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Autore Discussione: EDMONDO BERSELLI  (Letto 44784 volte)
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« Risposta #15 inserito:: Aprile 15, 2008, 11:04:52 pm »

POLITICA

LA SINISTRA

L'antagonismo ex parlamentare

di EDMONDO BERSELLI

 

Probabilmente siamo davanti al più brutale processo di razionalizzazione politica che si sia mai visto in Italia.
Sparisce dal Parlamento un cartello elettorale, la Sinistra Arcobaleno, che riuniva partiti capaci in astratto, ma anche per storia politica alle spalle, di superare il dieci per cento.

La sinistra anticapitalista si trova ai margini della politica, fuori dal gioco, esclusa dal circuito istituzionale. È di nuovo una sinistra extraparlamentare.

Il suo simbolo oggi potrebbe essere proprio il suo candidato premier, Fausto Bertinotti: il presidente della Camera uscente che non riesce a rientrare nell'assemblea rappresentativa. La realtà complessiva è che finiscono in fuorigioco la vecchia Rifondazione comunista, i Verdi, i Comunisti italiani e quella frazione ex diessina che non aveva accettato la confluenza nel Partito democratico.

È questo uno dei risultati della rivoluzione copernicana di Walter Veltroni, che ha rovesciato lo schema politico precedente, quello di Romano Prodi e di Arturo Parisi: ai quali si doveva la convinzione per cui la sinistra "antagonista" doveva essere inclusa nel perimetro dell'alleanza necessaria per battere la destra; mentre toccava poi a ministri come Tommaso Padoa-Schioppa il compito di insegnare la "triste scienza" agli utopisti e agli oltranzisti, ai no global e agli anticapitalisti.

Tuttavia il contributo alla governabilità non esauriva la funzione che la sinistra radicale pensava di essere chiamata a realizzare. Fare la portatrice d'acqua per il governo tecnocratico del centrosinistra non era così soddisfacente. Gli anticapitalisti al servizio del risanamento del deficit e a favore del taglio del cuneo per la Confindustria: una cosa bizzarra. Insopportabile per l'acuta consapevolezza sociale di molti esponenti della sinistra radicale, per la loro nitida percezione delle nuove conflittualità, per un senso critico vivificato dal coinvolgimento personale, per il pacifismo e quindi per l'incapacità di subire troppo a lungo compromessi in economia e sull'orizzonte della politica internazionale. Tutto questo, cioè l'asimmetria delle intenzioni rispetto ai risultati, venne sintetizzato infine nel gusto dissacratorio e politicamente irridente di Bertinotti: che con le battute su Prodi come Vincenzo Cardarelli, "il più grande poeta morente", fece risuonare le campane a morto per il governo dell'Unione ben prima della disastrosa defezione di Clemente Mastella e Lamberto Dini.

Veltroni ha messo allo scoperto la fragilità di questa sinistra. L'ha costretta a porsi il problema della sua rappresentatività, e della qualità del suo programma politico, non tanto fra i velluti delle aule parlamentari e con le obiezioni di coscienza, bensì nel gioco crudele dell'arena elettorale. Nessuno, per la verità, pensava che fosse possibile la liquidazione totale di un'esperienza come quella di Rifondazione; e si pensava che nell'alveo della sinistra contestativa avrebbero trovato spazio e ruolo le nicchie ambientaliste governate da Pecoraro Scanio come gli irrigidimenti postcomunisti di Oliviero Diliberto e i maldipancia dei diessini dissenzienti guidati da Fabio Mussi e Cesare Salvi.

Invece è scattata una specie di trappola elettorale, spaventosa negli effetti ma piuttosto tipica per l'estremismo politico di sinistra. Quando è il momento meno opportuno, che si tratti della scissione di Livorno o della scomparsa dello Psiup, a sinistra non si conoscono mezze misure. O catastrofe, o niente. L'Arcobaleno ha pagato la scarsa visibilità delle sue proposte, in parte dovute al concentrarsi dei media sul duello fra Pd e Pdl, e in parte legate alla varietà volatile dei suoi programmi politici. La nuova sinistra voluta da Bertinotti, finalmente slegata dalle sue eredità comuniste, doveva diventare una forza moderna trasversale, connessa ai temi di fondo della globalizzazione, alle inquietudini sull'"impronta ambientale" dello sviluppo, e al recupero di ispirazioni socialiste reinterpretate alla maniera della Linke tedesca. Messi nello shaker questi ingredienti, ne è venuta fuori una miscela in cui le identità sono evaporate, la falce e martello si è dissolta, le culture non si sono amalgamate se non in un composto di radicalismi vari.

