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Autore Discussione: MARTA DASSU'. -  (Letto 40717 volte)
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« Risposta #15 inserito:: Giugno 11, 2011, 05:20:01 pm »

11/6/2011

Non esistono scelte a rischio-zero

MARTA DASSÙ

L’unico referendum su cui andrei a votare volentieri è un referendum che abolisse l’attuale legge elettorale. È una legge elettorale del genere, infatti, che consente di raccontarci la solita storia di comodo: siccome il governo uscito dalle urne in modo democratico non rappresenta in ogni caso la volontà popolare, i referendum la devono ripristinare. Sulle materie più disparate: dalla distribuzione dell’acqua all’energia nucleare.

In realtà, questo mio referendum preferito c’è già stato due anni fa; ma è fallito per mancanza di quorum. E quindi continuiamo in questo modo. Con una legge elettorale che funziona da alibi per passare alle vie referendarie. Quando la democrazia rappresentativa fallisce, subentra la democrazia plebiscitaria. Cosa che non certifica affatto lo stato di salute dell’Italia (è il popolo che finalmente decide, dicono i referendari) ma ne certifica la patologia: quando il popolo decide sulle politiche, la politica non funziona.

Ci sono cose che non succedono a caso. Non è un caso che la Costituzione americana non preveda referendum federali. E quindi escluda dai referendum la politica estera e le tasse del governo centrale, come del resto la Costituzione italiana.

È evidente, infatti, che su questioni cruciali per la solidità di uno Stato (la ratifica dei trattati internazionali da cui dipende in parte la nostra sicurezza, la tutela del patto fiscale che sta alla base delle democrazie moderne), plebisciti popolari equivarrebbero a un suicidio.

La politica energetica deve o non deve essere parte di questo stesso ragionamento? In una dinamica democratica normale, chi fosse ostile al nucleare voterebbe contro la parte politica che lo contempla nel proprio programma elettorale; e a favore invece dei partiti anti-nuclearisti. Nella tanto decantata Germania, la decisione di chiudere le centrali nucleare di qui a dieci anni non avviene attraverso un referendum. È la decisione assunta da un governo che tiene conto dell’ascesa politica dei Verdi e che scommette sulla propria forza industriale nel settore delle energie rinnovabili.

Insomma: i referendum sul nucleare sono una prassi ricorrente in Italia. Non lo sono in America o nel resto d’Europa, con la parziale eccezione della Svizzera. In Francia, come negli Stati Uniti, in Gran Bretagna (e come in Finlandia, in Giappone stesso, etc) sono stati i governi, dopo Fukushima, a prendere la decisione opposta a quella tedesca: confermare la scelta nucleare, ma puntando a rafforzare la sicurezza. Il che intanto dimostra una cosa: l’evidenza scientifica sui rischi nucleari non è tale da giustificare decisioni univoche. Mentre è scontato che, se chiamate a pronunciarsi direttamente sui «rischi», le società moderne, avverse al rischio, sceglieranno sempre di azzerarlo. Specie dopo un incidente nucleare. Così facendo, tuttavia, un Paese non compirà necessariamente la scelta più razionale. Anche perché in campo energetico non esistono scelte «a rischio zero»: almeno per tutta una fase di transizione - i molti decenni che ci separano dalla prevalenza delle energie rinnovabili - diminuire la quota prodotta da energia nucleare significa fare leva sui combustili fossili. Aumentando così un altro rischio, quello ambientale. L’ultimo Rapporto dell’Agenzia internazionale dell’Energia prevede infatti, dopo Fukushima, l’Età d’oro del gas.

Il problema psicologico delle società contemporanee è sintetizzato in modo efficace dal Wall Street Journal, in un commento al disastro di Fukushima: «Il paradosso del progresso materiale e tecnologico è che sembriamo diventare tanto più avversi al rischio quanto più quello stesso progresso ci ha reso maggiormente sicuri». Il referendum sul nucleare è tipico di questo paradosso. Ed evoca - prescindendo dai commi specifici che dovremmo abrogare o confermare - la questione più generale: come gestire il rischio in società occidentali dominate dall’ansia e dall’incertezza. Senza rischi, lo ricordava Angelo Panebianco tempo fa sul Corriere della Sera, non avremmo mai avuto quel progresso scientifico che ha permesso di ridurre intere categorie di pericoli, a cominciare dai livelli di mortalità umana. Ma tendiamo a dimenticarlo quando ci illudiamo che esistano scelte a rischio-zero; e quando pensiamo che bandire un’intera categoria di tecnologie, precludendo così anche gli sviluppi futuri, sia una soluzione ottimale.

I dubbi sul nucleare sono naturalmente legittimi; tanto più i dubbi sul modo in cui è stato concepito in Italia il rientro in una tecnologia da cui ci siamo auto-espulsi venticinque anni fa. Il problema, tuttavia, è che avremmo bisogno di fondare le decisioni sul futuro energetico del Paese non su riflessi emotivi ma su sensati trade off fra benefici e costi, fra vantaggi e rischi. Altrimenti, l’illusione della sicurezza assoluta tenderà a trasformarci, da società del rischio, in società della proibizione. O della rinuncia. Con effetti paralizzanti.

Argomenti come questi non impediranno forse di votare. Right or wrong è il mio Paese, voterò anch’io. Nel clima che stiamo vivendo, le pulsioni dei referendari sono state «confiscate» dalla politica tradizionale: votare sul nucleare o sull’acqua è diventato un modo come un altro, dopo le elezioni amministrative, per regolare i conti a Roma. Quando i partiti al governo decidono di rinunciare a difendere le loro stesse politiche, dando libertà di coscienza sulla distribuzione dell’acqua, come se fosse l’eutanasia; e quando i partiti all’opposizione decidono di cavalcare i referendum, il sistema politico non fa più il suo dovere. L’ondata di politicizzazione è tale che perfino il mio referendum preferito rischierebbe di passare, questa volta. Peccato che si voti su altro, non sulla legge elettorale.

da - lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/
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« Risposta #16 inserito:: Giugno 21, 2011, 05:17:58 pm »

21/6/2011

L'America si chiude in se stessa

MARTA DASSÙ

Il nostro Paese, per ragioni di bilancio, non può permettersi la missione in Libia. Sembra una dichiarazione di Umberto Bossi, che ha chiesto di nuovo, da Pontida, di ridurre i costi delle missioni internazionali. Ma non è una dichiarazione della Lega. E’ l’affermazione con cui Jon Huntsman - ex ambasciatore a Pechino e uno dei candidati repubblicani alla presidenza degli Stati Uniti - ha presentato la sua piattaforma di politica estera.

In cui rientra, insieme alla fine del mezzo impegno americano in Libia, il ritiro rapido dall’Afghanistan. In America, l’inizio della campagna elettorale per il 2012 coincide con un impulso quasi isolazionista. Sono sprezzantemente ripiegati sulle priorità domestiche i candidati dei «tea parties». Lunedì scorso, a un dibattito presidenziale nel New Hampshire, Ron Paul ha dichiarato che l’America risparmierebbe centinaia di milioni di dollari se riducesse drasticamente i suoi impegni internazionali; da parte sua, la stella in ascesa fra i repubblicani, Michele Bachmann, ha detto che Obama ha compiuto un errore gravissimo appoggiando la Francia in Libia. Perché lì, ha precisato, non sono in gioco interessi nazionali vitali degli Stati Uniti.

Per la prima volta da anni, il centro di gravità delle posizioni repubblicane si allontana dal neo-conservatorismo alla Bush junior ma anche dal realismo pragmatico. E torna verso una piattaforma nazionalista. Per lo storico Walter Russell Mead, l’istinto della destra populista americana combina una convinzione fideistica nella superiorità degli Stati Uniti, quale nazione «eletta», a uno scetticismo di fondo sulla possibilità di creare un ordine internazionale di tipo liberale. L’interventismo democratico non fa parte di una visione del genere.

Barack Obama dovrà tenerne conto. Anzi, ne tiene già conto: l’effetto incrociato del problema del debito e dell’uccisione di Bin Laden è di spingere la Casa Bianca verso un ritiro più veloce dall’Afghanistan. La trattativa in corso fra Washington, il governo Karzai e una parte dei taleban ne è la premessa. Dal punto di vista di un Presidente di fatto già in campagna elettorale, diventa essenziale cominciare a «estrarre» l’America dalle guerre degli ultimi dieci anni, per dedicarsi alle priorità dell’economia e alla sfida geopolitica del secolo, la competizione a distanza con la Cina.

E’ importante capire questa traiettoria degli Stati Uniti quando si riflette sulle missioni internazionali a cui partecipa l’Italia. Per inciso, non credo che discutere di missioni internazionali, e dei loro costi, debba essere un tabù: è giusto che un Paese, specie un Paese che ha forti vincoli di bilancio, si ponga interrogativi del genere. Ma la discussione deve essere seria: perché sono seri e coraggiosi i giovani soldati italiani impegnati da anni sul campo; e perché, attraverso le missioni internazionali, l’Italia ha difeso anche la sua credibilità nelle alleanze occidentali. Valore - la credibilità - che potrà interessare poco a chi non crede nello Stato nazionale; ma che resta una leva essenziale per difendere gli interessi dei cittadini italiani, come confermano le vicende economiche.

Il nuovo clima che si respira in America contiene, per chi condivide le posizioni alla Bossi, una buona notizia e una cattiva notizia. La buona notizia è che il ritiro dall’Afghanistan andrà più in fretta del previsto, dal luglio prossimo e nei due anni successivi. Quando la Lega chiede di ridurre i costi delle missioni, potrà contare su questa evoluzione. Sarebbe un errore fatale, tuttavia, se l’Italia prendesse decisioni unilaterali: ciò, infatti, vanificherebbe i costi e i rischi - inclusa la perdita di vite umane - che il nostro Paese ha già affrontato e pagato negli ultimi dieci anni. Come nel caso del Kosovo, altra missione che sta finalmente per concludersi, «uscire insieme» è la scelta più razionale: proprio per non sprecare anni di impegni.

La cattiva notizia è che l’America non sembra più disposta a reggere da sola gran parte degli oneri della Nato. L’operazione in Libia ha messo a nudo tutte le lacune delle capacità di difesa europea. Washington ha reagito con insofferenza: si è sentita trascinata in un conflitto da alleati europei che non sono poi in grado di combattere. A chi voglia capire l’aria che tira conviene leggere il discorso che Robert Gates, segretario alla Difesa in uscita, ha fatto a Bruxelles il 10 giugno scorso. Il messaggio, fin troppo brutale, è che i problemi fiscali valgono per tutti, anche per Washington; e che l’Europa, se vorrà salvare qualcosa dell’alleanza con gli Stati Uniti, dovrà mettere insieme le risorse nazionali e avere le capacità per cavarsela almeno nel proprio cortile di casa. Perché è una cattiva notizia, per una linea alla Bossi? Perché sfilarsi dalla Libia oggi, dopo esservi entrati, giusto o sbagliato che fosse, va in senso esattamente contrario; ed equivale nei fatti a lasciarsi alle spalle la Nato. Le alternative vagheggiate dalla Lega - una specie di semi-neutralismo - non sono credibili: l’Italia ha una collocazione geopolitica molto più esposta e molto più delicata di quella della Svizzera. La realtà è che una Nato più europea servirebbe agli europei stessi: che devono spendere meglio e spendere insieme se non possono spendere di più.

