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« Risposta #45 inserito:: Marzo 09, 2009, 02:17:20 pm » |
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Scomodo reporter
di Edmondo Berselli
Non a tutti piace Riccardo Iacona, l'autore di Presadiretta su Raitre. Il giornalista, accusato spesso di faziosità, ha il pregio di puntare le telecamere su realtà che non si vogliono vedere. A qualcuno non piace il giornalismo di Riccardo Iacona. Troppo unilaterale, addirittura 'fazioso' (come di solito si dice a destra, dove la faziosità è un programma politico e sociale). Ma Iacona è un reporter che ha il pregio di puntare la telecamera sulle realtà che non si vogliono vedere. Da questa prospettiva, le otto puntate di 'Presadiretta' per Raitre (in cui i suoi reportage si alternano a quelli di giovani giornalisti e documentaristi) sono esemplari. Migranti, scuola, lavoro, zingari. Proprio di Rom e Sinti parlava la puntata del 22 febbraio, dedicata alla 'caccia' ai nomadi (che quasi sempre nomadi non sono), in seguito replicata su Raisat Extra.
Ciò che sorprendeva, dell'inchiesta di Iacona, era il confronto tra la situazione romana e le soluzioni di Barcellona. Qui un campo di prefabbricati in estrema periferia, senza nemmeno l'acqua potabile, là un quartiere dignitoso in città. Troppo facile l'accostamento? Può essere. Comunque 'Presadiretta' ha mostrato il caso dei Rom trasferiti dalla comunità in cui vivevano a Roma da decenni a un lager; mentre il servizio dalla Spagna mostrava una condizione civile (gli zingari sono 150 mila in Italia e 750 mila sotto Zapatero: ma se non si risolvono i problemi, qualsiasi numero è un problema).
Troppo facile, allora, fare questi paragoni? Ciò che veniva fuori dalla puntata di 'Presadiretta' era un insegnamento semplicissimo. Le realtà, anche le più controverse, vanno governate. Se si mettono i Rom in un campo all'estrema periferia della Capitale, se si lascia marcire la questione, ci si possono aspettare problemi continui. Per risolverli, si potrebbe abrogare Iacona. Ma non è una soluzione.
(09 marzo 2009) da espresso.repubblica.it
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« Risposta #46 inserito:: Marzo 13, 2009, 03:51:28 pm » |
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Edmondo Berselli
L'illusione al potere
La forza del governo è l'assenza di linea politica. Sostituita da ricette e idee estemporanee. Adesso lo si è capito: Berlusconi e i suoi uomini non rappresentano nessuna ideologia o linea culturale Sarà la consapevolezza per cui è lunghissimo il tempo necessario prima di avere a disposizione una rivincita elettorale. Sarà pure la sensazione che l'opposizione è in difficoltà permanente, perché nulla nuoce alle forze politiche, in questa tarda modernità dove si conta molto o non si conta nulla, più dello stare fuori dal circuito del potere. Ma il sospetto che circola è che la società italiana si stia abituando a Silvio Berlusconi, e al suo stile di governo, ciò che va sotto il nome di berlusconismo.
Adesso lo si è capito: Berlusconi e i suoi uomini non rappresentano nessuna ideologia o linea culturale. Il liberismo sbandierato a lungo è diventato un antiliberismo cauteloso, gestito soprattutto dall'abilità di Giulio Tremonti, un maestro nell'instillare negli altri, alleati e avversari, acuti complessi di inferiorità. In questi ultimi tempi, la statura politica di Tremonti è molto aumentata, la sua capacità di descrivere l'andamento della crisi lo ha reso più credibile, e anche alcuni suoi provvedimenti, come i Tremonti bond, nonostante alcuni limiti tecnici difficilmente comprensibili, legati a un tasso d'interesse troppo elevato per le banche, sono apparsi una risposta significativa alla crisi del credito.
Non conta che le doti predittive del ministro dell'Economia siano state contraddette dalle sue misure empiriche (tipo la tassazione sui sovraprofitti delle banche, la Robin Tax, che ora ha assunto un risvolto grottesco). In questo momento la forza del berlusconismo è rappresentata dalla sua sostanziale assenza di linea politica. Soltanto con sforzi analitici immani sarebbe possibile ricostruire la girandola di provvedimenti veri e presunti che dovrebbero avere movimentato risorse per reagire alla crisi economica.
Tanto per dire, la crisi è stata a lungo negata. Poi minimizzata. Attribuita ai processi "autoavverantisi" della comunicazione globale. Adesso, mentre tutto il mondo cerca soluzioni per fare riprendere la circolazione del sangue nel corpo irrigidito del capitalismo tardomoderno, qui da noi Berlusconi ha lanciato un progetto di sostanziale liberalizzazione dell'edilizia, basato sul principio di buon senso antico secondo cui "quando va bene l'edilizia va bene anche tutto il resto".
Se si tratti di un provvedimento salutare lo diranno gli economisti, e se si tratti di un rischio di totale cementificazione del Paese lo chiariranno gli ambientalisti e i tecnici. Nel frattempo però non può sfuggire l'idea che siamo in presenza di una vera e propria invenzione estemporanea: di quelle idee che si formulano di solito nei bar, dove c'è sempre qualcuno che possiede la formula per risolvere problemi estremamente complessi con soluzioni infinitamente semplici.
Semplici sono le soluzioni di Berlusconi, le formule della Gelmini, le ricette di Brunetta. È probabile che non ne funzionerà neanche una, così come non ha funzionato l'invenzione paternalistica della social card, fallita in una serie di traversie tecniche e demografiche. Ma nello stesso tempo si ha l'impressione che proprio la sostanziale mediocrità operativa del governo e dei ministri risulti ben accetta a una parte consistente dell'opinione pubblica.
Il governo usa infatti la tecnica manzoniana del 'troncare e sopire', addormenta i conflitti, li orienta verso obiettivi facilmente identificabili come la Cgil, rassicura a parole e con il controllo sempre più stretto della televisione. Trasmette un messaggio che dice: "Va tutto quasi bene". Il governo lavora, progetta riforme straordinarie, "e grazie alla deflazione gli italiani hanno nel portafogli qualche euro in più". Poi la crisi diventerà più acuta, le riforme straordinarie risulteranno un papocchio, e la crisi si farà sentire di brutto. Ma a meno di catastrofi sociali non augurabili, il consenso non ne risentirà, perché a Berlusconi è riuscita l'operazione di accorpare intorno al Pdl la vecchia Italia corporativa, che non desidera cambiamenti e anzi li teme.
Per scalzare il consenso del blocco berlusconiano ci vuole una fantasia e una forza politica che il Pd non ha. Detto con parole più ottimistiche: non ha ancora. Ma per risultare minimamente competitivo, il Pd deve formulare un progetto semplice e moderno, capace di mobilitare il consenso dei propri elettori (anche dei delusi, i senza patria, gli esuli, come li ha chiamati Ilvo Diamanti su 'Repubblica') e di parlare a tutto il Paese. Se il centrosinistra non riesce a offrire un'idea alternativa di società, e un'idea convincente, Berlusconi vincerà sempre a mani basse. Perché a sinistra si è sempre scommesso sull'esistenza possibile di un'Italia migliore. Mentre ogni giorno che passa Berlusconi dice agli italiani: "Lo vedete, sono uno di voi".
(12 marzo 2009) da espresso.repubblica.it
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« Risposta #47 inserito:: Marzo 21, 2009, 11:58:34 am » |
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S'io fossi Littizzetto
di Edmondo Berselli
L'ex "material girl" nelle sue ultime apparizioni televisive ci è apparsa un po' ripetitiva. Urge un rinnovamento del suo repertorio Vista la puntata di 'Che tempo che fa' dell'8 marzo, dedicata a Luciana Littizzetto. Per lo scrivente era quasi un obbligo, perché siamo stati noi de 'L'espresso' a sdoganare sul fronte culturale la madamina, ai tempi del primo libro che avrebbe dato il via alla coltivazione di titoli su sedani, cavoli e piselli.
Ebbene: noi abbiamo un'adorazione, e anche qualcosa di più audace, per lei; ma lei, madama Littizzetto, sta battendo in testa. È diventata ripetitiva. Tutta una puntata a ridire che gli uomini farebbero bene a lavarsi i piedi, che ce l'hanno corto o credono di averlo corto (il che è lo stesso), e via ribadendo.
Fabio Fazio aveva la faccia professionale di chi è costretto a risentire per l'ennesima volta la solfa. Quindi, dovremmo consigliare alla formidabile Littizzetto un certo rinnovamento del repertorio. Perché prima era una ragazzaccia sboccata, fisica, 'material girl' nel vero senso del termine, con una comicità davvero 'slapstick' (in Italia non c'è quasi nessuno capace di farla: solo lei e Corrado Guzzanti).
Adesso sembra la parodia di una suocerina. Triste, diventare suocere prima di essere state mogli. Tuttavia il programma è stato riscattato dall'irruzione finale di Daniele Liotti, Massimo Ghini e Riccardo Scamarcio, che hanno celebrato la Littizzetto reinterpretando il celeberrimo 'S'i' fosse foco' di Cecco Angiolieri.
Una performance tutta scritta, in crescendo, sempre al confine con la volgarità senza mai cadervi: "S'io fossi di Trapani... ti trapanerei! S'io fossi di Chiavari", pausa, e ancora pausa, "ti... sorprenderei!". Un pezzo di televisione da antologia, una di quelle prove d'autore e d'attore che avvengono sì e no ogni dieci anni.
