LA-U dell'OLIVO
Ottobre 11, 2024, 02:39:49 pm *
Benvenuto! Accedi o registrati.

Accesso con nome utente, password e durata della sessione
Notizie:
 
   Home   Guida Ricerca Agenda Accedi Registrati  
Pagine: 1 ... 4 5 [6]
  Stampa  
Autore Discussione: EDMONDO BERSELLI  (Letto 47249 volte)
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #75 inserito:: Marzo 07, 2010, 11:43:41 pm »

Emma che impresa

di Edmondo Berselli

Quello della Bonino è un salto mortale triplo: mettere insieme strati diversi di cittadinanza e di cultura
 

Per capire che cos'è il berlusconiano Pdl bisogna guardare al formidabile pasticcio combinato a Roma con la mancata presentazione delle liste. Ma anche la campagna elettorale di Renata Polverini non sembra proprio decollata. La sindacalista dell'Ugl è una creatura di Gianfranco Fini, e sembra più che altro un cuneo infilato dentro il Popolo della libertà per recare fastidio intellettuale ai berluscones.

Tutto questo comunque non basta a dare una vera spinta alla candidata di centrosinistra Emma Bonino, che presenta seri problemi e seri problemi potrà avere con il suo elettorato di riferimento. La Bonino è un politico abituato, salvo casi eccezionali, a cifre percentuali fra l'1 e il 2,5 per cento. È una radicale purissima, oro colato, e lo si è visto nel metodo con cui ha aperto la sua campagna pubblica, inaugurando uno sciopero della fame e della sete praticamente inspiegabile ma di pretto stampo radicale: senza aggiungere poi che sullo sfondo politico romano gli elettori del Pd vedevano profilarsi la figura ormai nosferatiana di Marco Pannella, padre padrone dei radicali e sostanziale spauracchio per l'elettorato moderato, che in parte ne apprezzerà teoricamente le battaglie legalitarie molto più di quanto sarà disposto a votare per una coalizione segnata da ombre radicali.

Figurarsi poi, come si è accennato, all'impatto con la Roma più scettica, con il ventre tiepido dell'elettorato tiberino. La Bonino rischia di apparire come una fanatica, una signora un po' fissata con battaglie d'altri tempi, anche se qualcuno forse ricorderà benevolmente le sue buone prove in Europa come commissario. Ma è sufficiente l'allure europea di Emma per darle competitività a Roma?

Il fatto è che per riuscire ad avere qualche chance contro la Polverini, che unisce fighettismo di borgata e coattismo di città, la Bonino dovrebbe abbandonare per qualche settimana le modalità tipicamente radicali del fare politica. Uscire cioè dalla sindrome minoritaria e diventare effettivamente il candidato di tutto il centrosinistra. Si tratta di un'impresa non facile, data anche la struttura della cultura politica dei radicali, che quasi sempre appare inscalfibile. Tuttavia occorre che la Bonino capisca che deve conquistare voti 'generici', non soltanto di tendenza. E quindi presentarsi davvero come il candidato di tutti. Oltretutto Roma è una città difficile, anche senza dire una sola parola sul caso
Marrazzo, e quindi la 'reconquista' si presenta estremamente difficile: un governatore super laico, forse addirittura anticlericale, nella capitale del cattolicesimo, nella città del papa! C'è da immaginare tutta l'ostilità del 'partito romano', cioè della vecchia Roma cinica e baciapile. Non è, questo, un elemento da trascurare. La politica romana è molle e rocciosa, come la vecchia Dc, apparentemente malleabile ma alla lunga resistentissima.

Come si fa allora a scalfire il successo mondano della Polverini e del centrodestra (ammesso che un centrodestra ci sia a Roma)? L'impresa è tutt'altro che facile. In pochi mesi la Polverini ha guadagnato una sua credibilità, quasi tutta basata su fattori extrapolitici: la scollatura, un filo di distanza esibita dalla politica ufficiale, la capacità dialettica di rovesciare la frittata, la partecipazione ai talk show, dove serve soprattutto presenza scenica. Per la Bonino la strada è in salita perché come figura pubblica è più 'vecchia', e rappresenta una politica già vista, molto stagionata. Tuttavia ha qualche possibilità di presentarsi con un'immagine di freschezza, perché non è logorata dalla permanenza nella politica. Eventualmente sono logori i suoi metodi, ma forse non la sua figura. Pier Luigi Bersani sa benissimo che la conquista del Lazio è una delle condizioni strategiche per definire il successo della sua segreteria al Pd. Quindi anche la scelta della Bonino è stata una decisione in parte politica e in parte mediatica.

