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Autore Discussione: Barbara Stefanelli. La vera emergenza  (Letto 2686 volte)
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« inserito:: Novembre 06, 2010, 03:58:33 pm »

La vera emergenza


C'è un paradosso tutto italiano. Parliamo tanto di famiglia - nel bene e, sempre più spesso, nel male - ma pochissimo di famiglie: di come aiutarle ad attraversare una fase che incrocia crisi economica e disagio sociale. La famiglia è un ottimo slogan, crea sempre consenso in un Paese di cui sinora ha costituito il più importante ammortizzatore sociale e una fonte mai esaurita di identità. Non può essere un caso se molti tra i migliori film italiani degli ultimi anni hanno al centro la famiglia, ne raccontano il valore e le trasformazioni: pensate solo a Happy Family di Salvatores, Le mine vaganti di Ozpetek, La prima cosa bella di Virzì, Genitori e figli di Veronesi. E, accanto al cinema, scrittori giovani come Paolo Giordano con i suoi numeri primi e Alessandro Piperno con le sue persecuzioni. In sintesi: la famiglia è una formidabile trincea naturale contro il declino.

Eppure è la grande assente nel dibattito pubblico e politico, tende a svaporare quando si passa agli atti concreti. I contenuti dell'agenda del governo sono poco riconoscibili, il confronto fiacco, le risorse scarse: in Italia la spesa pubblica complessiva per trasferimenti alla famiglia è pari all'1,36 per cento del Prodotto interno lordo (dati Ocse 2009), una delle ultimissime posizioni nell'Europa a 27 dove la media supera il 2 per cento. Come ha scritto Maurizio Ferrera su questo giornale, quello che colpisce ora è «la nuova vulnerabilità» delle famiglie italiane che due anni di crisi hanno reso più insicure. Che cos'altro deve succedere, quale altro dato statistico deve arrivare perché l'Italia decida di ripartire da quello che è il soggetto essenziale del proprio tessuto sociale e scelga finalmente di farne «un fattore per il successo», secondo una felice espressione usata dal governo tedesco?

In Italia la precarietà e l'assenza di un modello di «crescita inclusiva» - che garantisca cioè opportunità e sicurezza allo stesso tempo - ritardano le nuove convivenze, sospendono l'emancipazione dei maggiorenni, rendono l'assistenza agli anziani non autosufficienti una sfida quotidiana. Fare un figlio non è più visto come una scommessa di vita ma come un fattore di rischio: l'incidenza di povertà relativa sale dal 10,8 al 12,1% con il primo figlio; arriva al 26,1 con il terzo. Si legge nel documento della Conferenza dei vescovi per il 2010-2020, presentato a fine ottobre, che la famiglia «è stata lasciata sola a fronteggiare compiti enormi nella formazione della persona, senza un contesto favorevole e adeguati sostegni culturali, sociali ed economici. Lo sforzo grava soprattutto sulle donne».

La crisi ha spronato molti Paesi a fare di più. La Francia - che già spende circa il 4% del Pil tra servizi, trasferimenti e sgravi fiscali - ha studiato un insieme di sussidi straordinari per acquistare «prestazioni di cura» a bambini e anziani. Esiste un'occasione italiana da non vanificare. Lunedì, a Milano, si apre la Conferenza nazionale della famiglia organizzata dal governo a cui partecipano istituzioni nazionali e locali, imprese, rappresentanti del privato sociale. Il presidente del Forum delle associazioni ha detto - tra una dichiarazione di imbarazzo e una smentita - di augurarsi che il dibattito sullo stile di vita del premier non costituisca «una distrazione» rispetto ai contenuti degli incontri. È forse questo il momento di cominciare a riproporre un'agenda politica che abbia qualche punto di credibilità. La famiglia può costituire uno di questi punti. E ci sono almeno tre dossier aperti: il sostegno alle giovani coppie; le iniziative per conciliare casa e lavoro; l'equità fiscale. Un sistema di agevolazioni e bonus è una leva fondamentale che la politica può attivare subito per investire sulle persone. E una vera equità fiscale può cominciare proprio da qui.

Barbara Stefanelli

06 novembre 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
http://www.corriere.it/editoriali/10_novembre_06/stefanelli_vera_emergenza_165d3202-e96f-11df-9dd3-00144f02aabc.shtml
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« Risposta #1 inserito:: Febbraio 12, 2011, 10:10:37 am »

LE MANIFESTAZIONI E LE COSE DA CAMBIARE

Il Realismo delle Donne

In Italia esiste un divario di genere da colmare. Magari con una legge che fissi quote di presenza femminile


Una manifestazione, domani, che vuole lanciare «un urlo collettivo» contro Berlusconi e denunciare «la degenerazione della libertà in arroganti libertinismi» che offendono la dignità delle donne. E una contro-manifestazione, già questa mattina, che considera gli slogan di quella piazza una forma di «giacobinismo moralista» che farà arretrare le donne stesse a favore di pericolosi agenti del pubblico pudore. Le cronache del caso Ruby e l'appello a partecipare a una grande protesta popolare al femminile hanno percorso e diviso il Paese.

Il dibattito è stato appassionato, a tratti spregiudicato, comunque - crediamo - positivo perché ha animato una sfida non banale tra generazioni e idee diverse. Il Corriere ha dato ampio spazio a questo confronto che non è mai diventato «pollaio» e che, anzi, ha dato prova di una sorprendente vitalità civica.

