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Autore Discussione: EDMONDO BERSELLI  (Letto 44797 volte)
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« Risposta #60 inserito:: Agosto 31, 2009, 11:12:25 am »

LA POLEMICA

Dove è finita l'informazione

di EDMONDO BERSELLI


Esploso in questi mesi come una battaglia di verità, davanti alle contraddizioni e alle bugie del premier, lo scandalo Berlusconi diventa oggi un problema di libertà, come sottolineano tutti i grandi quotidiani europei, evidenziando ancor più il conformismo silente dei giornali italiani. Prima la denuncia giudiziaria delle 10 domande di "Repubblica", un caso unico al mondo: un leader che cita in giudizio le domande che gli vengono rivolte, per farle bloccare e cancellare, visto che non può rispondere. Poi l'intimidazione alla stampa europea, perché non si occupi dello scandalo. Quindi il tentativo di impedire la citazione in Italia degli articoli dei giornali stranieri, in modo che il nostro Paese resti all'oscuro di tutto. Ecco cosa sta avvenendo nei confronti della libertà di informazione nel nostro Paese.

A tutto ciò, si aggiunge lo scandalo permanente, ma ogni giorno più grave, della poltiglia giornalistica che la Rai serve ai suoi telespettatori, per fare il paio con Mediaset, l'azienda televisiva di proprietà del premier. È uno scandalo che tutti conoscono e che troppi accettano come una malattia cronica e inguaribile della nostra democrazia. E invece l'escalation illiberale di questi giorni conferma che la battaglia di libertà si gioca soprattutto qui. La falsificazione dei fatti, la mortificante soppressione delle notizie ridotte a pasticcio incomprensibile, rendono impossibile il formarsi di una pubblica opinione informata e consapevole, dunque autonoma. Anzi, il degrado dei telegiornali fa il paio con il pestaggio mediatico dei giornali berlusconiani. Molto semplicemente, il congresso del pd, invece di contemplare il proprio ombelico, dovrebbe cominciare da viale Mazzini, sollevando questa battaglia di libertà come questione centrale, oggi, della democrazia italiana.

In quest'ultima stagione del berlusconismo abbiamo contemplato l'apice del conflitto d'interessi, l'anomalia più grave (a questo punto la mostruosità) della politica italiana. Si è vista l'occupazione della Rai e specialmente dei vertici dei telegiornali, cioè ruoli pubblici trasformati in postazioni partigiane; e nello stesso tempo la blindatura militare dei media di proprietà diretta o indiretta del capo del governo.
Berlusconi voleva un'anestesia della società italiana, in modo da poter comunicare ai cittadini esclusivamente le sue verità, i successi, le vittorie, le sue spettacolari "scese in campo" contro i problemi nazionali. L'immondizia a Napoli, il terremoto in Abruzzo, la continua minimizzazione della recessione. Una e una sola voce doveva essere udita, e gli strumenti a disposizione hanno fatto sì che fosse praticamente l'unica a essere diffusa e ascoltata.

Ma evidentemente tutto questo non bastava. Non bastava una maggioranza parlamentare praticamente inscalfibile. Non bastava al capo del governo neppure il consenso continuamente sbandierato a suon di sondaggi. Nel momento in cui la libertà di informazione ha investito lo stile di vita di Berlusconi, e soprattutto il caotico intreccio di rozzi comportamenti privati in luoghi pubblici o semi-istituzionali, il capo della destra ha deciso che occorreva usare non uno bensì due strumenti: il silenziatore, per confondere e zittire l'opinione pubblica, e il bastone, per impedire l'esercizio di un'informazione libera.

Negli ultimi mesi chiunque non sia particolarmente addentro alla politica ha potuto capire ben poco, in base al "sistema" dei telegiornali allineati, dello scandalo che si stava addensando sul premier. Un'informazione spezzettata, rimontata in modo incomprensibile, privata scientemente delle notizie essenziali, ha occultato gli elementi centrali della vicenda della prostituzione di regime. Allorché alla lunga lo scandalo ha bucato la cortina del silenzio, è scattata la seconda fase, quella dell'intimidazione. L'aggressione contro il direttore di Avvenire, Dino Boffo, risulta a questo punto esemplare: il giornale di famiglia, riportato rapidamente a una funzione di assalto, fa partire il suo siluro; nello stesso tempo l'informazione televisiva, con una farragine di servizi senza capo né coda, rende sostanzialmente incomprensibile il caso.

Come in una specie di teoria di Clausewitz rivisitata e volgare, il killeraggio giornalistico, cioè una forma di guerra totale, priva di qualsiasi inibizione, si rivela un proseguimento della politica con altri mezzi. In grado anche di fronteggiare le ripercussioni diplomatiche con la segreteria di Stato vaticana e con la Cei. La strategia rischia di essere efficace, peccato che configuri un drammatico problema di sistema. Ossia una ferita gravissima a uno dei fondamenti della democrazia reale (non dell'astratta democrazia liberale descritta dai nostri flebili maestri quotidiani). Purtroppo non si sa nemmeno a quali riserve di democrazia ci si possa appellare. Ci sono ancoraggi, istituzioni, risorse di etica e di libertà a cui fare riferimento? Oppure il peggio è già avvenuto, e i principi essenziali della nostra democrazia sono già stati frantumati?

Basta una scorsa alla più accreditata informazione straniera per rendersi conto del penoso provincialismo con cui questo problema viene trattato qui in Italia, della speciosità delle argomentazioni, del servilismo della destra (un esponente della maggioranza ha dichiarato ai tg che la rinuncia di Berlusconi a partecipare alla Perdonanza, dopo l'attacco del Giornale a Boffo, "disgustoso" per il presidente della Cei Angelo Bagnasco, era un atto "di straordinario valore cristiano"). Oltretutto, risulta insopportabile l'idea che nel nostro futuro, cioè nella nostra politica, nella nostra cultura, nella nostra idea di un paese, ci sia un blocco costituito dall'informazione di potere, un consenso organizzato mediaticamente nella società, e al di fuori di questo perimetro pochi e rischiosi luoghi di dissenso. Questa non è una democrazia. È un regime che non vuole più nemmeno esibire una tolleranza di facciata. Quando tutti se ne renderanno conto sarà sempre troppo tardi.

(31 agosto 2009)
da repubblica.it
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« Risposta #61 inserito:: Settembre 03, 2009, 10:25:30 pm »

Se manca la riserva

di Edmondo Berselli


Al di là del Capo dello Stato c'è un grande vuoto di personalità cui chiedere il sacrificio dell'impegno pubblico
 
Le ultime rivelazioni sulla dipendenza sessuale del premier (vedi la nuova edizione del libro di Maria Latella 'Tendenza Veronica') avvalorano la sensazione che la parabola di Silvio Berlusconi sia arrivata vicina alla fase di caduta: certo l'uomo di Arcore, e di Villa Certosa, ha una forza spaventosa, e prima di cedere il potere organizzerà spettacoli impressionanti. Ma il beckettiano finale di partita di Berlusconi, tutto giocato su uno scenario virtualmente catastrofico, rischia di essere ulteriormente complicato da un fattore chiave, che investe la struttura morale e istituzionale dell'Italia contemporanea: l'assenza di riserve credibili, cioè la mancanza di uomini simbolo, in grado quando è necessario di fare da argine al degrado e da supplenza alla politica.

In passato abbiamo avuto la possibilità di ricorrere a uomini come Carlo Azeglio Ciampi, al quale venne richiesto un compito difficilissimo prima come capo di un governo di transizione, poi come ministro del Tesoro, e infine come presidente della Repubblica. Non si può dimenticare il ruolo preziosissimo ricoperto nella vicenda dell'ingresso nell'area della moneta unica, quando il suo prestigio in campo europeo contribuì a superare i dubbi dei partner sulla capacità di tenuta dei conti pubblici italiani, gravati da un debito fuori dai parametri di Maastricht. Così come oggi, nel momento di un attacco squinternato all'unità nazionale, non è possibile trascurare il sottile e fitto lavoro di cucitura eseguito nei suoi sette anni al Quirinale, con la valorizzazione dei simboli (la bandiera e l'inno nazionale) e soprattutto con i cento viaggi nelle province italiane, alla ricerca di una società più unita e solidale di quanto non mostrasse la politica.

Oggi stiamo assistendo a un solerte lavoro da parte di Giorgio Napolitano
, nel tentativo di tenere sotto controllo un'azione legislativa spesso scombinata, e animata da intenzioni sbagliate o dalla voglia di slabbrare strumentalmente l'architettura istituzionale del sistema. Ma ci si rende conto facilmente che al di là del capo dello Stato c'è un grandissimo vuoto, uno spazio che difficilmente può essere riempito. Dopo il mandato di Napolitano si può immaginare un'occupazione 'manu militari' del Colle, con effetti purtroppo immaginabili sugli equilibri istituzionali (anche se grazie al cielo, e ai sofisticati microfoni utilizzati dalla escort Patrizia D'Addario, si direbbe che è evaporata dall'orizzonte politico l'ipotesi di Berlusconi al Quirinale).

Può sembrare piuttosto bizzarro che in tempi di crisi della politica (crisi culturale soprattutto, crisi di idee complessive e di progetti) si possa assistere in prospettiva a una superpoliticizzazione dei poteri neutri dello Stato. Ma si tratta di un fenomeno facilmente spiegabile: quando non sono in gioco valori supremi, la politica è anche gestione, amministrazione, spartizione. Cambia tutto, nella scena, se dovessimo affrontare un periodo di crisi conclamata, come sarebbe possibile ad esempio con la caduta di Berlusconi e con un autunno disastroso per l'economia e l'occupazione.