C'è da augurarsi insomma che la Bonino sappia mobilitare gli elettori laici senza scoraggiare gli elettori cattolici. Deve avvenire una specie di miracolo politico, a questo scopo. D'altra parte il centrosinistra, se vuole proporsi davvero come alternativa politica a Berlusconi, deve coagulare un elettorato molto diversificato. L'esperimento Bonino dovrebbe essere la prova di come si possono mettere insieme strati diversi di cittadinanza e di cultura. È un salto mortale triplo, avvitato e carpiato. Molto dipende da come si comporterà Emma. Ma, come si dice, chi non risica non rosica.

(04 marzo 2010)
da espresso.repubblica.it
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #76 inserito:: Marzo 14, 2010, 03:23:46 pm »

Senza più regole

di Edmondo Berselli


Impone le sue leggi. Si scontra con il Quirinale. Travolge le istituzioni. Insulta gli avversari. Lascia dietro di sé scandali e problemi insoluti. Con il risultato di portare il Paese nel caos
 
C'è un particolare tipo di milanese, che nei caffè e nei trani a gogò, quando c'erano ancora, chiamano 'il veneziano'. È l'equivalente lombardo del 'fasso tutto mi': un uomo che si sente capace di tutto, di qualsiasi impresa, di qualunque avventura. Nel nostro caso, come si capisce, si chiama Silvio Berlusconi, è nato nel quartiere milanese dell'Isola, e nella vita ha fatto effettivamente di tutto. Ha suonato e cantato sulle navi da crociera con il suo sodale Fedele Confalonieri, ha intonato al pianoforte 'La vie en rose' davanti a un allibito Mitterrand, ha costruito dal niente due città satelliti a Milano, si è arricchito e ha creato la televisione commerciale in Italia, formando un impero editoriale che poi gli è venuto utile strumentalmente quando ha deciso di entrare in politica.

Nel frattempo, ha deciso che nessuna regola poteva fermare la sua corsa, e per questo ha slabbrato il tessuto istituzionale, distruggendo sostanzialmente l'impianto di pesi e contrappesi su cui si reggeva l'architettura del sistema italiano. Lo ha fatto sempre sorridendo, sempre convinto delle proprie capacità e sorretto dal cinismo dell'imprenditore, che sa fin dove può spingersi e quando ritirarsi, senza alcuna remora etica. Gli affari sono affari, e la politica è un affare. L'ultima prova si è avuta sul pasticcio delle liste a Roma e a Milano. Berlusconi sonnecchiava non si sa dove, indifferente alla crisi, alla politica economica, alle urgenze del governo: quando si è accorto che il caso stava per scoppiare, con evidenti problemi per la tenuta della maggioranza e del Pdl. Allora si è precipitato nella capitale, imponendo di fatto a Giorgio Napolitano l'emanazione di un decreto legge 'interpretativo' (ma in realtà innovativo), che interveniva sulla legge elettorale cambiandola in modo da riammettere Renata Polverini a Roma e Roberto Formigoni a Milano.

Lo stile di Berlusconi è stato pari alla sua personalità. Materializzatosi con un gioco di prestigio a palazzo Grazioli, ha costretto il presidente della Repubblica, con un confronto molto acceso, ad accettare il decreto legge del governo, appellandosi al fatto che la suprema legge della democrazia è quella che consente ai cittadini di votare per il partito e il candidato prescelto. Già il presidente del Senato Schifani, con un'ardita interpretazione che rovesciava tutta l'impostazione giuridica di un maestro del Novecento come Kelsen, aveva suggerito che in certi casi la sostanza conta più della forma. L'argomento era risibile, e intendeva sostenere che se le firme non c'erano o erano farlocche si poteva farne a meno, secondo un'interpretazione modernista o futurista della legge.

