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Autore Discussione: EDMONDO BERSELLI  (Letto 47507 volte)
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« Risposta #30 inserito:: Ottobre 10, 2008, 06:50:14 pm »

Edmondo Berselli


Il paese disgregato


Il razzismo è un problema reale, serio e grave, più vasto di come appare e non servono risposte immaginarie  Non abbiamo un'altra parola, al di là di 'razzismo', per definire gli episodi di intolleranza e di violenza contro gli stranieri che si manifestano ormai ripetutamente in Italia. Ma anche se talvolta gli eventi appaiono degradanti, non è detto che si tratti della parola giusta. Ilvo Diamanti ha mostrato che in effetti si agita nella nostra società un atteggiamento nuovo rispetto agli immigrati. Un insieme di insicurezza e di inquietudine che talvolta può sfociare in atti di insofferenza e di ripulsa, e perfino di aggressività violenta. Ma se si guarda a un episodio come la strage dei ghanesi a Castel Volturno, ci si accorge che l'espressione 'razzismo' non esaurisce affatto il potenziale drammatico di quell'avvenimento.

L'uccisione camorristica di sei africani sembra avere un contenuto terroristico: occorreva far capire con un gesto micidiale chi comanda sul territorio. In una realtà estrema come quella di Gomorra, ciò che una volta si sarebbe concretato in un raid punitivo è diventato un eccidio spaventoso. Da destra si continua a dire che non c'è razzismo nel nostro paese, che ci troviamo davanti episodi isolati, e il ministro Roberto Maroni fa il possibile per trattare gli avvenimenti più gravi con metodi di polizia. Ma da sinistra viene facile rispondere che l'ostilità verso gli stranieri è stata favorita dal clima generato dai provvedimenti del governo, dalle 'gride' contro il reato di immigrazione clandestina, dall'aver favorito l'allarme dei cittadini angosciati dalla criminalità venuta da fuori.

Ora, che la destra abbia puntato molte carte politiche sulla sicurezza e sulla paura è indubbio. Ma difficilmente le soluzioni del Pdl e della Lega condurranno a risultati significativi. Perché noi, noi cittadini italiani, in questo momento e in futuro non dovremo fare i conti soltanto con il fenomeno dell'immigrazione, regolare e clandestina. La realtà più preoccupante è che stiamo assistendo a una sostanziale disgregazione della collettività nazionale. Ci sono territori non controllati dallo Stato, enclave urbane gestite dalla criminalità, entro un perimetro, quello del Mezzogiorno, in cui tutti gli indici, economici ma anche sociali, sono in terreno negativo. Esistono periferie come quelle romane in cui la promiscuità antropologica prolifera in un ambiente dominato dal commercio della cocaina e del sesso (a questo proposito resta un documento letterario e sociologico impressionante il recente e iperrealistico romanzo di Walter Siti 'Il contagio').

Come ha scritto Zygmunt Bauman, si ricorre all'identità quando la comunità crolla. Al Nord il successo della Lega, oltre che sull'allarme anti-immigrazione, si fonda sul tentativo di ricreare una serie di 'comunità reattive', i cosiddetti 'popoli' del Nord, che si qualificano per un grado di autoprotezione che verso l'esterno diventa atteggiamento ostile. Una volta, nella propaganda informale dei leghisti, si chiamava secessione. Adesso, si qualifica per l'insofferenza verso tutte le altre comunità, comprese quelle nazionali, con l'esito tendenziale di accentuare i processi disgregativi. Anche il federalismo fiscale e istituzionale servirà per accentuare le separatezze (altrimenti, in versione blanda e 'cooperativa', non serve politicamente a nulla).

Dunque la destra non ha soluzioni, se non le solite: l'esercito nelle strade, costruzione di carceri, autosegregazione di parti della popolazione rispetto ai barbari, con telecamere e vigilantes di guardia. Toccherebbe alla sinistra, a questo punto, non limitarsi a gridare contro il fantasma del razzismo, ma proporre un progetto per il paese. Perché non si risolve il problema xenofobo isolandolo dal contesto generale. Non si riesce credibili semplicemente lanciando allarmi e accusando la destra, e neppure rivendicando i diritti e il nuovo illuminismo.

La convivenza con gli stranieri, con i neri, i cinesi, i maghrebini, i romeni, i polacchi, i moldavi, i bielorussi, implica la ricostruzione di un'Italia capace di sfuggire al 'bellum omnium contra omnes' delle bande contrapposte, delle mille secessioni che si agitano sotto la superficie del paese ricco e si manifestano esplosivamente sopra la superficie del paese povero. Significa fare i conti con la realtà: la realtà vera, non quella presunta. Il Pd deve fare una cura di realismo, osservare la stridente fenomenologia italiana e offrire una risposta che non sia l'appello retorico. In sostanza che non sia, di fronte a un problema serio, grave e più vasto di come appare, una risposta immaginaria.

(10 ottobre 2008)

da espresso.repubblica.it
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« Risposta #31 inserito:: Ottobre 25, 2008, 07:03:59 pm »

COMMENTI

Per un populismo della sinistra

di EDMONDO BERSELLI


 OGGI al Circo Massimo va in scena una strana coppia: il riformismo e la piazza. Cioè una protesta di massa contro il centrodestra galvanizzato dai sondaggi insieme con un'idea razionale di possibili riforme alternative. Ma è un matrimonio possibile? È opportuno, è conveniente, è politicamente utile che nella cultura e nella pratica del Partito democratico si sviluppi anche una componente populista?

Fa bene a un partito riformista un po' di esplicito populismo di sinistra? Sono interrogativi che equivalgono a chiedersi, in fondo, se il riformismo debba contenere una quota di radicalità. Con quel che ne consegue anche nello stile e nei simboli: cortei, bandiere, un'opposizione animosa e rumorosa, con il recupero di una contrapposizione nettissima rispetto al governo e al Popolo della libertà. Insomma: oggi, domani, nel futuro politicamente prevedibile, il riformismo può trovare una risorsa nel populismo?

C'è un'insidia in questa domanda, se si pensa che l'accusa di populismo è sempre stata brandita contro la destra. Secondo la cultura unanime del centrosinistra, l'istinto demagogico appartiene all'indole del Pdl e dei suoi capi, a cominciare dal populista principe Silvio Berlusconi, dato che un marcato atteggiamento antistituzionale è stato la cifra continua negli slogan, nelle proteste e negli atti della destra: contro le tasse, contro l'euro, contro le regole, contro i partiti, contro i "comunisti", contro i giudici, contro i fannulloni, contro gli stipendi degli insegnanti.

A rigor di termini, l'ideologia e la vocazione populista si realizzano nell'intenzione di trasformare immediatamente in leggi la cosiddetta volontà popolare. L'attuale governo ne è un esempio plateale, con i ministri (in particolare Mariastella Gelmini, Renato Brunetta, Giulio Tremonti, Roberto Calderoli) impegnatissimi a disporre pacchetti di riforme, anche per decreto, cercando comunque di superare di slancio il disturbo delle discussioni parlamentari. Ecco la Finanziaria approvata in Consiglio dei ministri nel giro di nove minuti e mezzo, ecco l'assurda Robin Tax, tassa discrezionale "contro la speculazione petrolifera" e contro le banche, quando sembrava che petrolieri e banche facessero profitti troppo alti grazie alla congiuntura; e poi l'esercito in tenuta campale nelle strade, il federalismo affidato a una delega generica e caotica, i tagli alla scuola che idealizzano strumentalmente l'età delle mezze stagioni e dei grembiulini.

Non conviene nascondersi che, di fronte al forcing comunicativo del Pdl, il centrosinistra ha mostrato finora armi spuntate. In parte per le ripercussioni politiche e psicologiche della sconfitta elettorale, ma in parte anche per una specie di sfasatura rispetto alle iniziative del governo. L'azione politica del Pd veltroniano, infatti, si svolge in genere su un piano differente rispetto a quello della maggioranza berlusconiana. La cultura democratica prevalente è largamente rivolta verso la sfera dei diritti, evoca battaglie culturali nel nome dell'antifascismo, combatte il razzismo e la xenofobia, si concentra sulle pari opportunità e contro le discriminazioni, nel nome del rispetto di una consapevole cultura costituzionale.

Sono tutte tematiche sacrosante, ma per il momento poco producenti nella battaglia politica in corso. Hanno la veste di posizioni filosofiche più che di strumenti politici utilizzabili nel confronto. Confermano l'elettore del centrosinistra di essere nel giusto, convincono i già convinti, ma almeno nel breve periodo non allargano l'area del consenso. Mentre dovrebbe essere chiaro che, se non vuole restare politicamente subalterno (cioè "minoranza strutturale", secondo la definizione di Massimo D'Alema), nelle prossime stagioni il problema centrale del Pd consisterà non tanto nel confermare i propri elettori, bensì nel tentare di staccare pezzi di elettorato dall'area berlusconiana.

A questo scopo, il centrosinistra deve riuscire a spiegare, prima a se stesso e poi all'opinione pubblica, che il riformismo è sì politica delle compatibilità, ma che ciò non esclude affatto un principio di radicalità. Perché la radicalità è uno strumento che serve a perseguire due obiettivi: a individuare con nettezza i problemi, e a suscitare identità.