Tutta la politica italiana, infatti, di governo e di opposizione, dipende dalla figura del Cavaliere, dal gioco di attrazione e repulsione che ha innescato negli anni e che condiziona ormai l'intero sistema politico. Il suo ritiro, o autoeliminazione, rappresenterebbe potenzialmente la catastrofe finale di una Repubblica mai compiuta, e quindi fragilissima nei suoi meccanismi, nonché vulnerabilissima socialmente in seguito al prevedibile colpo di coda della recessione.

È in queste condizioni che verrebbero utili, e anzi essenziali, quelle figure di alta credibilità biografica e intellettuale a cui chiedere il sacrificio personale dell'impegno pubblico nel momento della massima tensione politica e istituzionale. Ma ormai le riserve della Repubblica sono esaurite. Dovesse effettivamente crollare il berlusconismo, si può intravedere in controluce l'eventualità di un governo Fini, grazie anche all'asse con il Quirinale.

Curiosa ipotesi, anche questa, di una felice coabitazione e di un 'idem sentire' fra un ex comunista e un ex fascista: ma anche in questo caso si tratterebbe, e in parte già si tratta, di un esemplare combinazione realizzata da una politica che non ha saputo trovare niente di nuovo, e quindi deve affidarsi al vecchio. Nella speranza che il 'patriottismo della Costituzione', secondo la storica definizione di Habermas, sia sufficiente a reggere gli equilibri di un sistema che sta già cedendo.

(28 agosto 2009)
da espresso.repubblica.it
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« Risposta #62 inserito:: Settembre 19, 2009, 12:09:51 am »

Il problema Bersani

di Edmondo Berselli


Se l'ex ministro vincerà le primarie del Pd dovrà usare il meno possibile la parola sinistra  Pierluigi BersaniCircola la sensazione che Pier Luigi Bersani vincerà agevolmente le primarie del Partito democratico. Ma probabilmente Bersani non è la soluzione, è il problema. Perché la conquista della leadership del Pd da parte sua rappresenta la riproposizione del modello socialdemocratico di ispirazione emiliana, che appare in grado di mobilitare larghi settori della sinistra classica, ma che nello stesso tempo configurerebbe il Pd, partito ancora relativamente nuovo, come l'erede diretto del Pci e delle sue filiazioni post Ottantanove.

Di questo apparente salto all'indietro, Bersani non ha colpa. Da mesi sta elaborando una 'narrazione' culturale che cerca di tenere insieme culture diverse, appellandosi ai centocinquant'anni di storia che accomunano il movimento operaio e socialista, l'associazionismo cattolico, il mutualismo cooperativo rosso e bianco. Tutto questo proprio per cercare di superare i confini storici della sinistra, le spaccature e gli steccati del Novecento, i conflitti ideologici e civili che hanno diviso comunisti e cattolici.

Sembrerebbe un compito tutto sommato facile, se non fosse che la frattura tra gli eredi del Pci e i democristiani memori del degasperiano "partito di centro che guarda a sinistra" fa ancora sentire i suoi effetti. Sostengono i cattolici che hanno scelto la mozione Bersani, in particolare Enrico Letta e Rosy Bindi, che il rimescolamento fra le culture è già in corso, e se si completerà, il Pd avrà raggiunto il suo scopo. Tuttavia siamo sempre nel discorso ipotetico. E i contraccolpi sono sempre possibili, come si è visto con le sortite di Francesco Rutelli agli stati generali dell'Udc, dove il candidato antiberlusconiano del 2001, fondatore del Partito democratico, ha prefigurato lo scioglimento del patto da cui nacque il Pd, e una possibile confluenza centrista.

Se con il successo di Bersani dovesse verificarsi un contraccolpo nel Pd, con la diaspora di esponenti cattolici, è probabile che dal punto di vista quantitativo ciò non sia un fenomeno politico rilevante. Sarebbero segmenti di nomenklatura a spostarsi nella mappa politica, mentre gli effetti sull'elettorato, almeno nel breve periodo, sarebbero tutti da verificare. Di certo, o almeno probabile, c'è che un rafforzamento dell'area centrista, al momento presidiata dall'Udc, appare nell'ordine delle cose. Verso il centro convergono in questo momento frange cattoliche rese inquiete dalle rivelazioni sulla vita privata e pubblica di Silvio Berlusconi, preoccupate dalla violenza mediatica rivoltasi verso il direttore di 'Avvenire', nonché fasce moderate che non gradiscono l'egemonia esercitata dalla Lega sulla coalizione di destra.

Al contorno di tutto questo c'è la convinzione di nuclei forti di potere, a cominciare dall'establishment economico-finanziario e dai vertici confindustriali e di categoria, che la destra è una coalizione tenuta insieme dalla figura di Berlusconi. Ma nel dopo? C'è un protagonista in grado di assumersi la leadership del Pdl e di gestire utilmente il rapporto di coalizione con la Lega? E di trattare con chiarezza di obiettivi l'arco delle riforme necessarie? Oppure quando verrà il momento della successione occorrerà un ridisegno complessivo del sistema politico, fino a configurare il 'modello Kadima', partito della nazione, luogo di una politica consensuale?

Va da sé che il ridisegno centrista, connesso esplicitamente alle élite economiche (vedi l'attivismo trasversale di Luca Cordero di Montezemolo) e nello stesso tempo legato alle sensibilità moderate del cattolicesimo diffuso, appare irresistibile per molti ambienti che si sono stancati del 'primato della politica'. UnGrande Centro, magari anche piccolo, un Centrino, che fosse in grado numericamente di condizionare la formazione delle alleanze elettorali e delle maggioranze parlamentari, sembra uno strumento irresistibilmente attraente per relativizzare la politica.

Non è un caso che Dario Franceschini si aggrappi alla difesa del bipolarismo. Il progetto del Centro implica la sconfessione del modello politico su cui il centrosinistra ha scommesso negli ultimi quindici anni, e un rimescolamento delle carte da cui potrebbe uscire una democrazia negoziale, basata sulla trattativa continua tra partiti alleati, e su un fitto tessuto di mediazioni con i settori economici. A occhio, Bersani dovrebbe fare tutto il possibile per disinnescare questo progetto. Ma per farlo sarebbe opportuno che non sbandierasse troppo spesso la parola 'sinistra', anche se fa parte della sua identità. La sinistra è meglio farla con i programmi, anziché con gli slogan.

(17 settembre 2009)
da espresso.repubblica.it
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« Risposta #63 inserito:: Settembre 22, 2009, 11:05:36 am »

Il problema Bersani

di Edmondo Berselli


Se l'ex ministro vincerà le primarie del Pd dovrà usare il meno possibile la parola sinistra. Circola la sensazione che Pier Luigi Bersani vincerà agevolmente le primarie del Partito democratico. Ma probabilmente Bersani non è la soluzione, è il problema. Perché la conquista della leadership del Pd da parte sua rappresenta la riproposizione del modello socialdemocratico di ispirazione emiliana, che appare in grado di mobilitare larghi settori della sinistra classica, ma che nello stesso tempo configurerebbe il Pd, partito ancora relativamente nuovo, come l'erede diretto del Pci e delle sue filiazioni post Ottantanove.

Di questo apparente salto all'indietro, Bersani non ha colpa. Da mesi sta elaborando una 'narrazione' culturale che cerca di tenere insieme culture diverse, appellandosi ai centocinquant'anni di storia che accomunano il movimento operaio e socialista, l'associazionismo cattolico, il mutualismo cooperativo rosso e bianco. Tutto questo proprio per cercare di superare i confini storici della sinistra, le spaccature e gli steccati del Novecento, i conflitti ideologici e civili che hanno diviso comunisti e cattolici.

Sembrerebbe un compito tutto sommato facile, se non fosse che la frattura tra gli eredi del Pci e i democristiani memori del degasperiano "partito di centro che guarda a sinistra" fa ancora sentire i suoi effetti. Sostengono i cattolici che hanno scelto la mozione Bersani, in particolare Enrico Letta e Rosy Bindi, che il rimescolamento fra le culture è già in corso, e se si completerà, il Pd avrà raggiunto il suo scopo. Tuttavia siamo sempre nel discorso ipotetico. E i contraccolpi sono sempre possibili, come si è visto con le sortite di Francesco Rutelli agli stati generali dell'Udc, dove il candidato antiberlusconiano del 2001, fondatore del Partito democratico, ha prefigurato lo scioglimento del patto da cui nacque il Pd, e una possibile confluenza centrista.

Se con il successo di Bersani dovesse verificarsi un contraccolpo nel Pd, con la diaspora di esponenti cattolici, è probabile che dal punto di vista quantitativo ciò non sia un fenomeno politico rilevante. Sarebbero segmenti di nomenklatura a spostarsi nella mappa politica, mentre gli effetti sull'elettorato, almeno nel breve periodo, sarebbero tutti da verificare. Di certo, o almeno probabile, c'è che un rafforzamento dell'area centrista, al momento presidiata dall'Udc, appare nell'ordine delle cose. Verso il centro convergono in questo momento frange cattoliche rese inquiete dalle rivelazioni sulla vita privata e pubblica di Silvio Berlusconi, preoccupate dalla violenza mediatica rivoltasi verso il direttore di 'Avvenire', nonché fasce moderate che non gradiscono l'egemonia esercitata dalla Lega sulla coalizione di destra.

Al contorno di tutto questo c'è la convinzione di nuclei forti di potere, a cominciare dall'establishment economico-finanziario e dai vertici confindustriali e di categoria, che la destra è una coalizione tenuta insieme dalla figura di Berlusconi. Ma nel dopo? C'è un protagonista in grado di assumersi la leadership del Pdl e di gestire utilmente il rapporto di coalizione con la Lega? E di trattare con chiarezza di obiettivi l'arco delle riforme necessarie? Oppure quando verrà il momento della successione occorrerà un ridisegno complessivo del sistema politico, fino a configurare il 'modello Kadima', partito della nazione, luogo di una politica consensuale?