Purtroppo l'argomento era irresistibile, e Berlusconi se n'è appropriato, facendolo diventare la parola d'ordine di tutto il Pdl. In questo modo è riuscito di nuovo ad apparire quello che gli piace essere: il Caimano, o il Sultano. È il 'solutore di problemi' di Quentin Tarantino, l'uomo che sposta con pochi sguardi tutta l'immondizia di Napoli, il datore di lavoro di Guido Bertolaso. Dietro di lui, vacche sacre che speculano sugli appalti pubblici, fornitori di raccomandazioni, cognati, cricche, tesoretti, diamanti. Ma per Berlusconi non ci sono regole che possano fermarne l'azione: una volta individuato l'obiettivo, 'Silvio' non ha remore: i giudici, i pm, i sindacalisti, i politici dell'opposizione, tutti i dipendenti pubblici diventano "comunisti", gente che non ha mai lavorato un giorno nella vita, da spostare ai margini dell'elettorato e da battere sonoramente nel nome della libertà.

Con tutto questo, nel nome del pensiero liberale e dell'anticomunismo, Berlusconi ha potuto fare tutto: attrarre strumentalmente l'opposizione in trappola e poi denigrarla dicendo che era pur sempre comunista, capace unicamente di dire dei no, mentre "noi siamo il partito del fare". Alla fine si tratterà di stilare un bilancio, e valutare l'attivo e il passivo della gestione Berlusconi. All'attivo metteremo, paradossalmente, il fatto che abbia governato poco, lasciando l'iniziativa economica nelle mani di Giulio Tremonti e i problemi del welfare in quelle di Maurizio Sacconi, che non hanno fatto danni eccessivi.

Al passivo invece metteremo tutte le invenzioni sulla giustizia, a cominciare dalla pagliacciata sul processo breve, sul legittimo impedimento, su tutti i lodi a venire e sulle leggi ad personam per evitare i processi che lo riguardano. Intanto, Berlusconi si gode la formula 'pijo tutto', e i sondaggi favorevoli, sia pure appannati negli ultimi giorni, nonostante la depressione economica. Già la crisi: ancora non s'è capito come un capo del governo che gestisce a fatica e senza fantasia l'impoverimento del Paese possa godere di un consenso comunque alto, sbandierato ogni giorno davanti all'opinione pubblica. Qualcuno, per favore, può suggerire a Pier Luigi Bersani che occorre infilare il dito, o il cacciavite, in questa sindrome, e spezzare la 'contraddizion che nol consente': declino economico, declino civile, da una parte, e dall'altra acquiescenza verso il governo, con poche manifestazioni di protesta contro i casi più gravi sotto il profilo della disoccupazione.

Intanto Berlusconi prosegue nella sua partita ideologica. Ha plasmato la società italiana facendole capire che leggi e regole non sono niente (proprio come il marchese del Grillo, "io so' io e voi nun siete un cazzo"). E ha mostrato con l'esempio che cosa sia una 'politica di sviluppo': evasione fiscale, elusione delle norme, tangenti, appalti teleguidati. Il risultato è che mezza Italia si è convinta di essere dentro una seconda Tangentopoli, e l'altra metà sta pensando a come approfittarne.

Il clima, grazie al 'fasso tuto mi', è più o meno boliviano. 'Silvio' ricorre di nuovo alla piazza e minaccia risultati elettorali spaventosi per l'opposizione. Basteranno alcune settimane per capire se 'il veneziano', l'uomo del fare, avrà sfondato del tutto, alle elezioni regionali. E in quel momento capiremo anche qualcosa in più sulla società nazionale, sulla rottura delle convenzioni divenuta
regola generale, grazie al formidabile 'fasso tuto mi' di Silvio.

(11 marzo 2010)
da espresso.repubblica.it
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #77 inserito:: Marzo 17, 2010, 10:14:29 am »

L'EDITORIALE

La sindrome del padrone

di EDMONDO BERSELLI

La questione politica, e ormai anche strutturale e storica del rapporto fra Silvio Berlusconi e la giustizia, è diventata una questione di sistema, perché fra il premier e le articolazioni della magistratura è scattata la guerra totale.

