». Una carezza alla piazza («non ci autocertificheremo i risultati, non dovremo perdere queste piazze: voi ci dovrete dire se abbiamo migliorato la vostra qualità della vita»), un giuramento («ce la metterò tutta»), una promessa impegnativa: «Ai truffati delle banche: vi risarciremo».

«Ammorbidiremo la Lega» 
Nella piazza c’è ancora qualcuno che intona cori contro Renzi, ormai leader dimesso di un partito di opposizione. Eppure, è dal palco Di Maio a ricordare il miracolo che è successo, quel governo pomposamente chiamato «del cambiamento» nato alla fine di 88 complicati giorni di trattativa: «Studiando i dossier, ho detto: io adotterei questa soluzione, posso? Ma certo, mi hanno detto, lei è ministro della Repubblica». Boato nella folla. Fianco a fianco, attivisti di vecchia data e ex Pd che hanno votato M5S in polemica con Renzi, come Antonio e Daniela, e ora all’idea di un governo con la Lega alzano gli occhi al cielo. «Cercheremo di limare le cose più cattive del Carroccio», garantisce Maria Grazia; «e poi c’è il contratto», ripetono un po’ tutti, aggrappandosi a quelle cinquanta pagine come la panacea di tutti i mali. E pazienza se non può includere qualunque eventualità, tipo un ministro della Famiglia secondo cui le famiglie arcobaleno non esistono: «Va bene, è un tema divisivo – concede Luigi – ma non deciderà il ministro Fontana da solo. E voi giornalisti cercate sempre di creare problemi».

«Il vecchio mondo agonizza» 
Gli interventi iniziano in ritardo, tra le proteste della folla che si accalca contro le transenne. A scaldare l’atmosfera, una sfilata di big e parlamentari, da Nicola Morra («i partiti tutelano l’interesse di qualcuno, noi qui siamo la totalità») a Virginia Raggi («hanno buttato fango su di noi per evitare che arrivassimo al governo del Paese»), fino a Davide Casaleggio: «Se siamo qui è perché tutte le volte che ci hanno detto “è impossibile” non gli abbiamo creduto», e saluta la «stella che brilla più delle altre in cielo» del padre; i ministri, uno dopo l’altro, come Barbara Lezzi che promette di «rialzare il Sud». Fino all’acme, l’intervento di Beppe Grillo, quando ormai sono le dieci di sera, e invoca «il nuovo mondo» contro quello «che se ne sta andando e agonizza». Rigetta l’idea di populismo, che «non significa nulla», rivendica il «diritto all’urlo», che però «adesso non serve più», esprime fastidio per la definizione «grillini» («ho sempre desiderato essere un diminutivo»), si lamenta «contro chi faccio satira ora, contro i miei?» e si concede una battuta che sembra una raccomandazione: «Non bisogna mai prendersi troppo sul serio». 

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Da - http://www.lastampa.it/2018/06/03/italia/dallimpeachment-allinno-di-mameli-nella-piazza-del-ms-lo-stato-siamo-noi-PAsG6Q0aTJhlhWxiUpbtxH/pagina.html
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« Risposta #59 inserito:: Giugno 12, 2018, 05:55:47 pm »

Conte conferma il “doppio binario” con la Russia, all'insegna della “fermezza e del dialogo”

Il presidente del Consiglio ha incontrato Jens Stoltenberg, il norvegese segretario generale della Nato

Pubblicato il 11/06/2018 - Ultima modifica il 11/06/2018 alle ore 15:53

FRANCESCA SCHIANCHI
ROMA

Attenzione al «fianco sud dell’alleanza» e conferma dell’approccio «del doppio binario» con la Russia, che coniughi «fermezza e dialogo». Al suo primo incontro con Jens Stoltenberg, il norvegese segretario generale della Nato, nel breve incontro con i giornalisti a Palazzo Chigi per rilasciare dichiarazioni alla stampa (senza però consentire domande), il neo premier Giuseppe Conte fissa i punti che interessano al suo governo, in vista del vertice Nato in programma a Bruxelles per l’11 e 12 luglio. Toccando gli argomenti caldi del momento: il rapporto con Mosca, da una parte, e quello con l’area del Mediterraneo, dall’altro.

La settimana scorsa, all’indomani del primo discorso in Parlamento di Conte - quello in Senato per ottenere la fiducia - era stato proprio Stoltenberg a reagire al proposito annunciato di «rivedere» le sanzioni alla Russia, decise come reazione alla crisi ucraina. «Sono importanti per mandare un messaggio chiaro su ciò che la Russia ha commesso in Ucraina», era stata la risposta da lontano. Stamane, alle 9 del mattino, prima che il presidente del consiglio salisse in auto per l’annunciata visita sui luoghi del terremoto, i due hanno avuto modo di parlarne a tu per tu.

«Dopo la crisi ucraina la Nato ha scelto l’approccio del doppio binario: fermezza sui principi e deterrenza contro la loro violazione da una parte, e dialogo dall’altra», ricorda il premier italiano, leggendo da un foglio che un assistente deposita sul suo leggìo poco prima del suo ingresso, «noi confermiamo, siamo fautori di questo approccio», garantisce, chiedendo anche una «più incisiva comunicazione fra vertici militari per evitare malintesi ed escalation». Pienamente nella linea della Nato, dunque, ma ricordando che «la Russia ha un ruolo fondamentale in molti teatri» per cui «senza il suo coinvolgimento è molto difficile se non impossibile raggiungere soluzioni politiche». Stoltenberg prende la parola e rassicura: «Stiamo facendo progressi su entrambi i binari», sia nella fermezza che nel dialogo.

E poi c’è il secondo tema, il fronte sud, il bacino del Mediterraneo da cui arrivano le barche cariche di migranti, argomento quantomai attuale ora che la nave Aquarius, dopo aver salvato 629 persone, aspetta che si sciolga la tensione tra Italia e Malta per capire in quale porto farle sbarcare. Ieri è stato per primo il ministro degli Esteri Moavero Milanesi, incontrando il segretario Nato, a sollecitare l’attenzione dell’Alleanza per il «fianco Sud, da dove provengono importanti sfide, a partire dal terrorismo». Le stesse parole che usa, in mattinata, la ministra della Difesa, Elisabetta Trenta, incontrando a sua volta Stoltenberg.

«Riteniamo naturale che il nostro Paese possa svolgere sempre più un ruolo chiave per la stabilità e la sicurezza del cosiddetto fianco Sud dell’alleanza - dichiara Conte - e su questa regione l’Italia ha chiesto alla Nato di poter essere maggiormente concentrata con i suoi sforzi e la sua attenzione». Per questo, il premier insiste anche perché si arrivi alla «piena operatività» dell’Hub regionale presso il comando Nato di Napoli: cosa che Sotltenberg si augura possa realizzarsi entro il vertice di luglio. Dove verranno prese altre decisioni, annuncia: «Lanceremo una missione di stabilizzazione dell’Iraq per evitare che Isis torni”, oltre a pianificare un aumento del “sostegno ai partner in Medio Oriente e Nord Africa, come la Giordania e la Tunisia». Dopo il G7 dei giorni scorsi e il Consiglio europeo di fine mese, per Conte sarà un altro importante battesimo internazionale.

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Da - http://www.lastampa.it/2018/06/11/italia/conte-nel-mediterraneo-bisogna-rafforzare-la-cooperazione-natoue-frqzfLfqAugp2DxuDvGENN/pagina.html
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