Va da sé che il ridisegno centrista, connesso esplicitamente alle élite economiche (vedi l'attivismo trasversale di Luca Cordero di Montezemolo) e nello stesso tempo legato alle sensibilità moderate del cattolicesimo diffuso, appare irresistibile per molti ambienti che si sono stancati del 'primato della politica'. UnGrande Centro, magari anche piccolo, un Centrino, che fosse in grado numericamente di condizionare la formazione delle alleanze elettorali e delle maggioranze parlamentari, sembra uno strumento irresistibilmente attraente per relativizzare la politica.

Non è un caso che Dario Franceschini si aggrappi alla difesa del bipolarismo. Il progetto del Centro implica la sconfessione del modello politico su cui il centrosinistra ha scommesso negli ultimi quindici anni, e un rimescolamento delle carte da cui potrebbe uscire una democrazia negoziale, basata sulla trattativa continua tra partiti alleati, e su un fitto tessuto di mediazioni con i settori economici. A occhio, Bersani dovrebbe fare tutto il possibile per disinnescare questo progetto. Ma per farlo sarebbe opportuno che non sbandierasse troppo spesso la parola 'sinistra', anche se fa parte della sua identità. La sinistra è meglio farla con i programmi, anziché con gli slogan.

(17 settembre 2009)
da espresso.repubblica.it
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« Risposta #64 inserito:: Ottobre 11, 2009, 10:56:18 pm »

Dopo il Lodo, la piazza

di Edmondo Berselli


È stata una sentenza durissima. E adesso Silvio Berlusconi è pronto a scatenare i suoi. Per continuare con ogni mezzo la sfida alle istituzioni
 
È stata una sentenza durissima, praticamente spietata. La nettissima bocciatura a cui la Corte costituzionale ha sottoposto il Lodo Alfano è la prima vera e grande sconfitta politica di Silvio Berlusconi. Al confronto, sbiadisce persino la caduta del suo governo nel 1994, dopo solo sette mesi. La sentenza della Consulta è stata motivata nitidamente in punto di diritto, e non è possibile attribuirle una intenzione strumentale o politica. Indica un riferimento all'articolo 3, cioè al principio di uguaglianza dei cittadini, oltreché una sciatta violazione dell'articolo 138 della Carta costituzionale, nel senso che una legge di quella portata implicava un iter di modificazione costituzionale, e non una legge ordinaria.

Bocciatura senza appello, dunque. Tuttavia, anche se la politica è rimasta fuori dal palazzo della Consulta, gli effetti del verdetto sul Lodo configurano una situazione potenzialmente distruttiva per il premier e per l'alleanza di destra, e quindi colpi di coda a non finire. Verrebbe anzi da dire: chi è causa del suo mal pianga se stesso, oppure: chi semina vento raccoglie tempesta, dato che i vertici del centrodestra e lo staff di avvocati del Cavaliere hanno contribuito in modo addirittura stravagante a drammatizzare la decisione sulla legge Alfano. Per dire, ancora nel pomeriggio della sentenza, Umberto Bossi aveva minacciato di "trascinare il popolo" nelle piazze in caso di bocciatura del Lodo, esercitando una pressione inaudita sulla Corte. A sua volta la pancia del Pdl si scatenava nei blog e nei siti del centrodestra sostenendo più o meno che "quindici parrucconi non fermeranno il popolo". Ma l'aspetto più inquietante sul piano istituzionale era stata l'offensiva messa in campo dagli avvocati che sostenevano la causa di Berlusconi e dell'immunità per il premier e le principali cariche pubbliche: lasciamo pur perdere la posizione dell'avvocatura dello Stato, che aveva offerto motivazioni di puro realismo politico, preferendo nelle proprie argomentazioni le opportunità della politica spicciola, e favorevole al capo del governo, al rigore giuridico (anche questa è una sconfitta nella sconfitta, e una sostanziale scalfittura nella credibilità per quell'alto ufficio).

Ciò che invece è risultata sorprendente, fino ai limiti dell'incredibile, è stata la strategia di Niccolò Ghedini e Gaetano Pecorella, i due super professionisti che assistevano Berlusconi nell'affaire del Lodo. Ghedini e Pecorella hanno sostenuto che la Costituzione materiale aveva modificato, praticamente fino a travolgerla, la Costituzione formale. Ghedini si è spinto fino ad argomentare il sofisma secondo cui la legge è effettivamente uguale per tutti, ma può essere diseguale la sua applicazione, a seconda del soggetto che ne è coinvolto. Più ?ad personam? di così si muore. Con maggiore sofisticazione giuridica, ma con esiti virtualmente travolgenti per l'assetto istituzionale, Pecorella ha sostenuto che, in seguito alla legge elettorale universalmente conosciuta come ?Porcellum?, il premier viene "eletto " dal popolo, senza mediazioni parlamentari, e quindi la sua diventa una funzione apicale, superiore a quella degli altri ministri: il primo ministro diventa, secondo Pecorella, non più un "primus inter pares", bensì un "primus super pares", meritevole quindi di un trattamento particolare nell'ordinamento generale. La tesi era insostenibile, proprio in quanto investiva la natura e la fisionomia stesse della Repubblica, che resta di tipo parlamentare, in cui il premier deve ricevere l'incarico dal Quirinale, e raccogliere la fiducia in Parlamento. Ma il ?lodo Pecorella?, se possiamo chiamarlo così, rivelava l'intento di forzare i limiti e i confini dell'apparato costituzionale, ?sfondando? in modo plebiscitario l'impianto della Carta. Può essere proprio questa tesi a far inclinare il giudizio della Corte verso la bocciatura. E dovrebbe essere evidente che questa strategia preparava lo sfondo per il conflitto prossimo venturo.

Perché è chiaro che Berlusconi e le sue truppe si stanno preparando alla guerra, e che la guerra comincerà immediatamente. Il Cavaliere è sotto attacco da parte della magistratura milanese, per il processo Mills (corruzione in atti giudiziari) e per i fondi neri nella compravendita di diritti cinematografici e tv; a Roma per il tentativo di acquisire il voto di alcuni senatori per far cadere il governo Prodi. Per la prima volta il premier rischia, soprattutto nel caso Mills, una condanna penale che potrebbe risultare devastante per la sua immagine, sul piano interno e sul piano internazionale. Che cosa farà quindi Berlusconi? A quanto si capisce, dopo avere dichiarato che nella Corte costituzionale "undici giudici sono di sinistra", è pronto ad andare ?à la guerre comme à la guerre? e a "sbugiardare " i suoi nemici. "Vado avanti": aveva già cominciato ad agitare i sondaggi di Euromedia, che gli assicurano un consenso mai visto, garantito dalla sua cappa mediatica.

E quindi il suo piano bellico è facilmente descrivibile. Un uomo solo, ricco, amato e odiato, ma unto dalla "doccia di schede elettorali" si sente in grado di sfidare istituzioni e convenzioni della Repubblica. È un progetto iper-populista, con modalità ed esiti virtualmente peronisti. Berlusconi è come sempre pronto a sfidare l'universo mondo, la sinistra, i comunisti, i magistrati rossi, la stampa di sinistra, la televisione che fa opposizione, senza curarsi minimamente dei danni pubblici che la sua azione può provocare. Va da sé, allora, che lo scenario che si presenta davanti ai cittadini è un panorama di rovine, potenzialmente catastrofico. Ridiventano fin troppo evocative le immagini finali del ?Caimano? di Nanni Moretti, con i fuochi appiccati dai supporter del protagonista.

Certo non c'è da confondere la finzione con la realtà; ma per evitare sovrapposizioni disastrose fra i due livelli occorre una eccezionale saldezza degli apparati istituzionali e dell'establishment nazionale. Mentre sulla tenuta delle istituzioni si può nutrire una certa fiducia, visto che la stessa sentenza della Consulta testimonia positivamente in questo senso, e che comunque sull'ultimo Colle la presenza e la coerenza di Giorgio Napolitano offrono garanzie, il problema principale riguarda l'atteggiamento delle élite. In una condizione di paese normale, il premier si dimetterebbe e affronterebbe i processi che lo attendono. Sarebbe legittimo da parte sua cercare di mobilitare i suoi fan e tuffarsi nel grande gioco delle elezioni anticipate. Ma ci sono troppi vincoli, istituzionali e comportamentali, che coinvolgono il ruolo dei presidenti delle Camere e la funzione attiva del capo dello Stato. Tuttavia tocca soprattutto ai circuiti formali e informali del potere, a tutti i livelli, cercare di stabilizzare una situazione fortemente critica. Se l'establishment italiano accettasse di schierarsi secondo il modulo berlusconiano, dividendosi in modo cruento e sposando la causa dello scontro totale, si potrebbe anche chiudere bottega, in attesa della fine della bufera.

Conviene augurarsi che per una volta la vischiosità del potere in Italia rappresenti un freno alla guerra civile ideologica che Silvio Berlusconi ha già dichiarato. Sembrerà stravagante appellarsi all'anima andreottiana o dorotea della nostra società; ma quando la situazione si colora di drammaticità è naturale aggrapparsi a tutto, anche alla prudenza e alle cautele che in passato hanno impedito un cambiamento fruttuoso. Qui e ora, probabilmente, c'è soltanto da provare a salvare un paese.

(08 ottobre 2009)
da espresso.repubblica.it
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« Risposta #65 inserito:: Ottobre 16, 2009, 11:16:45 pm »

Leghisti per fiction

di Edmondo Berselli


Il Barbarossa caro a Bossi fa flop. E ora la politica stia alla larga dall'intrattenimento
 
Per fortuna, a quanto pare, secondo la critica più sfiziosa il film di Renzo Martinelli 'Barbarossa' è venuto maluccio, e quindi è improbabile che possa trasformarsi in un 'Braveheart' della Lega Nord. Il regista ha parlato di un Medioevo "sporchiccio, dove si lavavano poco", e l'opera dovrebbe rappresentare proprio questo senso immanente di sporcizia. Una schifezza, insomma. Cosicché, nonostante le attese spasmodiche di Umberto Bossi, e l'impegno profuso da Silvio Berlusconi con Agostino Saccà, nonché i venti milioni di euro di budget (soldi in gran parte pubblici), il film non è riuscito. Flop. Adesso si tratta di aspettare il responso del botteghino, per vedere se l'elettorato leghista si mobiliterà dalle valli al risuonare del sacro nome di Alberto da Giussano.