Ormai Berlusconi sta accentuando il suo ruolo proprietario, in quanto il premier tratta da padrone le istituzioni giudiziarie e le autorità neutrali. Lo si vede con l'atteggiamento assunto verso la procura di Trani, trattata come un tassello del complotto che si starebbe sviluppando contro la presidenza del Consiglio, con una funzione schiettamente politica, e con le parole rivolte verso l'AgCom, considerata semplicemente come un pezzo dell'immensa manomorta berlusconiana.

Sotto questa luce, è l'intera Italia a essere di proprietà del capo del governo. Nel silenzio dell'opinione pubblica, e nella sostanziale acquiescenza delle opposizioni, Berlusconi ha aumentato a dismisura il suo potere, anzi, le sue proprietà. Si è sentito autorizzato a intervenire sull'Agenzia per le comunicazioni con l'atteggiamento e con le parole del padrone, insofferente di norme e convenzioni, e incapace di trattenersi: "Ma non riuscite neppure a chiudere Annozero?". "È una questione di dignità", dice al commissario Giancarlo Innocenzi, "Ti ho messo io in quel posto". Quindi regolati di conseguenza. Il che dimostra la sua intuizione di essere, più che un politico, un imprenditore senza limiti etici, cioè con la possibilità di conquistare tutto, con la violenza di una funzione anti-istituzionale che si esercita giorno per giorno.

Si instaura così un nuovo triangolo delle mille sfortune, tra la presidenza del Consiglio, la magistratura e l'Agenzia per le comunicazioni. Al centro del triangolo si è collocato, con la sua consueta forza strategica, il premier Berlusconi. Ormai da anni sta insistendo che in Italia c'è un problema da risolvere, ed è quello del rapporto fra la politica e la magistratura. "Alcune procure", secondo il premier, che non ne ha mai citata una, composte da "toghe rosse", da "giudici comunisti", stanno conducendo una battaglia "contro la democrazia", nel tentativo di liquidare per via giudiziaria il capo del governo.

In queste condizioni, il "padrone" Berlusconi tenta di frenare il funzionamento dei processi che lo riguardano, come quello contro l'avvocato inglese Mills e i processi All Iberian e i diritti televisivi. Ma dal sistema penale spuntano casi giudiziari a iosa, in modo anche casuale come quello di Trani, per cui a suo modo, nella sua logica proprietaria, Berlusconi ha ragione: come è possibile che, possedendo tutto, gli sia impossibile controllare tutto ciò che possiede o crede di possedere in virtù del voto popolare, compresi i processi e le inchieste giudiziarie? E come mai non è possibile, da parte sua, padrone assoluto dei media, controllare il sistema televisivo e i programmi politici di approfondimento e di dibattito? Che ci sta a fare l'Agenzia per le comunicazioni, se non esegue i comandi che vengono dall'alto? Naturalmente Berlusconi ignora, volutamente, la complessità del sistema della comunicazione pubblica. Ai suoi occhi basterebbe una telefonata all'Innocenzi di turno per stroncare un programma come quello di Michele Santoro (o come il salotto di Floris o della Dandini), considerato da mesi una delle "fabbriche di odio" nei confronti del premier e del Popolo della libertà.

È una situazione disperata, quella di Berlusconi, che lo induce a gesti disperati, o almeno terribilmente disinibiti, nel senso che fanno a pezzi il tessuto generale delle istituzioni del nostro Paese. Il "padrone" non riesce più a comandare, il suo partito si sta sfaldando, e i vari cacicchi cercano un'area di autonomia personale e politica. Berlusconi teme una "sindrome francese" e una sostanziale non vittoria alle elezioni regionali. Paradossale situazione del padrone che non riesce a spadroneggiare fino in fondo, pur cercando di farlo in tutti i modi. C'è una contraddizione intrinseca nell'azione di Berlusconi, e la formula proprietaria o "padronale" la riassume tutta, senza risolverla. Ma la questione è: in una democrazia può il capo del governo rivolgersi come un padrone alle autorità di garanzia?
 

© Riproduzione riservata (17 marzo 2010)
da repubblica.it
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #78 inserito:: Marzo 29, 2010, 04:39:18 pm »

Dove porta la svolta di Fini

di Edmondo Berselli

L'esperimento del presidente della Camera è al momento più culturale che politico.