Vero è che occorre intendersi su quali ambiti convenga essere radicali. Cioè i punti su cui esercitare una pressione politica efficace. Al di là dall'incertezza generale suscitata dalla recessione, sarà il caso di vedere con chiarezza che Pdl è all'attacco sul terreno socio-economico, ha in mente una politica chiara, tesa a corporare gli interessi in un blocco sociale permanente. L'eclettismo berlusconiano sui principi di fondo e sui "valori" consente alla destra di assumere le posizioni di volta in volta più convenienti, specialmente nel rapporto con la Chiesa; ma sugli interessi non si scherza mai. Il Pdl avrà pure commesso errori strategici (in particolare predisponendo misure economiche depressive, cioè i tagli, in una fase di crescita zero), ma ha chiarissimo l'obiettivo unilaterale di favorire i ceti a cui può offrire una conveniente casa comune.

Ebbene, in una situazione simile il Pd non può permettersi il lusso di disputare una partita diseguale, ossia di rispondere a una politica economica aggressiva con una serie di rivendicazioni intellettuali, civili, filosofiche. È vero che il codice della lealtà repubblicana e di una modernizzazione guidata da criteri di apertura culturale sono essenziali per stabilire una differenza qualitativa rispetto alla destra: una laicità radicale è un elemento essenziale di identità politica rispetto al clericalismo opportunista di Berlusconi; così come un'idea avanzata ed europea della riforma della scuola è necessaria per rispondere in modo radicale (e nello stesso tempo con buonsenso) alla striminzita restaurazione della Gelmini.

Ma in questo momento ci vuole innanzitutto uno strenuo esercizio di radicalità per mettere allo scoperto i pilastri della politica del Pdl. Il "populismo" della sinistra riformista dovrebbe essere la leva per concentrarsi sulle contraddizioni della coalizione di centrodestra, per richiamare su di esse l'attenzione dei cittadini e per provare a sgretolarle. Altrimenti la politica italiana resta divisa in due corpi separati, ognuno dei quali gioca la sua partita indipendente: solo che la destra si fa gli affari, la sinistra nutre buoni sentimenti con il rischio, alla fine, di vederli trasformati in frustrazione permanente.

E invece no: per uscire dal cerchio del consenso magico del Re Silvio, dalla stregoneria comunicativa indipendente dagli eventi reali, occorre anche quel tanto di realistica asprezza che induce a parlare di cose elementari. Quindici milioni di italiani intorno alla linea della povertà. I negozi di quartiere deserti. I salari falcidiati dall'inflazione, che invece favorisce chi può ancora manovrare i prezzi. Il lavoro dipendente sacrificato alle necessità della concorrenza globale; e nello stesso tempo settori commerciali già in crisi per la flessione dei consumi determinata dall'erosione dei redditi medi.

Insomma, è il caso di tornare a mettere il dito su fenomeni a loro modo brutali. E per farlo ci vuole la schietta radicalità implicita nel parlare di cose vere, cioè di soldi, di redditi, di bilanci famigliari, di profitti, di problemi reali dell'economia. Per la sinistra riformista, la sfera degli interessi è stata in passato confinata in fantasmi contabili come il Pil, il debito, il deficit, l'avanzo primario. In seguito si è praticato un tentativo quasi eroico di reinterpretare da sinistra le categorie liberali del merito e della concorrenza, come strumenti per scardinare la disuguaglianza sociale.

Adesso occorre essere convincenti in profondità: non è sufficiente il cervello, la razionalità, la linearità dell'analisi. Ci vogliono anche il sangue, i polmoni, il cuore. Quel tanto di cattiveria che consente di parlare alla pancia della nostra società e di attaccare la destra sul suo stesso terreno e con realistiche possibilità di successo. (Benissimo la moral suasion su Guglielmo Epifani, ma non si dovrebbe dimenticare che la migliore critica all'operazione Alitalia è venuta dal radicalismo televisivo di Milena Gabanelli, non dal governo ombra).

Il Circo Massimo serve a ricordare che è venuto il momento di mettere il naso nella concretezza. Di tentare con adeguata forza polemica di dissolvere i fumi berlusconiani del consenso gratuito. Il populismo possibile della sinistra significa che occorre guardare alla realtà vera del nostro paese, alla sua vita quotidiana. Nonostante la prevalenza del virtuale, la politica è ancora scontro di posizioni, delimitazione fra scelte incompatibili, contrapposizione di soluzioni apertamente alternative. In questo senso, il populismo, interpretato con intelligenza da sinistra, non è un ibrido incoerente: è semplicemente lo strumento per dare una voce a un'Italia che fino a oggi ha rischiato di restare attonita e muta.

(25 ottobre 2008)

da repubblica.it
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« Risposta #32 inserito:: Ottobre 28, 2008, 07:51:33 pm »

TELEVISIONE

Non ridete di 'Report'

di Edmondo Berselli



Molti pensano che la televisione sia pura marmellata elettronica. Una concezione, però, messa a dura prova dalle performance del programma di Milena Gabanelli  Milena GabanelliI critici più alla moda pensano che la televisione sia il nulla: un baluginare di suoni e luci, di exploit, di sketch, scene madri e cavolate assortite. Questa prospettiva analitica è affascinante, e conduce a considerare i programmi sotto unico metro di giudizio: piace, non mi piace, mi fa orrore, fa ribrezzo, sono raccapricciato. Tanto sempre di tv si tratta: marmellata elettronica.

Questa concezione realistica, che porta a guardare con altri occhi anche ai programmi cosiddetti di approfondimento, è messa a dura prova dalle performance di Milena Gabanelli con 'Report'. Chi ha seguito la puntata sull'Alitalia potrebbe essersi chiesto: ma anche questo sarebbe allora puro infotainment, incrocio di generi, televisione quintessenziale al di là dello spessore e della qualità dell'inchiesta? La domanda è complicata, quindi è una buona domanda. Dato alla Gabanelli tutto quello che c'è da darle, vale a dire che dopo una sintesi come la sua, in un paese occidentale moderno qualcuno si prenderebbe la briga di chiudere i protagonisti dell'affare Alitalia-Cai in un carcere tipo Guantanamo, con la pena accessoria di ascoltare tutto il giorno le note di 'Guantanamera', ecco, detto questo, la risposta resta tutt'altro che semplice.

Il punto centrale dell'inchiesta è quando la Gabanelli, con la sua telecamerina d'assalto, mostra lo statuto della Cai al presidente Roberto Colaninno, dicendogli: si potrebbe mica cambiare l'oggetto dell'attività d'impresa, che a tutt'oggi è 'passamanerie'. Colaninno scoppia in una spettacolare risata. Stacco. Siamo dentro un reality? Una fiction? Uno show? Alla Gabanelli, ma anche a tutti i gabbati, l'ardua risposta.

(27 ottobre 2008)


da espresso.repubblica.it
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« Risposta #33 inserito:: Ottobre 31, 2008, 03:46:17 pm »

Edmondo Berselli


L'incredibile re Silvio


Non è il suo mestiere gestire la tempesta economica: la favola bella con cui ieri illuse l'Italia sta per fare i conti con la realtà  Silvio BerlusconiGli effetti del Circo Massimo si faranno sentire per qualche tempo soprattutto in casa del Pd, perché il successo dell'iniziativa sgombra il cielo dai nuvoloni più neri. Almeno per il momento non è più in gioco la sopravvivenza o la disintegrazione del partito. Ma il destino del Pd non dipende soltanto dal 33,1 per cento dei suoi voti, dal risultato delle elezioni provinciali in Trentino e alle regionali in Abruzzo, e infine dalla soglia che otterrà l'anno prossimo alle elezioni europee. Il problema è sempre lo stesso, vale a dire: il Pd ha un potenziale di sviluppo che possa portarlo a essere competitivo con il partito di Berlusconi oppure rischia di essere la "minoranza strutturale" di cui ha parlato Massimo D'Alema?

Fino a qualche giorno fa la risposta era virata sul pessimismo. Da una parte si vedeva un Pd mortificato dall'assenza di spinta politica, ancora sotto l'effetto della dura sconfitta elettorale dell'aprile scorso, dall'altra si osservava l'euforia del Pdl, con i sondaggi alle stelle per il premier, che non esitava a gigioneggiare fingendo preoccupazione: "I nostro sondaggi sono perfino imbarazzanti.".

È cambiato qualcosa? Certo, è cambiato qualcosa. Il mondo non è fatto soltanto da Renato Brunetta e da Mariastella Gelmini; è fatto anche dagli impiegati pubblici, controparte di Brunetta, e da studenti, genitori, insegnanti, ricercatori, docenti, cioè gli interlocutori della Gelmini. Per esempio, benché il movimento che ha aperto le danze contro il ministro dell'Istruzione sia articolato, e contraddistinto da finalità assai differenziate al suo interno, i contestatori hanno toccato punti che hanno cominciato a sgonfiare i palloncini colorati della Gelmini.

I riflessi sul consenso al governo si sono fatti sentire. È troppo presto per dire, come arrischia qualcuno, che la luna di miele è finita: tuttavia i sondaggi cominciano a registrare una prolungata flessione del consenso dell'esecutivo, e una crescita consistente dei giudizi negativi nei suoi confronti.