Una discussione seria sulle missioni internazionali dell’Italia dovrebbe partire di qui, se vorrà riguardare il futuro e non il passato. La strana guerra di Libia rischia di diventare il confine simbolico fra la vecchia sicurezza occidentale, garantita e anche pagata quasi interamente dagli Stati Uniti, e il nuovo vuoto di potere alle nostre frontiere meridionali: un vuoto rispetto a cui l’Europa che abbiamo non basta e l’America che avevamo non c’è più. Quando un candidato repubblicano sembra parlare come la Lega, c’è soltanto da preoccuparsi: con un’America percorsa da tentazioni isolazioniste, gli spazi per un isolazionismo all’italiana non aumentano di certo. Si riducono.

da - lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/
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« Risposta #17 inserito:: Giugno 26, 2011, 11:12:22 am »

26/6/2011

Europa ostaggio delle regole non scritte

MARTA DASSU'


Pare che Nicolas Sarkozy, al Consiglio europeo di Bruxelles venerdì scorso, abbia detto qualcosa del genere: «E’ mai possibile che debba risolvere io i problemi fra voi italiani?». A parte il fatto che è stata Parigi a creare il problema iniziale pretendendo di barattare il via libera alla nomina di Mario Draghi con un posto francese nel Comitato esecutivo della Banca centrale europea - mettere la cosa in questi termini è un po’ riduttivo. Non si tratta solo dei noti pasticci italici, che naturalmente ci sono stati. Si tratta anche del fatto che la Banca centrale europea (Bce), unica istituzione realmente sovrannazionale creata dai governi dell’Ue negli ultimi quindici anni, riflette la tensione su cui è costruita l’Europa: gli Stati nazionali hanno delegato parte della loro sovranità a istituzioni comuni (la Commissione, la Corte di Giustizia, la Bce) ma diventa sempre più chiaro che non intendono perderne il controllo.

Da vari anni a questa parte il pendolo del potere reale ha continuato a spostarsi verso il Consiglio europeo, dove siedono appunto i governi nazionali. E verso il Parlamento di Strasburgo. La Commissione non è diventata il governo dell’Unione, come speravano i federalisti; al contrario, ha perso forza. E perdendo forza ha perso anche autorevolezza. O forse è l’opposto, come dicono i critici del suo presidente José Manuel Barroso. Il caso della Bce è ancora più delicato: perché la Banca centrale europea, costruita sul modello tedesco, è per definizione indipendente. Nessun governo della zona euro mette in discussione questo principio. Al tempo stesso, le economie maggiori dell’Ue cercano di mantenere una «super-rappresentanza» attraverso meccanismi facili da intuire: per esempio, attraverso la tesi di Sarkozy che un francese, data la gravità della crisi dell’euro, debba per forza sedere nel Comitato esecutivo della Bce, composto da sei membri (i Paesi della zona euro sono 17, quindi solo un governo su tre potrebbe permettersi un ragionamento del genere).

Corollario scontato di questa regola non scritta alla francese è che due italiani non possano sedere assieme nel Comitato esecutivo. In realtà, non esiste alcuna regola scritta sulla nazionalità dei membri del Comitato esecutivo: proprio perché, per Statuto, non sono rappresentanti dei rispettivi governi ma sono membri indipendenti, che rispondono alle istituzioni europee. In quanto tali, siedono nel «Governing Council» della Bce assieme ai 17 governatori delle Banche centrali nazionali, fra cui il prossimo governatore della Banca d’Italia. Uff, si dirà: che rompicapo, e che noia. Sì, ma bisogna fare uno sforzo per capire. Perché l’Europa funziona esattamente così, almeno per ora: funziona in base a intese fra governi che hanno ceduto parte della loro sovranità a Francoforte e Bruxelles; ma cercano di mantenere un’influenza. Ciò significa che le regole scritte sulla carta saranno sempre bilanciate da regole non scritte: da accordi informali fra i governi nazionali, che dopo tutto sono gli stakeholders dell’Europa, assieme ai suoi cittadini.

In questo caso specifico, Sarkozy e Berlusconi - rendendo pubblico un accordo informale di per sé comprensibile - hanno fatto finta di dimenticarsi le regole scritte. Da parte sua, Lorenzo Bini Smaghi ha fatto finta di non sapere come funziona realmente l’Europa di oggi. Si può trarre, da questo caso specifico, una conclusione abbastanza brutale: l’esistenza di regole scritte e non scritte, con le tensioni che ne derivano, è uno dei molti riflessi di un sistema di governo, quello dell’Europa, tutt’altro che ottimale. C’è chi dirà (la scuola «pragmatica» sull’Europa) che è l’unico sistema possibile, nelle condizioni date. C’è chi sostiene (gli euro-ottimisti) che l’Ue è in realtà un caso «unico», unico nel senso di migliore di altri. E c’è chi pensa (gli euro-scettici ma anche i federalisti, da poli opposti) che così non può più funzionare. Perché a furia di restare a metà - un’Unione fra Stati ma non una Federazione di Stati, un’unione monetaria ma non un’unione fiscale - l’Europa fallirà. I prossimi mesi saranno decisivi: come risultato della crisi del debito in Europa, l’euro si spaccherà o l’Unione europea farà un passo in avanti. In passato, le crisi hanno spesso rafforzato l’Europa - e le sue regole, scritte e non scritte. Questa volta, vista la situazione della Grecia e i rischi di contagio, sembra difficile credervi. Ma la posta in gioco è molto più alta - per le singole economie e per la tenuta dell’Ue - di quanto sia mai stata da vari decenni a questa parte.

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=8899&ID_sezione=&sezione=
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« Risposta #18 inserito:: Luglio 05, 2011, 04:29:29 pm »

5/7/2011

Una pace credibile per la Libia

MARTA DASSÙ

Sono passati più di 100 giorni dall’inizio della strana guerra di Libia: che ci stiamo dimenticando o vogliamo rimuovere. Intanto, il colonnello Gheddafi minaccia ancora da Tripoli di colpire l’Europa «le vostre case, i vostri uffici e le vostre famiglie» se i raid della Nato non cesseranno. Dichiarazioni del genere aiutano se non altro a chiarire il contesto: il Rais, colpito da un mandato di arresto della Corte Penale Internazionale, abbandonato da parte dei suoi e indebolito dalle sanzioni economiche, è alla ricerca di una soluzione politica. Minaccia perché è debole non perché sia forte. Minaccia per trattare.

Da parte loro, i Paesi della Nato che partecipano alla strana guerra di Libia combattono soprattutto contro se stessi. In America, Barack Obama fa fatica a difendere un impegno che, per gran parte del Congresso e dell’opinione pubblica, non rientra negli interessi vitali degli Stati Uniti. In Francia, la guerra voluta da Sarkozy sta diventando un boomerang per l’inquilino dell’Eliseo. Sopravvive il nemico esterno (Gheddafi) e risorge il nemico interno (Strauss-Kahn): sono giorni difficili per un Presidente debole e di fatto già in campagna elettorale. A Londra, costi e tempi della missione in Libia sono utilizzati dalle gerarchie militari per protestare, fin troppo apertamente, contro i tagli al bilancio della difesa. E a Roma si sa: l’impresa di Libia divide, anche se in modo un po’ finto, la maggioranza di governo. Per cui anche la Nato, allo stesso modo di Gheddafi, vorrebbe trattare. Ma vorrebbe trattare, anzi lo sta facendo, con tutti meno che con il Colonnello.

Il terzo attore - il Consiglio di Transizione creato a Bengasi e già riconosciuto quale governo legittimo della Libia da alcuni Paesi, inclusa l'Italia - sta arrivando alla stessa conclusione. Dopo 100 giorni di una guerra che gli oppositori di Gheddafi non sanno combattere sul terreno e che la Nato non può vincere solo dall’alto, il Consiglio ha circoscritto le sue ambizioni: sembra disposto a trattare con i potenti di Tripoli un accordo nazionale, un patto transitorio di governo, se Gheddafi e suo figlio Saif prenderanno la via dell’esilio forzato. Scenario che il mandato di arresto internazionale rende più difficile; ma non impossibile. L’Unione africana, che sta tentando da settimane una sua mediazione, va ancora più in là (o più vicino): la via di uscita vagheggiata è il ritiro di Gheddafi e della sua famiglia in un’oasi, controllata, della Libia stessa.

Mentre i raids della Nato continuano - e mentre continuano le proteste di Cina e Russia per il modo in cui gli occidentali hanno stiracchiato il mandato dell’Onu - gli occhi di tutti guardano qui: a una possibile trattativa politica che fermi la guerra tenendo in gioco larga parte del potere a Tripoli (il precedente dell’Iraq ha dimostrato i costi di epurazioni su vasta scala), salvando la faccia agli occidentali e salvaguardando l’unità del Paese. Insomma: una soluzione capace di evitare la spaccatura in due della Libia e la sua «somalizzazione». Il problema è che, per riuscire, dovrà essere una trattativa avallata dalle tribù che ancora appoggiano Gheddafi. Ma senza Gheddafi.

Un tipo come Gheddafi potrà mai trattare la propria buonuscita? Molti ne dubitano. Nonostante i primi incontri della settimana scorsa in Tunisia con gli emissari del Colonnello, una strategia di uscita concordata - si dice - non esiste. E non è realistico sperarvi, quando il Rais controlla ancora Tripoli e dintorni. C’è però una visione più ottimistica, secondo cui la campagna militare sta finalmente raccogliendo qualche frutto, rafforzato dall’ingresso in scena dei berberi nelle montagne di Nafusa, a cento chilometri da Tripoli. Soprattutto, l’anello dei fedeli a Gheddafi, anche nella capitale, si sta restringendo: aumentano le defezioni fra i militari. La speranza occidentale e del Consiglio di Bengasi è che il regime sia prossimo ad implodere. La speranza del Rais, naturalmente, è opposta: è di riuscire a tenere le proprie posizioni più di quanto riusciranno a fare gli Stati Uniti e i Paesi della Nato, indeboliti da divisioni politiche interne, dai vincoli dell’austerità e dalla stanchezza dell’opinione pubblica.

Il Colonnello sa che gli occidentali potranno essere sconfitti solo da loro stessi. Proprio per questo, è importante non dimenticare la guerra nel cortile di casa. E avere chiaro che il suo esito condizionerà la nostra sicurezza più di quanto non siamo pronti ad ammettere. Nell’immediato, una vera e propria implosione del potere di Gheddafi assomiglia a un miracolo o a una illusione. Ma se il terzo attore, il Consiglio transitorio di Bengasi, proporrà alla parte di Tripoli una condivisione credibile del potere per il «senza Gheddafi» - credibile anche perché garantita dalla coalizione internazionale - gli incentivi politici e non solo militari a liquidare il Rais aumenteranno. Se il Colonnello si persuadesse di questo, del fatto che il tempo non gioca in realtà a suo vantaggio, potrebbe anche cercare una via di uscita oggi per non perdere tutto, vita inclusa, domani.

Questo ragionamento sui rapporti di forza (o sulle debolezze rispettive, sarebbe forse meglio dire) porta a una conclusione rilevante, anche per la politica italiana sulla Libia. I Paesi che hanno deciso di intervenire, giusto o sbagliato che fosse, hanno ormai tutto l’interesse a non dare l’impressione di cedere, se vogliono aumentare le possibilità di una trattativa politica che ponga fine alla guerra. Dopo di che, lo indicano i piani in discussione alle Nazioni Unite, i compiti di peacekeeping passeranno a contingenti turchi, giordani, o africani.

Una pace comunque imperfetta non potrà includere in nessun caso la permanenza di Gheddafi al potere. Dovrà offrire un futuro alla gente della Cirenaica; ma anche rassicurare, sul proprio destino, i cittadini della Tripolitania. In assenza di queste condizioni, la spartizione violenta della Libia, con tutti i suoi rischi, diventerà inevitabile.