E non è chiaro come possa evolvere
 

I partiti cambiano in genere in due modi: dall'alto e dal basso. Dall'alto stiamo assistendo alla secessione silenziosa del 'partito' di Gianfranco Fini rispetto al Pdl: segmenti di classe dirigente cercano di trovare occasioni di potere, in una fase che appariva bloccata, e invece si è mossa sulla iniziativa del presidente della Camera, che non ha perso una sola opportunità per differenziarsi dal berlusconismo. Evidentemente Fini aveva legittimi interessi personali, un'età che gli consente di proporsi come un leader, e un'idea di destra che poteva sembrare più moderna e istituzionale di quella rappresentata dal populismo berlusconiano.

L'esperimento di Fini è culturalmente interessante quanto di respiro poco ampio. Il respiro corto non riguarda l'assetto culturale, voluto dal presidente della Camera, quanto la forza reale messa in campo. Un ennesimo partitino avrebbe poca fortuna. I migliori progetti possono avere destini poco brillanti se non c'è dietro l'intendenza, e Fini non sembra avere dietro di sé grandi masse al seguito; la sua operazione finora ha tutta l'idea di una esperienza culturale, legata alla sua fondazione. È servita soprattutto a differenziare la fazione finiana in modo da intralciare il potere di Berlusconi, ma non è chiaro come possa evolversi in futuro.

D'altronde Fini è un politico puro, di quelli che Berlusconi detesta e ha sempre detestato. Lo si è visto in ogni occasione pubblica, a cominciare dalle posizioni assunte da Fini sull'immigrazione, o sul rapporto fra le istituzioni, a cominciare dalla difficile relazione con il Quirinale. Quindi la manovra di Fini, sempre ammesso che sia ancora in piedi e operante, è esplicitamente politica: tende a spostare equilibri, a creare nuovi aggregati e soprattutto a formare la leadership politica del presidente della Camera. Si tratta di una tipica operazione di trasformismo politico, che dovrebbe mettere in crisi il Pdl e soprattutto il 'patronage' dispotico di Berlusconi, che in questo momento sembra essersi concesso l'autorizzazione a spadroneggiare (come si è visto con la manifestazione a Roma conclusasi in piazza San Giovanni).

Molto più complicata è la situazione 'dal basso', dal momento che è la Lega, un movimento che acquista forza ogni giorno, a condurre le danze. Stando a ciò che spiegano i politologi e i sondaggisti, potrebbe darsi che in tutto il Nord, Emilia-Romagna per ora esclusa, la Lega di Bossi potesse sopravanzare il Pdl. Tutto ciò movimenterebbe gli equilibri politici nel centrodestra, tenuto conto che la Lega non è soltanto un movimento di destra, o non lo è su alcune tematiche di governo e in relazione alle società del Nord. Forse può risultare sorprendente che la parte più sviluppata del Paese abbia deciso di affidarsi al movimento più folclorico della nostra politica, ma va considerato che la Lega ormai è un partito di governo ed esercita con orgoglio la propria funzione.

Berlusconi in questo momento dovrebbe forse essere preoccupato più dal travolgente successo leghista che non dalle manovre di Fini. Ciò che si agita nel cuore del Nord, e sembra in grado di tracimare oltre il Po, in tutta l'Emilia e la Romagna, si presenta come un movimento confuso ma efficiente sul territorio. La sua leadership è saldissima, i suoi ministri a Roma si sono fatti vedere con chiarezza, a cominciare da Roberto Maroni. Rozza ma efficace, la Lega sembrava un movimento residuale, destinato a essere fagocitato dalle frange berlusconiane; è accaduto esattamente il contrario, e ciò mette in luce la fragilità implicita nel blocco di centrodestra.

Spetterebbe alla sinistra riformista mettere in luce, si sarebbe detto una volta, le contraddizioni del centrodestra; ma per ora non si riesce a vedere una strategia chiara. Pier Luigi Bersani e i dirigenti del Partito democratico sono tutti impegnati nella campagna elettorale delle regionali. È vero che quel risultato influenzerà molto, in termini strategici, i destini del Pd, e anzi è probabile che un esito meno sfavorevole del previsto darà un po' di spinta ai democratici; ma in questo momento si tratta in primo luogo di interpretare i nuovi schemi politici che si stanno creando: l'impoverimento con acquiescenza, cioè senza opposizione, e i fenomeni di perdita del lavoro legati alla globalizzazione. In entrambi i casi la lotta politica con la Lega sarà a coltello. E quindi converrà prepararsi.