(20 marzo 2009) da espresso.repubblica.it
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« Risposta #48 inserito:: Marzo 24, 2009, 10:43:23 am » |
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SPETTACOLI & CULTURA L'ANALISI
Democrazia elettronica Un falso mito
di EDMONDO BERSELLI
Impossibile resistere al successo in tv sancito dall'unzione del popolo. Alla preferenza guadagnata a furor di messaggini. Alla vittoria guadagnata con il televoto. Cioè a qualcosa che perfeziona e intensifica i dati dell'Auditel: perché con gli sms e le telefonate, i protagonisti delle serate televisive diventano a tutti gli effetti figure pubbliche, anzi, "quasi politiche". Una volta, la gran fabbrica del surrogato elettorale era la lotteria di Capodanno, ai tempi di Canzonissima: "Votate, votate, votate". Adesso chi accende i dibattiti famigliari è l'ultimo erede dei Savoia, Emanuele Filiberto, che ottiene un plebiscito a Ballando con le stelle, riscattando a passi di danza il referendum del 1946.
Oppure si discute del piccolo tamburino sardo, Marco Carta, che sbanca Sanremo grazie al consenso telefonico delle platee giovanili, spazzando via così il vecchiume del Festival. Non sfuggono a questa logica i divi per una stagione del Grande Fratello, che trasformano la loro casa-reclusorio in una permanente violazione della privacy, e quindi portano nella dimensione pubblica, da sottoporre al giudizio degli spettatori, qualsiasi inezia privata, le piccole trame quotidiane, le antipatie personali, i flirt estemporanei. Volendo, si può aggiungere anche il caso vistoso della fiction di RaiUno su Giuseppe Di Vittorio, fatta a pezzi dalla critica e santificata dall'audience: con la conclusione obbligata che, se i numeri hanno sempre ragione, anche Di Vittorio può avere a posteriori una chance politica, e quindi bisognerà spiegarlo per bene a Epifani e a Franceschini.
E dire che in passato i dati del gradimento televisivo venivano considerati pura entropia del consenso: secondo il teorico dell'homo videns Giovanni Sartori, c'è una caduta tendenziale del saggio di intelletto, per cui la televisione deve continuamente abbassare la qualità per alzare la quantità di spettatori. Il dilemma democratico si fa allora cruciale: come potrebbe dire Luciano Canfora (vedi il suo ultimo libro, La natura del potere, edito da Laterza, secondo cui la democrazia elettorale potrebbe essere una finzione che traveste e mistifica i luoghi del potere vero), i soggetti pubblici che televotiamo sono pallidi fantasmi, irrilevanti silhouette della società dello spettacolo.
Ciò che conta è la complessa sacralità del Sistema televisivo, che produce a getto continuo figure e figuri da sottoporre alla prova del voto. Oppure, in modo meno totalizzante, l'essenza dell'iperdemocrazia televisiva risiede nella dichiarazione immediata di voto, con il consenso che si fissa per mezzo di operazioni elementari attraverso il cellulare. Sono momenti assoluti, irripetibili quanto gratuiti, di una bruciante democrazia elettronica, non troppo diversa dai sondaggi elettorali o dalle indagini di mercato; e anzi forse più evoluta, perché affidata interamente all'iniziativa dei singoli, all'sms che si forma sul display, a un capriccioso clic sul computer.
Dovrebbe risultare chiaro che alla fine si tratta di tecniche per colmare il vuoto spalancatosi nello spazio pubblico, per abbattere l'ansia politica, e anche per cercare un'opportunità di partecipazione vicaria: qualcosa di simile all'iscriversi a un gruppo di discussione su Facebook, non importa se di adoratori della fiction su Di Vittorio o di pensosi cultori del Nero di Avola. Quel che conta è dichiarare qualcosa di sé, aderire, ma anche sabotare, dichiararsi pro o contro, comunque esserci e farsi vedere.
Per questo, anche Emanuele Filiberto, va preso sul serio. È vero che come potenziale candidato del centrodestra e in passato ideatore di ondivaghi partiti politici, ma soprattutto come colui che in solido con il padre chiese 260 milioni di euro come risarcimento alla Repubblica italiana per i 54 anni di esilio dei Savoia, era privo di qualsiasi credibilità; tuttavia ridiventa subito più che credibile, unto dal televoto, non appena l'audience lo designa protagonista di un'epica domestica, ballerino provetto, cocco di una commossa Milly Carlucci, irresistibile trait-d'union fra l'Europa sussiegosa dei clan d'affari e l'atmosfera sudata e allegra delle balere televisive.
Certo che passare dal filosofo Tocqueville, che paventava la tirannia della maggioranza, alla dittatura del televoto, rappresenta una transizione piuttosto radicale. Tuttavia l'evoluzione risulta anche essenziale per osservare come il consenso politico tende a secolarizzarsi e a trasformarsi in puro indice di gradimento. Con il televoto il gusto si esprime senza filtri. Si riconosce nei protagonisti che ballano, cantano, litigano. La società si mostra per quello che è.
E allora, se si presenta un filosofo o qualcuno della prima Repubblica che pretende di spiegare come la democrazia sia una faccenda di mediazioni, basta cambiare alla svelta canale, e passare al prossimo televoto.
(24 marzo 2009) da repubblica.it
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« Risposta #49 inserito:: Aprile 08, 2009, 10:03:24 am » |
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Edmondo Berselli.
L'incognita referendum
Il voto sulla legge elettorale apre un varco nel neonato Pdl. E al Pd conviene far leva su questa divisione Silvio BerlusconiSecondo Silvio Berlusconi, ormai il Pdl è un congegno perfetto. Anzi, più che perfetto, una macchina infallibile per creare consenso. Giunto all'ultimo giorno del congresso di fondazione, ha dichiarato che i sondaggi danno il nuovo partito ormai al 44, forse al 45 per cento. E che l'obiettivo della nuova formazione politica, "il partito degli italiani", consiste nel guardare con audacia, anzi con la "lucida follia erasmiana" che il Cavaliere si è intestato, alla soglia del 51 per cento, la maggioranza assoluta.
Forse queste dichiarazioni rappresentano una specie di guerra preventiva. Contro chi? Ma contro la Lega, naturalmente, nonostante tutte le rassicurazioni sull'amicizia con Umberto Bossi. Nel momento in cui con le parole del suo capo il Pdl si qualifica come "partito degli italiani", tutto ciò che resta fuori dal suo perimetro, quindi non soltanto il Pdl e la sinistra, sono ridotti a una preoccupante opacità.
Sono tutti problemi risolvibili con la solita politica delle pacche sulle spalle, delle dichiarazioni di amicizia sempiterna e delle pizze notturne insieme? Può essere, ma poi c'è una questione piuttosto seria, ufficiale, concreta, che si prospetta come un ostacolo difficilmente aggirabile: si tratta naturalmente del referendum Segni-Guzzetta (che comporta l'assegnazione del premio di maggioranza alla lista, non alla coalizione, che prende più voti). Perché mettiamo il caso che il referendum facesse il quorum, e venisse approvato; in questo caso il Pdl potrebbe diventare autosufficiente e rendere così superflua l'alleanza con la Lega. Se per evitare questa ipotesi Bossi decidesse di fare cadere il governo, come è già stato ventilato, Berlusconi potrebbe agitare davanti al popolo italiano il vessillo del 51 per cento e correre da solo.
Naturalmente questa è un'ipotesi ancora molto teorica, e da questo punto di vista ha avuto ragione Dario Franceschini a insistere sull'election day del referendum con le europee e le amministrative: non soltanto per ragioni di risparmio, quei 400 milioni di euro che gridano vendetta in tempi di crisi economica, ma perché in questo modo il referendum sulla legge elettorale potrebbe diventare un inciampo sul cammino della coalizione di destra.
Il referendum diventerebbe infatti un affare molto spinoso per la maggioranza. In primo luogo per la semplice ragione che non si vede come gli ex esponenti di An potrebbero evitare di impegnarsi su un referendum che avevano promosso (Gianni Alemanno ha già spiegato che sarebbe sbagliato tirarsi indietro). Va da sé che ci sono infinite diplomazie possibili, ma c'è anche un limite al ridicolo e al numero delle facce da esibire a seconda delle stagioni: è difficile sostenere a lungo che il Porcellum è una legge elettorale sbagliata, dare appoggio all'iniziativa referendaria e poi ritirare le corna dentro il guscio come lumachine prudenti.
Insomma c'è di mezzo anche un po' di dignità politica. Sarà interessante vedere come la destra proverà a sciogliere questo nodo. Specialmente come lo affronteranno Berlusconi e gli uomini a lui più vicini. Nei momenti critici l'attuale premier è sempre riuscito a inventare soluzioni funamboliche. Questa volta, tuttavia, il compito è più difficile del preventivato. A impegnarsi per l'astensione entrerebbe in attrito con gli ex An; a cavalcare il referendum si scontrerebbe con la Lega; fare il pesce in barile non conviene al grande Conducator. E quindi è un compito dell'opposizione cercare di valorizzare le contraddizioni implicite nell'alleanza di destra.
Non è ben chiaro se il Pd abbia una vera convenienza a scegliere di appoggiare il referendum. Ma intanto ha un interesse serio a cercare di liquidare la legge Calderoli: la sconfitta diWalter Veltroni nel 2008 è avvenuta anche perché l'allora leader del Pd ha giocato concettualmente una partita con il maggioritario mentre gli avversari disputavano il match con il proporzionale.
Dunque conviene darci dentro. Il Pd non ha da perdere che le sue catene. Il dito nell'occhio alla sinistra antagonista l'ha già messo con l'approvazione dello sbarramento del 4 per cento nella formula elettorale per le europee. E allora tanto vale tirare un po' di peperoncino in un sistema elettorale approvato per avvelenare i pozzi alla fine della legislatura berlusconiana (2001-2006), per impedire all'Unione di governare, e che ha sempre favorito la destra. Altrimenti bisogna aspettare che la "stagione costituente" la apra Gianfranco Fini, e che arrivi in proposito il beneplacito di Berlusconi, che D'Alema convinca i diffidenti, e che Di Pietro non gridi all'inciucio. Troppe condizioni, troppe riserve mentali e politiche. Alla fine, meglio un bel calcio alla scacchiera.