"Milanesi, fratelli, popol mio! Vi sovvien, dice Alberto di Giussano, calen di marzo? I consoli sparuti cavalcarono a Lodi, e con le spade nude in man gli giurâr l'obedienza".

Nessuno ricorda più i versi della 'Canzone di Legnano' di Carducci, e non vale neanche la pena di segnalare che il Poeta, attraverso la figura leggendaria di Alberto da Giussano, intendeva svolgere un tema fieramente patriottico, a sostegno dell'Italia unita e solidale. Ma che importa: gran parte dell'ideologia storica della Lega è una tipica "invenzione della tradizione", secondo la formula dello storico Eric Hobsbawm, più o meno come il kilt e le cornamuse scozzesi. Quindi non c'è bisogno di precisione storiografica: ciò che conta, semmai, è esaltare l'autonomia dei Comuni contro il centralismo del Sacro romano impero e se si può contro Roma ladrona.

E come a suo tempo fu inventata la radice 'celtica' dei popoli padani, con i riti pagani dell'acqua raccolta in un'ampolla alla sorgente del Po sul Monviso, a Pian del Re, adesso si tratterebbe di creare una tradizione a partire più o meno dall'anno Mille; mentre fra poco potrebbe venire il momento di una fiction su Marco d'Aviano, nuovo idolo di Bossi. Chi era costui? Era un frate assai carismatico, ascoltatissimo consigliere spirituale e politico dell'imperatore Leopoldo d'Asburgo, che fu incaricato dal papa Innocenzo XI di riunire i sovrani europei contro la minaccia militare, politica e religiosa ottomana. Era la classica missione impossibile, a causa delle gelosie fra i monarchi, ma il frate realizzò il miracolo, e i turchi furono sconfitti dall'esercito cristiano alle porte di Vienna nel 1683, dopo battaglie furibonde, in una delle prime guerre moderne, con cannoni e mine, morti e feriti, stragi ed epos.

Come si vede ci sarebbe materia, eccome, e purtroppo, per la fiction di regime. Ecco la sconfitta dei turchi a Vienna come una forma di respingimento verso quei clandestini della Mezza luna, così aggressivi e feroci (vedi la splendida ricostruzione di John Stoye, 'L'assedio di Vienna', appena tradotto dal Mulino). Ma se prendesse piede la mitologizzazione della politica contemporanea, non ci sarebbe salvezza per il popolo televisivo. Immaginiamoci che cosa comporterebbe una fiction sulla nascita di Forza Italia, con la santificazione della luminosa figura di Marcello Dell'Utri. Oppure un film sul prodigio berlusconiano della spazzatura a Napoli, o sui miracoli edilizi dell'Aquila.

Proprio per questo il sostanziale fallimento estetico e narrativo del 'Barbarossa' è di buon auspicio per la salute mentale degli spettatori di tutta la penisola. Dopo i critici cinematografici e televisivi, i politologi faranno il loro dovere deontologico, andranno a vedere il film (distribuito in 250 copie, quindi con aspettative alte), ed emetteranno il loro giudizio. Noi ci auguriamo che le ragioni della critica prevalgano sui motivi dell'ideologia. Se il film è brutto, è brutto. Senza se e senza ma. Le cronache dal Castello sforzesco hanno raccontato di risposte a grugnito: anche il ministro Maroni non sarebbe riuscito a emettere suoni che noi umani potessimo capire, a proposito del film, tuffando subito dopo la testa nel piatto per evitare approfondimenti pericolosi.

Ci eravamo già avvicinati insidiosamente alla cronaca politica, con le fiction su Alcide De Gasperi e sui papi come Giovanni XXIII o Albino Luciani. Adesso è il caso che si ritorni a film televisivi di intrattenimento, senza troppe intenzioni politiche. Anche inventare la tradizione è un mestiere difficile, e non è il caso di metterlo al servizio della politica politicante. Quindi 'Barbarossa' addio, grazie al cielo. Qualche volta, anche i fallimenti aiutano.

(08 ottobre 2009)
da espresso.repubblica.it
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« Risposta #66 inserito:: Ottobre 22, 2009, 10:16:49 am »

IL COMMENTO

L'antipolitica del rancore

di EDMONDO BERSELLI


Nel social network Facebook, il gruppo "Uccidiamo Berlusconi", inaugurato nel settembre del 2008, è ancora attivo. Ieri sera alle 20 contava 12.333 iscritti; dopo poco più di un'ora se n'erano iscritti altri 600. Secondo l'"amministratore" del gruppo, si tratta di una iniziativa goliardica, che pubblica "affermazioni bizzarre".

In realtà, basta scorrere i messaggi "postati" dagli iscritti per capire che è un catalogo di odio. Succede, nella Rete. Il web consente l'anonimato, e con l'anonimato il manifestarsi gratuito delle pulsioni più elementari e scandalose. Un incidente serio era già accaduto qualche giorno fa, allorché un giovane impegnato nel Pd di Vignola si era chiesto perché nessuno assoldasse un killer per togliere di mezzo il capo del governo. Adesso, la scoperta che 12 mila sciagurati si sono iscritti a un gruppo intitolato all'uccisione del premier peggiora gravemente la situazione. Perché è l'espressione collettiva di un'avversione totale, senza scampo, irriflessa: una specie di autismo espressivo, l'indizio di una malattia psicologica priva di antidoti culturali.

Barbarie, insomma. Barbarie modernissima e arcaica insieme, come se tra i frequentatori del web, cioè nella parte più aggiornata della società italiana, allignasse un virus capace di spegnere l'intelligenza e di liberare gli istinti più insidiosi. Certo, basta un clic, cioè un gesto quasi automatico, per aderire ai gruppi d'interesse più inquietanti. Si può anche immaginare che, presi uno per uno, gli iscritti al gruppo "Uccidiamo Berlusconi" giustificherebbero facilmente e scioccamente la loro iscrizione e i messaggi inviati, magari con un'alzata di spalle: leggerezze senza importanza. Tanto è vero che su Facebook ci sono circa 500 siti con un titolo che comincia con "Uccidiamo...". E che nel frattempo è stato fondato un altro gruppo, simmetrico, intitolato "Uccidiamo chi vuole uccidere Berlusconi".

Questioni di revanscismo. Ma si può anche legittimamente pensare che alcuni individui, fra le migliaia di antiberlusconiani iscritti al gruppo, siano davvero convinti che la politica italiana possa cambiare soltanto con un colpo violento. Oppure che, più semplicemente, affidino a una violenza figurata la loro frustrazione politica: "Un anonimo autocarro alle quattro di mattina, il prelievo, e poi nulla", come in un film di spionaggio, come i rapimenti e le vendette in un regime dittatoriale.

Tutto questo ha effetti penosi sul clima politico, e non soltanto perché consente alla destra più animosa di alimentare polemiche che ogni volta alludono a una presunta simpatia della sinistra verso gli estremismi; ma perché contribuisce in primo luogo ad alimentare un clima di avversione di cui per molte stagioni proprio la sinistra ("i comunisti") è stata ed è il bersaglio principale. Non è facile oggi, anzi è praticamente impossibile, immaginare atti reali di violenza politica ai danni di Berlusconi o altri uomini di governo. Anche il vecchio episodio del treppiede scagliato contro il Cavaliere, qualcuno lo ricorderà, apparteneva al genere degli atti folli quanto innocui. Ma le espressioni più o meno goliardiche, più o meno bizzarre, si collocano inevitabilmente a fianco delle lettere minatorie firmate da sigle terroristiche minacciose quanto sconosciute, e danno il loro contributo a illividire l'atmosfera politica.

Se è possibile, tuttavia, "Uccidiamo Berlusconi" ha un significato profondo ancora più disarmante, in quanto testimonia una specie di abdicazione dalla politica. Certo minoritaria, legata a ispirazioni dettate dalla solitudine rancorosa della Rete, e tuttavia a suo modo significativa. Perché rappresenta una rinuncia implicita ai metodi e alle procedure della politica, come se fossero inutili. È una specie di antipolitica rovesciata, che mostra un profilo speculare all'antipolitica stessa, di cui Berlusconi è stato un maestro. E che sicuramente si sottrae al perimetro delle convenzioni che regolano la polis. Sembra quasi di assistere a una secessione silenziosa, a un esodo muto e rancoroso, accompagnato da una scia di risentimenti che si sottraggono a ogni norma politica e a ogni codice di civiltà. Probabilmente è in questa rinuncia, in questa secessione irresponsabile, il messaggio più preoccupante che proviene silenziosamente del web.

© Riproduzione riservata (22 ottobre 2009)
da corriere.it
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« Risposta #67 inserito:: Novembre 04, 2009, 11:18:25 am »

Pagheremo tutto

di Edmondo Berselli


Berlusconi è passato dal liberismo allo statalismo versione Tremonti. Per approdare alla non-politica economica  Berlusconi e PutinAi tempi dei tempi, il centrodestra italiano era una fotocopia su scala minore del reaganismo. Nella campagna elettorale del 2001, Silvio Berlusconi appariva sui cartelloni sei per tre con lo slogan 'Meno tasse per tutti': era una variante italica dell'economia 'supply side', secondo cui abbassando le aliquote il gettito sarebbe aumentato (una trovata neoliberista che non è mai stata dimostrata empiricamente ma che ha goduto di molto successo a partire dagli anni Ottanta). Inoltre la coalizione elettorale di Berlusconi si presentava con una ideologia tutta legata a principi liberisti, a cominciare dalla liberalizzazione del mercato del lavoro: qualcuno ricorderà la battaglia sull'articolo 18, la libertà di licenziare presentata come 'libertà di assumere'.