(25 marzo 2010)
da espresso.repubblica.it
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #79 inserito:: Aprile 11, 2010, 11:39:32 pm »

Aveva 59 anni, fino all'ultimo ha scritto per Repubblica ed Espresso non solo politica: era un grande appassionato di calcio e televisione

Addio a Edmondo Berselli ha raccontato la società italiana


di ANGELO MELONE


E' morto a Modena, dopo una lunga malattia, Edmondo Berselli. Aveva 59 anni. Scompare una delle figure più eclettiche dell'editoria e del giornalismo italiano. Editorialista di politica per Repubblica e collaboratore de l'Espresso, osservatore attento della società italiana, fustigatore - se necessario - delle sue debolezze e delle contraddizioni della politica con l'occhio dello spirito libero e, senza tentennamenti, laico e repubblicano. E, insieme, narratore - negli articoli e nei libri - delle passioni ( e delle cadute di stile) dell'Italia della musica, dello sport, del mondo culturale e dei suoi salotti. Fino alla gastronomia. Forse un titolo - Quel gran pezzo dell'Emilia. Terra di comunisti, motori, musica, bel gioco, cucina grassa e italiani di classe - sembra metterle insieme tutte mostrando un osservatore poliedrico e senza paraocchi della società italiana.

La stessa vena che ha messo nei suoi libri di analisi della politica - che è riuscito sempre a trasformare in analisi della società - e nei tanti articoli scritti via via per diversi giornali fino all'approdo a Repubblica. Un metodo che nel 2003, con Post-italiani, lo fece considerare come un analista quasi profetico di questa nostra società. Compresa la sua analisi disincantata, e forse per questo ancor più incalzante, del fenomeno Berlusconi nei tanti editoriali per Repubblica. Fino al fondo sul "padrone Berlusconi" del 17 marzo scorso, e alla puntura "La Vacanza" del 3 aprile. Gli ultimi.

Tutte passioni, a partire dalla critica della politica, che Berselli coltiva nel laboratorio bolognese del Mulino dove si incrociano - ma questa è storia della politica italiana - da Andreatta a Scoppola, a Giugni, a Pasquino a Panebianco. Esperienza che diverrà il crogiolo culturale anche dell'impegno diretto in politica di Romano Prodi.

Inizia alla fine degli anni '70 come correttore di bozze della casa editrice, della quale diverrà il direttore editoriale, e lega la sua vita culturale e lavorativa all'editrice e alla rivista bolognese di cui diverrà direttore modificandola profondamente. Intanto collabora alla Gazzetta di Modena, il primo passo del rapporto con numerosi giornali fino al suo arrivo a Repubblica nel 2003. Con il suo stile e le sue analisi - spesso ironiche e divertenti - a tutto campo.

Modi diversi di raccontare l'Italia che costruiscono l'analisi della società e della politica con la sensibilità di un intellettuale che vuole farlo suonando più tasti possibile. Basta mettere in fila solo alcuni dei suoi libri. C'è il best-seller Sinistrati. Storia sentimentale di una catastrofe politica con l'ironico commento della sconfitta del Pd nel 2008. Ma anni prima c'era l'altrettanto noto Canzoni, un ritratto della società italiana dagli anni '50 ad oggi attraverso la musica leggera. E ancora Il più mancino dei tiri, dedicato a Mariolino Corso e attraverso lui al fenomeno calcio. Per arrivare al ritratto dissacrante del mondo culturale italiano con Venerati maestri, operetta morale sugli intelligenti d'Italia.

L'ultima fatica, personalissima e toccante, lo scorso anno con Liù. Biografia morale di un cane. Quasi un addio.

© Riproduzione riservata (11 aprile 2010)
da repubblica.it
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #80 inserito:: Giugno 15, 2010, 04:22:52 pm »

“Liù. Biografia morale di un cane”

di Alessandra Stoppini il 25 novembre 2009
 

“Non solo non avevo mai avuto un cane, ma non avevo nessuna voglia di averne uno“. È l’inizio del libro “Liù. Biografia morale di un cane” (Mondadori, 2009) di Edmondo Berselli . Ed invece l’autore si affeziona al labrador femmina di colore nero, ed assiste alla metamorfosi della propria vita da quando Liù vive insieme a lui ed alla moglie Marzia, che lo ha convinto ad acquistare il cane.