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=8935&ID_sezione=&sezione=
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« Risposta #19 inserito:: Luglio 11, 2011, 09:19:36 am »

11/7/2011
 
Impensabile un'Italia chiusa in casa
 
 
MARTA DASSU'
 
La revisione delle decine di missioni militari a cui l’Italia partecipa nel mondo era dovuta da tempo.
E’ stata sollecitata dalla Lega per le ragioni sbagliate – populismo e provincialismo – che Vittorio Emanuele Parsi ha denunciato nel suo editoriale di alcuni giorni fa. Ma ciò non toglie che fosse giusto verificare gli impegni complessivi dell’Italia, che ha per anni schierato all’estero quasi 10.000 soldati. Esistono infatti, al di là delle ragioni strumentali, motivi razionali per una riflessione sulle missioni internazionali. Il primo è che alcune di queste missioni stanno esaurendo la loro funzione (Kosovo) o non stanno raggiungendo gli obiettivi iniziali (Afghanistan, dove peraltro non sono state decise riduzioni immediate): in linea di principio, è giusto che le missioni internazionali siano regolarmente riviste.

Secondo motivo: nessuna politica estera seria può continuare a fondarsi sull’uso – improprio - delle missioni internazionali come unico strumento per difendere il rango dell’Italia nel mondo. Un meccanismo del genere è utile? Non lo è. Le missioni internazionali hanno finito per diventare un surrogato di quello che non c’è ma dovrebbe esserci: una visione chiara e selettiva delle nostre priorità nel mondo e dei vari strumenti per difenderle. Terzo motivo: nell’epoca dell’austerità, il costo delle missioni internazionali non è trascurabile anche perché penalizza altri aspetti della politica estera.

Si impongono delle scelte su come distribuire risorse scarse. Facciamo un esempio: per il rango dell’Italia nel mondo è più importante mantenere seicento soldati in più in Libano o pagare gli impegni economici assunti al G-8? In realtà, quei seicento soldati avremmo dovuto ritirarli da tempo, visto che facevano parte di un ruolo di comando passato dall’Italia alla Spagna. Mentre è da tempo che Roma non paga la sua quota di un Fondo globale contro le malattie proposto proprio dall’Italia al G8 di Genova. Per le tesi leghiste, rispettare questo tipo di impegni è ancora più assurdo, probabilmente, che restare in Afghanistan. Per chi si preoccupa della credibilità internazionale dell’Italia - non in astratto ma come strumento essenziale per difenderne gli interessi – è una cattiva scelta.

Partirei quindi di qui: che l’Italia riesamini le missioni internazionali in cui è impegnata da anni è giusto. Almeno in teoria. Nei fatti, come ha sottolineato il Capo dello Stato, è giusto se l’Italia prenderà le decisioni operative che ne conseguono all’interno delle coalizioni internazionali di cui fa parte. Perché se invece decidesse in modo unilaterale, vanificherebbe gli sforzi degli ultimi due decenni, incluso il sacrificio di giovani vite umane.

Questo ragionamento vale anche per gli altri Paesi europei. Parlando all’Aspen Institute la settimana scorsa, il ministro degli esteri della Polonia, Radek Sikorski, ha spiegato in che modo una capitale super-atlantica come Varsavia intende rivedere nei prossimi mesi, in accordo con Washington e la Nato, i suoi impegni in Afghanistan. Una traiettoria di progressivo disimpegno occidentale è cominciata in Asia centrale. In Kosovo, la missione internazionale sta arrivando – dopo oltre un decennio – alla sua faticosa conclusione. In Libano, il ruolo dell’Italia, che è stato di primo piano nella fase iniziale, può essere un poco ridimensionato. L’Occidente nel suo insieme, a dieci anni dall’11 settembre, vive una fase di parziale ripiegamento. Sia perché esistono, anche per gli Stati Uniti, vincoli economici più rilevanti di prima; sia perché i risultati dell’interventismo democratico sono fino ad oggi deludenti.

Il problema è che tutto ciò non venga scambiato, in Italia, con l’illusione di potersi finalmente disinteressare della sicurezza internazionale. Più di altri Paesi, l’Italia resta vulnerabile ed esposta sul piano geopolitico: un’opzione «Svizzera» (per usare un’immagine stereotipata) non esiste per noi. Non solo: la riduzione della presenza americana in Europa ci obbligherà a fare di più per la stabilità regionale. Comunque vada a finire la strana guerra di Libia. La previsione è semplice: nell’arco dei prossimi due anni, taglieremo i costi dell’Afghanistan ma dovremo aumentarli nel Mediterraneo. Mentre si ripensano le vecchie missioni internazionali, è bene esserne consapevoli.

La concentrazione degli impegni nelle aree vicine all’Europa potrebbe diventare la scelta: una risposta razionale ai vincoli economici. Ma quali ne sarebbero i costi politici? Riducendo i suoi impegni militari globali, l’Italia perderà anche rango? Non è detto. Nel sistema internazionale di oggi, il rango di un Paese non dipende tanto o soltanto dagli impegni militari globali. Usando il linguaggio degli economisti, questi impegni offrono benefici marginali più bassi che in passato. Mentre aumenta il peso della credibilità economica di un Paese, sia interna sia nel gioco globale. Questo dato, naturalmente, costringe i governi occidentali a concentrarsi sulla solidità fiscale: perfino per l’America, il debito pubblico è diventata una questione di sicurezza nazionale. Tanto più lo è per l’Italia: non esiste fattore altrettanto importante per il rango del nostro Paese. Come si è appena visto, tuttavia, neanche l’Italia può permettersi un ripiegamento domestico. Dovrà quindi trovare un nuovo equilibrio fra priorità economiche e sicurezza. Un equilibrio possibile solo attraverso una divisione degli oneri. Ossia, una politica di alleanze.

Anche per questa ragione, l’Italia deve restare un partner credibile: per gli europei e per gli Stati Uniti. Un partner che, insieme agli altri, può anche ridurre impegni internazionali ereditati dal passato; ma non potrà sottrarsi ai nuovi impegni che si profilano, economici e militari. Che l’Italia possa chiudersi in casa è quanto di più lontano ci sia dalla realtà del XXI secolo.

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=8965&ID_sezione=&sezione=
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« Risposta #20 inserito:: Luglio 22, 2011, 04:17:41 pm »

22/7/2011

Il passo che manca all'Unione

MARTA DASSÙ

Diciamo la verità. Risolvere la crisi greca doveva essere abbastanza semplice: si tratta, dopo tutto, del 3% del Pil dell’area euro. E’ diventato un compito titanico non per ragioni economiche ma per ragioni politiche. La coppia Merkel-Sarkozy (una coppia asimmetrica, in cui è la Cancelliera a contare) continua a far finta di governare l’Europa. Ma la realtà è che, attorno alle sorti di Atene, si sono scontrate due visioni diverse: quella della Germania di Angela Merkel, che per ragioni di politica interna ha bisogno di dimostrare che il contribuente tedesco non pagherà il conto delle cicale mediterranee; e quella di chi vede nella crisi greca lo stimolo necessario per completare l’Unione monetaria imperfetta con un’Unione fiscale. La Francia con qualche esitazione e in modo più netto l’Italia hanno questa seconda posizione.

Da due visioni diverse può nascere un compromesso, più che una soluzione convincente. Se il Consiglio europeo straordinario di ieri avesse considerato la proposta di emettere «Eurobonds», la soluzione convincente ci sarebbe stata. L’emissione congiunta di titoli europei, infatti, significherebbe che tutti i governi dell’area dell’euro diventano garanti del debito di ciascuno - rendendolo, così, sostenibile.

Questo passo deciso verso un’Unione fiscale non è stato compiuto. Il Consiglio europeo ha fatto dei passi a metà: ha in parte coinvolto i privati, come voleva Berlino; ha in parte rafforzato e reso più flessibili le funzioni del nuovo strumento di stabilità finanziaria (Efsf), che potrà acquistare titoli greci (svalutati, si può prevedere) sul mercato secondario. Troppo poco? Per ora, i famosi mercati hanno deciso di crederci. La decisione della Bce di continuare comunque ad accettare titoli greci come collaterali ha agito da calmante. Una ristrutturazione del debito greco è nelle carte: si prevede forse un default selettivo. Ma il doppio spettro della vigilia - il tracollo della Grecia, seguito dal contagio verso Spagna e Italia - è stato allontanato. Basterà?

Quando la crisi economica di un Paese come la Grecia può portare l’euro sull’orlo dell’abisso, è chiaro che la costruzione europea non funziona. E in effetti, come sostenevano dall’inizio le voci critiche, un’unione monetaria priva di coordinamento fiscale e senza una politica di bilancio comune non può funzionare. O meglio: funziona fino a quando non viene messa alla prova. Quando è stata messa alla prova, da un paio d’anni a questa parte, si è scoperto che non esisteva - né alla periferia dell’euro né nel suo cuore tedesco - solidarietà politica sufficiente.

Guardiamo prima alla periferia. E’ vero che George Papandreou ha fatto il possibile, nei mesi scorsi, per mettere in piedi un programma economico credibile. Ma resta che la Grecia aveva truccato i suoi conti per entrare nell’euro; e resta che i suoi cittadini sembrano non avere ancora capito la posta in gioco. Di fatto, fare parte dell’euro significa perdere sovranità sulle decisioni di politica economica in modo molto più rilevante di quanto non si pensasse. Le classi politiche dei Paesi deboli dell’area euro usano il vincolo esterno per attuare (in ritardo) programmi di aggiustamento economico in ogni caso necessari. Ma l’austerità «nel nome dell’Europa» ha bisogno, per essere credibile e accettata all’interno, che l’Ue, come sistema di garanzia collettiva, esista davvero.

Dilemmi diversi - ma sempre relativi al rapporto fra economia e politica dell’euro - valgono per il Paese di centro, la Germania. Da alcuni anni a questa parte i cittadini tedeschi hanno cominciato a vedere nell’Europa un onere piuttosto che un vantaggio. Indicativo un sondaggio pubblicato nel gennaio scorso dall’Allensbach Institute: più del 70% degli intervistati non vede il futuro della Germania in Europa ma lo vede nel mondo. C’è chi dice che i tedeschi siano diventati euro-scettici. Probabilmente, sono diventati post-europei. Questo corrisponde, del resto, a uno spostamento sensibile delle proprie ragioni di scambio verso i Paesi emergenti, Cina e Russia anzitutto. La vecchia Europa conta ancora molto, nell’export tedesco; conta però meno di prima. E conterà ancora meno in futuro. Insomma, ragioni nuove si sommano all’antico problema: una cultura della stabilità molto lontana da quella mediterranea e ostile - per definizione e Costituzione - ai salvataggi. Tutto questo non elimina il noto argomento: la Germania, a cominciare dalle sue banche, avrebbe parecchio da perdere dall’affondamento dell’euro. Si può aggiungere un secondo argomento, in forma di domanda: la Germania avrebbe esportato così tanto nel mondo se invece di un euro debole avesse avuto in mano un marco forte? La risposta è no, chiaramente. Ma è una risposta che Angela Merkel sembra far fatica a spiegare. Esposta alla prima crisi dell’euro, la leadership tedesca stenta a dimostrarsi una leadership. Eppure la Germania sarebbe nelle condizioni di tentare un new deal per l’Europa: una maggiore solidarietà da parte del Paese più forte in cambio di una maggiore serietà da parte di quelli più deboli. Una Germania ancora europea in un’Europa più tedesca. Berlino non può pretendere di ottenere la seconda parte dell’equazione senza essere credibile sulla prima. Il messaggio della Bce, depurato dalle tecnicalità, è stato questo nelle ultime settimane.