Era tutto un imbroglio. Il governo Berlusconi di quel quinquennio non ha mai rispettato i criteri neoliberisti a cui diceva di ispirarsi. La caduta e la sostituzione del ministro dell'economia Giulio Tremonti rappresentò il fallimento integrale della legislatura di centrodestra. Il Contratto con gli italiani stipulato a 'Porta a Porta', con dotazione di stilografica e scrivania di ciliegio, non venne rispettato. Berlusconi si preparava ad andare incontro a una nuova sconfitta elettorale contro l'Unione di Romano Prodi.

Il Cavaliere, va pure detto, non è granché fortunato. Riconquistato Palazzo Chigi nel 2008, si è trovato davanti a una crisi economica acuta. Non sapeva come affrontarla, e per mesi ha pigiato il tasto delle aspettative. Nei suoi slogan, la recessione era il frutto di atteggiamenti psicologici che deprimevano i consumi; occorreva ottimismo, propensione alla spesa, un'euforia artificiale. A un certo punto, tutti gli esponenti del governo hanno cominciato a sostenere la tesi, infondata, secondo cui 'il peggio era alle spalle'. E si è proseguito così, con proclami e annunci, mentre anche il clima culturale cambiava radicalmente. Anziché il neoliberismo dei primordi, cominciava a diventare moneta corrente lo statalismo colbertista di Tremonti.


Il cambio di rotta non doveva dispiacere a certi ambienti della maggioranza, soprattutto agli ex An confluiti nel Popolo della libertà. Ma si trattava di una specie di metamorfosi: con un cambiamento a rovescio, dal male al peggio: la farfalla liberista diventava il bruco dirigista. E il risultato finale, dopo scontri, manfrine, bufere di neve inventate a San Pietroburgo per far saltare un consiglio dei ministri, incontri privati ad Arcore, era la decisione di non fare niente. Nulla. Dopo il solito annuncio dell'abolizione dell'Irap si è deciso di rinviare tutto a tempi migliori.

Di fatto, siamo passati alla non-politica economica. Evocazione di carrozzoni come la Banca del Sud. E la famosa 'exit strategy' per uscire dalla crisi? I ministri e i viceministri che compaiono come ospiti nei talk show televisivi continuano a ricordare le risorse impegnate negli ammortizzatori sociali: ma c'è voluto un operaio ad 'Annozero' (non un economista di grido, un semplice operaio!), a ricordare polemicamente che dalla crisi economica non si esce con la cassa integrazione, ma con misure di sistema. I giornali hanno dato ampio spazio al Forum della piccola impresa a Mantova, in cui è stato dato l'allarme su un milione di piccole imprese a rischio di chiusura. Ma non sembra che sia stato segnalato che cosa implica tutto questo: cioè milioni, diconsi milioni, di disoccupati potenziali. Nel frattempo il governo è impegnato a progettare riforme costituzionali, sulla giustizia e sulla forma di governo.

Forse non c'è una buona conoscenza della situazione economica reale. D'altronde, quando l'ingegner Roberto Castelli, ex ministro della Giustizia, ad 'Annozero' sostiene a gran voce che dall'inizio della crisi gli Stati Uniti sono calati nel Pil del 13 per cento e il Regno Unito del 12, mentre "noi stiamo resistendo", che si può dire? 'La voce.info' ha smentito rapidamente il viceministro leghista (gli Usa calano del 3,6 per cento, il Regno Unito del 5,5, e noi non stiamo resistendo affatto). Ma nel frattempo noi, cioè l'opinione pubblica, siamo bombardati dalla propaganda del Pdl. Tanto che si perde di vista qualcosa di clamoroso: in pochi anni, la destra è passata da una politica economica neoliberista a una statalista, per finire a nessuna politica economica.

Tremonti cadrà o non cadrà, Umberto Bossi lo salverà o no. Ma nel frattempo si può già constatare, di nuovo, il fallimento del partito berlusconiano sull'economia. Conti pubblici allo sfascio, la spesa inarrestabile, il deficit al 5 per cento, il debito come nei primi anni Novanta. Intere stagioni di sacrifici buttati via. Con qualche conseguenza: alla fine pagheremo caro, pagheremo tutto.

(30 ottobre 2009)
da espresso.repubblica.it
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« Risposta #68 inserito:: Novembre 26, 2009, 03:59:18 pm »

La partita di Bersani

di Edmondo Berselli


Il neosegretario del Pd deve trovare la formula per smascherare le favole di regime  Il neosegretario del Pd Pier Luigi BersaniCon una certa sorpresa si è visto che il Partito democratico cresce nei sondaggi e si avvicina al 30 per cento. Miracolo? Le spiegazioni ufficiali appaiono incerte, e investono soprattutto la mobilitazione provocata dalle primarie. Ma l'effetto della scelta del segretario dovrebbe essere ormai in archivio, e quindi sarebbe meglio cercare altre indicazioni. Tanto più che in capo al Pd si preparano difficoltà fortissime, che sarà bene tenere presenti.

In primo luogo la leadership del partito è ancora debole. Pier Luigi Bersani sta cercando un ruolo e una visione, ma deve ancora incardinarsi nella sua funzione. L'impegno a definire la scacchiera interna, cioè il sistema di rapporti e di poteri dentro il Pd, rende più difficile l'esercizio pubblico, e anche la polemica contro il governo e la maggioranza. Bersani al momento non è in grado di promuovere il dibattito frenetico che Dario Franceschini praticava contro Silvio Berlusconi, e forse non lo vuole nemmeno. Questo si vede nella discussione quotidiana, specialmente sul caso della giustizia e del processo breve, dove il comando della sacrosanta guerriglia è affidato di fatto al ruolo istituzionale di Anna Finocchiaro.

Ma il problema principale del Pd, in questo momento, è ancora la sopravvivenza come alternativa credibile. La risalita nei sondaggi infatti può essere più razionalmente attribuita alla sensazione, da parte dell'opinione pubblica, della necessità di un'opposizione efficiente. Un partito che si avvicina a un terzo dell'elettorato comincia a essere un'opportunità politica. Certo, c'è da fare attenzione, perché si tratta probabilmente di un consenso volatile. In questo momento il Pd è una entità politica ancora molto fragile, e sottoposta a tensioni che per il momento riguardano segmenti di classe dirigente, ma in futuro potrebbero impattare la fisionomia stessa del partito, la sua composizione ideologica, il suo statuto pubblico. Bersani infatti è il portatore di una
visione tradizionale del Pd. Il suo schema in fondo è ancora quello del compromesso socialdemocratico all'emiliana, derivante dai 'ceti medi ed Emilia rossa' di togliattiana memoria, aggiornato secondo schemi che assomigliano ancora a quelli di Romano Prodi. Tessuto industriale, piccola e media impresa, cooperazione, collaborazione fra capitale e lavoro.

La crisi economica, che si farà sentire pesantemente nei prossimi mesi nella manifattura, reca insidie velenose al modello. Ed è per questo che assume peso e importanza anche la piccola diaspora cominciata con l'esodo di Francesco Rutelli, e con abbandoni annunciati come quello del sindaco di Venezia, Massimo Cacciari. Perché ciò che viene messo in discussione da queste fuoruscite è proprio il progetto stesso del Pd. Roba da intellettuali e da politici di lungo corso come Rutelli, che potrebbero interessare pochissimo militanti e simpatizzanti del partito, e di sicuro quasi niente gli elettori che guardano al Pd semplicemente come un'ancora antiregime, quale che sia il suo disegno politico e culturale. Ma il veleno è sottile. Apre varchi nel sistema bipolare, e riporta il centrosinistra a un metodo di alleanze che potrebbe diventare complicatissimo. Ritorna il trattino, con l'illusione della coalizione con l'Udc, mentre qualcuno sogna l'invenzione di Kadima, il nuovo partito della nazione, un centro capace di condizionare spregiudicatamente l'intero arco politico, facendo di nuovo riscaldare i due forni di italica memoria.

Il punto critico fondamentale, comunque, concerne le prossime elezioni regionali. Una sconfitta grave, con il mantenimento soltanto delle regioni rosse, non sarebbe facilmente assimilabile dal partito. Il segretario Bersani deve quindi concentrarsi su candidature e alleanze, tenendo presenti le difficoltà fondamentali, dallaCampania di Bassolino alla Puglia di Vendola. L'obiettivo, ancora una volta, è la resistenza. Se il Pd supera onorevolmente la prova delle elezioni regionali, le prospettive diventano progressivamente migliori.

Per ottenere questo risultato, per il partito 'bocciofila' occorre un pancia a terra senza sconti. A cominciare da un forcing sull'economia reale, per uscire dal concerto di bugie e falsi ottimismi della destra. A Bersani occorre trovare un buco nel sistema di consenso berlusconiano. Come è possibile infatti che crisi e disoccupazione determinino acquiescenza verso il governo, e passività politica di massa nei confronti della destra? Se il segretario trova la formula per smascherare le favole di regime, forse la partita politica si può ancora giocare.

(20 novembre 2009)
da espresso.repubblica.it
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« Risposta #69 inserito:: Dicembre 13, 2009, 11:10:37 am »

Cosa manca ancora al Pd

di Edmondo Berselli

Con quale proposta politica e culturale Bersani si prepara allo scontro con la destra?
 