E questo induce a valutare con maggiore attenzione critica i sondaggi su Berlusconi. Era infatti poco credibile che il governo da lui presieduto potesse godere di tanto favore mentre una crisi pesantissima si è abbattuta anche sulla società italiana, e mentre le prospettive per la nostra economia appaiono inquietanti.

Probabilmente c'è da distinguere tra il favore verso Berlusconi e il consenso al suo governo. Il premier è un talento mediatico che ripulisce Napoli, si arma di ramazza per strada, risolve i problemi dei 'subprime' e fila al Bagaglino, si infila in discoteca fino alle quattro e mezzo di mattina, si intrufola in una sede del Pd e scherza con i militanti, vola in Cina, sistema i cinesi e torna.

I suoi ministri invece devono fare i conti con le reazioni concrete alle loro iniziative. E allora, può darsi che il Re Silvio sia vissuto dall'opinione pubblica come una specie di prodigio naturale, una presenza inspiegabile, un miracolo da ammirare o un problema da sopportare come una volta si sopportava la Dc.

Ma il suo governo non deve soltanto produrre fenomeni pop, fuochi artificiali, paillette. Dovrebbe anche cercare di gestire un presente e un futuro di impressionante difficoltà, che non può essere addomesticato con gli slogan e le furbizie mediatiche.

Anche se il Pdl ha le idee chiare, e punta a crearsi una base elettorale strutturale, cioè un blocco di consenso permanente, la situazione si sta complicando. La modernizzazione restauratrice funziona negli annunci, ma è molto dubbio che abbia successo nella realtà.

Negli ultimi giorni Berlusconi si è incattivito, si è stizzito per le critiche, ha denunciato gli attacchi dei "facinorosi". Le cose vanno male. Per un po' Re Silvio si presenterà come l'unico argine contro la tumultuosa forza degli eventi, il sovrano che paternamente protegge i sudditi con il suo impegno straordinario. Ma poi qualcuno comincerà a pensare (anzi, molti hanno già cominciato) che sarà un caso, ma ogni volta che il premier prende il bastone del comando l'economia va in picchiata.

Come diceva quella storiella su Napoleone che prediligeva i generali fortunati? Ecco, Berlusconi ha tutte le doti del mondo, ma è un uomo abituato a gestire le fasi di sviluppo e di successo: trovarsi nella tempesta economica e nella crescita sottozero non è il suo mestiere. Quando le cose vanno male si può mentire al popolo oppure promettergli "sangue, sudore, fatica e lacrime". In quest'ultimo ruolo, Re Silvio non è credibile. Le bugie, si sa, hanno le gambe corte. A occhio, la favola bella che ieri illuse l'Italia sta per fare i conti con la realtà.

(31 ottobre 2008)


da espresso.repubblica.it
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« Risposta #34 inserito:: Novembre 20, 2008, 11:32:00 pm »

W la RAI?
20 novembre 2008


La RAI e il futuro dell'informazione.



Caro Santagata,

rispondo alla tua sollecitazione e descrivo brevemente l'opinione che ho sulla Rai.

Ogni volta che c'è di mezzo la televisione pubblica succede un mezzo casino, o un casino intero. L'affaire Villari è a suo modo rivelatore e, come si è visto, non privo di particolari grotteschi. Serve a poco andare alla ricerca delle colpe di una parte e dell'altra. Diciamo che l'opposizione ha tenuto duro per oltre quaranta votazioni sul nome di Leoluca Orlando, e alla fine la maggioranza ha selezionato, con uno spettacolare colpo basso, un altro nome. E per la presidenza della Commissione di vigilanza si è dovuto ricorrere a un grande vecchio, l'onorabilissimo Sergio Zavoli.

Ma tutto questo dovrebbe portarci a riflettere sulla Rai e in particolare sul concetto di "servizio pubblico". Ho scritto più volte in passato che il servizio  pubblico, oggi, è una finzione. Serve più che altro a consentire alle forze politiche di tenere un piede, e anzi tutt'e due, dentro l'emittente di Stato. Il sistema barocco inventato per la designazione del Consiglio d'amministrazione, della presidenza, della direzione generale non fa che mettere in rilievo le distorsioni che la politica provoca nel sistema televisivo sostenuto dal canone pagato dai cittadini.

Sono questioni che vengono da lontano. Bettino Craxi sosteneva ironicamente che il centralino della Rai era "643111", vale a dire, sei democristiani, quattro comunisti, tre socialisti e uno a testa ai partiti laici minori. Si chiamava, secondo la definizione di Alberto Ronchey, "lottizzazione". Una formula quasi scientifica, che implicava le trattative estenuanti e i compromessi al ribasso che alla lunga hanno fatto franare la Repubblica dei partiti.

Per tornare al presente, ho sempre pensato che nell'informazione, e quindi anche nell'informazione televisiva, non serve a molto appellarsi ai grandi principi, all'autonomia, all'indipendenza dei giornalisti, all'obiettività, ai fatti separati dalle opinioni. Ormai, ogni canale informativo, stampato, radiofonico o televisivo, ha un orientamento, un padrone, una simpatia, talvolta un'appartenenza esplicita. Insomma non è neutrale.

E allora serve a poco aggrapparsi a categorie del passato. Invece conviene avere fiducia nel mercato: in cui il valore principale è la pluralità degli organi di informazione, e la concorrenza fra di loro.

So di semplificare molto le cose, ma questo discorso conduce a conclusioni di un certo interesse. Vale a dire: proviamo a immaginare che cosa succederebbe se qualche eroe e martire proponesse di mettere sul mercato la Rai, privatizzandola (ovviamente in un contesto che prevedesse anche lo smantellamento antitrust dell'oligopolio Mediaset). Avremmo sei reti televisive in concorrenza. Sei telegiornali diversi, potenzialmente, sei modi concorrenziali di fare informazione (e anche intrattenimento).

A me sembra un'idea di qualche interesse. Il sistema televisivo si è arricchito con l'informazione di Sky, con il satellitare, con il digitale. Soltanto Rai e Mediaset dovrebbero restare immobili e uguali per sempre.

Alcuni sollevano un'obiezione: e il servizio pubblico? Chi farà i programmi di approfondimento, le inchieste, la televisione di qualità? Risposta: la farà chi vorrà rivolgersi a fasce di pubblico determinate. Chi individuerà una domanda e deciderà di soddisfarla. Chi si qualificherà come una emittente qualificata, chi avrà una vocazione culturale e andrà alla ricerca di un pubblico e di un mercato.

Troppo radicale, come idea? Può darsi. Ma a forza di moderazione, siamo sempre dentro il doppio monopolio e il conflitto d'interessi. Un po' d'aria nuova non farebbe male, anche per rinfrescare il dibattito.

Un caro saluto

 

di: Edmondo Berselli

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« Risposta #35 inserito:: Novembre 21, 2008, 10:58:28 am »

Edmondo Berselli.


Il nemico perfetto

L'attacco del governo alla Cgil serve a tenere insieme una coalizione caotica 


Ad applicare schemi tradizionali, non si capirebbe granché della strategia del governo. Dunque, ci troviamo dentro una crisi economica dai contorni indefiniti, dall'evoluzione imprecisabile, che potrebbe avere conseguenze inquietanti sulla nostra economia e richiedere interventi molto più pesanti di quelli predisposti a tentoni dal governo Berlusconi. In circostanze simili, un minimo di cautela, se non di preveggenza, dovrebbe indurre le forze politiche di maggioranza e i loro leader più esposti pubblicamente a moderare i toni e a valorizzare un rapporto decente con l'opposizione. Potrebbe capitare infatti, non si sa mai, di dover accettare o chiedere un contributo di coesione, per fronteggiare con ragionevolezza civile gli eventuali picchi della crisi.

E invece no. Come ha spiegato Matteo Colaninno, Berlusconi e i suoi gregari non perdono l'occasione per "mettere le dita negli occhi" all'opposizione. Il ministro Brunetta continua ad attaccare "i santuari della sinistra", mentre Maurizio Gasparri insulta pesantemente il leader del Pd ("stupido, arrogante e incapace" nel caso dell'elezione del presidente dalla Commissione di vigilanza Rai).

Ma l'attacco più forte, e a suo modo ideologico, è quello in atto contro il sindacato. Anzi, non contro il sindacato in generale, perché Cisl e Uil stanno intensificando le loro caratteristiche di sindacato "cooperativo" (il segretario della Uil Angeletti ha lasciato intendere che la base della sua confederazione lo orienta verso posizioni non antagoniste rispetto al governo). L'offensiva è invece esplicitamente contro la Cgil.

Quale sia la razionalità di questa scelta strategica non è ben chiaro. La caotica vertenza della Cai ha dimostrato, e continua a dimostrare, che quando i sindacati ufficiali sono in minoranza, le componenti autonome possono condurre al caos un settore intero. Vale a dire che se il governo riuscisse effettivamente a umiliare la Cgil, stringendo accordi con le altre due confederazioni, dovrebbe poi fronteggiare gli esiti di un conflitto sindacale conclusosi con la mortificazione di un interlocutore, e le possibili azioni ricattatorie, nonché le agitazioni selvagge, dei sindacati minori.