Risolvere la crisi greca non è affatto una missione impossibile; se solo esistesse la volontà politica. O la capacità politica, merce rara nell’Europa di oggi, di affrontare il cuore del problema: l’Unione monetaria si spaccherà senza un coordinamento fiscale. Il Consiglio europeo di ieri ha fatto un mezzo passo. Ci vorrà un passo più deciso. Quando perfino il cancelliere dello Scacchiere inglese George Osborne consiglia ai governi dell’euro di andare verso un’unione più stretta, vuol dire che il rimedio è evidente. Anche ai Paesi che ne resteranno al di fuori, come appunto la Gran Bretagna. Che oggi guarda senza imbarazzi a un’Europa a due velocità. E che ormai teme una cosa sola: non il successo ma il fallimento di una moneta che non avrebbe mai voluto.

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9007
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« Risposta #21 inserito:: Luglio 29, 2011, 05:57:40 pm »

29/7/2011 - LE IDEE

Il virus europeo che paralizza gli Stati Uniti

MARTA DASSÙ

Entro il 2 agosto o pochi giorni dopo, il tira e molla fra democratici e repubblicani sull’aumento del tetto al bilancio si chiuderà con un accordo. Un accordo modesto e temporaneo. Ma comunque un accordo. So che sto sposando la Teoria del Compromesso Inevitabile. Lo faccio perché ci credo: è inevitabile che la maggioranza repubblicana alla Camera, per quanto strattonata dall’oltranzismo dei Tea Party, decida che ha ottenuto abbastanza e che non può permettersi, in odio a Barack Obama, di affondare anche il governo federale.

Resta il dato di fatto. La battaglia che si è scatenata sul bilancio dimostra che il sistema politico americano sta quasi arrivando al limite. Il limite oltre a cui la polarizzazione ideologica impedirà di prendere decisioni razionali sul modo di risolvere la crisi fiscale. E l’America, per restare una grande potenza, non potrà funzionare ancora a lungo come una potenza a debito. La storia del declino dell’Impero Britannico lo dimostra.

Noi europei abbiamo ben poche lezioni da dare su questo argomento. La lentezza decisionale del sistema Europa è stata tale, negli ultimi due anni, da avere permesso a una crisi periferica, come quella greca, di diventare una crisi sistemica. Finché l’Ue resterà uno «strano animale» - né una Federazione né una Confederazione - farà fatica a funzionare. Sul versante americano, le difficoltà di bilancio di singoli Stati, dalla California al Minnesota, contano meno. Forse meno di quanto dovrebbero, considerato che la California non è la Grecia, è una delle grandi economie mondiali (all’incirca all’undicesimo posto per il Pil). Ma è Washington ad essere più divisa di prima, per ragioni in parte strumentali e in parte reali.

Il risultato, su entrambe le sponde dell’Atlantico, è abbastanza simile: mentre diminuisce la fiducia nell’economia diminuisce anche la fiducia nella politica. Timothy Garton Ash ha parlato, da storico, di crisi strutturale del «capitalismo democratico liberale». Barack Obama ha detto, in uno di quei suoi discorsi troppo professorali per piacere davvero alla gente, che la Costituzione americana prevede un governo «diviso», non un governo «disfunctional»: che non funziona. Ad essere onesti, il Presidente democratico ha dato il suo contributo all’impasse sul bilancio; se non altro perché non ha messo per tempo sul tavolo un piano dettagliato e credibile di riduzione delle spese. Da parte loro, i repubblicani sanno benissimo che sarebbero necessari dei passi anche sul lato delle tasse. Ma li hanno resi impossibili. L’America ha perso così l’occasione di tentare una vera riforma del bilancio. Una riforma - dice chiunque guardi in modo spassionato alla situazione degli Stati Uniti che è indispensabile.

Sottolineando la polarizzazione senza precedenti nel Congresso americano, si rischia di esagerare. C’è sempre qualcuno pronto a ricordare che è stato così varie volte, nel 1969 con Richard Nixon per esempio e in modo continuativo dal primo mandato di Bill Clinton, nei primi Anni 90. Gli americani si lamentano volentieri del loro sistema di governo, esattamente come noi europei. Il problema è che oggi hanno probabilmente ragione. Perché, come spiega uno dei più brillanti politologi americani, Norman Ornstein, è quasi scomparso quello spazio di centro che permetteva decisioni nazionali (bipartisan) e razionali: nell’interesse comune, più che nell’interesse di parte. Il Congresso, dalla elezione di Barack Obama in poi, è teatro di una specie di campagna elettorale permanente. Ed entrambi gli schieramenti politici si comportano come «partiti parlamentari», divisi in blocchi ideologici contrapposti. Insomma come partiti europei. Quando invece l’impianto del sistema americano non è parlamentare ma è basato sulla separazione dei poteri e sulla logica dei checks and balances, dei pesi e dei contrappesi. Conclusione: partiti parlamentari, in un sistema non parlamentare, non possono funzionare. Il risultato è la paralisi. Da questo punto di vista, il tira e molla sul bilancio è solo una spia del problema più generale: dall’insediamento della nuova maggioranza repubblicana alla Camera, leggi più o meno importanti (tre accordi commerciali, la nuova legge sull’energia) sono rimaste congelate; nomine decisive non riescono ad essere confermate; e non è chiaro se sopravviveranno le riforme varate a fatica da Barack Obama nei primi due anni del suo mandato, con un Congresso ancora a maggioranza democratica.

Sembrerebbe che mentre i virus della crisi finanziaria migravano dall’America verso l’Europa, nel 2008, quelli del parlamentarismo malandato migravano in direzione opposta. Il dibattito politico americano sembra più familiare di quanto sia mai stato, a orecchie europee ed italiane; incluse le voci favorevoli ad un terzo partito, capace di occupare un mitico centro cui, dopotutto, continua a guardare una parte dell’elettorato degli Stati Uniti.

Abbiamo speso troppo (il debito) e non riusciamo a decidere granché (la polarizzazione politica). Se la vicinanza fra le due sponde dell’Atlantico è diventata questa, c’è poco da rallegrarsi. Il presente/futuro ci riserva un Paese, la Cina, che ha molte altre fragilità e svantaggi comparativi. Ma che ha risparmiato molto e riesce ancora a prendere decisioni strategiche. Come si è visto, il debito è una questione politica, non solo economica. Europa e Stati Uniti dovrebbero forse ripartire di qui: abbiamo bisogno di avere alle spalle sistemi politici che funzionano - il che significa: capaci di decidere nell’interesse comune - per salvare le sorti delle democrazie occidentali.

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« Risposta #22 inserito:: Agosto 08, 2011, 11:29:40 am »

Economia

08/08/2011 - COLLOQUIO

"Gli Usa ancora dominanti ma pagano la paralisi politica"

Joseph Nye, politologo di Harvard, è stato vicesegretario alla Difesa con Clinton.

Studia le forme di potere esercitato con mezzi diversi dalla forza.

Il politologo Nye: "Lo spostamento del potere verso l’Asia non c’è ancora stato.

S&P non è fonte di tutte le verità, dopo il 2012 serve un vero piano di risanamento"

MARTA DASSÙ
ASPEN (COLORADO)

La bocciatura di Standard&Poor’s risuona come una frustrata di vento nei vialetti alberati del campus di Aspen, in Colorado. L’aria è tesa, al Board internazionale. La paura del contagio continua a migrare da una sponda all’altra dell’Atlantico. Fuori dalla grande vetrata, nubi veloci attraversano le Montagne Rocciose. Il meteo, sullo schermo degli iPad dei partecipanti, dà tempo bello. Ma l’opinione degli economisti e banchieri è che le nuvole, questa volta, non passeranno così in fretta. Forse, ci sarà un temporale.
L’accordo in extremis sul debito non ha convinto nessuno. E la diagnosi è di tipo europeo: la perdita della tripla A, nella patria del dollaro, non è solo una questione di debito. Quella che è crollata è la fiducia degli investitori nel sistema politico americano. Per ragioni politiche, non solo economiche, l’America sta perdendo credibilità. Quanta e con quale velocità?

I voti delle agenzie
Joseph Nye, vicesegretario alla Difesa nell’amministrazione Clinton e professore a Harvard, ha appena finito di scrivere un libro sul futuro del potere. È la persona ideale con cui discutere di questo: la perdita della Tripla A è un simbolo del declino della potenza americana? «Intanto mettiamo le cose nel loro giusto contesto» mi risponde Joe Nye. «Standard&Poor’s è una delle tre agenzie di rating; non è la fonte di tutte le verità. Il suo giudizio potrebbe anche essere relativizzato. Se non fosse che c’è alle spalle una questione molto più rilevante: la paralisi del sistema politico americano, la polarizzazione estrema, che impedisce di prendere decisioni a lungo termine, e razionali, sulla politica fiscale. La farsa al Congresso sul tetto al debito ha danneggiato la reputazione americana. E la reputazione è una componente essenziale del potere internazionale. Possiamo ringraziare i Tea Party. Insomma: il rischio vero, anche per i mercati, è la perdita di fiducia nella politica. Perché se invece guardiamo ai fondamentali dell’economia, l’America resta molto più solida di quanto la gente non pensi».

Il futuro del potere
Nel mio ultimo libro, “The Future of Power”, spiego perché il famoso spostamento verso l’Asia del potere internazionale non ha ancora sottratto agli Stati Uniti la loro posizione centrale e dominante. Se guardiamo a indicatori essenziali - come le capacità tecnologiche o imprenditoriali - l’America è ancora avanti. Certo, dieci anni di guerre costose e non vittoriose, combinazione pessima, hanno leso la nostra posizione fiscale. Ma con un sistema politico in grado di decidere, non avremmo vere difficoltà a rientrare dal debito. Lo abbiamo fatto in passato. L’America eviterà il declino se dopo le elezioni del 2012 adotterà un piano fiscale convincente».
Mi chiedo, ascoltando Nye, se l’America abbia quel tempo davanti a sé. La reazione della Cina al downgrading di Standard&Poor’s sembrerebbe indicare che il principale creditore degli Stati Uniti non ha particolare pazienza. «La reazione della Cina è stata durissima ma prevedibile» osserva Nye. «È ovvio che i cinesi intendano proteggere la quantità di risorse che hanno investito nei titoli del Tesoro americani. E vogliono anche prendersi una rivincita morale: per anni, siamo stati noi a impartire lezioni a Pechino. Ma la realtà è che la Cina non ha vere alternative. Non è chiaro se l’euro reggerà. E la Cina deve comunque investire gran parte dei 3000 miliardi di dollari e più che detiene in riserve. L’unica vera alternativa, per sottrarsi al dilemma del dollaro, sarebbe di rendere convertibile la moneta cinese, il renminbi. Ma la Cina non è ancora pronta a farlo, come sappiamo. E quindi il nostro problema diventa anche il loro».