(03 aprile 2009) da espresso.repubblica.it
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« Risposta #50 inserito:: Aprile 25, 2009, 10:07:02 am » |
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Edmondo Berselli
Il paese normale
Il berlusconismo normalizzato mette ai margini tutti gli altri. Sono out quelli che si indignano, i fissati che vedono la mafia nella economia. L'irrealtà rischiamo di essere noi Sarebbe meglio accorgersi alla svelta di un fenomeno insidioso, cioè di una fase diversa del berlusconismo. Complice l'emergenza, complice il terremoto, complice la crisi economica, complice la fragilità delle opposizioni a cominciare dal Pd, la società italiana si sta abituando a Berlusconi. Già. L'Italia 'normale' è quella di Berlusconi, azione di governo e decisioni rapide. Efficaci? Boh. Eppur presenzia. Andrà alla celebrazione del 25 aprile, per la prima volta. Critica con sufficienza padronale la lottizzazione patrimoniale dell'informazione Rai, alza le spalle davanti alle accuse di fare le nomine a casa sua ("Lo faccio per risparmiare allo Stato le telefonate private"; "E prima dove li facevano, questi vertici?"). Si propone come il vero depositario del buonsenso in un paese infestato da untori fanatici.
Insomma dopo il presidente donnino, il presidente operaio, l'unto del Signore, quello dell'amaro calice, ecco finalmente il Presidente Italiano, somma o meglio sintesi della medietà nazionale. Berlusconi iperbole dell'italiano medio, e anche dell'italiana media, per virtù seduttiva innata. "Avesse una puntina di tette", diceva infatti Enzo Biagi, "farebbe anche l'annunciatrice": la battuta è antica, ma quando una battuta diventa verità e rafforza ogni giorno se stessa diventa un dato genetico, una rivelazione, una totale verità.
Il fatto è che non siamo ancora all'appeasement con il capo del Pdl, dopo 15 anni di strattonamenti, a corpo a corpo, lotte e attacchi, risate e dissimulazioni, menzogne e ipocrisie. La pacificazione semmai l'hanno fatta gli establishment e le corporazioni, con l'Alitalia e i benefici fiscali via tolleranza all'evasione. Tuttavia la società nel suo complesso, anche se non ha fatto la pace, comincia ad abituarsi. Ad assuefarsi. Vabbè, non è un governo di prima classe, è fatto di personalità trovaticce, i risultati sono dubbi, le invenzioni estemporanee superano del tutto i progetti, c'è molto più potere che amministrazione, erano liberisti e sono diventati protezionisti o chissà che cosa, la politica sull'immigrazione è catastrofica e la sicurezza lasciamo perdere, erano liberali e sono diventati ratzingeriani.
Ma, si dà il caso, è l'unico governo che c'è. Le alternative non si vedono (l'ultima alternativa ce la siamo giocata con il biennio di governo caotico 2006-2008 e con la 'vocazione maggioritaria'). E quindi sarà bene capire che l'assuefazione generale a Berlusconi e al berlusconismo è una questione politicamente scivolosa. Non per confermare quelle certezze antropologiche dei grandi scettici e cinici alla Longanesi, quelli che hanno sempre sostenuto che il popolo italiano è una corte di conformisti e servi, pronti a seguire il padrone di turno. Tutte storie. Il paese si è addormentato per una quantità di motivi, dalla perdita delle culture, dal degrado della vita civile, dal disastro dei processi di formazione, fino alla sostanziale abdicazione civile della sua classe dirigente e dei suoi clan, come anche per l'ipnosi profonda prodotta dalle reti televisive Mediaset e controllate e quindi l'atomizzazione in una individualità implosa.
Sì, sarà la risposta, ma non è tutto così: al margine del berlusconismo e dei suoi officianti, fuori dalla pappa delle soubrette e dei terzini, delle rifatte e dei palestrati, dei cocainomani sociali e dei talent show, c'è ancora un'Italia civile e civica che tiene. Ancora piena di passioni, con accenni di impegno, rivolta a temi solidali. Non illudiamoci. È l'Italia dello spazio esterno. Fuori dai confini del reale. Fuori dalla foto. I famosi ceti medi riflessivi. Quelli che prima di consumare ci pensano, quelli biologici e ambientali. Quelli che credono ancora nei contratti collettivi. Quelli che si fermano con il giallo, che rispettano le regole, magari anche quelle non scritte, e che ancora pensano ci sia in prospettiva un'Italia moderna e ispirata a una simpatia per gli altri, i meno privilegiati, quelli che ce la fanno a stento o non ce la fanno più.
Ecco, potrebbe sembrare un moralismo babbione, e si potrebbe finire tutto questo con l'esecrazione dei telefonini e di Facebook. Ma non è questo il senso: il berlusconismo normalizzato mette ai margini tutti gli altri. Chi resta fuori è qualcuno che ulula alla luna. Sono out quelli che si indignano, i fissati che vedono le infliltrazioni mafiose nell'economia, coloro a cui continua a sembrare inconcepibile una democrazia che non sia contendibile, quelli che si attaccano alla Costituzione. In questo modo, la realtà è Berlusconi. L'irrealtà rischiamo di essere noi. Se non ce ne rendiamo conto, siamo destinati a danzare nel vuoto, pallide figure di un mondo che non c'è più.
(24 aprile 2009) da espresso.repubblica.it
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« Risposta #51 inserito:: Aprile 25, 2009, 10:13:09 am » |
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Edmondo Berselli.
Annozero voto zero
La trasmissione di Santoro inizia a perdere smalto: stucchevole il confronto tra l'avvocato Ghedini e Antonio Di Pietro nell'ultima puntata e deludente anche la performance di Sabina Guzzanti Dunque, il re fa il mattocchio e cacciano il giullare. Secondo i critici di destra Santoro aggiunge danni al terremoto, e allora ostracizzano Vauro. Quindi puntata di 'riparazione', con Michele che prende tutti in giro e vince l'auditel a mani basse.
Purtroppo 'Annozero' ha i suoi problemi. Bene Travaglio che recita pezzi di cronaca dedicati a Berlusconi marcando una tipica retorica da Ventennio; purtroppo in studio c'è l'avvocato Ghedini, un sofista, il quale si straccia le vesti perché così facendo si offendono Bertolaso e Letta, due monumenti che il mondo c'invidia, e questo non sta bene.
Filmati, crepe dall'Aquila, condomini fatti con materiali di scarto, donne amareggiate: ma il clou dovrebbe essere un confronto fra il suddetto avvocato Ghedini, difensore del piano casa di Berlusconi, e Antonio di Pietro. Ne viene fuori un minuto di orrore, con i due protagonisti che parlano insieme urlando senza che si capisca un benamato accidente. Alla fine il pubblico, non sapendo che fare, applaude.
Poi vignette di Vauro in diretta telefonica, le solite robe di giovani ad 'Annozero', e l'atteso show di Sabina Guzzanti che in veste di giudice meridionale conduce una requisitoria contro l'orrendo Vauro. La prestazione lascia raggelato il pubblico; non un applauso, non una risata in tutto il piccolo show.
Alla fine un tipo che ha guadagnato notorietà perché rifiuta i contributi di solidarietà agli abruzzesi, dato che paga le tasse e non ha colpa del cinquantennio precedente, conclude a urla: bisognerebbe sospendere per un anno lo stipendio ai parlamentari. Il civilissimo e progressista, nonché consapevole e antipopulista, pubblico di Santoro, erompe in un'ovazione.
Ma dai: voto zero.
(24 aprile 2009) da espresso.repubblica.it
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« Risposta #52 inserito:: Maggio 08, 2009, 11:45:09 pm » |
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Super Silvio show
di Edmondo Berselli
Ci mancava il divorzio del Capo nel circo di Berluscolandia. Il clou di quello che è diventato il reality più amato dagli italiani. Che ha per protagonista assoluto il premier. E come spettatori un intero paese Finisce, se poi finisce davvero, la storia estrema del berlusconismo punto 1: il computer italiano si resetta, e il nuovo codice di Matrix, opportunamente 'reloaded', proietta sulla Penisola un nuovo pirotecnico game show patrimoniale. Cioè il "sultanato", "la peggiore delle corti", come illustra nell'ultimo libro Giovanni Sartori, il politologo che dal canto suo si sarebbe accontentato di scorticare l'homo videns, cioè il golem sociale creato da Berlusconi. E una sorta di nuovo 'Truman Show' per la vittima designata, Veronica Lario, messa al centro di un reality lapidatorio. Platee immense e irriflesse per una Weltanschauung televisiva fatta di curve e Wonderbra, cioè più prosaicamente tette e culi, come ebbe a riscontrare nel 1994 lo scrittore cattolico Vittorio Messori a proposito delle reti Fininvest,'per cui Dio non è neanche un'ipotesi'.
Dietro questo epos scatenatosi nella politica e nella società post-italiana, c'è una narrazione totale, un'opera mondo che non è diventata romanzo autentico, rispecchiamento totale e ottocentesco di un'epoca, perché esisteva bensì il protagonista, figurarsi, addirittura il deus ex machina, ma non il narratore. C'era il balzacchismo, ma non c'è Balzac. I 'Demoni' senza Dostoëvskij. Proust senza madeleine e le nevi d'antan. E da anni nemmeno l'anarchismo borghese di Indro Montanelli, cronista ed esorcista di Sua Emittenza.
Il circo di Berluscolandia ha frullato dentro di sé ogni lembo di pelle della creati vità secolarizzata; e magari la sorpresa è che la Cei se ne sia accorta con quindici anni di ritardo, dopo le mille evoluzioni del pensiero "mettiamolo alla prova", fra i progettini culturali di Camillo Ruini e gli interessi di una gerarchia a storia azzerata, piena di unzione per l'Unto, e convinta di trarne benefici, sui soldi, sulle scuole cattoliche, addirittura sull'"etica" e i "valori". Adesso 'Avvenire' reclama sobrietà, cioè più o meno chiudere gli studi tv a vacche scappate. E il Cavaliere si preoccupa delle ricadute elettorali, perché un divorzio molto d'autore, spettacolare e mediatico, potrebbe scalfire il fantastico 75 per cento di popolarità, "tre italiani su quattro che mi approvano", e si identificano con la sua italianità al cubo.