Vale a dire: mentre Veltroni tentava un'iniziativa davvero egemonica (e spesso denunciata come tale dalla sinistra radicale), tutta proiettata a definire il profilo di una sinistra di governo, la Sinistra arcobaleno si è trovata in una impasse drammatica. Era finita la rendita dei partiti in grado di raccogliere voti estremisti e di renderli comunque "utili" all'interno di un'alleanza estesa e anche condizionabile. E in una situazione come questa sono stati gli elettori a risolvere i problemi impossibili della sinistra antagonista: qualcuno si è fatto convincere dall'appello implicito al "voto utile" al Pd come bastione contro la macchina berlusconiana; altri hanno trovato sfogo antipolitico nel partito di Di Pietro e perfino nel populismo radicaleggiante della Lega; e mentre qualcuno dei nostalgici della falce e martello ha trovato rifugio nel simbolo di Sinistra critica dell'eretico Turigliatto, molti altri, a quanto si capisce, come i redattori del manifesto, devono avere sciolto il dilemma rifugiandosi nell'astensione.

Ma andrà detto che il ripiegamento fuori dalla politica, in una sinistra ideale e non empirica, lascia il campo privo di una rappresentanza istituzionale per una parte di società dispersa ma ancora consistente. Ora, Bertinotti annuncia l'addio. Gli altri parlano di anno zero, di costituenti, di un nuovo inizio. Comunque sia, ogni costituente è buona se si pone il problema di come ci si connette al problema del governo. L'idea che fosse possibile il giardinetto dei radicalismi è stata sfigurata dalla violenza della realtà. Per chi ha sempre amato parlare delle ragioni "oggettive", dei "rapporti di forza", della "struttura", è giunto il momento di fare i conti fino in fondo con la realtà, e non con il labirinto delle illusioni.

(15 aprile 2008)
 
da repubblica.it
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« Risposta #16 inserito:: Maggio 01, 2008, 07:58:12 pm »

La caduta dell'impero romano

di Edmondo Berselli


Non solo l'addio al Campidoglio. Il voto di Roma segna la sconfitta della strategia di Veltroni. E il Pd ora rischia la disintegrazione della sua classe dirigente  Il nuovo sindaco di Roma Gianni AlemannoIl borgataro si stacca dalla festa in Campidoglio per Gianni Alemanno, stappa una birra e ti punta il dito nel costato: "Ahò, lo volevate er nuovo conio, mò beccatevelo". Per il Partito democratico, per Francesco Rutelli, per Walter Veltroni la serata romana di lunedì è il segno di una disfatta spaventosamente incomprensibile. È come se la capitale avesse deciso di sferrare un uppercut micidiale all'idea democratica, al progetto stesso del Pd: già, perché lo sconfitto è Rutelli, ma la batosta romana si ripercuoterà sul partito, sui suoi equilibri, forse sulla sua stessa esistenza.

Per il momento c'è lo choc tremendo di uno schianto politico inatteso anche nelle dimensioni, il rovesciamento clamoroso del risultato del primo turno, ma soprattutto un urto che fra molti saluti romani, clacson di tassisti entusiasti, cori di ultras, spazza via 15 anni di egemonia del centrosinistra, cominciati nella dura campagna elettorale del 1993, quella che aveva sdoganato Gianfranco Fini, e fa a pezzi il 'modello Roma', l'invenzione di Goffredo Bettini portata all'eccellenza mondana e planetaria da Veltroni, liquidando la Roma piaciona che aveva egemonizzato il gusto e anche il conformismo in società.