Negli ipermercati delle Coop i clienti vanno a caccia di sconti e di prodotti sotto costo. Questo dato commerciale, non appaia un paradosso, è un primo indizio che ci sono due o tre cose da sapere sul Partito democratico, sulla sua condizione sociale, sul suo elettorato. E in questo senso aiuta molto l'indagine svolta nei primi giorni di dicembre da Ipsos per 'Il Sole 24 Ore'. I dati disponibili risultano impressionanti rispetto alla tradizione: perché dimostrano che il berlusconiano Popolo della libertà ha costruito un blocco sociale apparentemente inscalfibile, e dalle caratteristiche addirittura impensabili. L'alleanza con la Lega rende maggioritaria la destra fra gli operai, i pensionati, i disoccupati, le casalinghe, oltre che ovviamente fra gli imprenditori, i professionisti e i commercianti, e territorialmente nel Sud del Paese.

Non è una novità. La classe operaia era passata a destra già alle elezioni del 2001, sfiorando il 60 per cento. Invece l'insediamento del Pd è molto più circoscritto. Nel Triveneto i consensi fra Pdl, Lega e Pd sono divisi esattamente per tre. Il che significa banalmente che il Pd è pesantemente minoritario in una delle aree trainanti dell'Italia attuale, recessione permettendo. Se in passato Ilvo Diamanti aveva discusso del rischio che il centrosinistra si confinasse in una specie di "Lega centro", isolata nelle solite regioni postcomuniste, oggi sembra cristallizzarsi anche la stratificazione sociale, con l'aggravante che l'insediamento sociale del Pd tende a fissarsi sui settori tradizionali dell'impiego pubblico, cioè proprio sugli apparati sottoposti al forcing di ministri come Renato Brunetta e di Mariastella Gelmini.

In sostanza, Pier Luigi Bersani deve trovare una formula politica per spezzare l'accerchiamento del Pd. In questo senso, le elezioni regionali di marzo potrebbero essere un appuntamento decisivo. Una disfatta rappresenterebbe il fallimento di un progetto. Una tenuta, anche faticosa, costituirebbe un nuovo punto di partenza.Tuttavia il problema del Pd non è dato soltanto dalle percentuali elettorali e dalla conquista eventuale di una regione in più rispetto alle previsioni più pessimiste. I dati dell'Ipsos mostrano fra l'altro un numero alto di incerti (oltre un terzo del campione), ma offrono anche l'indicazione di un'opportunità politica.

Ma qui c'è il busillis: con quale progetto, proposta politica, programma culturale il Pd bersaniano si prepara allo scontro con la destra? Per ora la diaspora aperta da Francesco Rutelli, con l'accompagnamento di personalità riformiste come Linda Lanzillotta, non sembra avere provocato danni seri; e nello stesso tempo il Pd cresce nei sondaggi anche perché cannibalizza la sinistra antagonista, dai resti di Rifondazione comunista e i Comunisti italiani a Sinistra e libertà. Dunque rimangono a Bersani e al suo pacchetto di mischia (la presidente Rosy Bindi e il vicesegretario Enrico Letta, autore di una dubbia uscita sulla legittimità di Berlusconi di difendersi 'dal' processo, giustificata a quanto si dice da un presunto suggerimento del Quirinale di mantenere aperto il dialogo sulle riforme) le urgenze più forti. Vale a dire: come si fa a infrangere il gioco di prestigio che ha indotto i poveri e gli impoveriti, cioè le casalinghe da hard discount, i precari licenziati, i cassintegrati, coloro che subiscono gli effetti della crisi economica, all'acquiescenza, alla passività verso il governo Berlusconi.

C'è un problema di alleanze, reso complicato dalla sostanziale incompatibilità fra l'Udc di Casini e l'Idv di Di Pietro. Esiste come problema il rapporto con la piazza 'viola', emerso con la manifestazione romana del No-Berlusconi Day. Ci sono anche questioni chissà quanto gestibili sulla bioetica, la pillola abortiva, il testamento biologico, il fine vita. Ma si avverte specialmente l'assenza di un cuneo politico-culturale che sia in grado di esorcizzare la magia mondana del berlusconismo: non in quanto ideologia secolare e modaiola, happy hour, movida milanese o romana, bensì agglutinamento di interessi non sempre ben identificati ma integrati in una collosità inscindibile.

Con il tempo, il Pd ha smarrito anche una parte consistente del rapporto con il mondo cattolico. Meno di un terzo dei cattolici praticanti vota per il centrosinistra, mentre fra Pdl e Lega, fra i praticanti assidui o saltuari, le preferenze superano di buona lena il 50 per cento. Si è persa insomma la sintesi prodiana, politica, economica, culturale e religiosa. Che possa essere recuperata, è forse la vera e ultima chance del socialdemocratico Bersani.

(10 dicembre 2009)
da espresso.repubblica.it
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« Risposta #70 inserito:: Dicembre 21, 2009, 10:37:49 am »

IL COMMENTO

La pubblicità del Cavaliere

di EDMONDO BERSELLI


Gli ultimi sondaggi sembrano attestare una significativa crescita di consenso di Silvio Berlusconi dopo l'aggressione di Piazza del Duomo (l'indice sarebbe cresciuto di sei-sette punti). I numeri sono la prova provata del successo propagandistico ottenuto dalla campagna del Pdl.

In sintesi, secondo Fabrizio Cicchitto e soci: i nemici del Cavaliere hanno creato un clima di odio, e in questa atmosfera livida si è scatenata la violenza di Massimo Tartaglia. Uno "psicolabile", che però ha riassunto nel suo gesto l'avversione antropologica verso il premier, un sentimento che secondo il sondaggista Renato Mannheimer accomuna il 20-25 per cento del centrosinistra.

L'aspetto pubblicitario di questo argomento è stato immediatamente raccolto ieri nella telefonata del premier ai giovani del Pdl radunati a Verona. Il ragionamento di Berlusconi è stato di una semplicità assoluta. Quando si racconta che il capo del governo non soltanto frequenta minorenni (e prostitute), ma viene additato anche come corruttore, mafioso e stragista, non c'è da stupirsi se certe menti deboli si fanno prendere la mano. Fin qui l'inversione dei fatti e delle responsabilità è vistosa. Le accuse, o almeno le critiche, a Berlusconi non derivano da un "cervello unico della sinistra"; a parlare di minorenni è stata Veronica Lario; di escort un'inchiesta giudiziaria barese; di corruzione di testimoni (il caso Mills) la sentenza di un tribunale, di mafia un pentito nel corso di un processo regolarmente istruito.

Ma ignorare la realtà è una delle migliori specializzazioni del Pdl. Di fronte a ogni contestazione sui fatti, in base a notizie circostanziate, i portavoce della destra rispondono strillando contro i fomentatori di odio e i celebri mandanti morali. Quando in realtà, di fronte a ciò che dicono, che so, Marco Travaglio o Antonio Di Pietro, si tratterebbe solo di capire se è vero o se è falso. Al di là della loro aggressività possono essere smentiti o no? Da parte dei "combattenti" della destra, come Maurizio Lupi e Fabrizio Cicchitto, non si è mai ascoltata una contestazione seria su fatti ed episodi concreti. In questo modo la retorica nazionale sull'odio è diventata un dato di fatto, una specie di incontestata realtà ambientale. E Berlusconi, che ha fabbricato una carriera politica proprio dividendo in due la società italiana e separando i nemici, "i comunisti", dai cittadini per bene, oggi può consentirsi di fare il benevolo padre della patria, augurandosi che "da un male nasca un bene" e che l'odio svanisca dalla politica.
Sarebbe tuttavia un fraintendimento, e grave, pensare che il premier sia cambiato. E che sia cambiata la sua concezione della politica. Vero è che dalla convalescenza di Arcore sfoggia formule di tolleranza volterriana ("Da quest'ultima esperienza dobbiamo essere ancora più convinti di quanto abbiamo praticato fino ad oggi e cioè che sia giusto il nostro modo di considerare gli avversari come persone che la pensano in modo diverso da noi, ma che hanno il diritto di dire tutto ciò che pensano, che noi dobbiamo difenderli per far sì che lo possano dire e che non sono nemici o persone da combattere in ogni modo, ma sono persone da rispettare. Lo facciamo noi con gli altri e ci piacerebbe che lo facessero gli altri nei nostri confronti").

Tuttavia queste sono parole. Dietro ci sono le idee. E le idee di Berlusconi sulla democrazia liberale sono a dir poco singolari. Perché il premier e i suoi uomini sono convinti di poter imporre la loro agenda politica anche all'opposizione. Sarebbe utile formulare un programma di riforme istituzionali per rendere più efficiente lo Stato e più giusta la giustizia? Già, ma per avviare un riforma condivisa il Pd faccia il piacere di liberarsi dall'alleato più ingombrante e vocale, cioè Antonio Di Pietro, ormai demonizzato senza pietà come un eversore. E Pier Luigi Bersani si tolga dai piedi le ultime cianfrusaglie movimentiste, rinunci alle idee "socialiste", e se è il caso abbandoni al loro destino anche gli esponenti più combattivi, i "bolscevichi bianchi" irriducibili al "consenso organizzato" (di brezneviana memoria) come la pasionaria Rosy Bindi.

A suo modo la concezione di Berlusconi è talentuosa, anche se lontana da ogni concezione moderna della democrazia. Il premier sta rivelando ciò che ha sempre pensato, nella sua ormai lunga carriera pubblica. La politica è unica, senza distinzioni fra maggioranza e minoranze. Senza articolazioni culturali, ideologiche e neppure organizzative. Si tratta semplicemente di annettere per corporazioni, o per "caste", i blocchi politici dell'intero spettro rappresentativo. Il resto viene di conseguenza: riforme concesse dall'alto, come le costituzioni nell'Ottocento, per ritagliare giochi di ruolo da attribuire a partiti-simulacro. Una società d'ordini come nell'ancien régime. Retorica epocale su federalismi e autonomie, in modo da nascondere la realtà del comando unificato e dell'opposizione ridotta a flebile strumento di sua Maestà. Una Costituzione aziendale per assecondare il decisionismo post-democratico. E sullo sfondo, insieme con il perdono di Stato per il premier-sovrano da attuare con leggina ad personam, o con inciucio kolossal, ecco infine l'immagine che incombe sul sistema democratico: quella del "partito unico", approvato con elevati sondaggi e un senso di liberazione dall'odio dalla democraticissima e disincantata Italia contemporanea.

