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Autore Discussione: LAMBERTO DINI Le fondazioni non sono banchieri  (Letto 2111 volte)
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« inserito:: Ottobre 28, 2010, 05:21:00 pm »

28/10/2010

Le fondazioni non sono banchieri

LAMBERTO DINI*

Caro direttore, trascorsa la fase più acuta della crisi al vertice di Unicredit, è il caso di ragionare a mente fredda sulla capacità del sistema bancario di sostenere la crescita economica nazionale.

Noi tutti sappiamo che da oltre un decennio la nostra economia va male: peggio delle altre nelle fasi di recessione, meno bene delle altre nelle fasi di ripresa.

Ci sono molti motivi per cui una lunga fase di stagnazione può essere considerata pericolosa. Nel caso dell’Italia, a questi si aggiunge il fatto che senza una forte e duratura ripresa economica la necessaria riduzione del debito pubblico sarà molto penosa. Dunque, abbiamo bisogno di crescita. Ma questo vuol dire che abbiamo bisogno di un colossale spostamento di capitale e lavoro dalle imprese, settori e mercati in declino verso imprese, settori e mercati in espansione. Spesso lo si dimentica, ma sempre le fasi di crescita accelerata richiedono grandi riallocazioni delle risorse.

Qui entra in gioco il sistema bancario: gli imprenditori che operano in settori nuovi, che scoprono nuovi mercati non potranno cogliere le nuove opportunità se non avranno accanto a sé banche capaci di offrire loro il necessario sostegno creditizio.

Le nostre banche sono adatte allo scopo? Forse non abbastanza. Nella maggior parte dei casi sono controllate da fondazioni i cui amministratori sono per lo più nominati dagli enti locali. Normalmente l’azionista ha interesse a una gestione efficiente dell’impresa partecipata perché si appropria in quota parte dei profitti che ne risultano. Gli amministratori delle fondazioni invece ricevono dalla gestione efficiente della banca partecipata solo benefici indiretti: godranno di maggiori risorse per finanziare ad esempio la locale università.

Le fondazioni bancarie hanno fin qui svolto un ruolo nel complesso positivo. Ma a causa della loro stessa natura e struttura esse rischiano di essere un azionista di controllo pericoloso per la sana e prudente gestione e in ultima analisi per la stessa stabilità delle banche. Riguardo gli assetti proprietari delle banche, il problema torna a essere la separatezza della gestione bancaria dalla politica. Ieri era in ballo la politica nazionale, oggi quella locale; ma non per questo la politicizzazione della gestione bancaria sarebbe meno pericolosa.

E’ di cruciale importanza che le competenti autorità di vigilanza tengano ben conto di questo pericolo. La Banca d’Italia, autorità di vigilanza sulle banche, non deve confondere l’obiettivo, che la legge le affida, di tutela della stabilità delle banche con la stabilità dei loro assetti proprietari. Se fosse per questo l’assetto proprietario più stabile era quello della banca pubblica, e lo si è voluto superare proprio perché comportava rischi di politicizzazione della gestione bancaria e perché non era in grado di garantire un’idonea capitalizzazione delle banche. Il primo problema sta risorgendo e il secondo è ora annunciato. Infatti con le nuove regole internazionali - il cosiddetto accordo di Basilea 3 - alle banche sarà chiesto di accrescere il loro capitale. E’ probabile che le fondazioni, attuali azionisti di controllo, non siano in grado o non intendano fornire questo capitale aggiuntivo. Esse difficilmente consentiranno alle banche di ricorrere al mercato, per non veder diluire la propria partecipazione (il caso Unicredit docet). E’ pertanto essenziale che la Banca d’Italia non sia accondiscendente verso questi comportamenti che hanno portato le nostre grandi banche a trovarsi tutte nella seconda metà della graduatoria delle banche europee riguardo al grado di capitalizzazione, e almeno una a pencolare verso la coda. E questo riduce la loro capacità di estendere credito alle nostre imprese, all’economia.

Il ministero dell’Economia, autorità di vigilanza sulle fondazioni, negli ultimi anni ha scelto di non premere su di esse perché diversifichino maggiormente il proprio portafoglio, anche se queste avrebbero dovuto farlo nel rispetto delle direttive emanate a suo tempo dal Tesoro. Oggi ne soffre la loro capacità di garantire uno stabile flusso di risorse nei settori di loro intervento (sanità, istruzione, cultura e simili) e rischia di soffrirne, come abbiamo detto, l’efficiente gestione del credito da parte delle banche partecipate. Pertanto occorre ricordare alle fondazioni che il loro ruolo non è quello di banchieri per interposta persona e che è opportuno disegnare un graduale percorso che le conduca verso una composizione più equilibrata del proprio portafoglio di investimenti.

Se ciò non avverrà, non stupiamoci se il Paese continuerà a ripiegarsi su se stesso. E se, ad esempio, qualche nostra grande banca, fra i pochi soggetti economici italiani veramente internazionalizzati, venga gradatamente ridimensionata a una visione più localistica.

*senatore Pdl

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