Conviene quindi cercare uno sfondamento? Conviene davvero trattare con sufficienza e astuzia malandrina Guglielmo Epifani, considerandolo e mostrandolo pubblicamente come un intruso da evitare? Soltanto un paio di stagioni fa questo appariva uno schema razionale ed efficiente per la destra. Dividere il sindacato, sconfiggere e marginalizzarne una componente, procedere con rapidità verso pacchetti di riforme 'liberiste'. Ma in questo momento il governo Berlusconi non ha in programma riforme liberalizzatrici. Anzi, la sua azione si sta sviluppando in termini corporativi, cercando di aggregare in un blocco coerente i ceti sociali che esprimono consenso verso il Popolo della libertà. E allora? A che cosa serve in definitiva l'offensiva contro la Cgil?

A niente. O meglio, serve più che altro a introdurre quote di conflittualità nella politica e nelle relazioni industriali. Il Pdl è una coalizione eterogenea, e il centrodestra un'alleanza in fondo caotica. Può essere tenuta insieme più agevolmente, durante una crisi grave come l'attuale, se viene continuamente mobilitata contro avversari, nemici, sabotatori, fannulloni. Da questo punto di vista la Cgil è il nemico perfetto. Ha una chiara origine di sinistra, è 'collaterale' al Partito democratico, raccoglie una rappresentanza di ceti (in particolare operai e pensionati) in via di emarginazione nei processi sociali contemporanei. È il nemico ideale, che ha come sola arma di rivalsa l'indizione dello sciopero generale, con tutti i rischi che ne possono conseguire.

Si può dire quel che si vuole, che il governo non ha una concezione chiara di come fronteggiare la crisi finanziaria ed economica, ma non che non abbia idea di dove colpire. Come si è visto, la principale capacità del Pdl consiste nel selezionare i propri avversari, valorizzandoli quando si differenziano dal mainstream del centrosinistra e attaccandoli quando rappresentano il bersaglio ideale. Il governo Berlusconi è una compagine dotata di 'cattiveria' agonistica, che ha individuato le zone deboli della sinistra e prova ad affondare i colpi. Una ragione in più per provare a difendersi con ordine, e a contrattaccare con lucidità: sullo stesso terreno, e non sul piano delle belle idee.

(21 novembre 2008)
da espresso.repubblica.it
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« Risposta #36 inserito:: Novembre 28, 2008, 10:25:08 pm »

TELEVISIONE

Zavoli amarissimi


di Edmondo Berselli


Villari, la scheggia impazzita, Zavoli messo in croce e le soluzioni dadaiste per la Commissione di vigilanza   Sono tempi duri, che inducono a riflettere sulla vita e il futuro della tv pubblica. Come ha scritto su 'Tuttolibri' l'arguto Luciano Genta, è passata una settimana di "Zavoli amari", e il solo pensiero che un uomo della qualità di Sergio Zavoli sia stato messo in gioco per finire in croce fa male alla coratella e zone circostanti. Nel frattempo tutti se la sono presa con l'uomo della sceneggiata, la scheggia impazzita del Pd Riccardo Villari. Ma fosse solo Villari, il problema. Il problema è che ci sono quelli che. Quelli che lo hanno eletto, Villari, con una bellissima soluzione dadaista: ah sì, il presidente della Commissione di vigilanza spetta all'opposizione? E allora noi della maggioranza eleggiamo uno che piace a noi.

Poi ecco quelli che hanno continuato a votare per Leoluca Orlando per più di 40 volte, forse sperando di prendere il Pdl per fame. E anche quelli che adesso dicono: tanto, la Commissione non serve a niente. Quelli che rispondono: se non serve a niente, perché questo casino? E così via.

Fosse ancora qui con noi l'inventore di Telekabul, il compianto Sandro Curzi, potrebbe fare uno dei suoi discorsi preferiti: "Compagni, attenti a non commettere altri errori" (nei suoi discorsi in pubblico, Curzi aveva l'abitudine di chiamare 'errori' i crimini del comunismo).

Insomma. Ancora non si capisce quale sia la ragione per cui quando qualcuno dice: ma dai, la Rai va privatizzata (naturalmente smantellando anche l'oligopolio Mediaset), salgono voci addolorate, che evocano il servizio pubblico e altre favole belle. Su, compagni, su fratelli, fatevene una ragione. Sennò, sempre più amari saranno gli Zavoli.

 (28 novembre 2008)
Da espresso.repubblica.it
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« Risposta #37 inserito:: Dicembre 08, 2008, 06:11:33 pm »

Questione morale, lo scenario capovolto

di EDMONDO BERSELLI


CI VUOLE la sfrontata fantasia di Silvio Berlusconi per attaccare il Pd sulla questione morale. Perché anche chi ha criticato la ventata populista dei primi anni Novanta, e non ha mai pensato che i giudici possedessero la chiave della rivoluzione politica, non può avere dimenticato la sequela di leggi ad personam volute dal capo del centrodestra, tutte tese a legare le mani a procure e tribunali, dal decreto Biondi del 1994 fino al "lodo Alfano".

Il centrodestra ha dedicato quasi 15 anni a regolare i conti con la magistratura (le "toghe rosse", nel lessico berlusconiano).

Alla fine, vinta la sua guerra personale, Berlusconi si è assunto tutte le responsabilità politico-penali della prima Repubblica, concludendo che i magistrati sono i veri colpevoli di ciò che ha spezzato una "storia di sviluppo e di libertà".

Se si accetta il teorema di un sequestro della vita pubblica operato nei primi anni Novanta da Mani pulite, con il corollario di una lotta per la vita, durata fino a oggi, fra la politica e la giustizia, risulta facile chiudere il sillogismo argomentando che in questi giorni si assiste alla vendetta della giustizia contro chi pretese di cavalcarla, salvandosi immeritatamente dalla tempesta che travolse il sistema politico-affaristico di Tangentopoli.

Ma è una ricostruzione distorta. Mani pulite travolse una classe di governo corrotta e sfinita. Il Pci-Pds non partecipava al governo nazionale, ed era meno implicato nell'oligopolio di Tangentopoli. Immaginare che il Pd attuale sconti la rivalsa della storia, e paghi integralmente la strategia di allora degli ex comunisti, significa da un lato equiparare i Democratici a eredi diretti del Pci, e dall'altro procedere secondo filosofie cospirative che in realtà spiegano ben poco della situazione attuale del partito guidato da Walter Veltroni.

Nella realtà, il Pd sente il peso di un'abitudine al potere locale che scopre alcuni suoi vizi: negli ultimi anni, studiosi come Carlo Trigilia hanno messo in rilievo non tanto una "questione morale" nelle regioni rosse, quanto gli indizi, non proprio sporadici, di un degrado della qualità amministrativa.

Alcuni episodi e situazioni, come il caso abruzzese della sanità, il disastro dei rifiuti a Napoli e la vicenda urbanistica di Firenze, rendono evidente questo aspetto (anche se Rosa Russo Jervolino e Leonardo Domenici rivendicano con orgoglio l'assoluta estraneità da coinvolgimenti penali).

Quindi il Pd non dovrebbe limitarsi a respingere con disprezzo le provocazioni di Berlusconi. Se una decente qualità tecnica e morale nelle amministrazioni costituisce una delle risorse residue del partito, qualsiasi incrinatura in questo patrimonio va considerato un'insidia grave, che genera inquietudine e tende a rendere meno credibili le rivendicazioni come quella espressa polemicamente da Veltroni nella manifestazione del Circo Massimo ("Il paese è migliore della destra che lo governa").

In sostanza, è improprio e strumentale sostenere l'esistenza di una "questione morale" che grava sul Pd. Semmai un problema di dignità pubblica, di lealtà con i cittadini, di deontologia, di trasparenza, di stile, e talora di corruzione perdurante, incombe su tutta la politica italiana. Questo però si deve a ragioni che il Pd farebbe bene a esaminare con realismo, senza accontentarsi di formule manichee. La questione morale infatti non è il frutto della disonestà intrinseca agli uomini, alla politica o alla destra; è piuttosto il risultato di cattive pratiche, di lacune operative, di soluzioni mancate.

Noi scontiamo le riforme incompiute, e la conseguente mancata razionalizzazione delle regole. Va da sé che si fanno sentire anche le riforme tradite, come è avvenuto con il Porcellum, autentica legge carogna voluta dalla destra per impedire all'Unione di governare. Ma paghiamo soprattutto l'incapacità di costruire un sistema istituzionale aderente a un rapporto chiaro fra governanti e governati, fra controllori e controllati, fra elettori e politica, fra affari e istituzioni, fra cittadini e giustizia: e questo non è imputabile a una parte sola.

Quante volte Scalfaro, Ciampi e Napolitano hanno invocato riforme istituzionali ragionevoli? In aggiunta a questa tematica generale, che mette alla prova la sua vocazione a governare la modernizzazione del paese, il Pd ha l'obbligo di un esercizio radicale di onestà politica. Cioè di passare in rassegna regole interne, procedure, metodi di decisione. Per dire a se stesso se è effettivamente un'entità strutturata democraticamente, o se è piuttosto una somma di correnti autodefinite, di capi autonominati e di personalità cooptate.

