LA CONDANNA A MORTE DI TAREQ AZIZ
Il giudice di Bagdad
Provoca lo scatto della ragione la condanna a morte di Tareq Aziz da parte della Corte suprema irachena: non uccidete l’ex scudiero di Saddam Hussein. Rispettare i diritti umani anche di chi ne ha fatto scempio nel modo più grave, Aziz rientra sicuramente in questa casella, è un comandamento universale, iscritto nel codice genetico forgiato dai Lumi, che va fatto valere sempre, tanto più quando i crimini sono particolarmente odiosi. La pena capitale inflitta all’uomo che rappresentò il raìs sulla scena del mondo solleva quindi la giusta indignazione di chi non vuole mai ignorare la lezione di Beccaria. E bene hanno fatto il presidente della Repubblica, l’Unione Europea e il Vaticano a prendere una posizione forte e netta.
Senza che ciò suoni attenuante, non c’è dubbio che la condanna a morte di Tareq Aziz colpisce e sorprende anche per il ruolo vero o presunto che l’ex ministro degli Esteri svolse nella crudele satrapia di Saddam. Non colomba, perché non c’erano colombe in una dittatura nefanda e sanguinaria come quella irachena. Ma sicuramente volto meno arcigno e livido del regime. Nella sceneggiata baathista, Aziz era l’attore incaricato del dialogo con il mondo esterno, protagonista di tutte le estenuanti trattative con cui il regime cercava di truffare ogni interlocutore. Parlava un ottimo inglese, in pubblico aveva modi urbani e a suo modo gentili. Almeno fin quando qualcuno non gli contestava, come fece questo giornale, la contraddizione tra gli appelli alla jihad del suo boss e la sua fede cristiano-caldea: «Lei è italiano — esplose in una conferenza stampa a Mosca —e dovrebbe sapere che voi avete duramente trattato i cristiani per tre secoli. Noi vi abbiamo mandato Pietro, un arabo, un palestinese: è venuto a Roma e i vostri governanti lo hanno torturato. Dopo 300 anni vi siete convertiti al cristianesimo e lo avete usato come leva per soggiogare popoli più poveri».
Ma non c’è dubbio che l’immagine dell’interlocutore possibile resse a lungo. Fu lui a negoziare con Evgenij Primakov, l’inviato speciale di Gorbaciov, nell’estate del 1990 al tempo dell’invasione del Kuwait. Fu lui, alle Nazioni Unite, a giocare l’ambiguo nascondino con gli ispettori internazionali in cerca di arsenali proibiti. Sempre pronto a presentare il regime nel ruolo della vittima, vuoi dell’Occidente capitalista, vuoi della congiura ebraica. Riuscì perfino, grazie alla furia guerresca dell’Amministrazione Bush, a farsi accogliere da Giovanni Paolo II alla vigilia della guerra del 2003, calandosi nei panni del pellegrino di pace.
Non è la presunta moderazione di Tareq Aziz un motivo in più per criticare la sentenza capitale. A morte non si condanna nessuno. Serve però a far risaltare l’accanimento vendicativo con cui l’attuale governo iracheno affronta il regolamento di conti con il passato. Sul fondo le sue colpe restano incontestabili e imperdonabili. Invocare, come ha fatto Aziz durante il processo, il ruolo quasi tecnico del diplomatico, esecutore di ordini, mai coinvolto nelle azioni mortifere del raìs, è un espediente antico. Anche problematico a suo modo, come ha dimostrato nei giorni scorsi il rapporto degli storici, ordinato dall’allora ministro degli Esteri tedesco, Joschka Fischer, sul ruolo svolto dai diplomatici dell’Auswaertiges Amt sotto Hitler. Ci sono voluti oltre 60 anni di silenzi e sei di seria ricerca per stabilire che non furono servitori obbligati del regime, ma volenterosi carnefici del dittatore. Anche Tareq Aziz lo è stato. Per questo va fatta giustizia senza giustiziarlo.
Paolo Valentino
27 ottobre 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
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