'Non perderò il voto dei cattolici alle europee', giura a dispetto di tremolanti sondaggi laici e malumori vaticani, e per questo deve trascinare "la signora" in una pochade disordinata, in uno scambio di slealtà politiche e morali, dentro una macchinazione ordita da 'la Repubblica', e via alla caccia al "sobillatore", nonché dalla stampa di sinistra che non regge il suo trionfo travolgente. Lei, l'unicum Veronica, era emersa splendente 15 anni fa nella notte della reggia di Caserta, allorché Silvio ammicca alla luna, e a Bill e a Hillary Clinton, "attenzione che qui si aumenta la prole": la steineriana, la pacifista, la pannelliana, l'irenica, l'appenninica, la ragazza di sinistra, l'epicentro new age di un circuito femminile molto attento al 'genere' e ai suoi riti culturali, poteva soltanto inorridire davanti alla volgarità del piccoletto superdotato al meeting in formato 'world' (naturalmente non era ancora nato il Sarkoberlusconismo, con gli amori da Eliseo fra il leader francese e la diva Carlà, e un circuito erotico mondano assai più chic delle feste sarde, finti vulcani rinascimentali compresi).
D'altronde, era prevedibile che un tipo con l'energia mentale di Berlusconi fosse chiamato a squinternare un intero mondo. La 'robba' alle spalle, gli affari al sicuro a dispetto delle vecchie irrisioni di D'Alema, il tutor Confalonieri a presidiare il trust, e il Parlamento a tutelare il conflitto d'interessi. Davanti a sé una politica da inventare giorno per giorno, prima con i professori d'area, come i Pera, i Melograni, e poi con l'invenzione quotidiana e siderale, il cortocircuito postfascista, lo scoperchiamento del vaso di Pandora dell'anticomunismo, a comunismo liquidato, il meno tasse per tutti, il tremontismo, il brunettismo, i "socialisti di Forza Italia", il predellino in San Babila, il filo egemonico del 51 per cento per il Popolo della libertà. Già, ma non c'era traccia della Camelot di Kennedy e Jacqueline, fra Macherio e Arcore.
C'erano storie brianzole e napoleoniche di mausolei di famiglia: "Indro, vuoi favorire? Per me sarebbe un onore" (rapida toccata tombale di zebedei dell'altissimo giornalista), gli attentati carineria dello stalliere Mangano, "dal suo punto di vista un eroe", s'intende per i silenzi. E soprattutto divagazioni virili come lo storico jogging alle Bermuda, con la squadra di Dell'Utri e di Gianni Letta tutta schierata in ordine di corsa, e a Roma l'altro eroe Cesare Previti e i giudici sotto pressione, i circoli, l'Aniene, i Canottieri, via del Plebiscito, via dell'Anima, le vie di un potere che si fa metafisica. In questa realtà politica privatizzata, "la signora', forse già allora sventurata vittima di cattivi consigli e furbizie da sinistra, faticava a trovare una funzione. Non first lady, non Second Life, non interprete intellettuale, se non quando scrive di pace per 'Micro- Mega', e fino a quando si infuria e invade il giornale nemico 'la Repubblica' con la sua lettera lamento per essere divenuta "la metà di niente".
'Tendenza Veronica', scrive la sua amica Maria Latella, affidandola idealmente a un vettore di reincarnazioni, insomma un karma politico-esistenziale, che la seconda moglie del Cavaliere non sembra in grado di seguire, schiacciata dalle trovate mozzafiato di un vecchio istrione, che dopo i mignottismi con le starlet le si presenta in Marocco, bardato da beduino, a farsi perdonare con il brillante donato nel corso di una ondeggiante danza berbera, genere Silviò le Mokò. Perché nel frattempo il marito, quello delle zie suore, il cattolico che si disanima perché la Chiesa non gli lascerebbe fare la comunione e partecipare all'Ecclesia, è decollato, ha dato del kapò a Martin Schultz all'Europarlamento, fra i "turisti della democrazia', ha inflitto le corna allo spagnolo nella photo opportunity, offende le ministre straniere a pranzo ghignando "ma perché non parliamo un po' di calcio e di donne?", e affonda: "Comincia tu, Schröder, che di matrimoni ne hai avuti".
L'impostatissimo cancelliere tedesco vacilla, così come aveva barcollato ignaro il Rasmussen eletto a miglior rivale di Massimo Cacciari, professione amante filosofico di Veronica ("Sapete quel che si dice, no, povera donna?"); così come aveva piegato il ginocchio la premier finlandese, 'corteggiata' per l'autorità alimentare europea, e quante proteste dallo staff di Helsinki, gente fredda, gente povera di spirito. Forse un tratto di umanità familiare e domestica poteva in effetti venire fuori dagli incontri internazionali di loisir, con Tony e Cherie Blair dopo il trapianto a Ferrara e con la bandana da 'Pirati' di Roman Polansky. Ma oltre alla filibusta si era profilato lo spettro della guerra in Iraq, con Wojtyla che gli aveva inveito contro. E non era stato di gran classe l'incontro con l'amico Putin e il Bagaglino reclutato per l'occasione, non la visione delle sequenze del 'Caimano' di Nanni Moretti ("Un film orrendo") con gli ultimi incendi che bruciano i resti di una democrazia istituzionalmente scalcagnata e ormai, nell'allegoria cinematografica, visibilmente eversiva.L'ultima curvatura della tendenza Veronica, a parte le faccende di avvocati e di soldi, consiste nel suo rifiuto a rivelarsi per quello che il Cavaliere ha confessato con i gesti da tempo: ossia che Lui evidentemente si credeva di avere la moglie giovane, e si è ritrovato fra le ville una suocera, inselvatichita dal risentimento, insofferente delle zingarate notturne ed elettorali del vecchio complice. Figurarsi, lui due ore in discoteca alle tre di notte per dimostrare ai giovani di essere in tiro. L'irruzione nella vecchia sezione romana ex Pci per vedere dal vivo le mummie del comunismo capitolino diventate democratiche.
Il "ciarpame senza pudore" delle candidature velinonze alle elezioni europee, secondo'la solita trappola della sinistra e lei c'è cascata, e adesso dovrà ammettere l'errore'. La nottata a Casoria di 'Papi' con Noemi, "sia chiaro che non frequento minorenni', però fra un raid e l'altro nel sottosviluppo metropolitano, con relativa dispersione psicologica negli ambigui hinterland del consenso? Ma era già successo tutto già da qualche settimana, e da qualche anno: il mondo di Berlusconi era esploso in un fuoco artificiale di quelli da festa a Porto Cervo. Dopo il tragico esordio del G8 di Genova, più tardi la sindrome diplomatica di Pratica di Mare, ballon d'essai della politica estera fatta con il compensato, era diventata ammirazione compunta per i muscoletti afro di Condoleezza Rice e i bianchi glutei palestrati di George Bush. Il suo consigliere Giuliano Ferrara, con il giornale finanziato da Veronica, ha sempre sostenuto che Berlusconi è un singolare misto di buonsenso esplosivo e di esasperazioni pop. Che sia un'icona a scoppio, è indubbio.
Che Veronica abbia avuto la desolante sensazione di essere ormai fuori dalla realtà vivibile, nello spazio esterno dominato dalle cyberpassioni di un misirizzi atomico, l'atletico sciancato di Vicenza, il tarantolato del sisma, il "tumorato di Dio" come lo chiamò Gianni Baget Bozzo, il 'teghnico' del Milan a due punte, anche questa è una certezza. E ci mancava, dopo il presidente operaio, e il presidente spazzino a Napoli, ci mancava, per lo sfondamento finale, il terremoto e il presidente partigiano, con le insegne della brigata Maiella. Ma no, neppure questo bastava: si era dovuta vedere la scena da italiano vero con Angela Merkel, l'indice puntato sul cellulare per segnalare la telefonata ultimativa al premier turco Erdogan, fino alla stoccata vociante al cospetto della regina Elisabetta,'Mr Obamaaa? I'm Mr Berlusconi?".
Adesso succederà l'inevitabile, come annunciato nelle intervistine confidenziali del premier ai direttori del 'Corriere' e della 'Stampa', Ferruccio de Bortoli e Mario Calabresi, con storielle e moniti che attengono al campo delle solidarietà virili e alle avvocatesche minacciosità matrimoniali, ribadite a Bruno Vespa. "Veronica dovrà chiedere scusa".
Va da sé che questa Dynasty incattivita non terminerà come nella 'Guerra dei Roses'. Ma comunque finisca, c'è poco da fare, il Berlusconi-Lario 'reloaded', storia privata esposta clamorosamente in pubblico con tecniche da Partido rivolucionario institucional, ha tutta l'aria di avere fatto girare random il software nazionale e l'aria italiana, facendo risuonare nei cieli armoniche e amori di contrabbando: in un clima da faccia triste dell'America, di uno strazio firmato Enzo Jannacci che inevitabilmente si chiama e si chiamerà per sempre, nel nome di un kitsch tutto latino e casinista, 'Messico e nuvole'.
(07 maggio 2009) da espresso.repubblica.it
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« Risposta #53 inserito:: Maggio 17, 2009, 12:02:48 am » |
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Edmondo Berselli
Berlusconi modello Haider
Il suo no alla società multietnica rilancia pulsioni prepolitiche per un consenso egemonico sul terreno culturale
L?annuncio di Silvio Berlusconi «No alla società multietnica» rischia di essere un autentico manifesto culturale per l?Italia di destra. Il capo del Popolo della libertà non fa nulla per nulla. Ogni sua misura politica è funzionale a un disegno di ricomposizione sociale e ideologica. E oggi si ha l?impressione che l?intento berlusconiano sia quello di rendere più compatta la fusione tra le componenti della destra.