La strategia della sicurezza
Mentre Aspen celebra i suoi riti estivi - nella grande Tenda Bianca si festeggia la carriera di un vecchio e commosso Brent Scowcroft, abbracciato da Condoleezza Rice chiedo a Joe Nye fino a che punto la «potenza a debito», tagliando risorse e impegni internazionali, potrà restare una superpotenza. «Abbiamo deciso dei tagli importanti al bilancio del Pentagono. Ma se l’America adotterà una strategia di sicurezza più coerente, io la definisco una strategia alla Eisenhower, non avrà problemi. Per esempio, rientra nei nostri interessi continuare ad avere una presenza avanzata in Asia orientale, e siamo in grado di permettercelo. Quando si parla di ripiegamento dell’America conviene essere chiari. Il ripiegamento è rispetto alle guerre di Bush, il post-11 settembre. Non è rispetto agli impegni globali che gli Stati Uniti comunque manterranno».

Quali impegni manterranno in Europa, chiedo a Nye? La guerra di Libia è la perdita della Tripla A per la Nato? «La guerra di Libia è un serissimo campanello di allarme. Gli europei devono darsi le capacità militari per intervenire nel loro vicinato. L’ex segretario alla Difesa Bob Gates l’ha detto in modo troppo rude ma nella sostanza aveva ragione. Se gli europei non riusciranno a fare di più, la Nato perderà senso, per l’America. Sul terreno, il rischio è una spartizione della Libia, o una guerra civile prolungata». Vista da un’America in difficoltà, l’Europa delude (sulla difesa) e preoccupa (sulla gestione della crisi dell’euro): la patologia del debito non funziona certo da collante. Anche se c’è chi prevede, ai tavoli di Aspen, che America ed Europa tenteranno insieme di ridurre l’influenza delle agenzie di credito. E punteranno sul G7 (le prime consultazioni sono state ieri notte), dopo averlo buttato via troppo in fretta a favore del G20. Nye è convinto, fra l’altro, che di fronte all’ascesa della Cina l’Occidente abbia ancora le sue carte da giocare. «La Cina ha molte più debolezze di quante ne abbiamo noi. Potrà anche prendere delle decisioni con più facilità. Ma non ha risolto il problema della partecipazione politica, non sa come gestire il dissenso ed è destinata a crescenti tensioni sociali».

L’attrattiva del sistema
«Tutti i sondaggi di opinione sull’Asia, indicano che l’America ha più “soft power”, più capacità di attrazione della Cina. Il capitalismocomunista cinese esce da una fase di straordinari successi, ma ha di fronte a sé enormi problemi da risolvere. È un futuro su cui si addensano forti nuvole. Noi siamo nel mezzo di una tempesta, ma abbiamo grandi capacità di ripresa. Tornerà il sole».
La meteorologia della politica internazionale è uno degli effetti di Aspen, a quanto pare. Il clima, nell’estate del Colorado, appare meno fosco che a Washington. Ma continua a cambiare. Con la decisione simbolica di Standard&Poor’s, una stagione è probabilmente finita. Quale sarà il futuro del dollaro? Joe Nye, il teorico del potere dell’America, appare più ottimista di quanto siano i mercati.

da - http://www3.lastampa.it/economia/sezioni/articolo/lstp/414936/
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« Risposta #23 inserito:: Agosto 22, 2011, 04:18:33 pm »

22/8/2011

Euro e Libia, le due guerre d'Europa

MARTA DASSU'

Non è chiaro quali saranno i costi, in vite umane, dell’ultimo atto: la presa di Tripoli. La battaglia finale nella notte, aperta dai ribelli venuti da Ovest, è comunque una battaglia cruenta, se Gheddafi sceglierà di combatterla fino in fondo, nonostante abbandoni e defezioni dei suoi. Ma è infine giunto il momento della verità, per il dittatore di Libia e per il suo regime. Dopo mesi di una guerra dimenticata nel cortile di casa dell’Europa, la sconfitta di Gheddafi salverà la faccia alla Nato. In teoria. Nei fatti, non sarà semplice da gestire. Se la Libia verrà lasciata a se stessa, da un’Europa alle prese con la propria crisi finanziaria, vittoria e fallimento potrebbero saldarsi. In un «successo catastrofico», secondo l’espressione pessimistica e cinica che sta circolando a Bruxelles.

I precedenti - dai Balcani all’Afghanistan - indicano costi e rischi dei dopo-guerra. Nel caso della Libia, il primo rischio è che la caduta di Gheddafi prepari un nuovo ciclo di violenze, lasciando esposti i civili e risucchiando il vasto fronte dei «vincitori» in un pesante regolamento di conti (passati e presenti). Come verrà garantita la sicurezza? È già chiaro che l’America intende sfilarsi dal gioco, dopo avere partecipato controvoglia alle operazioni militari. Obama non intende fornire né uomini (né aiuti economici rilevanti, probabilmente) alla gestione di un problema che considera parte delle responsabilità europee. L’Europa, che con Parigi e Londra ha trainato l’intervento militare - ma esponendo così tutti i limiti delle proprie capacità - passerà a sua volta la mano. L’intenzione è di avallare le ipotesi, in discussione all’Onu, di una missione di monitoraggio iniziale affidata a contingenti arabi ed africani. Risultato: nel dopo-Gheddafi, il ruolo di Paesi come la Turchia e le monarchie del Golfo aumenterà. Sul piano formale, le responsabilità di sicurezza saranno dei libici stessi. Con esiti incerti, naturalmente. Anche per gli interessi europei.

Sul piano politico, il rischio è ancora più evidente. Italia, Europa e Stati Uniti hanno scommesso su una ipotesi precisa: che il Consiglio di Transizione Nazionale creato a Bengasi riesca a garantire un processo di riconciliazione, tenendo sotto controllo le rivalità tribali e avviando la costruzione di istituzioni nazionali in un Paese che ne è privo da sempre. Questa scommessa, già difficile, è complicata dal ruolo decisivo assunto dai ribelli occidentali, dai berberi di Nafusa, nella offensiva militare su Tripoli. Quanta della Libia anti-Gheddafi sarà disposta a riconoscere la leadership di Bengasi? Gli europei non avranno più la stessa influenza una volta che i ribelli saranno al potere. Il momento di trattare le condizioni per il dopo-Gheddafi è oggi (era ieri), prima del «catastrofico successo» di cui si dice a Bruxelles.

Gli accordi economici possono servire da leva. È scontato e legittimo che i Paesi europei, Italia inclusa, puntino a garantire i propri interessi energetici. D’altra parte, sarebbe assurdo che l’Europa, dopo essersi divisa sulla guerra a Tripoli, si dividesse anche sulla gestione del dopo-guerra: lo scongelamento degli assets libici in Europa deve essere utilizzato per ottenere garanzie sul futuro della Libia.

Negli ultimi mesi, l’Europa ha combattuto due guerre. Una guerra interna con altri mezzi sul destino dell’euro; una guerra esterna tradizionale, sui destini di un Paese chiave del fronte Mediterraneo. Le tensioni interne sulla gestione dell’economia non hanno certo favorito le performance europee in politica estera. La posizione del paese centrale, la Germania, è quanto mai indicativa: economicista, si potrebbe in fondo dire così, sia in casa che nel vicino estero, come ha indicato la posizione distaccata di Berlino sulla guerra in Libia. La realtà, tuttavia, è che l’Europa vincerà o perderà queste due guerre insieme. Se l’Euro-zona si spaccasse su una linea Nord-Sud, la frattura economica e monetaria dell’Ue diventerebbe parte dell’instabilità geopolitica del Mediterraneo. Uno scenario catastrofico per un paese come l’Italia ma che non si fermerebbe certo ai confini dell’Europa renana. Per chiunque ragioni sugli interessi a lungo termine del Vecchio Continente, fermare il crollo della Borsa e gestire il crollo del regime di Gheddafi sono solo apparentemente compiti contrastanti e lontani. La sicurezza degli europei dipende da entrambi. E dipende da noi: con la fine della guerra di Libia, l’era della tutela americana è giunta al suo termine.

DA - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9112
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« Risposta #24 inserito:: Agosto 31, 2011, 12:19:17 pm »

31/8/2011

Se Parigi vince Roma non perde

MARTA DASSÙ

La lettura che prevale è questa: con la caduta di Gheddafi - poi si vedrà che fine farà il dittatore - l'Italia ha perso il suo rapporto privilegiato con Tripoli.

E’ vero che Roma, dopo alcune esitazioni iniziali, si è ricollocata dalla parte di Bengasi, ha dato le sue basi alle operazioni Nato, vi ha partecipato direttamente e così via. Ma la strana guerra di Libia è stata voluta essenzialmente da Parigi e in seconda battuta da Londra. Nicolas Sarkozy cercherà quindi di raccogliere i frutti del suo impegno, guidando la ricostruzione economica. La presenza dell'Italia in Libia ne uscirà fatalmente ridimensionata.

C’è un dato vero, di cui tenere conto. I capi della Cirenaica - i famosi «ribelli» dell'Est - non hanno mai amato particolarmente l'Italia. La storia è ben nota. Ma è sempre utile ricordare che l'area attorno a Bengasi faceva parte dell'Impero Ottomano, fino a quando l'Italia non estromise la Turchia dalla Libia e decise, quale potenza coloniale (1911), di unificare Cirenaica e Tripolitania. Da Bengasi, il futuro re Idris istigò la resistenza contro gli italiani durante la Seconda Guerra mondiale. C'è in proposito una nota interessante nei documenti diplomatici britannici. Nel gennaio del 1942, Anthony Eden, allora Foreign Secretary di Sua Maestà, promise a Idris che «alla fine della guerra i Senussi di Cirenaica non sarebbero in nessuna circostanza ricaduti sotto il dominio italiano». Ecco: per quanto l'Italia abbia riconosciuto e aiutato, nei mesi scorsi, il Consiglio di Bengasi, c'è una storia che pesa. E di cui Roma deve tenere conto, quando si propone ai vertici del Consiglio Nazionale di Transizione - che ha dentro di tutto un po': ex collaboratori di Gheddafi, capi di tribù rivali, islamisti - come un interlocutore preferenziale.

Quindi sì, l'Italia aveva molto da perdere dalla strana guerra di Libia. E tuttavia, particolare che sembra sfuggire, non ha perso. La visita di Paolo Scaroni a Bengasi conferma che l'Eni è in grado di salvaguardare i propri accordi energetici. Se la Libia non resterà unita, se non si stabilizzerà, avremo perso tutti, incluse Parigi e Londra. Gli europei, dopo essersi divisi sulla guerra - e la guerra dura ancora, fra resistenze a Sirte, combattimenti a Tripoli, aumento del numero delle vittime -, hanno interesse a promuovere insieme un accordo fra i successori di Gheddafi, evitando gli errori compiuti dagli Usa in Iraq dopo il 2003. So che questa idea che gli europei siano in realtà nella stessa barca sembra retorica pura. Ma è esattamente così. Non esiste una sola possibilità al mondo che in uno scenario negativo - una Grande Somalia al posto della Libia di Gheddafi, un nuovo «failed State» al di là del Mediterraneo - Parigi possa avere grandi benefici a scapito di Roma. Ugualmente, in uno scenario positivo - una transizione che riesca verso una Libia pacificata l'Italia avrà lo spazio per tutelare i propri interessi.

L'idea che l'Italia abbia già perso la guerra (non conclusa) di Libia sembra una delle tante variazioni sul tema «si stava meglio quando si stava peggio». Era più semplice avere a che fare con l'ex terrorista di Lockerbie, con le sue tende e le sue Amazzoni, le sue riparazioni di guerra, ecc. ecc., che non con il gruppo disparato dei successori. Forse, ma ricordiamo almeno i ricatti continui di Gheddafi in materia di emigrazione. E non dimentichiamo il punto di partenza: comunque vadano a finire le scosse arabe del 2011, lo status quo nel Nord Africa era giunto al suo esaurimento. Il che non garantisce niente sul futuro; ma ha reso insostenibile il passato, inclusa la lunga dittatura del colonnello di Tripoli.