Il caos non è proprio calmo. La tranvata, sostiene immediatamente l'ala hard del Pd, i dalemiani che non hanno mai creduto ai lustrini, dimostra quanto fosse fragile la struttura del consenso raccolta dal sindaco uscente, quanto volatile la popolarità, quanto effimero il radicamento sociale, e alla fine quanto leggero e alla lunga irrilevante il clima capitolino fatto di attori, scrittori, registi, notti bianche, festival, intrattenimento, morettismi. Altrimenti non si spiegherebbe come mai in due anni sono evaporati oltre 20 punti di vantaggio, contraddicendo anche la tendenza generale del Pd, che alle politiche si è mostrato più competitivo nelle città e negli aggregati metropolitani.

Eppure, per restare al caso romano, la politica "lieve" e colorata di Veltroni era forse l'unico strumento capace di tenere insieme l'establishment e le periferie; non appena si è assistito al ritorno in campo di un candidato come Rutelli, interpretato come un uomo dell'establishment, anzi della 'casta' politica, è scattato il cortocircuito. Con distorsioni che devono essere ancora interpretate, e possono portare a vendette e regolamenti di conti, ma che per il momento rappresentano concretamente un attrito ineluttabile della scelta di Veltroni di rompere con la Sinistra Arcobaleno alle politiche: accanto al fallimento di Rutelli, il successo conquistato alla Provincia di Roma dal candidato Zingaretti, con un numero di voti nelle sezioni elettorali della capitale che fanno subito sospettare un paradossale esercizio del voto 'disgiunto', Zingaretti alla Provincia e Alemanno al Comune ("Ipotesi che fa ribrezzo", scrive 'l'Unità', ma tant'è).

Una modalità quasi dadaista per praticare la vendetta della sinistra radicale contro la leadership del Pd, responsabile della scelta di 'correre da soli' (nei centri sociali l'idea di punire Veltroni votando Alemanno era stata sostenuta ripetutamente). Un colossale 'tié', magari con il gesto dell'ombrello, rivolto a 'Franciasco', l'uomo dei vescovi, l'amico della Binetti, il cattolico delle alleanze "di nuovo conio". E che esalta la capacità di Alemanno di unire le 'due Rome', da un lato la città centrale della borghesia, i Parioli, i circoli tiberini, il generone scettico che si era prestato all'unanimismo veltroniano, e dall'altro le borgate e gli outsider. La destra 'sociale' del genero di Pino Rauti promette infatti misure di sicurezza alla borghesia spaventata dai comportamenti irregolari dei clandestini, e offre rappresentanza all'universo marginale nelle periferie (laboratorio sociale e politico tutto da analizzare, che sembra essere stato messo a fuoco soltanto dalla percezione letteraria di Walter Siti, autore di un recente e impressionante libro postpasoliniano, 'Il contagio', che esplora l'antropologia degradata e mutante della Roma periferica). Mentre anche dalle borgate salgono slogan che scandiscono "via gli albanesi, via i romeni", Alemanno seleziona utilmente aspettative differenziate anche nella Roma del degrado, prospettando criteri che etichettano i clandestini come il nemico interno da colpire con spettacolari misure di polizia.

Ora, è vero che il trionfo capitolino ha un impatto anche sul Pdl e nel rapporto con la Lega, con un politico meridionale che fa il salto di qualità, comincia a oscurare Gianfranco Fini in procinto di sedersi sullo strapuntino della Camera, e in qualche misura riequilibra il successo di Umberto Bossi al Nord. Ma è fuor di dubbio che il crollo a Roma rappresenta un macigno sulla strada del Pd, e in particolare del Pd veltroniano. Finora, dopo il risultato del 13-14 aprile, si poteva sostenere che il 33,1 per cento, pur nella sconfitta, rappresentava la costituzione del 'motore riformista', un partito in grado di diventare competitivo nel medio periodo, e che risultava capace di mobilitare le città, i ceti culturalmente più elevati, il lavoro dipendente qualificato, la società italiana più moderna e creativa.