Ha scarse possibilità di venire a patti con le frange finiane di An, in cui il presidente della Camera raccoglie sensibilità radicalconservatrici e nello stesso tempo modernizzanti, secondo una prospettiva ispirata a moduli di ispirazione all?incirca francese. Berlusconi invece ha bisogno di riunire in un quadro concettuale pulsioni esplicitamente italiane, nazionali, domestiche, con l?obiettivo di realizzare davvero il Partito degli italiani, quello del 51 per cento.
Per riuscirci, non ha bisogno affatto di modernità. Nel Centro del paese ha più che altro la necessità di stringere i bulloni del potere con i suoi uomini, assicurando l?opinione pubblica che non tanto il governo conta (il governo è in realtà una tellurica parata di annunci e di presenzialismi), quanto l?amministrazione del potere, attraverso la fitta genia dei Martusciello locali.
Nel Sud, conta la capacità di stringere cartelli di clientele, sempre sismici organizzativamente, sottoposti alle manovre di uomini come Raffaele Lombardo, ma comunque gestibili perché anche i ?clientes? sono sensibili agli assetti di lungo periodo, soprattutto dove il territorio politico e il consenso sono presidiati con efficace pressione persuasiva. La questione, come sempre, nasce al Nord, perché nelle regioni settentrionali il faccia a faccia con la Lega è evidente: Bossi e Berlusconi sono nello stesso tempo alleati e rivali, competitivi su elettorati analoghi, gelosi della propria qualificazione identitaria.
Per questo il proclama di Berlusconi, con quel ?no? così enfatico alla società multietnica, ha dettato il senso di un implicito manifesto ideologico. È presto per definire una sorta di ? heiderizzazione? del premier. Ma non è affatto prematuro vedere nell?azione berlusconiana le premesse per una svolta netta. Lo hanno colto segmenti del mondo ecclesiastico, le organizzazioni di volontariato, frange vaticane, i cattolici con la barba e il mal di pancia politico. La popolarità di Berlusconi, tutta da verificare sul piano empirico-elettorale, e sul terreno dell?efficienza governativa, è tuttavia impressionante nella capacità di fabbricare un composto di consenso egemonico sul terreno culturale.
Vale a dire che in questo momento il centrodestra sembra potersi permettere quasi tutto. È vero che non ha più una cultura politica ed economica, dato che il suo tardoliberismo da cortile si è inabissato con la crisi globale e le ricette caotiche del governo (vedi il penoso fallimento anche morale di Robin tax e social card, nonché i decantati incentivi agli straordinari, favola bella della recessione che ieri illuse anche i confindustriali). Ma nello stesso tempo sembra in grado di rilanciare una serie di pulsioni prepolitiche, che si rivolgono alla pancia del Nord. Allarmi securitari, revanscismi imprenditoriali, sostanziale indifferenza, se non proprio diffidenza esplicita dal basso, verso le proiezioni internazionali di un gruppo come la Fiat.
In un contesto simile, Berlusconi ha bisogno di chiamare a raccolta proprio il suo «popolo »: gli occorre una specie di sfondamento che non può avvenire sui numeri dell?economia (ma andiamo, con le imprese attaccate all?ossigeno alla cassa integrazione), ma può invece verificarsi nella composizione di un blocco sociale in grado di occupare le regioni del Nord. Non è detto che l?operazione riesca in modo integrale, anche se ci sono buone possibilità, e Berlusconi ha cominciato a ricordarle con insistenza, di omologare le ultime province in mano alla sinistra alla filiera della destra.
Purtroppo tutto ciò sta avvenendo mentre dà segni evidenti di sfaldamento e di decrepitezza l?establishment del Pci trasbordato nel Pd. E quindi la resistenza è smorta. I segnali di smobilitazione, se non di vero degrado, si diffondono. Berlusconi intravede quindi la possibilità di una svolta anche emotiva: basta con le complicazioni sociologiche, avanti con l?azione di contrasto sulla sicurezza e i clandestini, reale o figurativa che sia, procedere all?occupazione completa degli spazi civili e soprattutto corporativi del Nord.
Con Bossi e Maroni la «quadra» si trova, a dispetto del referendum. Con il paese Italia, e la sua complessità multietnica, potrebbe per il momento essere sufficiente procedere a forza di proclami.
(15 maggio 2009) da espresso.repubblica.it
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« Risposta #54 inserito:: Luglio 19, 2009, 04:54:31 pm » |
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Beppe Grillo e il re nudo
di Edmondo Berselli
La candidatura del comico genovese - amatissimo dal popolo del web - alla guida del Pd, avrebbe offerto al centrosinistra una chiara opportunità di riavvicinarsi al suo elettorato Beppe GrilloÈ un'ottima notizia che Beppe Grillo si sia candidato, con le sue maniere scandalistiche, alle primarie del Pd. Così com'era apparsa un'altra eccellente notizia la candidatura del 'terzo uomo' Ignazio Marino. Questo perché il Partito democratico, di qui a ottobre e comunque per il futuro, ha un disperato bisogno di rientrare dalla realtà virtuale alla realtà reale. Finché Marino parla di laicità, nessuno può misurarne lo spessore effettivamente politico e la capacità reale di aggregare consenso. Si tratta di un fenomeno etico-mediatico.
Così come quando parlano i 'giovani' del Pd, nessuno è in grado di valutare l'effettiva qualità politica delle loro posizioni. Le parole di Debora Serracchiani e la prosa dell'emergente Giuseppe Civati, a un esame disincantato, sono ancora intrisi di politichese, e in ogni caso rappresentano il segnale che la preoccupazione fondamentale del Pd, fra giovani e vecchi, è la costituzione del partito: tradotto in termini volgari, l'occupazione e l'organizzazione di spazi di potere.
Niente di male, la politica è anche questo. Ma ogni posizione va portata dentro la realtà vera. Cioè va misurata. Altrimenti rimane un bluff. La candidatura di Beppe Grillo inserisce un primo elemento di verità perché costringe a rivelare il bizantinismo dello statuto del Pd; ne inserisce un secondo, molto più forte, perché se effettivamente colui che i telegiornali di regime chiamano "il comico genovese" parteciperà alle primarie di ottobre, avremo la possibilità di conoscere la sua consistenza effettiva, numerica, quantificabile, tutta al di là dell'alone mediatico dei blog, dei Vaffa Day, del facile consenso degli 'indignati'.
Fra i molti problemi della sinistra c'è quello di trascinarsi dietro una scia di rancori che assumono un rilevo emotivo molto intenso, ma non sembrano in grado di trasformarsi in una posizione politica razionale. Rabbie, proteste, frustrazioni animano "un volgo disperso che nome non ha", per citare il Manzoni, senza che questo vortice di antagonismi trovi una sintesi. Grillo, per dire, gliela offre.
Bisogna vedere se avrà il coraggio di andare fino in fondo, accettando il responso del giudizio popolare alle primarie; oppure se invece approfitterà del palcoscenico offerto da "una sinistra del nulla" per urlare le sue idee eco-antagoniste, movimentare le piazze con il giustizialismo e poi tirarsi indietro, come talvolta fa, senza accettare il confronto e tornando al calore rassicurante e politicamente inutilizzabile del suo quasi-movimento.
Insomma, c'è qualcuno che deve sbattere il grugno contro la verità, e vedere come ne viene fuori. Ne è venuto fuori malissimo, praticamente alla prima uscita, Marino, anzi, è uscito in modo grottesco con la storia della questione morale a proposito dello stupratore seriale responsabile di un circolo democratico romano. Si può non amare Massimo D'Alema, ma come si fa a ignorare ciò che ha detto in una memorabile intervista pubblica con Antonio Polito al Democratic Party di Roma? D'Alema dixit: si scagliano tutti contro gli apparati, ma io per le ultime elezioni ho fatto 130 manifestazioni nel Sud e quelli che parlano con disprezzo degli apparati non hanno mosso un dito. A Crotone, ha aggiunto D'Alema, provincia rossa, con 25 comuni su 27 amministrati dalla sinistra, siamo riusciti a presentare sei candidati di centrosinistra, di cui due del Pd, e siamo riusciti a perdere.
Il senso del discorso dalemiano è indiscutibile. Qui non è in gioco il partito 'bocciofila' di Pier Luigi Bersani (ma che cosa avrà voluto dire?) e neanche la dislocazione di potere fra le varie stalattiti di potere che vengono dal passato del Pd e dalle furbizie e dagli opportunismi odierni dei vari leader, veri e presunti. È in gioco una prospettiva di sopravvivenza per la sinistra, e non soltanto quella riformista. C'è qualcuno che ha sentito parlare di una cultura? Di indizi di una politica? Grandi discussioni, molto ispirate, su come il Pd deve essere, e balbettii pensosi su che cosa deve fare politicamente.
Per questo non ci si può permettere di esorcizzare Grillo come ha fatto Piero Fassino, segnalando il rischio 'Helzapoppin''. La politica è la politica, chiunque entri in campo. Dopo di che, chi ha qualcosa da dire, ma di reale e oggettivo, parli, discuta, convinca. Altrimenti c'è solo conformismo, convenzioni, politica politicante. E Grillo non vincerà le primarie, ma se è appena capace mostrerà la nudità del re.
(17 luglio 2009) da espresso.repubblica.it
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« Risposta #55 inserito:: Luglio 28, 2009, 06:48:08 pm » |
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27/7/2009
La marcia del cattolico libertino tra squillo, Vaticano e Padre Pio
di Edmondo Berselli - da La Repubblica
Secondo il cinismo della cultura prevalente nel circuito di potere berlusconiano, il cattolicesimo italiano è sufficientemente adulto per saper distinguere fra i comportamenti personali, eventualmente deplorevoli, e la funzione pubblica praticata da un leader politico.