Ora, per quanto vasta, una manifestazione non fa cadere un governo in Italia. Come non lo fanno cadere i magistrati, e sarebbe grave per una democrazia liberale se ciò avvenisse. Un governo cade in Parlamento e per volontà di elettori ed elettrici che si esprimono in quel senso. Non è questa la partita. Ma una partita c'è ed è una partita fondamentale.

La domanda alla quale dobbiamo rispondere è semplice: l'Italia ha un problema con le donne? La scrittrice Silvia Avallone, 26 anni, ha giustamente sottolineato che siamo state educate all'indipendenza dalle nostre madri: «Questa parola, indipendenza, mi è sempre stata detta con un tono particolare, il tono di ciò che è veramente importante. Non ho mai sentito sulla mia pelle un difetto di libertà».

Se tutto questo è vero - e qui sta il passaggio di testimone tra una generazione femminista che ha molto combattuto e una generazione ostile ai riti collettivi, ma fiera di sé e delle proprie identità individuali - è anche vero che esiste un salto tra il cromosoma acquisito di una libertà senza difetti e quello che succede nelle nostre giornate.

Bastano pochi dati su occupazione, retribuzione, rappresentanza. Le donne italiane si diplomano e si laureano più (e meglio) degli uomini, ma neppure una su due ha un posto retribuito. Una percentuale che ci pone ai piedi della classifica europea, meglio solo di Malta. E, a parità di livello, guadagnano il 16,8% meno dei colleghi maschi. Una donna su quattro lascia il lavoro dopo la maternità: su 100 bambini solo 10 trovano posto in un asilo nido, meno di 5 su 100 in uno comunale. Le donne ministro rappresentano il 21% del totale, le parlamentari non superano il 20%. Nelle società quotate la presenza femminile nei Consigli di amministrazione arriva al 6,8%; le amministratrici delegate sono appena il 3,8%. Questo significa che nel Paese esiste un gender gap, come viene definito nei rapporti ufficiali, un divario tra i generi che rende le donne assenti o deboli in tutti i luoghi - nelle aziende pubbliche e private, in politica e diplomazia, nelle università - dove si prendono le decisioni che determinano poi la vita di una società. E la modernità di uno Stato. Pasolini parlava di «un'incrostazione superficiale di modernità» che in Italia nasconde strati di realtà storicamente superati. Forse quell'analisi feroce ancora racconta una parte di quello che siamo.

La risposta alla domanda dalla quale siamo partiti è dunque «sì». L'Italia ha un problema rispetto a quel 51,4% di popolazione che è costituito da donne. È legittimo protestare; è vitale agire sul terreno. Senza vittimismi fuori tempo, senza attribuire tutti i mali a un nemico, ma senza il timore di mettersi in trincea finché il sistema non diventerà equo ed equilibrato. Se l'obiettivo è «più donne», uno dei rimedi può essere una legge che temporaneamente imponga quote di presenza femminile ai vertici delle istituzioni, dei partiti, delle imprese. Può sembrare una piccola cosa rispetto alle profondità toccate dalle riflessioni di queste ore. Ma è un passo per scuotere il Palazzo, per scavalcare fossati che resistono a lasciarsi colmare dal basso. Il gradino di un 30% obbligatorio, che sta creando onde riformatrici nei Paesi dove viene sperimentato, rappresenterebbe un trampolino per creare movimento e rinnovamento. Avendo subìto a lungo il non merito di altri, per le donne è molto difficile essere avviate verso un recinto, contate e rinchiuse in una percentuale stabilita per legge. Resta però una delle poche soluzioni - bipartisan - che possiamo spingere subito in cima all'agenda politica nazionale. A patto poi che nelle quote finiscano nomi scelti in base a quell'incrocio di talento e volontà che determina il merito delle persone. L'augurio è che alle nostre figlie questo 30% possa un giorno sembrare uno scherzo antico.

C'è un altro punto chiave che ci riporta attorno al caso Ruby. In Italia l'identità delle ragazze - la loro possibilità di crescere indipendenti, consapevoli, forti solo di sé - è messa alla prova da una cultura dell'immagine che in nome di un'idea conformista del successo sfrutta il corpo fino all'ultimo centimetro di pelle. Ci siamo assuefatti, da molte stagioni, a un immaginario femminile assai lontano dalla realtà delle donne che affrontano giornate difficili, o esaltanti, ma comunque estranee a quello che viene raccontato ossessivamente in questi giorni. Vorremmo che le protagoniste dei nostri ragionamenti non fossero solo Karima, Maristhelle, Iris, Aris - libere naturalmente di continuare a fare nel frattempo quello che vogliono - ma tante altre donne. Avranno forse nomi meno esotici, ma saranno personaggi infine più interessanti: vestite come sono delle loro storie quotidiane tenute in equilibrio tra famiglie, lavoro, se stesse. È tempo di scommettere su una società dove ogni diciottenne possa dire di sé quello che scriveva Luciana Castellina nel suo diario in un lontanissimo 15 aprile 1946. «Sono felice di vivere, di discutere, di vedere il mondo, di esprimere quello che provo: sono felice di tutto. Il mondo è mio e lo voglio».

Barbara Stefanelli

12 febbraio 2011© RIPRODUZIONE RISERVATA
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