Un buon esame di coscienza è il primo passo per correggere scarti e deviazioni. E poiché ci vuole poco a capire che i possibili effetti della propaganda berlusconiana sulla questione morale si intrecciano alle difficoltà evidenti di per sé sul terreno politico, sarebbe bene rendersi conto che in questo momento al Pd non serve la routine, e neppure le parole d'ordine. Ci vuole una seria mobilitazione, organizzativa e istituzionale, per definire con chiarezza i contorni effettivi di un'emergenza; e per decidere razionalmente le contromisure.


(8 dicembre 2008)
da repubblica.it
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« Risposta #38 inserito:: Dicembre 12, 2008, 03:34:53 pm »

Edmondo Berselli

Commissario per il PD


La condizione del Partito democratico è di piena emergenza. E ora serve una soluzione eccezionale.

Il marasma in cui è precipitato il Pd è dovuto a varie ragioni, e la più seria deriva dalle ondate di sofferenza politica provenienti dalla sconfitta del 13-14 aprile, nonché dall'andamento schizofrenico del 'dialogo' con Silvio Berlusconi, che prima ha attirato Walter Veltroni in campo aperto, e poi lo ha colpito a freddo.

Ma è anche chiaro che nel Pd le linee di contrasto interno sono numerose. Innanzitutto c'è un'incertezza sulla strategia generale del partito: la problematica alleanza con il partito giustizialista di Antonio Di Pietro è stata data per sciolta un giorno sì e l'altro pure, ma agli annunci non sono seguiti i fatti, e l'ex pm trova continue occasioni per esercitare una concorrenza vistosa verso il Pd.

Nel quale in prospettiva si profilano almeno due ipotesi, se non proprio due progetti. Da un lato si vede la scia del progetto veltroniano fondato sulla "vocazione maggioritaria", che vede nel partito un potenziale di consenso ancora inesplorato, e quindi lo considera in grado di candidarsi a governare la nuova modernizzazione del paese, alleandosi eventualmente soltanto "con chi ci sta", cioè condivide il programma generale del Pd.

Questa sarebbe la direttrice ufficiale. Ma su un altro lato, quasi mai dichiarato ufficialmente, serpeggia l'idea che il Pd è, crocianamente, un 'ircocervo', cioè una chimera, un ibrido; e dunque occorre favorire la nascita di un'alleanza al centro, con l'Udc, e di un'altra a sinistra, con i partiti residui della Sinistra Arcobaleno. Se poi questa strategia dovesse portare alla disgregazione del Pd, con i centristi da una parte e gli ex comunisti dall'altra, niente paura: si riesuma il politicissimo 'centro-sinistra con il trattino', con tanti saluti al partito nuovo e il ritorno alla rassicurante coalizione tra realtà diverse, senza ubbíe uliviste o 'democrat'.

Quest'ultima scelta, modellata su schemi di realismo politico assoluto, sarebbe il riconoscimento che contro la destra attuale il Pd non ha chance, e quindi deve cambiare schema di gioco. Se poi si aggiunge che negli ultimi giorni si sono susseguite dichiarazioni di esponenti 'nordisti' come Sergio Chiamparino, Filippo Penati e Massimo Cacciari, i quali hanno riaperto la questione territoriale, rilanciando l'ipotesi del Partito del Nord (il sindaco di Torino alludendo anche a possibili evoluzioni nel rapporto con la Lega), ci si accorge che il Pd in questo momento è un partito davvero ipotetico: si alimenta di ipotesi conflittuali, senza che risulti chiara, e sottoscritta dagli organi dirigenti, un'idea complessiva.

Mettiamoci sopra, come suggello terminale, la crisi territoriale, con l'emergere di una questione di legalità che coinvolge diverse amministrazioni locali (vedi il numero scorso de 'L'espresso'), e non manca nulla alla constatazione di una piena emergenza. Con l'aggravante che l'emergenza non è riconosciuta; anzi, lo sforzo principale dei dirigenti consiste nel negare, ridimensionare, sottacere: insomma, il troncare e sopire di manzoniana memoria, che tuttavia non può occultare la profonda sfiducia che si è impadronita del partito, e il senso di delusione negli eletti, di frustrazione nella base e di disarmo morale nell'opinione pubblica vicina al riformismo del centrosinistra.

Basta sommare tutti gli elementi appena ricordati, e l'incapacità di svolgere un'opposizione convincente al governo di Silvio Berlusconi, modestissimo e gravemente insufficiente rispetto alla crisi, per rendersi conto che il Pd è in emergenza: anzi, oltre l'emergenza. E allora, se ci si trova in una condizione eccezionale, non serve a nulla far finta di niente, e pensare di risolvere i problemi con negoziati e accordicchi interni. A condizione eccezionale, soluzioni eccezionali. Non i coordinamenti, le riunioni burocratiche, le procedure standard. Ci vuole qualcosa di solenne, che mostri alla società italiana la percezione esatta di un problema straordinario. Occorre la mobilitazione di tutte le risorse personali, parlamentari e locali, per procedere a un esame della situazione fuori dai criteri ordinari e a uno 'stringiamci a coorte', proprio in senso patriottico, dei principali dirigenti.

Ci sono severe opposizioni a un'ipotesi del genere. Il rischio evocato è quello di un sostanziale commissariamento del Pd. Ma che dire? Meglio un commissariamento di fatto che una unità formale e fittizia, il retorico 'nessuno tocchi Veltroni', il patteggiamento fra le correnti alle spalle del segretario. Il Pd rischia l'asfissia da consenso domestico. Ma se la piaga rischia di essere cancrenosa, meglio, molto meglio allora il medico impietoso.

(12 dicembre 2008)
da espresso.repubblica.it
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« Risposta #39 inserito:: Dicembre 16, 2008, 11:05:02 am »

IL COMMENTO

Se si spegne la fiducia

di EDMONDO BERSELLI


NESSUNO a sinistra si faceva illusioni sul risultato delle elezioni regionali in Abruzzo. Ma, di fronte ai numeri che si profilano via via che affluiscono i dati, cresce la sensazione che il voto abruzzese non rappresenti un esito soltanto locale, e nemmeno solo il risultato fisiologico dello scandalo nella Sanità che ha coinvolto il presidente Ottaviano Del Turco e ha abbattuto il governo regionale di centrosinistra. Il primo e plateale dato da mettere in rilievo, infatti, è la caduta della partecipazione al 53 per cento, quasi trenta punti al di sotto delle ultime consultazioni politiche e quindici rispetto alle precedenti elezioni regionali.

Dunque occorre prendere atto che la sinistra vede profilarsi una rottura impressionante con il proprio elettorato. Giustificato in larga misura dalla vicenda giudiziaria in cui è rimasto implicato Del Turco: ma come dimenticare, allora, che anche in altre regioni a maggioranza di sinistra, come in Toscana e in Campania, la questione di legalità potrebbe incrinare il consenso più consolidato?

Ce ne sarebbe abbastanza per lanciare un allarme severo, se non fosse che il voto abruzzese mette in rilievo fattori stridenti soprattutto per il Pd. Il partito di Walter Veltroni perde in percentuale circa 11 punti (mettendo nel conto la lista territoriale dei Democratici per l'Abruzzo), rispetto alle politiche: si tratta di una caduta scontata, in cui si sommano ragioni locali e la perdita di velocità al livello nazionale, ma la cui ampiezza potrebbe avere ripercussioni anche al vertice del partito, a dispetto degli sforzi di compattamento sperimentati negli ultimi giorni.

Il fatto è che il voto in Abruzzo mette allo scoperto le numerose incertezze e tutti i possibili punti di crisi del Pd. In queste elezioni regionali infatti si era varata un'alleanza simile all'Unione, ossia estesa fino ai partiti della ex Sinistra Arcobaleno: una geometria variabile necessaria sul piano regionale, e consentita dalla separazione "consensuale" praticata prima delle elezioni di aprile della scelta più o meno solitaria di Veltroni, ma che comunque non apporta elementi di chiarezza nella strategia politica complessiva del centrosinistra.

A maggior ragione se l'alleato più scomodo, cioè l'Italia dei Valori di Antonio di Pietro, dopo avere ottenuto la guida della coalizione con Carlo Costantini, ha raddoppiato i propri voti rispetto alle elezioni di aprile (e quasi sestuplicato i consensi rispetto alle regionali del 2005). Si profila quindi l'esasperazione della partnership rivale fra Di Pietro e il Pd, al punto che, a partire dalla direzione dei Democratici del 19 dicembre, potrebbe porsi il dilemma di un'alleanza squilibrata, in cui l'Idv attacca a trecentosessanta gradi con la sua durezza giustizialista, e il Pd prende tutte le botte, anche quelle destinate più generalmente alla politica, all'illegalità, ai "corrotti".

Insomma all'interno dell'alleanza voluta da Veltroni l'asimmetria è assai forte. Se si prende nota di una piccola ripresa della sinistra antagonista, si ha la sensazione che nel prossimo futuro, cioè alle elezioni europee, il Pd sia attaccabile da troppi fronti. E non consola l'idea che l'altra opposizione, quella rappresentata dall'Udc, seppure in condizioni di grave tensione e sofferenza, nella sostanza abbia tenuto le posizioni.