Quindi la prostituzione di regime messa in piedi a Palazzo Grazioli apparterrebbe a uno stile di vita "folk", da considerare con un sorriso di complicità. Si tratterebbe in questo senso di un tocco sovrano di eccentricità, il "Berlusconi's Touch", in cui il "presidente puttaniere", come il Sultano si è definito, costituisce un gustoso tratto personale, a cui anche i cattolici convenzionali guardano con una sottaciuta simpatia.
Sono bugie, finzioni, mitologie. È la cortina di menzogne che i principali collaboratori del presidente del consiglio, a cominciare dall'avvocato Ghedini, hanno cercato di alzare intorno al capo del governo. Una volta chiesero a Bettino Craxi, rifugiatosi a Hammamet, un giudizio su uno dei suoi numeri due, Giuliano Amato: "Un professionista a contratto", rispose con tutta la malevolenza possibile Craxi. Ora Berlusconi di professionisti a contratto ne ha molti. Ma il suo stile e le sue notti di fiaba sono difficilmente neutralizzabili dai professionisti al suo servizio: e non vengono stigmatizzate ieri soltanto dall'Observer ("un governo marcio") e dal Daily Telegraph ("premier libidinoso"): la stampa inglese mette in rilievo il tentativo berlusconiano di riguadagnare consenso nei confronti del mondo cattolico meno mondano e più tradizionale, per quel "popolo" ancora convinto delle verità contenute nel sesto e nel nono comandamento.
Ma non sarà il progetto di visitare il sacrario di Padre Pio a sanare la ferita, vera, che si è aperta nella psicologia del cattolicesimo qualunque. Per almeno due terzi dei cattolici italiani, abituati da decenni a trovare un'ancora nella Democrazia cristiana, Forza Italia e il Pdl erano rimasti una garanzia ideologica e "spirituale", anche contro nemici invisibili, "i comunisti" continuamente evocati dallo spirito quarantottesco del Cavaliere. Scoprire la vera qualità dei comportamenti del Capo è stato un trauma.
Perché un conto è conoscere l'impronta culturale delle tv berlusconiane, nate e cresciute cullando il consumismo, l'edonismo, il culto del corpo, tutti i totem di una religione alternativa al magistero della Chiesa, Al massimo i cattolici vecchio stampo, di fronte allo spettacolo di centinaia di centimetri quadrati di epidermide, si vergognano un po', e si consolano con la versione ufficiale esibita in ogni occasione dai leader di Forza Italia: tutti specializzati nel manifestare un cattolicesimo conformista e pronti a ogni pratica da baciapile per assicurare la loro fedeltà, laica e devota insieme, alla gerarchia.
Per strappare il velo di questa ipocrisia, e rivelare l'insostenibilità di queste acrobazie fra la bigotteria e la spregiudicatezza politica, ci voleva qualche gesto vistoso. Non il pronunciamento di un settimanale assai critico verso il berlusconismo come "Famiglia cristiana" o di altri organi e personalità del cattolicesino conciliare, dossettiano e più meno di sinistra, Ci voleva l'intervento del quotidiano della Cei, "Avvenire", e del suo direttore Dino Boffo. Si può capirne l'importanza e lo spessore anche ex contrario, valutando il silenzio praticamente tombale (e non si tratta di ridicole tombe fenicie) con cui è stato accolto dall'informazione italiana. Boffo ha pubblicato tre lettere, in cui i lettori mettono in rilievo alcuni aspetti critici particolari, Il primo aspetto investe la "sfrontatezza" del premier e l'incongruenza tra vizi privati e pubbliche virtù. Subito dopo viene la critica alla riluttanza della gerarchia a prendere una posizione netta verso lo stile di vita di Berlusconi, cioè riguardo a "comportamenti improponibili per un uomo con due mogli, cinque figli, responsabilità pubbliche enormi e un'età ragguardevole".
II direttore di "Avvenire" non si è tirato indietro. Il Berlusconi licenzioso induce a parlare di "desolazione". Esiste, anzi dovrebbe esistere, un a priori etico che ha valore prima delle strategie politiche e delle dichiarazioni formali, Il "sondaggismo", cioè il consenso volatile costruito dalle indagini demoscopiche ben orientate, non assolve nulla, Ecco, la fiducia che premierebbe comunque il buon cattolico, "il padre di famiglia", che ammette ridendo "non sono un santo" è un'invenzione della scaltrezza dei professionisti a contratto del giro berlusconiano.
In realtà c'è un'Italia cattolica sicuramente moderata ma forse non ancora istupidita dai giochi di prestigio dei maghi della destra. È un pezzo di società poco conosciuto, che non si fa sentire, difficilmente voterà a sinistra, ma è perfettamente in grado di togliere la fiducia a un leader politico, e di sgretolarne la base di compenso, Per questa base cattolica, il pellegrinaggio a Pietrelcina e nei luoghi di Padre Pio contiene una strumentalità talmente plateale da generare addirittura un'insofferenza ulteriore. Il paese, come scrive Boffo a proposito della sfasatura fra il Berlusconi politico e il Berlusconi più ludico, potrebbe sentirsi "raggirato".
Ebbene, la Chiesa è un organismo complesso, e la realtà cattolica non è identificabile con gli stereotipi. Forse in questa occasione i berluscones hanno scherzato troppo con un mondo che in genere conoscono poco, e che negli anni ha dovuto imparare a cambiare ripetutamente l'orientamento del proprio consenso. Il ritiro della fiducia avviene di solito in modo silenzioso. Questa volta potrebbe essere già cominciato, all'insaputa del mondo berlusconiano.
da democraticidavvero.it
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« Risposta #56 inserito:: Agosto 04, 2009, 03:41:36 pm » |
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Gran Premio Formula Pd
di Edmondo Berselli
Bersani che vuole essere un nuovo Prodi. Il partito identitario di Franceschini. L'outsider Marino. E D'Alema scatenato a sostegno del suo candidato.
Protagonisti e scenari della battaglia per la leadership del Pd
Per cortesia, prendete nota che voi lo chiamate congresso, mentre i democratici la chiamano convenzione. Tuttavia, convenzione o congresso, com'è la battaglia per la leadership del Pd? Ma quale battaglia. È una guerra. Combattuta per mare e per terra, in trincea e in assalti alla baionetta, ora leale, talvolta invece sotterranea e incarognita, una guerra asimmetrica alla al Qaeda con un ampio repertorio di manovre canaglia.
Scommettere su chi vince è un azzardo. Anche se "vince Bersani", dicono tutti. Perché ha l'appoggio delle regioni rosse, dei segretari locali, dei sindaci, degli assessori, degli 'apparati' del vecchio Pci. Perché è nato lo stesso giorno di Silvio Berlusconi, 15 anni dopo, "seduto in quel caffè", cioè il 29 settembre. Secondo Enrico Letta, entrato a far parte del club degli emiliani, è piuttosto interessante osservare la dislocazione del sindacato: "Mentre il capo della Cisl Raffaele Bonanni si è subito schierato per Franceschini, la Cgil è spaccata in due, con esponenti importanti del suo circuito di dirigenti attuali e passati, come Cofferati e Nerozzi, che hanno scelto Franceschini, mentre Guglielmo Epifani e, credo, una parte consistente della base, sembra favorevole a Bersani".
A questa realtà piuttosto omogenea culturalmente e politicamente si aggiungono quei cattolici come Rosy Bindi e lo stesso Letta, nonché i cristiano-sociali, che vedono con favore l'idea di un partito 'secondo Bersani', radicato nel territorio e vicino al tessuto di imprese grandi e piccole (soprattutto piccole, come nel sistema del Nord-est e in Emilia). E su questi punti c'è l'endorsement implicito di Romano Prodi, che non ha lanciato squilli di tromba, ma non perde occasione per lasciar capire qual è la preferenza del padre nobile.
D'altra parte il piacentino Bersani, grazie al consenso dell'asse che va da Prodi a Vasco Errani, governatore dell'Emilia-Romagna, sta facendo un autentico sforzo culturale, cercando in modo esplicito di presentarsi come un punto di sintesi fra culture, in pratica suggerendo un'immagine di sé simile a un nuovo Prodi: "Noi
del Pd non veniamo dal nulla e neppure dall'ultimo mezzo secolo", ha detto e ripetuto in ogni occasione recente: "Rappresentiamo una traiettoria iscritta in 150 anni di storia, e che riassume vicende diverse ma complementari: quella delle società di mutuo soccorso, del mondo cooperativo, del movimento operaio e del sindacato, delle associazioni cattoliche e socialiste". Traduzione: non siamo semplicemente gli eredi del Pci e di qualche frangia della sinistra democristiana. 'Bersani09', la sigla della sua mozione, richiama nello slogan un verso di Vasco Rossi: "Un senso a questa storia", forse dimenticando che Vasco ha sempre simpatizzato per Marco Pannella. Sul piano concreto, la mozione di Bersani rappresenta la riproposizione del 'modello' emiliano, cioè quel sistema di economia sociale di mercato che ha creato e redistribuito ricchezza dal Dopoguerra in poi.
Si vince, con questa specie di ritorno al passato? "La vittoria non è scritta a priori, e non è detto che sia così immediata e facile", risponde uno dei prodiani di lungo corso, Giulio Santagata, ministro per l'Attuazione del programma nei due faticosi anni dell'Unione, e oggi sostenitore di Bersani. "La Convenzione dell'11 ottobre probabilmente si concluderà con l'affermazione di Bersani, ma c'è da considerare che in seguito le primarie del 25 ottobre sono aperte, non limitate agli iscritti. È esemplare in questo senso la provocazione di Francesco Storace, che ha annunciato la sua partecipazione e ha invitato i suoi elettori a votare Bersani. E quindi la situazione diventa molto più incerta, perché le strategie dei cosiddetti apparati, con la concentrazione di blocchi di tessere, conteranno molto meno". Secondo Santagata voteranno alle primarie un milione e mezzo, forse due milioni di elettori, a seconda della temperatura dell'antiberlusconismo, e quindi fare previsioni è un esercizio sterile: "Il partito è contendibile, e molto dipenderà dalla velocità con cui i candidati usciranno dal congresso. È come la partenza in Formula Uno: conta lo scatto al via, ma conta soprattutto la velocità con cui si esce dalla prima curva".