Punto indubbio, invece, è che nei rapporti con la Libia post Gheddafi aumenterà il peso di altri interlocutori, anzitutto della regione: dalla Turchia, che riannoda i suoi fili storici con Bengasi, al Qatar, che ha dato un appoggio militare importante alla rivolta e sarà al centro di una possibile forza di stabilizzazione araba e africana. Dal punto di vista internazionale, i perdenti di oggi sono altri. Per esempio, una Russia che tenta ancora di mediare un accordo con l'ex Rais, mentre parte della sua famiglia è già in Algeria. E probabilmente la Cina, che ha toccato per la prima volta con mano i limiti della sua politica africana. Il ritiro dalla Libia di 36.000 lavoratori cinesi, nel marzo scorso, è stato la prima vera battuta d'arresto dell'espansione cinese in Africa. La caduta del regime di Tripoli è stata anche una sconfitta del «modello autoritario» proposto in questi anni da Pechino ai vari dittatori africani.

L'Europa, agli ultimi atti della guerra di Libia, ha un altro modello da proporre? La sfida del dopo Gheddafi - per un' Europa che ha assistito in posizione marginale ai moti di Tunisia e al «coup» militare in Egitto - sarà essenzialmente questa: l'occasione di un rientro europeo in Nord Africa dopo alcuni decenni di perdita di influenza. Quali che siano state le motivazioni della guerra voluta da Sarkozy (ma combattuta con l'appoggio americano, le forze speciali inglesi, i comandi Nato e le basi italiane), il futuro della Libia va visto a questo punto dalle capitali europee come parte della competizione globale del XXI Secolo. Non come una riedizione di vecchie rivalità coloniali.

Le illusioni di un condominio francobritannico sono già fallite in passato, nel Mediterraneo. Falliranno una seconda volta se gli europei, in Libia, si contenderanno una «torta» - termine pessimo che i libici stessi devono imparare a governare con altri mezzi. L'interesse comune degli europei, e delle genti di Libia, è di non dover rimpiangere Gheddafi. Dopo di che gli affari verranno, per chi sarà in grado di farli. Questa è l'unica competizione ammissibile fra le democrazie del Vecchio Continente.

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9145
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« Risposta #25 inserito:: Settembre 24, 2011, 11:49:30 am »

24/9/2011

Palestina, il momento non è ancora venuto

MARTA DASSÙ

È venuto il momento»: nel suo discorso di ieri alle Nazioni Unite, fra applausi scroscianti, il Presidente dell’Autorità palestinese, Mahmoud Abbas, ha motivato la richiesta per l’ammissione all’Onu di uno Stato indipendente e sovrano, all’interno dei confini del 1967. È venuto il momento, ha ripetuto varie volte un vecchio leader, deciso a scrollarsi di dosso l’eredità di Yasser Arafat. È venuto il momento, anche se Barack Obama ha già annunciato che Washington metterebbe il suo veto in Consiglio di sicurezza. È venuto il momento, anche se il premier israeliano, Benyamin Netanyahu, ha ribadito a una gelida platea di New York - ma dove Israele può ancora contare su una «minoranza morale» - che l’unica soluzione possibile resta la pace, prima dello Stato. Ecco, il problema è che il momento non è ancora venuto. La richiesta di Mahmoud Abbas, è giusto saperlo, è soprattutto simbolica. Perché ci vorrà del tempo per andare ai voti. E l’esito è scontato in anticipo: senza un accordo negoziato con Israele, uno Stato palestinese sovrano non nascerà. Solo il Consiglio di sicurezza, infatti, può ammettere un nuovo Stato a pieno titolo; e non accadrà, in assenza di un accordo con Israele. Il massimo a cui Abbas può aspirare è il riconoscimento della Palestina, da parte dell’Assemblea generale, come Stato osservatore permanente senza diritto di voto. È la soluzione «vaticana» per lo Stato palestinese: secondo parte degli europei, a cominciare da Nicolas Sarkozy - il Presidente francese più filo-israeliano dal 1967 in poi ma anche il Presidente deciso a tentare il grande rilancio della Francia nelle terre d’Arabia - è la soluzione su cui puntare, insieme alla ripresa di un negoziato bilaterale in tempi certi e stretti. Il Quartetto (Stati Uniti, Ue, Un, Russia) ha proposto negoziati entro un mese, da New York. E si continua a discutere in che modo una Risoluzione «vaticana» potrebbe tranquillizzare Israele su uno dei punti principali: che la Palestina rinunci a usare la Corte criminale internazionale per perseguire le politiche dello Stato ebraico.

Gli scenari reali - fra discorsi, diplomazia e simboli - sono questi. Per Abbas è decisivo presentarli come una vittoria, almeno parziale; se perdesse, il vincitore sarebbe Hamas e l’Autorità palestinese si troverebbe con un’intifada in casa, prima che contro Israele. È un punto di cui Netanyahu deve essere consapevole. Per il premier israeliano, d’altra parte, il discorso di Barack Obama all’Assemblea di New York - con l’opposizione esplicita del Presidente americano, ormai in campagna elettorale, a uno Stato palestinese dichiarato per mezzo di Risoluzioni dell’Onu, invece che di negoziati con Gerusalemme - è già un mezzo successo. Israele, dopo avere perso l’alleanza privilegiata con Ankara e il pilastro dell’Egitto di Mubarak, ritrova almeno l’America. O quello che ne rimane sulla scena medio-orientale. Il principio sollevato da Abbas a New York non è controverso. È semplice e noto: come prevedono le Risoluzioni dell’Onu, dal 1947 in poi, i palestinesi hanno diritto al loro Stato, esattamente come gli israeliani. Gli Stati Uniti (da Clinton a Bush figlio a Barack Obama), l’Unione europea (al di là delle sue divisioni fra governi filo-israeliani e governi filo-arabi), l’élite politica israeliana (Netanyahu incluso, nonostante gli errori compiuti e gli insediamenti accumulati) sono d’accordo su questo, sono d’accordo che la soluzione al conflitto israelo-palestinese è fondata su due Stati. In discussione non è il principio, quindi. In discussione è se l’iniziativa diplomatica del Presidente palestinese, specchio delle frustrazioni della sua gente e del timore dell’Anp di perdere legittimità all’interno, aumenti o riduca le possibilità di un accordo con Israele che, con l’ultimo governo, ha fatto di tutto meno che negoziare sul serio.

Può insomma funzionare una «terza via alla Palestina» - per usare la definizione del Foreign Affairs? Dopo la fase della lotta armata e quella del negoziato senza fine promosso da Washington, il tentativo palestinese è di fare leva sui risultati ottenuti da Salam Fayyad (il premier tecnocratico, che per quattro anni ha puntato a costruire le condizioni economiche e le istituzioni del futuro Stato) e sulla legittimità del passaggio alle Nazioni Unite. Riuscirà? Il rischio vero è che, dopo New York, i negoziati per la riconciliazione con Hamas e le future elezioni premino paradossalmente il partito - Hamas, appunto - che ancora respinge la soluzione dei due Stati. E che è pronto a descrivere il passaggio all’Onu di Abbas come una sconfitta, più che una vittoria. Il che ci riporta al problema principale, scontato ma quasi dimenticato nei commenti di questi giorni. L’Anp sta chiedendo a New York il riconoscimento della propria sovranità su un territorio che non è in grado di controllare del tutto. Finché Hamas resterà al comando a Gaza, uno Stato palestinese unitario non sarà credibile. Anche per questo, non è così ovvio che l’iniziativa diplomatica palestinese, combinata alla pressione internazionale, riesca a far funzionare un negoziato con Israele. Al di là delle responsabilità negative del governo Netanyahu, la realtà è che lo Stato ebraico è in una situazione strategica difficilissima. Per la prima volta da decenni, il pericolo di un progressivo isolamento non è immaginato ma è reale. Una situazione che, si dice con troppa facilità dall’esterno, dovrebbe spingere gli israeliani a capire che la nascita di uno Stato palestinese è nei loro migliori interessi. Sì, ma se sarà uno Stato unitario e deciso a vivere in pace con lo Stato ebraico. Il timore di Israele è che la richiesta palestinese alle Nazioni Unite generi invece nuove violenze anche nella West Bank; in un contesto, quello dei rivolgimenti arabi, molto più delicato di prima. Difficile fare previsioni, quindi. Ma la sensazione è netta: l’alternativa a una soluzione negoziata non sarà la nascita per via unilaterale di uno Stato palestinese, poi sanzionata sul piano internazionale; sarà un nuovo conflitto, con ramificazioni regionali più rischiose che in passato.

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« Risposta #26 inserito:: Ottobre 08, 2011, 06:02:01 pm »

8/10/2011

L'Europa che non vuole entrare nell'euro

MARTA DASSÙ

Praga è più bella ancora di quanto la ricordi, prima e dopo. E di quanto la rilegga, una volta di più, nelle pagine rosa di Angelo Maria Ripellino. In questo inizio d’ottobre, non sa di nebbia e di malinconia; il cielo su Malá Strana è azzurro, quasi romano. L’aria è secca, mentre camminiamo verso il Museo di Kampa, nel piccolo lembo oltre la Moldova. L’incontro è lì, in quelle sale dove l’ex segretario di Stato americano, Madeleine Albright, ritrova il suo nome da ragazza: Maria Korbel. Riannodando così il filo di una storia, anche sua. La prima donna ad avere guidato il Dipartimento di Stato, figlia di un diplomatico cecoslovacco rifugiatosi negli Stati Uniti, è a Kampa, con noi europei, per gettare le basi di un futuro Aspen Institute Prague.

Tenere insieme Praga e Washington, Boemia e Colorado, non è impresa difficile. Per la Repubblica Ceca, l’America è ancora la grande alleata nella battaglia per la libertà dal sistema sovietico. L’America, vista da Praga, non è controversa. L’Europa lo era e lo è. La gravità della crisi dell’euro ha rafforzato le tesi scettiche alla Vaclav Klaus. Il presidente della Repubblica Ceca, scrivendo sul Wall Street Journal pochi mesi fa, ha interpretato il rischio default della Grecia come una conferma plateale delle proprie idee di sempre: la moneta unica - ha ribadito Klaus l’euro-scettico - è un «progetto pericoloso» perché genera (al meglio) tensioni insostenibili e finisce (al peggio) per azzerare la sovranità democratica dei paesi membri. Atene può uscire o subire, fallendo comunque.

Il mio vicino di tavolo al Museo di Kampa, un diplomatico di carriera, dice che Klaus esagera un po’ ma non tanto. L’opinione pubblica, dopo gli sforzi compiuti per l’ingresso nell’Ue, nel 2004, è già molto delusa. La Repubblica Ceca ha tirato il freno, o di più, sull’adesione all’euro. In un suo recente documento, la Banca centrale ha messo nero su bianco che l’adozione dell’euro non dipenderà solo dalle riforme a casa; ma anche e soprattutto da «come l’area dell’euro affronterà le sfide che la riguardano e che ne mettono in discussione il funzionamento». Cosa ragionevole, mi pare; ma che, rispetto alla lettera dei Trattati europei, introduce una condizione non prevista, dal momento che per nulla previsto era stato lo scenario - la crisi, rapida e traumatica, della moneta unica. Con i suoi costi: l’esperienza dei fratelli separati slovacchi (nell’euro ma euro-scettici) si fa sentire.