© Riproduzione riservata (21 dicembre 2009)
da repubblica.it
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« Risposta #71 inserito:: Gennaio 15, 2010, 03:59:52 pm »

Cosa manca ancora al Pd

di Edmondo Berselli

Con quale proposta politica e culturale Bersani si prepara allo scontro con la destra?
 

Negli ipermercati delle Coop i clienti vanno a caccia di sconti e di prodotti sotto costo. Questo dato commerciale, non appaia un paradosso, è un primo indizio che ci sono due o tre cose da sapere sul Partito democratico, sulla sua condizione sociale, sul suo elettorato.
E in questo senso aiuta molto l'indagine svolta nei primi giorni di dicembre da Ipsos per 'Il Sole 24 Ore'. I dati disponibili risultano impressionanti rispetto alla tradizione: perché dimostrano che il berlusconiano Popolo della libertà ha costruito un blocco sociale apparentemente inscalfibile, e dalle caratteristiche addirittura impensabili. L'alleanza con la Lega rende maggioritaria la destra fra gli operai, i pensionati, i disoccupati, le casalinghe, oltre che ovviamente fra gli imprenditori, i professionisti e i commercianti, e territorialmente nel Sud del Paese.

Non è una novità. La classe operaia era passata a destra già alle elezioni del 2001, sfiorando il 60 per cento. Invece l'insediamento del Pd è molto più circoscritto. Nel Triveneto i consensi fra Pdl, Lega e Pd sono divisi esattamente per tre. Il che significa banalmente che il Pd è pesantemente minoritario in una delle aree trainanti dell'Italia attuale, recessione permettendo.

Se in passato Ilvo Diamanti aveva discusso del rischio che il centrosinistra si confinasse in una specie di "Lega centro", isolata nelle solite regioni postcomuniste, oggi sembra cristallizzarsi anche la stratificazione sociale, con l'aggravante che l'insediamento sociale del Pd tende a fissarsi sui settori tradizionali dell'impiego pubblico, cioè proprio sugli apparati sottoposti al forcing di ministri come Renato Brunetta e di Mariastella Gelmini.

In sostanza, Pier Luigi Bersani deve trovare una formula politica per spezzare l'accerchiamento del Pd. In questo senso, le elezioni regionali di marzo potrebbero essere un appuntamento decisivo. Una disfatta rappresenterebbe il fallimento di un progetto. Una tenuta, anche faticosa, costituirebbe un nuovo punto di partenza.Tuttavia il problema del Pd non è dato soltanto dalle percentuali elettorali e dalla conquista eventuale di una regione in più rispetto alle previsioni più pessimiste. I dati dell'Ipsos mostrano fra l'altro un numero alto di incerti (oltre un terzo del campione), ma offrono anche l'indicazione di un'opportunità politica.

Ma qui c'è il busillis: con quale progetto, proposta politica, programma culturale il Pd bersaniano si prepara allo scontro con la destra? Per ora la diaspora aperta da Francesco Rutelli, con l'accompagnamento di personalità riformiste come Linda Lanzillotta, non sembra avere provocato danni seri; e nello stesso tempo il Pd cresce nei sondaggi anche perché cannibalizza la sinistra antagonista, dai resti di Rifondazione comunista e i Comunisti italiani a Sinistra e libertà. Dunque rimangono a Bersani e al suo pacchetto di mischia (la presidente Rosy Bindi e il vicesegretario Enrico Letta, autore di una dubbia uscita sulla legittimità di Berlusconi di difendersi 'dal' processo, giustificata a quanto si dice da un presunto suggerimento del Quirinale di mantenere aperto il dialogo sulle riforme) le urgenze più forti. Vale a dire: come si fa a infrangere il gioco di prestigio che ha indotto i poveri e gli impoveriti, cioè le casalinghe da hard discount, i precari licenziati, i cassintegrati, coloro che subiscono gli effetti della crisi economica, all'acquiescenza, alla passività verso il governo Berlusconi.

C'è un problema di alleanze, reso complicato dalla sostanziale incompatibilità fra l'Udc di Casini e l'Idv di Di Pietro. Esiste come problema il rapporto con la piazza 'viola', emerso con la manifestazione romana del No-Berlusconi Day. Ci sono anche questioni chissà quanto gestibili sulla bioetica, la pillola abortiva, il testamento biologico, il fine vita. Ma si avverte specialmente l'assenza di un cuneo politico-culturale che sia in grado di esorcizzare la magia mondana del berlusconismo: non in quanto ideologia secolare e modaiola, happy hour, movida milanese o romana, bensì agglutinamento di interessi non sempre ben identificati ma integrati in una collosità inscindibile.

Con il tempo, il Pd ha smarrito anche una parte consistente del rapporto con il mondo cattolico. Meno di un terzo dei cattolici praticanti vota per il centrosinistra, mentre fra Pdl e Lega, fra i praticanti assidui o saltuari, le preferenze superano di buona lena il 50 per cento. Si è persa insomma la sintesi prodiana, politica, economica, culturale e religiosa. Che possa essere recuperata, è forse la vera e ultima chance del socialdemocratico Bersani.

(11 dicembre 2009)
da espresso.repubblica.it
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« Risposta #72 inserito:: Gennaio 22, 2010, 09:52:43 am »

Il peso del voto cattolico

di Edmondo Berselli

Il confronto fra la Bonino e la Polverini in realtà è molto laico, e molto moderno perché coinvolge due donne
 
Come si poteva facilmente immaginare, il malpancismo nel Partito democratico si è manifestato piuttosto alla svelta e investe soprattutto il rapporto con il mondo cattolico. Finora ha riguardato soprattutto segmenti di classe dirigente, fin dal momento in cui Francesco Rutelli (con Lorenzo Dellai e altri) si è staccato dal Pd, "partito mai nato" a suo giudizio, per fondare l'Alleanza per l'Italia, movimentino centrista che ha l'ambizione di spostare gli equilibri politici nazionali.

Ma non ci sono soltanto gli spostamenti nella classe dirigente. Il problema del rapporto con il mondo cattolico investe in realtà tutto l'elettorato, come dimostra la candidatura di Emma Bonino alla Regione Lazio. E qui casca l'asino: cioè si comincia a ragionare effettivamente sul peso del voto cattolico e sul suo rapporto con i cittadini nel loro insieme.

Secondo una visione vecchio stampo, la scelta di una figura laica come quella della Bonino porterebbe a un elemento di disaffezione, con la caduta di una parte del consenso cattolico verso il Pd. Ci sarebbe in sostanza ancora un legame di rito antico, che connette il mondo cattolico alla politica, e che si manifesterebbe con atteggiamenti più o meno classici nei confronti dei protagonisti politici e delle loro culture. In questo senso la scelta di una figura laica, se non proprio laicista, come quella della Bonino potrebbe generare un disagio netto fra gli elettori cattolici.

Può essere. Ma negli ultimi anni l'atteggiamento dei cattolici verso la politica sembra essere cambiato, e notevolmente. Mentre le classi dirigenti continuano a ragionare secondo i vecchi schemi, l'opinione pubblica genericamente cattolica sembra essersi notevolmente secolarizzata. Tende in sostanza a valutare la politica e i protagonisti politici come un mondo a sé stante, che risponde a proprie logiche, senza essere condizionato da principi supremi di carattere etico.

Questo principio di secolarizzazione investe tutto l'arco del cattolicesimo italiano. Può essere deprecato, ma è un fenomeno visibile e registrabile anche in termini sociologici. Ci sono in sostanza ormai due cattolicesimi: uno è quello delle classi dirigenti, che porta con sé il mondo dei valori tradizionali applicabili in politica, e l'altro è il cattolicesimo secolarizzato, convenzionale, che difficilmente trova riferimenti espliciti nella politica.

Per quest'ultimo elettorato, è difficile individuare un chiaro legame fra una cultura di carattere religioso e il comportamento politico-elettorale. Si identifica più facilmente un atteggiamento che è quello dell'elettore generico, che giudica e vota in base alle sue preferenze, scegliendo molto in seguito alle proprie aspettative e ai propri desideri.

Proprio per questo, il confronto fra la Bonino e la Polverini in realtà è molto laico; anzi, molto moderno perché mediatico, in quanto coinvolge due donne. Quindi l'aspetto 'cattolico' risulta piuttosto secondario rispetto al conflitto politico, che al di là del fair play femminile degli inizi, alla fine risulterà piuttosto aspro.

Bene o male che vada, alla fine anche nel Lazio, come in tutta Italia, si voterà infatti scegliendo fra destra e sinistra, fra chi ama Berlusconi e chi lo detesta. In un contesto simile, il laicismo della Bonino è un fattore secondario (sempre ammesso che Emma non la butti sull'abortismo spinto o cose del genere). Il Lazio, come altre regioni strategiche, costituisce una prova politica che può influenzare l'intera tornata elettorale delle regionali. La scelta della Bonino, sempre ammesso che il Pd nel frattempo non cambi idea, è prima di tutto una decisione politica, con il tentativo di trovare una personalità forte, da contrapporre a una candidata attraente su vari fronti come la Polverini.

Quindi il cattolicesimo c'entra poco. Riguarda semmai quegli spezzoni di politica, come l'Udc e i frammenti centristi, che pensano di trarre vantaggio dal legame ideologico e morale con il mondo cattolico. Ma bisogna vedere se questo è un calcolo credibile e realistico. Perché la politica è sempre più laica, secolarizzata, priva di valori ultimi. Vincere in queste condizioni implica una competizione ultra-laica.