Sulla griglia di partenza restano gli altri due candidati, Dario Franceschini e Ignazio Marino. Franceschini sta puntando molto su un partito 'identitario'. Si dimostra preoccupatissimo riguardo a questioni sistemiche come il bipolarismo. Può darsi che, come sostiene Massimo Cacciari, sia ancora legato allo schema di Walter Veltroni, per cui il Pd si giocherebbe ogni volta la sua partita in un faccia a faccia con il Pdl; ma si tratta di vedere quale sia il gradimento di queste posizioni e specialmente se l'opinione pubblica sia ancora motivata da argomenti relativi all'impianto del sistema politico e della legge elettorale.
Per certi versi è curioso il sostegno all'attuale segretario di alcuni pezzi di nomenklatura e di figure storiche della sinistra, come Cofferati, parlamentare europeo e probabile prossimo segretario della Federazione ligure. Si tratta di un'occupazione preventiva di spazi di potere dentro il Pd? Anche la starlet generazionale Debora Serracchiani si è sistemata alle spalle del segretario Franceschini. E con il cinquantenne segretario ferrarese si sono schierati gli ambientalisti di Ermete Realacci. Mentre sembra gravato da troppe zavorre il terzo uomo Ignazio Marino, portavoce di un principio laico che viene giudicato insufficiente per raccogliere consenso in sede congressuale. Inoltre dentro il partito ha risuonato in modo sgradevole la vicenda dei rimborsi truccati con l'Università di Pittsburg, e le solidarietà espresse nei suoi confronti sono apparse di tipo diplomatico, quindi poco significative sul piano del riconoscimento formale della sua correttezza amministrativa.
Un siluro non da poco per il candidato che aveva evocato una questione morale ingente nel partito, dopo l'arresto di Luca Bianchini, presunto stupratore seriale e responsabile di un circolo democratico romano.
Anche per Marco Follini, Bersani è il candidato favorito: "Ma occorrerà vedere se al congresso riuscirà convincente. Se Bersani ce la farà ad apparire un leader ragionevolmente capace di creare mescolamento, ci sono poche possibilità che venga battuto. Ma anche lui, in questi due mesi e mezzo, vive sotto un incubo, o una spada di Damocle". Che sarebbe la tutela di Massimo D'Alema. Si scrive Bersani e si legge Líder Máximo. Qualcuno a Bologna, molto in alto fra le figure di riferimento del Pd, sostiene che basterà una frase di D'Alema, un'intervista o una battuta, per incenerire la candidatura di Bersani e ridurlo a un burattino nelle mani del 'vecchio bolscevico' Baffino.
Tuttavia non c'è soltanto questo aspetto: secondo Antonio La Forgia, esponente bolognese dell''école parisienne', cioè del magistero di Arturo Parisi, il limite della candidatura di Bersani è proprio di matrice ideologica e culturale: "Pier Luigi è il portatore di un recupero del compromesso socialdemocratico, cioè la vecchia strada emiliana, fra la via Emilia e il welfare. Ma i punti di forza di questo schema politico hanno esaurito il loro potenziale, nel senso che possono essere utilizzati anche a destra, senza caratterizzazioni politiche specifiche. Quindi alla fine il discorso di Bersani davanti all'opinione pubblica potrebbe essere convincente, ma non è detto che sfondi".
Invece per Letta la competizione è comunque un elemento positivo perché provoca un rimescolamento: "Io mi sono schierato per Bersani in una chiave liberale e ulivista. Perché sono convinto che occorre ritrovare radici e convinzioni che ridiano spinta al centrosinistra. Ma aggiungerei che anche la candidatura di Marino, voluta e appoggiata da Goffredo Bettini, suscita energie nascoste e richiama in primo piano idee e posizioni che altrimenti avrebbero una rappresentanza minore nella politica italiana". In conclusione, giochi aperti. Si assisterà a uno scontro campale, e a un'estate rovente. "Ma alla fine", dice Letta, "con tutti i limiti dello statuto, e la possibile sfasatura tra il risultato della convenzione e le primarie, questo sarà un congresso pulito. E per la nostra politica questo sarà un risultato di eccezionale importanza".
(31 luglio 2009) da espresso.repubblica.it
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« Risposta #57 inserito:: Agosto 08, 2009, 07:07:40 pm » |
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Un governo sotto ricatto
di Edmondo Berselli
È un vizietto del centrodestra dilatare la spesa senza che si sappia dove i soldi vadano a finire
Con le elezioni del 2008 era stata molto sottovalutata la formazione dell'alleanza di centrodestra. Silvio Berlusconi aveva messo insieme, intorno ai due partiti nucleo del Popolo della libertà, Forza Italia e An, due forze territoriali in chiara opposizione reciproca: al Nord la Lega di Bossi, e in Sicilia il Movimento per l'autonomia di Raffaele Lombardo. Pochi avevano valutato l'intrinseca contraddizione di questa coalizione. Sarebbe dovuto risultare evidente che era bizzarro avere nella stessa alleanza politica un movimento come la Lega, che in nome del federalismo richiedeva che le risorse degli elettori restassero al Nord, e un'altra che pretendeva fiscalità di vantaggio e trasferimenti pubblici al Sud.
Probabilmente la sottovalutazione era determinata dalle dimensioni ridotte del movimento siciliano. Ma anche mettendo a bilancio questo aspetto, si doveva capire che per evitare conflitti politici interni alla compagine di centrodestra la compresenza di queste due forze politiche poteva essere trattata dal governo Berlusconi soltanto in un modo. Vale a dire con l'erogazione di spesa pubblica. Un classico della prima Repubblica. Destinato a divenire un metodo della Seconda, o comunque si chiami il sistema istituzionale in cui ci troviamo, se la spregiudicatezza degli attori locali poteva decidere di giocare la partita dei veti e dei ricatti.
Va interpretata in questo modo la mancata nascita, o quasi nascita, o nascita abortita, del 'Partito del Sud'. Una iniziativa politica che certamente per il momento non ha messo in tensione estrema il centrodestra, ma ha chiarito le innumerevoli possibilità di ricatto politico implicite in una situazione che invece sembrava stabilizzata dai numeri parlamentari del Pdl. Eugenio Scalfari su 'Repubblica', in proposito, ha parlato di "secessione silenziosa". Il termine è forte ma mette in luce l'assenza di un disegno generale per il Paese, e gli interessi che possono essere giocati da un'area territoriale contro l'altra, nella più completa indifferenza per un disegno comune e per un equilibrio che rispetti le compatibilità sociali e territoriali. Altro che 'dualismo', storica condanna dell'Italia alle prese con territori sottosviluppati e con politiche di sostegno via via fallimentari: oggi potremmo essere in presenza di una dissoluzione potenziale della configurazione nazionale.
Il governo di centrodestra ha risolto, almeno per ora, la questione impegnando 4 miliardi di euro, e sostenendo con le parole del ministro Claudio Scajola che queste risorse serviranno a rimettere in moto l'economia reale della Sicilia. I protagonisti della 'piccola secessione' come Lombardo e Micciché possono vantare un risultato politico evidente. Ma intanto si tratta di vedere se questo ammontare verrà effettivamente utilizzato nel rilancio del sistema produttivo siciliano, o finirà nel calderone della spesa corrente e della cattiva ordinaria amministrazione. Già: è un vizietto del centrodestra dilatare la spesa pubblica senza che si sappia dove i soldi vadano a finire.
Anche in questa legislatura, lo ha segnalato ancora Scalfari nel più completo silenzio dell'esecutivo, l'incremento è scappato di mano (per un totale che tocca i 35 miliardi, una superfinanziaria) senza che nessuno sia stato in grado o abbia voluto indicare a che cosa siano serviti. È un problema che riguarda anche la situazione locale. E nel futuro potrebbe concernere anche la grande corsa e il grande assalto alla diligenza, non appena i governi regionali e le classi politiche locali si renderanno conto che per nutrire le loro nuove clientele potranno muovere all'assalto del governo centrale.
Tutto questo non sembra preoccupare l'opinione pubblica, che pure dovrebbe guardare con inquietudine all'andamento dei conti pubblici. Ma, oltre alle questioni finanziarie, l'elemento centrale, anzi cruciale, è la perdita di un orientamento comune. Il pensiero che la tenuta del Paese è assicurata soltanto dalla capacità di mediazione fra rivendicazioni localistiche e mediazione 'dorotea' del governo centrale getta una luce sconfortante sulla capacità del Sud, cioè del Paese, di crescere e svilupparsi. Ci sono le premesse per assistere a un hobbesiano 'bellum omnium contra omnes', ossia a una competizione famelica per sottrarre risorse senza innescare processi adeguati di sviluppo. A una balcanizzazione di un terzo del paese. Già adesso, come da qualche anno segnala la Svimez, tutti gli indici del Sud sono più deboli rispetto al Nord (non solo quelli economici e produttivi, anche quelli civili, scuole, biblioteche, ecc.). Pensare di risolvere questa situazione con le trovate finanziarie equivale a pensare a un Mezzogiorno che si illude di salvarsi ai danni della nazione.
(06 agosto 2009) da espresso.repubblica.it
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« Risposta #58 inserito:: Agosto 20, 2009, 05:20:49 pm » |
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L'ANALISI
La falsa verità del nonno superman
di EDMONDO BERSELLI
Ancora una volta Silvio Berlusconi tenta il gioco di prestigio: con un colpo di magia prova a fare scomparire la realtà. O almeno a colorarla con la vernice dei sogni. Sogni italiani, sogni casalinghi, sogni isolani. Da Villa Certosa, circondato da figli e nipotini, si mostra in una serie di foto ritoccate che gli tolgono dieci anni, e rilascia agli italiani la sua versione.