Mentre cominciano i brindisi, una giovane economista attira la mia attenzione sul fatto che il governo ceco ha ormai deciso di rinunciare a fissare obiettivi temporali per un eventuale ingresso nell’euro. Prima si parlava del 2010, poi si è parlato del 2014; oggi non se ne parla proprio più, sottolinea con un fare fra il rassegnato e il divertito. Perché la realtà, chiude salutandomi, è che tenerci la Corona conviene: ci aiuta un po’ nelle esportazioni; e la nostra economia, per rallentata che sia, continua a vivere di questo.

Lo stesso sta accadendo in Polonia. Presidente di turno dell’Unione europea, Varsavia aveva inizialmente pensato di puntare le proprie carte su un’adesione all’euro attorno alla metà di questo decennio. Ancora a luglio di quest’anno, il primo ministro Donald Tusk aveva chiesto che la Polonia fosse ammessa ai vertici dell’Eurogruppo pur non essendo membro dell’euro. Il collasso della Grecia e i rischi di contagio hanno spazzato via istanze del genere: secondo Jan Vincent-Rostowski, ministro delle Finanze con studi e inclinazioni anglosassoni, l’adesione della Polonia alla moneta unica non va più data per scontata. Per ragioni economiche ovvie, rafforzate da ragioni politiche: per potere aderire all’euro, la Polonia dovrebbe modificare la Costituzione. Ma è un passaggio difficile da affrontare, quale che sia la maggioranza che uscirà dalle urne dopo le elezioni di domani. Nel frattempo, l’opinione interna si è raffreddata: meno di un terzo dell’elettorato, oggi, si dichiara disposto ad abbandonare lo zloty.

E’ rinata così, fra la Moldova e il Mar Baltico, una seconda Europa: nel senso che questa parte dell’Ue sta tornando a pensarsi come tale, come un pezzo a sé stante del Vecchio Continente, con un piede dentro e un piede fuori dall’euro. L’effetto centripeto messo in moto dall’allargamento è stato arrestato, spezzato, dall’implosione greca. E’ una seconda Europa che guarda ancora verso l’America di Maria Korbel, appunto; che crede (diffidandone) che la Germania sia tedesca, prima che europea; e che sta cercando di crearsi, per ragioni geopolitiche ed economiche, una propria area di influenza nella Mitteleuropa e verso Est, verso l’Ucraina e i suoi vicini. E’ il progetto della Polonia, in particolare, frustrata dagli scarsi risultati del «triangolo di Weimar» (il tavolo fra Varsavia, Berlino, Parigi) e preoccupata che il rapporto Germania-Russia tolga spazio alle proprie ambizioni.

A differenza di Londra, Praga e Varsavia mantengono però una buona dose di ambiguità sulla prospettiva di un’Europa «a più velocità». David Cameron può ormai invocare l’unione fiscale fra i Paesi dell’euro - come unica soluzione credibile a una crisi dannosa e rischiosa per tutte le economie occidentali - proprio perché nella sua concezione la Gran Bretagna resterà in ogni caso al di fuori di un «nucleo duro» quasi federale: l’Europa a più velocità, dal punto di vista dei conservatori inglesi, è un buon compromesso (non lo era per Tony Blair, che ancora puntava a condizionare da Londra l’Unione Europea nel suo insieme). Per Praga e Varsavia, accettare la nuova equazione britannica è assai meno semplice: in entrambi i Paesi, se la crisi dell’euro fosse superata, il problema di aderire alla moneta unica tornerebbe a proporsi. Ma in termini che, nel frattempo, saranno diventati molto più impegnativi di oggi.

La mia precisa sensazione, insomma, è che nella psicologia dell’Europa un tempo «sequestrata», poi ritrovata, poi allontanata dalla crisi dell’euro, non esista solo la tentazione a pensarsi come un mondo sé; ma sia sempre in agguato anche un complesso di esclusione. Un complesso che noi italiani ben conosciamo: il timore di essere lasciati fuori, «out in the cold». Ma a Kampa l’aria è ancora tiepida, quando il Museo chiude e torniamo verso Ponte Carlo.

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9297
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« Risposta #27 inserito:: Ottobre 24, 2011, 05:26:41 pm »

24/10/2011

Primi passi di Unione a più livelli

MARTA DASSÙ

E’ il primo summit europeo che si chiude per aprirne un secondo, mercoledì prossimo. Nei tre giorni che restano, Angela Merkel dovrà vendere a casa - alla Commissione bilancio del Bundestag - il pacchetto di salvataggio dell’euro. Al vertice di Bruxelles, l’approccio tedesco ha prevalso sui punti cruciali in agenda: l’unica Europa possibile sembra essere questa.

Un’Europa che dipende dalla politica interna della Germania: il Paese di centro, economicamente più forte ma con una leadership che ha le mani legate, quando è in ballo l’Europa, dal proprio Parlamento.

Nell’Europa tedesca che sta nascendo dalla crisi del debito, la Francia è solo in apparenza un partner «uguale». In realtà, Berlino pesa troppo e Parigi troppo poco per produrre un direttorio efficace. Gli altri hanno un ruolo minore (i nordici), sono azzoppati dal debito (i mediterranei), hanno ormai scelto di stare fuori da tutto ciò (la Gran Bretagna) o di aspettare (la Polonia). L’Europa tedesca nasce, in senso proprio, «by default»: non tanto il default parziale di un Paese periferico come la Grecia, ma l’evaporazione politica di una serie di altri attori europei tradizionali, Italia inclusa. Nel «Comitato di Francoforte» che ha preso il posto dei sei vecchi Paesi fondatori, le istituzioni comuni siedono a fianco di Merkozy, la coppia ineguale. Ma la Commissione di Bruxelles comincia a sembrare un segretariato tecnico, più che il potenziale governo dell’Unione; il Consiglio europeo riflette l'esistenza di questa gerarchia, di cui il futuro Mr. Euro non potrà che tenere conto; e la Bce resta in posizione ambigua. La Banca di Francoforte è intervenuta per tamponare la crisi del debito ma non può assumere il ruolo - come vorrebbe chi crede in un’Unione fiscale - di «prestatore di ultima istanza».

Questa fotografia (un po’ cruda, lo ammetto) dei rapporti di forza non elimina il punto sostanziale: l'Unione monetaria potrà superare la crisi attuale solo se i Paesi che la guidano oggi, la Germania anzitutto, aumenteranno il loro tasso di solidarietà (troppo basso, anche secondo le parole di un «grande vecchio» tedesco come Helmut Schmidt); e solo se i Paesi in debito aumenteranno il loro tasso di credibilità (riforme) e la loro disciplina di bilancio. Da questo punto di vista, il doppio vertice di questi giorni segna un progresso potenziale, almeno sulla carta. Perché, con le soluzioni analizzate altrove da Marco Zatterin (la ricapitalizzazione delle Banche, il potenziamento del Fondo Salva-Stati, la ristrutturazione del debito greco, gli impegni delle economie vulnerabili, fra cui l’Italia), il compromesso alla base dell’Unione monetaria - fra solidarietà e disciplina - riacquista un qualche senso. Sono decisioni che basteranno a calmare i mercati? La risposta onesta è: solo in parte e solo per un po’. Per una soluzione strutturale ci vorrebbe altro. Ci vorrebbe probabilmente un salto di qualità verso il coordinamento fiscale, di cui l’emissione congiunta di titoli europei (i famosi Eurobonds) sarebbe il primo passo. La realtà, tuttavia, è che le condizioni politiche per uno sviluppo del genere non esistono ancora; esiste anzi una notevole sfiducia reciproca, come ha dimostrato il brutto clima di Bruxelles. Per ora, incapaci di risposte strutturali in casa loro, gli europei stanno cercando rimedi fuori, fra cui nuovi crediti da parte dei Paesi ricchi di riserve finanziarie, come la Cina e gli emirati del Golfo. È una soluzione che ha dei costi politici (poco discussi) per l’Ue; ma che sono considerati inferiori, evidentemente, agli oneri economici di una soluzione propriamente europea.

C’è chi ritiene, guardando alle esitazioni tedesche degli ultimi mesi, che la Germania abbia in tasca in realtà un Piano B. Punti cioè alla creazione di un «piccolo» Euro del Nord, depurato dai debiti mediterranei. È una tesi diffusa ma non convincente: è vero che una parte dell’élite tedesca ha sempre avuto obiettivi del genere (li aveva già negli anni ‘90, prima del varo della moneta unica); ma è vero anche che i costi di una frattura dell’euro sarebbero, per la Germania stessa, molto superiori ai vantaggi. Angela Merkel ne è consapevole. Il suo progetto non è di disfare l’eurozona; è di rifarla a condizioni tedesche. Il che vuol dire, in sintesi estrema: senza troppi oneri per i propri contribuenti; e imponendo regole più rigide ai Paesi in debito, con sanzioni automatiche e nuovi poteri di intervento nelle politiche interne. L’erosione della sovranità nazionale in materia di bilancio sta diventando una delle conseguenze del debito sovrano, come l’Italia ha avuto modo di constatare ieri a Bruxelles: ciò significa che le riforme mancate, nell’Europa di oggi, hanno un prezzo politico crescente e non solo un prezzo economico.

Il Piano A della Germania è di ancorare questa Europa «alla maniera tedesca» ad una riforma ulteriore dei Trattati. La sola idea, visti i precedenti e data l’urgenza di oggi, sembra assurda. Ma rispecchia assai bene, oltre che i vincoli interni e costituzionali di Berlino, la conclusione che Angela Merkel ha tratto dalla crisi di Grecia e dintorni: regole più stringenti e molto più vincolanti sono necessarie, per evitare che l’Unione monetaria passi di crisi in crisi. D’accordo. Ma se il prezzo della cura del debito sarà un decennio di austerità, è probabile che l’Europa tedesca non si dimostri nel tempo sostenibile.

Se sopravviverà a una crisi finanziaria che è una specie di guerra moderna, l’Unione europea avrà un volto diverso. E magari il suo «Trattato di pace». In teoria, nascerà un’Europa a più livelli, con un cuore interno fondato sull’euro e su istituzioni in parte separate da quelle dell’Europa a 27. In un cerchio esterno, resteranno i Paesi membri del mercato unico ma non della moneta unica. Per i federalisti, un «nucleo duro» dell’euro può anche essere un’occasione. In una visione diversa, esiste il rischio che la creazione di un’Unione del genere - così differenziata al suo interno - finisca per danneggiare il mercato unico, ledendo così uno dei punti di forza dell’economia europea. È una discussione importante per il futuro del Vecchio Continente: peccato che dopo essere stata fra i fondatori dell’Europa del secolo scorso, l’Italia sembri più che altro un oggetto dell’Europa che si sta disegnando.

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9356
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« Risposta #28 inserito:: Novembre 12, 2011, 12:14:14 pm »

12/11/2011

La soluzione indispensabile

MARTA DASSU'

La crisi dell’euro-zona assomiglia a una guerra moderna, combattuta non con le armi convenzionali ma con i fucili dei mercati finanziari. La posta in gioco non è più soltanto economica, per i Paesi sotto attacco; è diventata direttamente politica, disfando e facendo i destini dei governi di una manciata di Paesi, dall’Irlanda, al Portogallo, alla Grecia. In questa guerra moderna fra Stati e mercati, l’Italia è il caso che farà la differenza. Dipende dalla tenuta dell’Italia se il contagio si fermerà o investirà anche la Francia: con banche vulnerabili ed elezioni alle porte, il governo francese è «next on the line», il prossimo in fila.
E quindi: dipende dalla tenuta dell’Italia, grande economia al centro e non certo alla periferia dell’Ue, se l’euro sopravviverà o si spezzerà. E ormai lo sanno anche i sassi: l’Italia è troppo grande per potere fallire senza guasti per l’insieme dell’economia occidentale; ma è anche troppo grande per un salvataggio solo esterno.