(21 gennaio 2010)
da espresso.repubblica.it
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« Risposta #73 inserito:: Febbraio 12, 2010, 02:01:19 pm »

Nel mondo delle favole

di Edmondo Berselli


Dire sonore bugie: è la tecnica da talk show inventata dagli spin doctor del centrodestra. Che funziona
 

Una delle tecniche da talk show inventate dagli spin doctor del centrodestra è semplice e irresistibile: dire sonore bugie. E poi ripeterle. Le bugie sono inconfutabili, anche perché ammutoliscono gli interlocutori; richiederebbero verifiche d'archivio, e in studio non c'è ovviamente né modo né tempo.

Poche settimane fa, all''Infedele' di Gad Lerner, una giovane esponente del Pdl, Francesca Pascale, consigliere provinciale a Napoli dopo una carriera in televisioni locali, ha aperto il suo discorso accusando esplicitamente Rosa Russo Jervolino di avere compiuto brogli alle elezioni comunali di Napoli. Qualche voce si è levata a contestare questa affermazione, priva di ogni prova, Lerner ha puntualizzato, ma dopo qualche minuto la discussione ha naturalmente cambiato segno, e dei brogli della Jervolino non si è più parlato. Per la cronaca, la Jervolino ha querelato, ma prima di una sentenza definitiva passeranno alcuni anni e intanto la signorina Pascale avrà ottenuto il suo scopo. Perché in casi come questo ciò che interessa ai protagonisti non è rivelare qualcosa, uno scandalo, una verità nascosta, ma semplicemente far vibrare un elemento emotivo. Poco importa della verità: importa che l'intera audience venga coinvolta in una vera o falsa entità semantica, che metta nella memoria quella dichiarazione, in modo che al momento buono risuoni ancora nell'intelletto. L'equazione Jervolino uguale brogli. Vera, falsa, mah. Per dire, circola un video della consigliera Pascale in cui quattro ragazze in costume cantano "Se abbassi la mutanda si alza l'auditelle", ma a noi non interessa, ciò che conta sono gli argomenti politici della pidiellina Pascale, se ne ha, a patto che non ripeta a pappagallo la propaganda del centrodestra.

A proposito, basta ascoltare due o tre esponenti del
Pdl per accorgersi che le bugie sono pianificate e costruite con perfetta sapienza. Per fare qualche esempio: "Gli italiani hanno fatto capire che vogliono una giustizia che funzioni". Figurarsi, gli italiani. Diffidare di qualsiasi politico che attribuisce "agli italiani" una volontà generale indiscutibile, e un 'mandato' degli elettori alla politica.

Ancora: "Il peggio è alle spalle. Stiamo uscendo dalla crisi, e in modo migliore rispetto agli altri paesi europei". Questo è uno dei mantra della destra, ma basta controllare con un po' di assiduità i dati de 'la voce.info' per vedere che si tratta di barzellette. Ma, intanto, si è riusciti per esempio a far diventare la giustizia una questione nazionale. In realtà il sistema giudiziario ha soltanto due problemi: uno, la posizione di Silvio Berlusconi; due, l'inefficienza di sistema. Il primo problema è praticamente irrisolvibile perché implica il coinvolgimento della politica, e quindi il dibattito sul legittimo impedimento e il processo breve, con l'opposizione che viene considerata 'giustizialista' se si oppone a stravolgimenti costituzionali. Il secondo, l'inefficienza del sistema giudiziario, coinvolge la funzione dei magistrati, il loro ruolo, le ore lavorate, l'efficacia delle indagini, e non ultimo la gerarchizzazione del lavoro: quindi non si risolve con leggine o provvedimenti parziali. Ma nei talk show conviene raccontare bugie. All'unisono, gli esponenti del Pdl, ripeteranno le loro fole, concordate come sulle veline del Minculpop.

Ma la verità ha l'antipatica tendenza a farsi viva a dispetto delle falsità ufficiali. È sufficiente guardare la realtà dell'andamento industriale per capire che l'ottimismo concordato da ministri e viceministri è una visione di facciata. Le ore di cassa integrazione sono lì a dimostrarlo; le indagini dellaBanca d'Italia dicono che la produzione industriale è in arretrato oggi di cento trimestri; i dati sulla disoccupazione preoccupano, e inquieta la possibilità che la crisi produca altri senza lavoro. Che importa. Ciò che conta è trasmettere visioni ottimistiche. Bugie. Ripeterle con sicurezza, sulla giustizia, sulla Costituzione, sull'economia. Signori, questo è il panglossiano migliore dei mondi possibili. Va tutto per il meglio, anzi, andrebbe tutto per il meglio se non ci fosse un'opposizione irresponsabile, ancora condizionata dai comunisti e dai giustizialisti, e incapace di collaborare. Quindi niente musi lunghi.

Il primo comandamento dice: io credo nelle favole. I restanti comandamenti sono accessori. Credo in ciò che dice il ministro Alfano, il ministro Castelli, in ciò che dicono tutti i bugiardi professionisti che partecipano a 'Ballarò' o a 'Annozero'. Amen.

(11 febbraio 2010)
da espresso.repubblica.it
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« Risposta #74 inserito:: Marzo 06, 2010, 11:38:05 am »

Emma che impresa

di Edmondo Berselli

Quello della Bonino è un salto mortale triplo: mettere insieme strati diversi di cittadinanza e di cultura
 

Per capire che cos'è il berlusconiano Pdl bisogna guardare al formidabile pasticcio combinato a Roma con la mancata presentazione delle liste. Ma anche la campagna elettorale di Renata Polverini non sembra proprio decollata. La sindacalista dell'Ugl è una creatura di Gianfranco Fini, e sembra più che altro un cuneo infilato dentro il Popolo della libertà per recare fastidio intellettuale ai berluscones.

Tutto questo comunque non basta a dare una vera spinta alla candidata di centrosinistra Emma Bonino, che presenta seri problemi e seri problemi potrà avere con il suo elettorato di riferimento. La Bonino è un politico abituato, salvo casi eccezionali, a cifre percentuali fra l'1 e il 2,5 per cento. È una radicale purissima, oro colato, e lo si è visto nel metodo con cui ha aperto la sua campagna pubblica, inaugurando uno sciopero della fame e della sete praticamente inspiegabile ma di pretto stampo radicale: senza aggiungere poi che sullo sfondo politico romano gli elettori del Pd vedevano profilarsi la figura ormai nosferatiana di Marco Pannella, padre padrone dei radicali e sostanziale spauracchio per l'elettorato moderato, che in parte ne apprezzerà teoricamente le battaglie legalitarie molto più di quanto sarà disposto a votare per una coalizione segnata da ombre radicali.

Figurarsi poi, come si è accennato, all'impatto con la Roma più scettica, con il ventre tiepido dell'elettorato tiberino. La Bonino rischia di apparire come una fanatica, una signora un po' fissata con battaglie d'altri tempi, anche se qualcuno forse ricorderà benevolmente le sue buone prove in Europa come commissario. Ma è sufficiente l'allure europea di Emma per darle competitività a Roma?

Il fatto è che per riuscire ad avere qualche chance contro la Polverini, che unisce fighettismo di borgata e coattismo di città, la Bonino dovrebbe abbandonare per qualche settimana le modalità tipicamente radicali del fare politica. Uscire cioè dalla sindrome minoritaria e diventare effettivamente il candidato di tutto il centrosinistra. Si tratta di un'impresa non facile, data anche la struttura della cultura politica dei radicali, che quasi sempre appare inscalfibile. Tuttavia occorre che la Bonino capisca che deve conquistare voti 'generici', non soltanto di tendenza. E quindi presentarsi davvero come il candidato di tutti. Oltretutto Roma è una città difficile, anche senza dire una sola parola sul caso
Marrazzo, e quindi la 'reconquista' si presenta estremamente difficile: un governatore super laico, forse addirittura anticlericale, nella capitale del cattolicesimo, nella città del papa! C'è da immaginare tutta l'ostilità del 'partito romano', cioè della vecchia Roma cinica e baciapile. Non è, questo, un elemento da trascurare. La politica romana è molle e rocciosa, come la vecchia Dc, apparentemente malleabile ma alla lunga resistentissima.

Come si fa allora a scalfire il successo mondano della Polverini e del centrodestra (ammesso che un centrodestra ci sia a Roma)? L'impresa è tutt'altro che facile. In pochi mesi la Polverini ha guadagnato una sua credibilità, quasi tutta basata su fattori extrapolitici: la scollatura, un filo di distanza esibita dalla politica ufficiale, la capacità dialettica di rovesciare la frittata, la partecipazione ai talk show, dove serve soprattutto presenza scenica. Per la Bonino la strada è in salita perché come figura pubblica è più 'vecchia', e rappresenta una politica già vista, molto stagionata. Tuttavia ha qualche possibilità di presentarsi con un'immagine di freschezza, perché non è logorata dalla permanenza nella politica. Eventualmente sono logori i suoi metodi, ma forse non la sua figura. Pier Luigi Bersani sa benissimo che la conquista del Lazio è una delle condizioni strategiche per definire il successo della sua segreteria al Pd. Quindi anche la scelta della Bonino è stata una decisione in parte politica e in parte mediatica.

C'è da augurarsi insomma che la Bonino sappia mobilitare gli elettori laici senza scoraggiare gli elettori cattolici. Deve avvenire una specie di miracolo politico, a questo scopo. D'altra parte il centrosinistra, se vuole proporsi davvero come alternativa politica a Berlusconi, deve coagulare un elettorato molto diversificato. L'esperimento Bonino dovrebbe essere la prova di come si possono mettere insieme strati diversi di cittadinanza e di cultura. È un salto mortale triplo, avvitato e carpiato. Molto dipende da come si comporterà Emma. Ma, come si dice, chi non risica non rosica.

(04 marzo 2010)
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