Fin da subito lo scrittore si rende conto che il labrador ha una sua precisa identità, carattere, gusti e disgusti, quindi incomincia a vedere la vita attraverso gli occhi di Liù, «cotechino baffuto» vista a poche ore dalla nascita in un allevamento di Cermenate. Forse è proprio da quel momento che è nato l’amore di Berselli, riservato e fine intellettuale che nella sua vita letteraria ha scritto di sport, televisione, politica e cultura, per la cagnolina. Ma siamo proprio convinti che i coniugi Berselli abbiano scelto Liù e che non sia avvenuto l’esatto contrario, come accade sempre in questi casi? Ecco dunque come la quotidianeità venga rivoluzionata dall’arrivo del labrador, quindi scorrono pagina dopo pagina le albe nebbiose trascorse passeggiando nel parco mentre Liù si azzuffa con gli altri cani, la scoperta di vederla crescere, il ticchettio delle sue zampe sul parquet, la coda che ignara travolge qualsiasi soprammobile. Vuoi vedere che il cane, entrato in relazione con l’uomo lo cambia rendendolo paradossalmente umano?

Il prologo del saggio è dedicato «poi è venuto il tempo degli annunci». Con timore e nervosismo comunica all’allora Direttore de L’Espresso Giulio Anselmi che sta per prendersi un cane. «Un cane?». Si stupisce il grande giornalista. Poi è la volta di Giovanni Evangelisti, vecchio capo di Berselli alla rivista Il Mulino. Alla notizia il buon emiliano scoppia in una risata tipica di quella parte d’Italia esclamando «E poi, chi lo porta fuori a fare la pipì, tu?».

Ma il libro non è solo questo. Se da un lato vengono narrate le gesta della «bestiolona» che ha cambiato le abitudini di questa progressista coppia senza figli modenese, dall’altro il politologo cerca di capire le ragioni profonde del perché la novità dell’arrivo di Liù ha ribaltato la sua visione finora razionale dell’esistenza, andando a scoprire una nuova filosofia di vita utile per comprendere ciò che accade nell’Italia attuale. L’anima sensibile del labrador Liù «produttore di affetti, generatore di sentimenti», sarà in grado di far comprendere al lettore molte cose tra le quali l’amore disinteressato, la fedeltà e le elementari regole per una civile convivenza che non sono solo quelle in voga tra animale e padrone.

Edmondo Berselli è nato il 2 Febbraio del 1951 a Campogalliano in provincia di Modena. Giornalista e scrittore. È editorialista de La Repubblica e L”Espresso, ha diretto fino al 2008, per sei anni, la rivista Il Mulino. Tra i tanti libri pubblicati ricordiamo Il più mancino dei tiri (Mondadori 2006), dedicato a Mariolino Corso, Quel gran pezzo dell’Emilia. Terra di comunisti, motori, musica, bel gioco, cucina grassa e italiani di classe (Mondadori 2004), Venerati maestri. Operetta morale sugli intelligenti d’Italia (Mondadori 2006), dove Berselli traccia un divertente e spietato ritratto del decadente mondo culturale italiano, Adulti con riserva. Com’era allegra l’Italia prima del ‘68 (Mondadori 2007), Sinistrati. Storia sentimentale di una catastrofe politica (Mondadori 2008) nel quale viene commentata ironicamente la sconfitta del Partito Democratico e della sinistra contro il Partito delle Libertà.

Autore: Edmondo Berselli
Titolo: Liù. Biografia morale di un cane
Editore: Mondadori
Anno di pubblicazione: 2009
Prezzo: 18 euro
Pagine: 160

http://www.ilrecensore.com/wp2/2009/11/storia-di-liu-raccontata-da-edmondo-berselli/
Registrato
Pagine: 1 ... 4 5 [6]
  Stampa  
 
Vai a:  

Powered by MySQL Powered by PHP Powered by SMF 1.1.21 | SMF © 2015, Simple Machines XHTML 1.0 valido! CSS valido!