Piuttosto, va messo agli atti che, a dispetto di condizioni ultrafavorevoli, il Pdl non sfonda come si poteva immaginare. Evidentemente, la crisi della politica, con il collasso della partecipazione dei cittadini, fa sentire i suoi effetti lungo tutto l'arco politico. Nessuno è esente dai contraccolpi della perdita di credibilità della politica. E questo, al di là della crisi del Pd, è l'elemento di maggiore spicco nel voto in Abruzzo, un dato che dovrebbe destare allarme anche nei vincitori: perché quel 53 per cento è il segnale di un distacco abissale, che dovrebbe portare a trattare con minore enfasi i consensi trionfali verso il governo: è una specie di ritiro della fiducia, e quando la fiducia si spegne, per la vita democratica cominciano i guai.

(16 dicembre 2008)
da repubblica.it
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« Risposta #40 inserito:: Dicembre 27, 2008, 09:51:53 am »

TELEVISIONE

I pornoscemi

di Edmondo Berselli


Che senso hanno questi programmi del satellite che mostrano scene di sesso edulcorato e inutile? Ce lo stiamo chiedendo in molti   Mentre il ciglio comincia a pesare, in certe ore della tarda serata, può capitare che il pollice si fermi su programmi come 'Sos Patata' o '69 cose sexy da fare prima di morire'. E allora io sarò stato colto da un attacco di bacchettonismo, ma devo dire che quando sento le voci di quelle di 'Sos Patata', doppiate come deficienti, che strillano e squittiscono, ho la tentazione di rinunciare al sesso, anche quello immaginario, per le prossime stagioni.

Quanto alle 69 cose che sarebbero da fare prima di morire, a parte l'esprit de finesse del titolo, e facendo i dovuti scongiuri, l'imbarazzo aumenta. Perché con 'Sos Patata' la faccenda si risolve semplicemente con un tocco sul telecomando, mentre le patate squittiscono. Ma se vi capita di restare qualche istante sulle 69 cose, qui l'affare si complica, perché cominciano a passare scene dove dei belloni fanno grugniti con delle bellone, simulano quelle cose lì, oppure le più light le fanno davvero, boh.

E allora, noi dovremmo sapere che la pornografia è una cosa onesta: uno vuole vedere sesso, e lo guarda. Fatti suoi. Ma il sesso contingentato della tv satellitare è una ciofeca di quelle burine, un soft porno piuttosto deprimente. E ci si chiede: ma li guarderà qualcuno, questi programmi? E perché? Insomma, perché ci dovrebbero essere telespettatori che invece di spararsi un dvd porno di quelli tosti, o almeno accedere alla parte 'hot' di Sky, dovrebbero guardarsi queste versioni edulcorate e sceme?

La risposta, naturalmente, non c'è. Personalmente, quando incrocio questi programmi, all'improvviso mi viene voglia di una fiction sui papi.


26 dicembre 2008
da espresso.repubblica.it
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« Risposta #41 inserito:: Gennaio 09, 2009, 04:43:23 pm »

Edmondo Berselli

Tutti i guai Alitalia-Cai


La vicenda mostra come il governo sia al di sotto degli standard necessari per salvare l'Italia dalla crisi e farla ripartire  Si dovrebbe sapere che una cattiva soluzione provoca continui problemi. E, in via subordinata, una cattiva soluzione è il sintomo di una mediocre qualità di governo. Sul caso Alitalia non vale neppure la pena di fare profezie. Si può prevedere che la compagnia di bandiera, sbandierata come grande successo berlusconiano, vessillo del governo di destra, gonfalone dei suoi trionfi, finirà smantellata, triturata, ceduta al prezzo di saldo, e il personale, per evitare disordini, deportato in una qualche Guantanamo.

Ma le previsioni catastrofiste servono solo ad aumentare la nevrosi. Intanto c'è da capire che cosa sta succedendo. Nel momento in cui 'la Repubblica' ha dato la notizia della probabile cessione del 25 per cento della società a Air France, è stato naturale per un riformista come Enrico Morando, senatore del Pd, lasciarsi cadere le braccia: "Siamo arrivati alla stessa conclusione (del governo Prodi, ndr), l'alleanza con Air France, ma facendo un lunghissimo giro, che ha solo peggiorato la situazione".

Secondo Morando, il peggioramento comprende il mancato salvataggio della Malpensa, costi sociali più alti, e tre miliardi di euro accollati al bilancio pubblico. Tutto questo per un'operazione di immagine, e con l'intento di costituire un circuito di imprese 'governativo'. Una classica operazione alla Berlusconi, una specie di periplo lunghissimo affibbiato allo Stato, una crociera di lusso pagata con i soldi altrui. Furbizie dell'aeroportino. Solo che nel frattempo i nordisti governativi e non governativi, dal sindaco di Milano Moratti al presidente della provincia Penati e al governatore della Lombardia Formigoni, con il supporto di Umberto Bossi e della Lega, sono insorti, spingendo per riprendere le trattative con Lufthansa, che potrebbe forse garantire alla Malpensa un futuro migliore. Forse. Tutto ciò mentre decollavano dichiarazioni bellicose, tipo 'il governo farà sentire il suo peso' e 'Berlusconi farà sentire la sua voce'.

Il partito tedesco è soltanto uno dei protagonisti di un gioco dei quattro cantoni a cui hanno partecipato tutti (il governo, l'opposizione, i sindacati, i partiti, le imprese, le lobby, le amministrazioni locali, nonché vari brasseur per conto di governi stranieri): tutti, tranne uno. Il grande assente si chiama mercato. Per chi se lo fosse dimenticato, il mercato è quell'idolo a cui Berlusconi e i suoi soci volevano fare sacrifici umani, con il ciglio umido di commozione mentre citavano Reagan e la Thatcher. Adesso, tutti zitti, la voce si alza soltanto per proteggere un presunto interesse nazionale, e poi un interesse locale, giù giù fin dove è possibile.

Come ha spiegato sulla 'Stampa' Giuseppe Berta, anziché scindere le sorti di Malpensa da quelle dell'Alitalia e di allestire le condizioni per radicarvi un grande operatore straniero, vale a dire, anziché puntare razionalmente su prospettive di mercato, "si è scelta la via italiana di cementare una combinazione di interessi sostanzialmente collusiva". Il risultato? Un capolavoro a rovescio, a suo modo magistrale, con un accordo societario, quello con Air France, che viene messo in discussione dai feudatari a pochi giorni dalla conclusione, mentre su tutto si stende l'ala intrusiva della politica: alcune modeste analisi empiriche su base europea mostrano che anche grazie al disprezzo per la concorrenza, e grazie ai salvataggi e ai favori, le tariffe interne italiane sono alte più o meno il doppio di quelle degli altri paesi dell'Ue (si dice tariffa perché si tratta in effetti di un prezzo imposto).

La vicenda Cai-Alitalia appare soltanto uno degli aspetti critici di un governo che è molto al di sotto degli standard necessari per progettare un'Italia in grado di resistere alla crisi e ripartire. Lo stile governativo mette insieme il caos tecnologico e paternalista della social card, con gli anziani che fanno la fila alle Poste per ritrovarsi la card scarica, la navigazione a vista sul fronte della recessione, il peggioramento dei conti pubblici, il livello penoso sul piano internazionale, dimostrato con i balbettii durante la crisi di Gaza.

Il consenso rimane altissimo, naturalmente, "bulgaro" e "imbarazzante" secondo il capo del governo, e quindi, si deduce, meritevole di una unzione presidenzialista. Forse tutto questo vuol dire che il paese si sta abituando, o rassegnando, a Berlusconi e al Pdl. Si capisce che questa è una conclusione disarmante. Induce a lasciar cadere le braccia, come Morando, e ad alzare sconsolatamente gli occhi al cielo: magari capiterà, uno di questi giorni, di vedere, nel sole ('soleil' in francese) o comunque nel cielo ('Himmel', in tedesco), un aeroplanino con una struggente bandierina tricolore.

(09 gennaio 2009)
da espresso.repubblica.it
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« Risposta #42 inserito:: Gennaio 13, 2009, 01:03:30 am »

ECONOMIA      Fallisce l'azienda simbolo della "piastrella valley" di Sassuolo

Si dissolve un'impresa modello. Senza posto 780 lavoratori

Iris, chiude un gioiello italiano strangolato dalla crisi globale

La recessione non ha sfumature e minaccia di spazzare via tutti, buoni e cattivi


di EDMONDO BERSELLI
 

QUESTA è la storia di come ti entra in casa la globalizzazione, e dopo la globalizzazione la crisi, e dopo la crisi chissà. A Sassuolo, quarantamila abitanti, una delle capitali mondiali della ceramica, la faccia cattiva della recessione si è affacciata senza bussare.
Erano anni che il settore della piastrella, quello descritto negli anni Sessanta dal giovane Prodi come il "modello di sviluppo di un settore in rapida crescita", lentamente scendeva nelle quote di mercato, limava il fatturato, perdeva addetti, ristrutturava, recuperava a fatica con la qualità e il prezzo ciò che perdeva in quantità. All'improvviso è arrivato lo schianto.

Il 5 gennaio l'assemblea sociale del gruppo Iris, fondato da Romano Minozzi, ha deciso l'autoscioglimento, la messa in liquidazione dei suoi tre stabilimenti, e la collocazione in mobilità, cioè sulla strada, dei 780 dipendenti. Un'impresa gioiello, leader sul piano internazionale, semplicemente si dissolve. Fatte le proporzioni, è all'incirca come se in provincia di Torino evaporasse da un giorno all'altro la Fiat, o nella Grande Milano fossero licenziati in un colpo solo 80 mila lavoratori.

