17/11/2010
Marina Nemat: "La mia vita da sopravvissuta alle torture di Evin"
Scritto da: Alessandra Muglia alle 00:38
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Nel bestseller "Prigioniera a Teheran" aveva raccontato la sua adolescenza nel famigerato carcere di Evin. Ora Marina Nemat scrive cosa è successo dopo. "Dopo Teheran” (Cairo edizioni) è la storia della sua vita da sopravvissuta: alle torture e agli abusi della prigione, ma anche (e soprattutto) alle macerie del silenzio in cui si è ritrovata reclusa per vent’anni una volta fuori dalla cella, esule in Canada.
Il libro è diviso in 26 capitoli, ognuno dedicato a un oggetto che lei mette in valigia nel suo sogno - ricorrente - dell'ultimo viaggio: dal Diario di Anna Frank a un elastico per capelli che un carceriere le tolse prima di violentarla, dal passaporto canadese alla ricevuta di Eid, un suo cliente quando faceva la cameriera in un ristorante di Toronto. “Forse Ed era svitato” scrive ricordando che le aveva chiesto di apparecchiare per due, anche per la moglie morta, “ma almeno lui guardava in faccia i fantasmi che lo assillavano. Io ero un imbroglio”. “Dopo Teheran” è il racconto di come Marina Nemat è uscita da quest'imbroglio. Una storia appassionante che, nei rimandi continui tra l’ieri e l’oggi e con un linguaggio semplice e diretto, narra la lotta per ritornare alla normalità di una vita libera, fuori da quella “bolla” che aveva sostituito le sbarre.
"Lo spirito di sopravvivenza è naturale, scatta, quando ti senti in pericolo - dice la scrittrice iraniana mentre ‘pasteggia’ ad acqua minerale nella sala di un albergo di Milano -. Ma quando l’orrore sembra finito in realtà te lo porti dentro e vivi come legato a qualcosa con un elastico intorno alla vita: non sei immobilizzata, ma neanche libera". Libera da un passato che non passa: nel 1982, a 16 anni, viene condannata a morte per attività sovversiva (aveva protestato contro un professore che invece di insegnare matematica indottrinava sull’Islam). Si salva dal plotone d’esecuzione grazie a una guardia della rivoluzione che si era innamorato di lei e che poi è costretta a sposare. Alla morte dell’uomo, riesce a fuggire dall'Iran insieme al vecchio fidanzato e si trasferisce a Toronto. Si risposa, ha due bambini, ma soltanto dopo anni trova il coraggio rivelare al marito tutta la sua storia, di dirgli che era già stata sposata con il suo carceriere.
"Il trauma non è come un tumore che basta rimuovere e buttare via: io sono diventata più libera quando sono riuscita a guardare questo male dritto negli occhi. Ma c’è voluto molto tempo. Ora non sono completamente guarita, non credo lo sarò mai, ma sto meglio".
Incubi e fantasmi ritornano, scrive lei, ogni volta che ha notizia di una Delara Dalabi uccisa. E' dura stare lontana dal suo Paese?
"Più di quanto potessi immaginare. Ogni cattiva notizia che arriva da Teheran fa aumentare il mio livello di frustrazione: provo rabbia, un senso di impotenza che monta fino al punto che voglio fare le valige e ritornare in Iran per fare qualcosa e tentare di fermare questa carneficina. Ad aprile ad Auschwitz sono stata travolta dalle emozioni, ho pianto a dirotto e mi ero decisa a tornare in patria".
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Evin come Auschwitz: lo spiega bene anche in "Dopo Teheran" dove immagina che anche il carcere iraniano possa diventare un museo. Un corto circuito forte a cui lei però ha resistito: non è rimpatriata.
"Ne ho parlato con alcune persone di cui mi fido molto: il dottor Donald Payne, psicologo di Toronto esperto di vittime della tortura e un monaco, Laurin, che vive in Francia. Mi hanno detto 'sei matta, se torni ti uccidono'. Mi sono scontrata duramente, poi ho promesso di prendere in esame il loro punto di vista, infine eccomi qui: mi hanno salvato la vita".
Un libro dedicato a Shahnush Behzadi e Neda Soltan: perché?
Ero molto amica di Shahnush, eravamo compagne di classe. E' stata arrestata a 15 anni e uccisa dopo 3 mesi a Evin: a volte ancora la cerco, non mi capacito che non ci sia più, la sua morte ha un che di evanescente, come tutte quelle della sua generazione: non ci sono foto né filmati a documentarla come nel caso di Neda. Neda è stata immortalata nella sua morte, resa eterna da quel minuto di filmato circolato sul web. Shahnush e Neda sono i simboli di due generazioni di vittime del regime".
L'altro giorno la nuova "confessione" di Sakineh. Il mondo ormai non crede più a queste farse, perché il regime insiste?
"Tutte le dittature hanno il disperato bisogno di mostrarsi dalla parte della ragione: anche se in Iran la gente istruita trova ridicola la propaganda, i meno attrezzati ci credono. La confessione viene poi usata anche come strumento di pressione psicologica all'interno del carcere: ricordo che a Evin c'era una tv a circuito chiuso che trasmette tutte queste confessioni".
Lei ha cercato altri ex prigionieri di Evin per convincerli a parlare: come sta procedendo questa ricerca?
Siamo un gruppo di una trentina di persone, alcune vivono in Iran, altre in esilio. Ci teniamo in contatto via email, se capita di trovarci si tratta per lo più di incontri clandestini: molti hanno paura di farsi vedere al mio fianco. Temono ritorsioni del regime quando tornano in Iran. Li capisco. Il regime iraniano è imprevedibile”.
Racconta che quando faceva la cameriera qualcuno la scambiava per italiana. Come vede l’Italia?
“Ogni volta che vengo qui mi fate domande come dire? Filosofiche. In Canada mi chiedono cose più concrete, pratiche. E’ un esempio di come la storia influisca sul nostro modo di pensare: l’Europa e l’Iran hanno una storia millenaria, il Canada ha solo 200 anni di vita. Nel vecchio mondo tutto è molto concentrato, verticale, profondo mentre nel vasto Canada anche il pensiero si sviluppa in orizzontale. Intensità e spazio: viaggiando passo dall’uno all’altro”.
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