C'è una strategia ben precisa: ribattere il chiodo con sicurezza, in modo che l'Italia berlusconiana, e anche l'opinione pubblica più o meno neutrale, si rafforzi nell'idea che il premier è puro come un giglio. Naturalmente ciò che ha detto nell'intervista rilasciata a Chi, settimanale di proprietà, è stato studiato e calcolato con attenzione certosina. Il premier sostiene di non avere mai intrecciato ""relazioni" con minorenni" e di non avere mai "organizzato "festini"". Le sue cene, "simpatiche" erano "ineccepibili sul piano della moralità e dell'eleganza". Infine, spiega Berlusconi, "non ho mai invitato consapevolmente a casa mia persone poco serie".
Si tratterebbe innanzitutto di capire che cosa significa quell'avverbio "consapevolmente". Vuol dire che "inconsapevolmente" persone poco serie sono state ospiti di Palazzo Grazioli e di Villa Certosa? È un'ammissione involontaria? In ogni caso va messo agli atti che il premier insiste con la strategia delle verità distorte.
Indifferente a tutto, alle registrazioni con le escort e alle conversazioni telefoniche con il procacciatore Giampaolo Tarantini, Berlusconi modella il proprio racconto accusando i suoi nemici di avere montato un castello di "calunnie". Questa sottrazione di realtà gli viene facile perché da quando è emerso lo scandalo della prostituzione di regime i media televisivi controllati politicamente hanno fatto il possibile per imboscarlo. Il Cavaliere può raccontare a cuor leggero che anche la Cei e il suo organo di stampa, Avvenire, sono caduti nella trappola allestita dai suoi avversari, e che l'intero mondo cattolico è stato ingannato da un cumulo di bugie e di notizie false ai suoi danni.
Fin qui non c'è da stupirsi. Sono settimane che il premier si aggrappa ostinatamente alla sua versione, sicuro che la gente si convincerà che tutte le chiacchiere su di lui sono semplicemente gossip, pettegolezzo, calunnia, un caso di malevolenza politica organizzata. Ma forse per capire meglio la tattica berlusconiana è opportuno mettere a fuoco anche gli strumenti mediatici a cui è ricorso. Le foto famigliari pubblicate da Chi sono di impressionante chiarezza nelle intenzioni: si rilascia un'intervista a un settimanale popolare, per comunicare all'Italia del popolo e al Popolo della libertà che Berlusconi è un'immagine sacrale, un politico senza macchia. Le immagini con il nipotino di 22 mesi, o quella pensosa nello studio privato di Villa Certosa, intendono rappresentare il profilo di una figura esemplare e incorrotta, legatissimo alla famiglia nonostante le pratiche del divorzio da Veronica Lario, dopo "una vera storia d'amore" durata trent'anni.
Il "Nonno Superman", come lo chiamano in modo impegnativo i nipoti, non esita a proporsi come una figura insieme ricchissima e popolare, una guest star del suo giornale, del suo impero economico, di un'estate da favola. Non ci sono tabù estetici nello stile di un protagonista che impone la sua presenza dichiarandola insostituibile. Lo si riscontra osservandolo accanto a una fontana dal curioso stile assiro-nuragico, ma ciò che colpisce è il contesto di contenuto e di immagini del giornale domestico. Basta girare qualche pagina, infatti, e la figura del premier cede il passo alle specialità di un settimanale di pettegolezzi: gli spettacolari tatuaggi del macho Fabrizio Corona, le confessioni dell'ex tronista Costantino Vitagliano, le carezze hot tra Federica Pellegrini e il suo fidanzato Luca Marin.
Tutto questo potrebbe apparire una caduta nel trash, ma il giudizio sarebbe impreciso. Come sempre quando si trova in difficoltà, Berlusconi inventa la sua realtà virtuale, e cerca di uscire dalla trappola con un volteggio da acrobata. Inventa un mondo a colori che sorprende il pubblico, genera ammirazione, suscita solidarietà nei fan. Il berlusconismo non è semplicemente una patina di glamour su una modalità di vita. È una filosofia: una visione che mescola bugie, propaganda politica, interessi privati, fascino della ricchezza, costruzione dell'immagine, manipolazione delle opinioni. Con l'idea che in fondo, e in genere, Berlusconi siamo noi. O che dovremmo essere con lui. Che la società italiana deve accettare la mitologia creata da un capo benevolo e ferito dalla perfidia dei nemici. Di nuovo è "una storia italiana", come si intitolava l'epopea illustrata del berlusconismo. E anche questa volta smontare l'inganno non è facile, in un paese dominato dal conformismo e dalla sicurezza tracotante con cui i media padronali e di Stato si sono impegnati a occultare la realtà.
(20 agosto 2009) da repubblica.it
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« Risposta #59 inserito:: Agosto 23, 2009, 03:57:01 pm » |
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IL CASO.
Il cuore che produce aritmie. Come riscuoterli, questi soldi?
Le precauzioni: la schedina nella cassaforte mai usata prima d'ora
La vertigine da sogno ad occhi aperti
di EDMONDO BERSELLI
E SE avessi vinto io? Sogno o son desto? È il caso di chiederselo. Scusate, ho il cuore che si diverte a produrre aritmie, fibrillazioni, extrasistoli. Respiro profondamente e mi dico: sarebbe comico, o tragico, avere un infarto adesso.
Continuo a guardare la scheda del Superenalotto, controllo i numeri usciti, ma non ci sono più dubbi: ho vinto. Io, miserabile individuo inconsapevole, ho sbancato il più alto jackpot della storia.
Centoquarantasette milioni di euro, una cifra assurda. Convoco la famiglia e lì per lì naturalmente nessuno ci crede. Ragazzi, dico irritato, pensatela come volete: ma ho vinto. Se vi comportate bene, con gentilezza, se avete compassione per il mio povero sistema nervoso e per il mio cuore matto, posso anche dire "abbiamo vinto". Adesso ci credete? Ci credono. Mia moglie si mette a piangere. Chissà se per la soddisfazione della vincita o per l'oppressione di tutto quel denaro.
Centoquarantasette milioni di euro. Una fila di zeri impressionante. Roba da fare spavento. Terrore e tremore. Un'esperienza onirica, un abisso di paura, un vuoto nell'anima. Per precauzione mi butto sul divano del salotto, aspettando che il cuore riprenda un andamento quasi normale. Non so neanche come si fa a riscuoterli, quei soldi. In banca, probabilmente. O dal notaio, chissà.
Intanto però ci vogliono precauzioni. La prima e più urgente consiste nell'assumere l'atteggiamento di quello che non ha vinto proprio un bel niente e non sa nemmeno di che cosa stanno parlando i telegiornali. D'accordo che ho giocato in trasferta, lontano da casa, ma la regola numero uno è e rimane: depistaggio.
Mettere su un'espressione tra l'indifferente e il sofferente. Se qualcuno cita il Superenalotto, esibire un'aria di superiorità dolorosa: ma che cosa volete che m'interessi questo oppio dei popoli, una truffa collettiva che promette illusioni, una fiera delle vanità che porta soldi al governo, rito borbonico che genera soltanto frustrazioni.
Per giocare avevo dovuto addirittura chiedere spiegazioni al gestore della ricevitoria, che mi aveva guardato come se fossi un alieno. L'ultimo essere umano, nella penisola e dintorni, che non conosce il meccanismo della superlotteria. Vero che in passato giocavo al Totocalcio. Ma la schedina settimanale implicava una conoscenza del campionato, e quindi si poteva nutrire la convinzione che l'eventuale "tredici" potesse dipendere dalla competenza calcistica e non dalla fortuna dei numeri. Infatti, mai compilato un "sistema". Impegnavo piccole somme, e poche colonne della schedina, per misurare la mia capacità nel pronostico. Mai andato oltre il dieci, perché per fortuna anche nel calcio esiste l'imponderabile.
Mentre il Superenalotto è un gioco brutale: il jackpot aumenta di valore ogni settimana, a ogni estrazione fallita, e poi è solo una feroce questione di numeri. Lo schiaffo di una combinazione solitaria su sei o settecento milioni possibili. Se i tuoi sei numeri escono vuol dire che una divinità insensata ha deciso di scegliere proprio te, che durante un viaggio hai investito due euro. Domani, per sicurezza, occorrerà prepararsi uno schema di risposte plausibili: no, guardi, non gioco mai, figuriamoci. Quindi aria scettica, espressione disincantata, dissimulazione. Ma, sotto sotto, un pensiero che non vuole andarsene via: che me ne faccio di tutti questi soldi?
Vedi la gente intervistata per televisione che dice: farei beneficenza, estinguerei i mutui per la casa dei figli, farei un viaggio. D'accordo ma queste sono bazzecole. Quisquilie. Pinzillacchere. Dopo queste spesucce infatti rimane il problema della paccata di milioni rimanenti. Devo trovare un consulente.
Onesto. Un professionista. E se poi non è onesto e mi fa sparire tutti i soldi? Eccola, la crisi di panico. Meglio spezzettare, dividere, diversificare. Lascia perdere la Borsa, ti ricordi le fregature della new economy? Il mattone, il mattone è sempre una sicurezza. Conviene comprare a Parigi, a Londra, a New York. E poi che ce ne facciamo di questi appartamenti globalizzati? Chi si occupa delle questioni fiscali? E come la mettiamo con la linea ereditaria?
Ma per il momento occorre certificare l'esistenza del tagliando vincitore. Lo fotografo con il cellulare, domani farò autenticare la foto, intanto lo metto nella cassaforte domestica che non abbiamo mai usato. Con il timore che vengano i ladri a rubare la scheda. Fra paure assurde che finora non avevo mai provato. Perché la verità è una sola, semplice e terrificante: il Jackpot è un incubo. Chissà se da questo sogno cattivo mi risveglierò, se da un sogno assurdo ci risveglieremo mai.
(23 agosto 2009)
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