Si chiude. Senza preavvisi, senza trattative. Mentre tutt'intorno la crisi genera incubi anche negli altri comparti industriali. Con il sindaco di Sassuolo, Graziano Pattuzzi (Pd), che sbarra gli occhi, le forze politiche che si appellano alla "responsabilità sociale" delle imprese, i sindacati sbigottiti che implorano negoziati e minacciano la mobilitazione dell'intero distretto ceramico, con le sue duecento imprese, quattro miliardi e mezzo di fatturato, 22 mila addetti distribuiti fra le province di Modena e Reggio Emilia (di cui adesso 8 mila in cassa integrazione ordinaria, praticamente una strage).

Il distretto di Sassuolo ha rappresentato nel tempo uno dei più classici miracoli italiani. Una produzione tradizionale che risale alle "majoliche" del Sei-Settecento ha visto il miracolo dentro il miracolo, quando le fornaci sono venute su da un giorno all'altro. Il boom rappresentò una produzione strepitosa di ricchezza nel cuore dell'Emilia rossa e migliorista, fra sindaci pragmatici e imprenditori disinibiti. Fu lo stesso Minozzi a sintetizzare gli anni d'oro: "Allora si diceva che, a Sassuolo, tra il fare un partita a briscola e fondare una ceramica non c'era differenza. Ma non era vero: si facevano molte più ceramiche che partite a briscola".

Il resto è storia. Invenzioni tecnologiche continue, una serie di crisi superate con ristrutturazioni sanguinose e con ripartenze brucianti. "Riducete i costi e investite, investite tutto", ammonivano i grandi vecchi della piastrella. Sono sempre stati presi sul serio. Infatti, se uno entra ora in una ceramica resta stupefatto dall'apparente assenza di addetti, mentre le fornaci a monocottura sfornano piastrelle a getto continuo e carrelli robotizzati si spostano mossi da comandi invisibili.

Sono aziende ad alta intensità di capitale, che richiedono investimenti pesanti, hanno tempi di ammortamento lunghi e una redditività moderata. Finora sono riuscite a restare competitive grazie a una impressionante flessibilità produttiva, che consente forniture praticamente personalizzate: "Un appartamento no, ma un condominio a Parigi riusciamo a servirlo". Alle aziende edili della capitale francese costa meno che una fornitura da Lione. Vent'anni fa un'azienda produceva fra i 30 e i 40 articoli, con le vendite che si concentravano su un segmento di tre o quattro prodotti. Oggi la stessa azienda realizza tremila tipologie. Tutto ciò grazie al contenuto tecnologico degli impianti, che incorporano design d'eccezione e spuntano altissimi coefficienti di qualità.

Ebbene, sotto il profilo teorico la decisione di un imprenditore storico come Minozzi di uscire dal settore, e di concentrare le risorse residue in comparti diversi, è un caso da manuale di "efficienza allocativa": si spostano gli investimenti dove le chance di profitto sono migliori. Fuori dal fumus oeconomicus, la scelta ha l'aspetto del rompete le righe. Perché è vero che negli ultimi tempi il gruppo Iris aveva conosciuto un vistoso calo del fatturato, oltre il 40 per cento nell'ultimo biennio. Ma sospendere l'attività non ha per nulla l'aspetto di una scelta aziendale; assomiglia piuttosto a una dichiarazione di resa. Come a dire: il distretto di Sassuolo è finito. Usciamo adesso e salviamo il salvabile, perché nel giro di due anni potrebbe non esserci più nulla: a recessione terminata, allorché l'economia mondiale riprenderà il suo ciclo, nel territorio fra Sassuolo, Maranello, Fiorano, Casalgrande, Scandiano potrebbero esserci soltanto relitti industriali. Un pezzo del miracolo emiliano trasformato in un cratere lunare.

"È cominciata l'era glaciale", ha scritto Minozzi nella relazione societaria. Colpa dell'iperproduzione e del dumping cinese. Colpa dell'euro troppo alto sul dollaro che schiaccia le esportazioni negli Stati Uniti. Colpa dei nuovi e vecchi produttori, dalla Spagna alla Turchia, dal Messico al Brasile, con la loro concorrenza senza quartiere. Colpa del Wto e dei cambiamenti nella divisione internazionale del lavoro. Colpa del mondo nuovo, insomma. Di un'economia senza barriere e senza limiti, che favorirà anche la "distruzione creatrice" di Schumpeter, ma per il momento, qui e ora, distrugge e basta.

E allora l'obiettivo inevitabilmente si allarga, l'inquadratura si amplia, da Sassuolo all'Emilia, dall'Emilia all'Italia produttiva della piccola e media impresa. A cerchi concentrici investe tutta l'Europa. E non solo. Perché se il distretto ceramico è davvero il possibile paradigma degli effetti della crisi, il problema non è soltanto economico. Diventa filosofico, si fa addirittura morale. Gli economisti che hanno dettato il dogma liberista negli ultimi trent'anni, e che hanno dileggiato il modello "renano" dell'economia sociale di mercato, proveranno a spiegare che gli shock di settore a cui assisteremo saranno semplicemente malattie adattative, a cui il mercato risponderà con le terapie migliori, cioè allocando in altri settori gli investimenti. "Nel lungo periodo" si ristabilirà l'equilibrio, riprenderà l'accumulazione di ricchezza, l'occupazione crescerà di nuovo. La "grande trasformazione" dell'Ottocento, descritta da Karl Polanyi come la nascita dell'economia moderna, conoscerà un nuovo capitolo.

Troppo facile rispondere, con il bignami keynesiano, che nel lungo periodo siamo tutti sottoterra. Ma c'è un elemento fattuale che andrebbe precisato: vale a dire che la crisi non conosce sfumature. Non si limita a ripulire le inefficienze. Non è l'igiene dell'economia. Perché minaccia di spazzare via tutti: i cattivi e i buoni, gli inefficienti e gli efficienti, i non competitivi e i competitivi.

Rischia insomma di annichilire tutte le qualità insite nel lavoro e nell'impresa. L'Emilia dei distretti industriali e l'Italia delle mille specializzazioni produttive intravedono un orizzonte spettrale, in cui la metamorfosi economica mondiale assume fattezze catastrofiche. E allora anche le domande si fanno incerte, perché toccano la sostanza stessa di un assetto sociale. Quale senso ha infatti un sistema economico che non contiene un principio di giustizia, che non distingue, che fa a pezzi sia gli acrobati della finanza illusionistica come il grande truffatore Bernard Madoff sia i protagonisti dell'intelligenza applicata alle tecniche di produzione e ai prodotti? Quale giustificazione razionale ha un sistema che si dimostra nei fatti privo di una moralità intrinseca?

Qui è consigliabile fermarsi, perché fra Sassuolo e la metafisica c'è solo un passo. Ma se uno guarda alla infinita megalopoli industriale nella pianura padana, se mette a fuoco i prodigi tecnologici di cui è disseminata, la qualità del lavoro che si è espressa nella manifattura italiana, non può fare a meno di pensare che non sappiamo che cosa potrà sopravvivere di tutto questo, della virtù tecnica delle centinaia di aziende intorno alla Ferrari di Maranello, nelle piccole cattedrali della meccanica e della meccatronica, nelle aziendine dell'ultratecnologia, nella produttività furibonda del Nordest.

Nel frattempo, guarda caso, sono praticamente ammutoliti i fautori della "mano invisibile". In attesa che si rifacciano vivi, non sarebbe il caso di ricominciare a discutere il mercato, la crescita, i fallimenti della capacità autoregolatrice del mercato? Magari anche soltanto per spiegare, a quel piccolo epicentro che è Sassuolo, cioè alla capitale di un cortocircuito autenticamente glocal, a una comunità che senza volerlo si ritrova in un punto cruciale di questa selvaggia "New Era", dove crisi mondiale e dramma locale si incrociano, che un giorno potrà andare orgogliosa di avere fatto da cavia alla nuova "grande trasformazione".

(12 gennaio 2009)
da repubblica.it
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« Risposta #43 inserito:: Gennaio 16, 2009, 11:46:37 pm »

Edmondo Berselli.

Tutti i guai Alitalia-Cai


La vicenda mostra come il governo sia al di sotto degli standard necessari per salvare l'Italia dalla crisi e farla ripartire  Si dovrebbe sapere che una cattiva soluzione provoca continui problemi. E, in via subordinata, una cattiva soluzione è il sintomo di una mediocre qualità di governo. Sul caso Alitalia non vale neppure la pena di fare profezie. Si può prevedere che la compagnia di bandiera, sbandierata come grande successo berlusconiano, vessillo del governo di destra, gonfalone dei suoi trionfi, finirà smantellata, triturata, ceduta al prezzo di saldo, e il personale, per evitare disordini, deportato in una qualche Guantanamo.