Per questi motivi - perché siamo appunto in una specie di guerra, perché il fronte italiano è decisivo e perché dobbiamo salvare noi stessi per salvarci con gli altri - una soluzione di emergenza è indispensabile. Per l’Italia e non solo. Di emergenza, certo. La stampa inglese non la smette mai di farci lezioni. Ha appena ottenuto la testa di Silvio Berlusconi, che chiedeva da anni, e ci ricorda subito che la tecnocrazia non può emarginare a lungo termine la democrazia; che la credibilità (rispetto ai mercati) non potrà soppiantare la legittimità (rispetto ai cittadini). Ok, lo sapevamo da soli. Una soluzione di emergenza, per funzionare, deve essere solida sul piano politico e rapida su quello temporale. Il suo sbocco dovrà essere quello di portare l’Italia ancora viva, invece che morta, a nuove elezioni.

Prima riflessione, allora: per i grandi debitori dell’area euro, l’Unione monetaria non ha più i caratteri di un puro «vincolo esterno», come si usava dire in passato. E’ diventata un vincolo esistenziale, cosa che impone maggiori responsabilità. Perché? Perché quanto più un Paese ha problemi di debito e di competitività, tanto più perde sovranità. E’ l’ammonimento di questi ultimi mesi. Sia i mercati finanziari che i governi creditori puniscono ormai senza tanti complimenti i comportamenti «devianti» rispetto alla regola scritta e non scritta dell’Europa tedesca: la stabilità finanziaria e il rigore di bilancio.

Qui si innesta, però, la seconda riflessione. I problemi dell’area dell’euro non dipendono certo soltanto dal maggiore debitore, l’Italia. Nascono anche dal principale creditore, la Germania. Ieri Angela Merkel ha dovuto smentire, ancora una volta, che Berlino sia interessata a costruire un’euro più piccolo o un’Unione monetaria a due velocità. E’ probabile che sia così; che cioè, al di là delle propensioni della Bundesbank per un euro forte del Nord, non esista un piano tedesco coerente per liberarsi dei debitori mediterranei.

Anche perché una serie di studi ha dimostrato che la Germania, in uno scenario del genere, avrebbe più costi che vantaggi. Resta il problema di fondo: la gestione tedesca della crisi del debito sovrano impone ai paesi in deficit maggiori vincoli (che Angela Merkel vorrebbe sanzionare nei Trattati, con sanzioni automatiche e forse criteri di uscita dall’Unione) senza offrire abbastanza quanto a solidarietà fiscale. La conseguenza è che la «dittatura del creditore», nell’area euro, finisce per essere una ricetta recessiva.

Cosa che non permetterà di ridurre il debito neanche con una overdose rigorista. Secondo le tesi ottimistiche, una volta rassicurata sulla credibilità di Grecia, Spagna e Italia, la Germania sarà più disponibile a fare dei passi verso un’Unione fiscale: quella di cui avremmo bisogno. Secondo voci che circolano sia a Berlino sia a Bruxelles, il governo tedesco potrà anche contemplare una politica di prestito più espansiva della Banca centrale europea, che dovrà prima o poi diventare, perché l’euro funzioni, il «creditore di ultima istanza». La Germania chiede però una modifica dei diritti di voto nel Board della Bce: di fatto, rivendica una sorta di potere di veto.

Vedremo nei prossimi mesi quanto spazio ci sarà per uno scambio vero fra responsabilità di bilancio e solidarietà fiscale. Se vogliamo che l’Europa non sia basata solo sul «Berliner consensus» e se vogliamo spezzare una lancia a favore di un’Unione fiscale, è indispensabile che l’Italia sia in grado di esercitare un suo peso; la Francia, lasciata sola, non ne ha abbastanza. Per sopravvivere come grande economia dell’euro, l’Italia deve fare comunque riforme troppo a lungo rimandate; e deve tornare a crescere. Il tempo dei rinvii è scaduto: non perché lo dicono Parigi, Francoforte, Berlino o Bruxelles ma perché lo dimostra la curva degli spread.

Curando se stessa, l’Italia ritroverebbe una voce in Europa. E sarebbe importante, per noi e per l’Europa, che la voce italiana pesasse. Un’Italia capace di riforme essenziali in casa, potrà influenzare il governo economico della zona euro e potrà porre sul tavolo di Bruxelles un punto dirimente. I Paesi europei hanno messo in comune quote della propria sovranità nazionale non per creare dei «direttori» informali ma perché credono in istituzioni comuni rispettate e in regole che valgano per tutti (è sempre utile non dimenticare che Francia e Germania hanno violato a loro tempo il Patto di Stabilità).

Che la guerra che stiamo combattendo, insomma, insegni qualcosa. Da quando facciamo parte dell’euro, la sovranità dell’Italia è per definizione limitata: si è trattato, per noi e per gli altri Paesi europei, di una cessione volontaria di sovranità, a favore di una sovranità condivisa (shared sovereignty). E’ questa caratteristica, ha scritto la Corte di giustizia europea in una famosa sentenza, a differenziare l’Unione europea da un normale Trattato internazionale. La crisi finanziaria sta erodendo ulteriormente la sovranità degli Stati europei, anzitutto per ciò che riguarda la politica di bilancio. Il volto dell’Ue si sta modificando, sotto lo shock della crisi: la sfida, per l’Italia, è di non restarne ai margini. Passa di qui la differenza fra la cessione/condivisione e la perdita pura e semplice di sovranità nazionale.

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9425
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« Risposta #29 inserito:: Novembre 16, 2011, 11:47:30 am »

16/11/2011

Noi italiani dobbiamo dirci la verità

MARTA DASSÙ

Oggi viene voltata la pagina. Non è il momento, tuttavia, di tirare il fiato. E’ il momento di prendere atto della realtà: l’Italia ha reagito ma è un Paese che ha preso una sberla tremenda. Quando una delle grandi economie europee si trova nel ruolo di «sorvegliato speciale» della Commissione europea e del Fondo monetario, la sberla c’è stata.

E c’è stato, insieme alla sberla, un evidente declassamento politico: l’Italia conta meno in un’Europa che conta a sua volta fino a un certo punto, nel mondo spostato verso Est di questo inizio di Secolo Asiatico. Nei giorni scorsi avevamo la testa voltata - giustamente - verso il Quirinale. Ma intanto Barack Obama annunciava, dalle Hawaii, che l’America trasferirà interessi, risorse e soldati verso la sfida Pacifica con la Cina. L’Europa tutta, vista da Washington ma anche da Pechino, è oggi parte del problema globale; non della sua soluzione.

Questo per dire che è meglio non farsi troppe illusioni. Mario Monti, con il suo governo, verrà di certo accolto a braccia aperte da Parigi e da Berlino. L’avvio sarà fiducioso e incoraggiante. Ma così come i mercati finanziari non fanno degli sconti, neanche i governi li fanno: in questa fase di riassetto delle gerarchie internazionali, i rapporti fra europei, più che mai indispensabili, sono anche rapporti duri. L’ex commissario alla Concorrenza lo sa meglio di altri, del resto; e sa di non potere ricorrere a scorciatoie. L’agenda delle cose da fare è fin troppo nota, in Italia e in Europa. Il punto è che il governo riuscirà a farle se avrà dietro di sé non solo una maggioranza parlamentare decisa a giocare una partita onesta per salvare il Paese ma anche il Paese. Noi, gli italiani.

Noi, gli italiani, dobbiamo prima di tutto essere consapevoli che la crisi che stiamo vivendo è strutturale; avrà bisogno, per essere risolta, di uno sforzo costante e decennale. Parecchi economisti sottolineano giustamente che i «fondamentali» del Paese sono a posto: se guardiamo ai livelli di ricchezza delle famiglie, al risparmio privato, al settore manifatturiero e via dicendo, l’Italia ha indubbi punti di forza, che d’altra parte spiegano perché siamo riusciti a diventare una delle prime dieci economie occidentali. Il guaio è che questo argomento non è stato usato come un vantaggio comparativo, su cui costruire una capacità di adattamento a un contesto globale sempre più difficile. E’ stato usato spesso come un argomento consolatorio - o come un alibi. Ecco: la crisi del debito sovrano segna anche la fine degli alibi. Nel ventennio successivo al Crollo del Muro di Berlino, l’Italia ha perso prima la vecchia rendita di posizione geopolitica (la sua collocazione di frontiera avanzata - e protetta - dell’alleanza occidentale) e poi la vecchia rendita di posizione economica (lo strumento delle svalutazioni competitive). Ma non è mai riuscita a riprendersi. Al posto delle riforme indispensabili per competere nell’economia globale, ci siamo raccontati delle storie. E’ il momento di dirci la verità: abbiamo perso e continuiamo a perdere competitività. Le rendite di posizione sono finite da un pezzo. E se un Paese le perde, non possono mantenerle strati privilegiati dei suoi abitanti; se non ai costi, per l’Italia nel suo insieme, che oggi stiamo vedendo.

Se questo è vero, è vero anche che gli italiani hanno finalmente bisogno di capire di quale progetto nazionale fanno parte. Nessuna nazione riesce a vivere e sopravvivere a lungo senza un progetto ideale. Noi sembriamo oscillare fra un europeismo frustrato dalla crisi del debito (e da un costante complesso di inferiorità), un atlantismo che va e viene, una politica mediterranea di rimessa (Libia docet), le solite scelte pro-russe in nome dell’energia - e così via. Il governo Monti nasce in una logica emergenziale: l’interesse nazionale, oggi, sembra coincidere con l’interesse fiscale. Ma le scelte da compiere, con i loro costi, saranno più accettate e più condivise se faranno parte di un «discorso» convincente sul futuro dell’Italia e sul posto dell’Italia in Europa. Fra crisi del debito e vincoli esterni, l’Italia è certamente in posizioni di debolezza; ma può e deve ritrovare una voce. E deve farla pesare. La gestione della crisi europea, dal 2008 ad oggi, ha dimostrato i limiti di una coppia franco-tedesca lasciata a se stessa; in cui la Germania conta troppo, a favore di ricette economiche che funzionano poco. E in cui la Francia crede di contare molto ma in realtà non è così. Un’Italia che funzioni e abbia una visione serve, insomma: a noi e al Vecchio Continente.

Peccherò di idealismo. Ma se verrà detta la verità - al posto delle storie. E se l’Italia tornerà ad essere un progetto in cui vale la pena di investire, gli italiani sceglieranno l’Italia. Scegliere comporta delle responsabilità: responsabilità individuali, nell’interesse generale. Anche gli italiani, e non solo il sistema politico, devono dare l’addio ai vecchi alibi. Il destino del nostro Paese non è solo nelle mani di altri (la Casta), non è solo condizionato dall’estero (nel quadrilatero fra Parigi, Berlino, Francoforte o Bruxelles); e non è solo dettato dallo scontro fra governi e mercati. Riflette anche le responsabilità di ciascuno.

Lo so: suona retorico. Ma non lo è. Le riforme di cui l’Italia ha bisogno per riuscire a competere nel mondo di oggi presuppongono questa rivoluzione psicologica e culturale. E sarebbe un vero paradosso se il governo dei tecnici appoggiati dalla politica riuscisse là dove la politica non è riuscita di certo: riattivare, invece che alienare, le energie vitali della nostra società. Potremmo chiamarlo il Miracolo del Colle - se qualcosa del genere succedesse.

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