Ma le previsioni catastrofiste servono solo ad aumentare la nevrosi. Intanto c'è da capire che cosa sta succedendo. Nel momento in cui 'la Repubblica' ha dato la notizia della probabile cessione del 25 per cento della società a Air France, è stato naturale per un riformista come Enrico Morando, senatore del Pd, lasciarsi cadere le braccia: "Siamo arrivati alla stessa conclusione (del governo Prodi, ndr), l'alleanza con Air France, ma facendo un lunghissimo giro, che ha solo peggiorato la situazione".

Secondo Morando, il peggioramento comprende il mancato salvataggio della Malpensa, costi sociali più alti, e tre miliardi di euro accollati al bilancio pubblico. Tutto questo per un'operazione di immagine, e con l'intento di costituire un circuito di imprese 'governativo'. Una classica operazione alla Berlusconi, una specie di periplo lunghissimo affibbiato allo Stato, una crociera di lusso pagata con i soldi altrui. Furbizie dell'aeroportino. Solo che nel frattempo i nordisti governativi e non governativi, dal sindaco di Milano Moratti al presidente della provincia Penati e al governatore della Lombardia Formigoni, con il supporto di Umberto Bossi e della Lega, sono insorti, spingendo per riprendere le trattative con Lufthansa, che potrebbe forse garantire alla Malpensa un futuro migliore. Forse. Tutto ciò mentre decollavano dichiarazioni bellicose, tipo 'il governo farà sentire il suo peso' e 'Berlusconi farà sentire la sua voce'.

Il partito tedesco è soltanto uno dei protagonisti di un gioco dei quattro cantoni a cui hanno partecipato tutti (il governo, l'opposizione, i sindacati, i partiti, le imprese, le lobby, le amministrazioni locali, nonché vari brasseur per conto di governi stranieri): tutti, tranne uno. Il grande assente si chiama mercato. Per chi se lo fosse dimenticato, il mercato è quell'idolo a cui Berlusconi e i suoi soci volevano fare sacrifici umani, con il ciglio umido di commozione mentre citavano Reagan e la Thatcher. Adesso, tutti zitti, la voce si alza soltanto per proteggere un presunto interesse nazionale, e poi un interesse locale, giù giù fin dove è possibile.

Come ha spiegato sulla 'Stampa' Giuseppe Berta, anziché scindere le sorti di Malpensa da quelle dell'Alitalia e di allestire le condizioni per radicarvi un grande operatore straniero, vale a dire, anziché puntare razionalmente su prospettive di mercato, "si è scelta la via italiana di cementare una combinazione di interessi sostanzialmente collusiva". Il risultato? Un capolavoro a rovescio, a suo modo magistrale, con un accordo societario, quello con Air France, che viene messo in discussione dai feudatari a pochi giorni dalla conclusione, mentre su tutto si stende l'ala intrusiva della politica: alcune modeste analisi empiriche su base europea mostrano che anche grazie al disprezzo per la concorrenza, e grazie ai salvataggi e ai favori, le tariffe interne italiane sono alte più o meno il doppio di quelle degli altri paesi dell'Ue (si dice tariffa perché si tratta in effetti di un prezzo imposto).

La vicenda Cai-Alitalia appare soltanto uno degli aspetti critici di un governo che è molto al di sotto degli standard necessari per progettare un'Italia in grado di resistere alla crisi e ripartire. Lo stile governativo mette insieme il caos tecnologico e paternalista della social card, con gli anziani che fanno la fila alle Poste per ritrovarsi la card scarica, la navigazione a vista sul fronte della recessione, il peggioramento dei conti pubblici, il livello penoso sul piano internazionale, dimostrato con i balbettii durante la crisi di Gaza.

Il consenso rimane altissimo, naturalmente, "bulgaro" e "imbarazzante" secondo il capo del governo, e quindi, si deduce, meritevole di una unzione presidenzialista. Forse tutto questo vuol dire che il paese si sta abituando, o rassegnando, a Berlusconi e al Pdl. Si capisce che questa è una conclusione disarmante. Induce a lasciar cadere le braccia, come Morando, e ad alzare sconsolatamente gli occhi al cielo: magari capiterà, uno di questi giorni, di vedere, nel sole ('soleil' in francese) o comunque nel cielo ('Himmel', in tedesco), un aeroplanino con una struggente bandierina tricolore.

(09 gennaio 2009)
da espresso.repubblica.it
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« Risposta #44 inserito:: Febbraio 22, 2009, 03:30:51 pm »

Edmondo Berselli


Così il Pd va a pezzi


L'ultima invenzione della sinistra per non essere minoritaria a metà strada tra partito di massa e galassia d'opinione  Rosy BindiAltro che un cantiere. Il Partito democratico è in piena turbolenza. Alle componenti conosciute dell'"amalgama mal riuscito" (secondo la realistica definizione di Massimo D'Alema) si sommano di continuo elementi di ulteriore conflitto e disturbo. La vittoria inattesa di Matteo Renzi alle primarie per il Comune di Firenze (un boy scout, cattolico e margheritino, che batte un altro rampollo della filiera democristiana, Lapo Pistelli, con l'ala laico-socialista che sta a guardare), il risultato di Renato Soru in Sardegna, la confusa situazione di Bologna, dove il prodiano Delbono deve fronteggiare due candidati alternativi, nonché l'uovo di cuculo rappresentato dalla sinistra a naso arricciato di Gianfranco Pasquino. Mettiamoci anche la polemica anti-Pd del principe elettore Lorenzo Dellai in Trentino, e ci sono tutti gli ingredienti per fare impazzire la maionese.

Eppure la linea vera di divisione corre ancora fra laici e cattolici. O meglio, fra ex della Margherita ed ex Ds. A questo proposito, la vicenda di Eluana Englaro è stata più che significativa: a fronte della colossale strumentalizzazione berlusconiana, salvo rare eccezioni (come la laicità combattiva di Rosy Bindi) il Pd non è riuscito a fare sentire una parola, in quanto partito. Sono stati usati eufemismi, si sono visti eleganti volteggi, sono state pronunciate molte parole politiciste, ma sul caso in sé il Pd non è stato capace di allestire una discussione pubblica seria.

In sé, non è un problema se in una formazione politica esistono punti di vista diversi. Non viviamo più nell'epoca dei dogmi ideologici. Proprio per questo sarebbe stato giusto che le differenze di concezione emergessero, con chiarezza e civiltà. E invece si è avuto soltanto il silenzio. C'era anche l'occasione per chiarire davanti all'opinione pubblica che cos'è un partito moderno, che comprende visioni differenziate sui temi etici. Il mutismo ha rappresentato una specie di abdicazione politica e culturale. E il risultato è che le tensioni, rimaste compresse sottotraccia, vengono fuori con una valenza nuova. Circola senza troppi tabù la parola scissione. Un serpeggiare di sospetti avvelena l'ambiente: e tutto questo mentre il Pd si troverà ad affrontare fra poco la dura campagna elettorale per le elezioni europee.

Su questo sfondo, la candidatura di una figura come Pier Luigi Bersani alla guida del Pd, in alternativa a Walter Veltroni, ha un significato che forse non era stato messo in conto. Perché l'entrata in campo di Bersani è figlia di Massimo D'Alema e sorella di un rapporto a filo doppio con la Cgil di Guglielmo Epifani. Parlando del passato, Bersani ha definito "una cavolata" il suo ritiro all'epoca delle primarie veltroniane. È bene che se ne sia convinto. Ma, nello stesso tempo, 'il più prodiano dei Ds' dovrebbe avere ben chiaro che la sua scommessa politica non è una iniziativa indolore. Nei modi in cui la sua azione si sta sviluppando, ci sono serie probabilità che venga interpretata come un tentativo di caratterizzare nuovamente il Pd come erede del Pci; e questo può alimentare contrasti nei gruppi dirigenti e perfino ulteriori tentazioni scismatiche.

Queste cose succedono allorché le aggregazioni politiche non controllano la loro struttura operativa e 'istituzionale'. A questo punto, sono numerosi gli esponenti cattolici del Pd che guardano con diffidenza all'operazione Bersani-D'Alema e auspicano l'ingresso di un terzo incomodo che rappresenti gli ex della Margherita.

È possibile, e anzi molto probabile, che questi siano i contraccolpi di lungo periodo della sconfitta dell'aprile 2008 alle politiche. Nei mesi successivi alla batosta si è fatto il possibile per evitare il confronto, per sfuggire a un faccia a faccia risoluto. Il risultato è quello che abbiamo sotto gli occhi. Striscianti minacce di scissione, attriti fra esponenti di vertice, musi lunghi in periferia.

In politica si capisce sempre 'dopo' ciò che si doveva capire 'prima'. E soprattutto, nel caso del Pd, non si è compreso che nella febbrile modernità postpolitica del nostro tempo non c'è più spazio per le ritualità di partito, per le ampie riflessioni, i sottintesi e il dare tempo al tempo.

In realtà il Pd è a metà strada fra il tradizionale partito di massa, radicato nel territorio e strutturato nell'organizzazione, e una galassia d'opinione. L'azione di Bersani e D'Alema tende a riportare in auge il passato. Veltroni aveva scommesso sul futuribile. Il risultato, fra laici, cattolici, presente e passato, è una continua tensione, che potrebbe mandare a pezzi l'ultima invenzione per non avere una sinistra eternamente minoritaria.

(20 febbraio 2009)
da sepresso.repubblica.it
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