Prima del 'voto di pancia' e della voglia di discontinuità, prima del sacco di Roma da parte delle 'truppe alemanne', Veltroni poteva accampare una serie di giustificazioni credibili. A gravare sul Pd c'era l'impopolarità di Prodi, nel Nord industriale lo sfondamento della Lega nelle fasce operaie, al Sud l'effetto desolante dell'emergenza rifiuti. C'era da mettere a fuoco il progetto berlusconiano di 'modernizzazione reazionaria', o anche semplicemente conservatrice, fondato sulla sintesi del secessionismo leghista con il protezionismo tremontiano e il clientelismo dell'Mpa di Raffaele Lombardo. A cui adesso si aggiunge il successo 'missino' di Alemanno, prefigurando una destra complessivamente nazionalcorporativa, aggregatrice di interessi parziali.

Non conviene naturalmente ai 'democrat' cercare pallide rivincite di tipo culturale, stigmatizzando un modello politico a sfondo peronista. Ma intanto, prima di procedere alle ritorsioni interne inevitabili nelle sconfitte, ci sono da mettere a fuoco alcuni aspetti problematici, che la leadership del Pd dovrà affrontare. In primo luogo, l'esaurirsi empirico della pregiudiziale antifascista e resistenziale, cioè l'esito fisiologico di un processo socioculturale per molti versi inevitabile (ma che toglie valore alle richieste di "lealtà costituzionale" che Veltroni aveva inviato a Berlusconi negli ultimi giorni della campagna elettorale del 13 aprile, ricevendone in cambio un'alzata di spalle). In futuro sarà difficile esibire una sorta di superiorità etico-repubblicana come risorsa politica spendibile, così come sarà inutile puntare sui simboli se in gioco ci sono gli interessi. Insomma se ne va fuori dalla simbologia politica il ditino alzato dell'ideologismo targato Fgci, se è vero che il 'capobranco missino' Alemanno sbanca il Campidoglio con una campagna sinceramente populista, in una fragranza tutt'intorno di umori autenticamente fascisti.

In secondo luogo, se il Pd riuscirà a sopravvivere al contraccolpo della sconfitta alle politiche e alla caduta di Roma, dovrà uscire dalla sindrome di un partito che per una settimana, aspettando l'apertura del Parlamento, ha discusso esclusivamente della questione epocale di chi dovevano essere i capigruppo alle Camere. Andrebbe tenuta a mente come uno scongiuro la battuta di Giancarlo Pajetta dopo i funerali del 'Migliore': "Con la morte di Togliatti nel Pci si chiude una fase e non se ne apre nessun'altra".

Per evitare una dinamica dissolutiva, il Pd deve provare a ripartire. Deve avere la consapevolezza che la propria classe dirigente è particolarmente logora e che niente come le sconfitte richiama le sconfitte. Occorre quindi mettere in rete gli amministratori locali più capaci, dal sindaco di Torino Sergio Chiamparino al sindaco di Salerno Vincenzo De Luca, e individuare una strategia di azione sul territorio. È la fase in cui le posizioni di rendita stanno smottando, e in momenti come questo devono uscire allo scoperto le energie meno consumate. Innanzitutto la coppia composta da Pier Luigi Bersani ed Enrico Letta, per ricominciare dal territorio. E poi, occorre inquadrare le prossime sfide: ci sono alle viste le elezioni europee del 2009 (un incubo, dato che con la proporzionale non c'è voto utile che tenga) e il referendum elettorale. Ci vuole una strategia. Altrimenti, le spinte alla disintegrazione non le fermerà nessuno, e il tutti a casa sarà inevitabile.

da espresso.repubblica.it
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« Risposta #17 inserito:: Maggio 25, 2008, 05:35:09 pm »

Sapere dove si va

Edmondo Berselli


Importa poco la bizantina rivalità fra Veltroni e D'Alema. A quanto si vede non è chiara la linea del Pd 

Piccolo manuale di sopravvivenza democratica (nel senso del Partito democratico, s'intende). Ah, se solo si riuscisse a sottrarre la discussione sul futuro del Pd all'eterna questione bizantina della rivalità fra Veltroni e D'Alema! Perché altrimenti si ha la sensazione tristissima di essere tornati ai tempi della Fgci, o del popolo dei fax contro l'élite del partito, di quella volta che dal basso scelsero Walter e dall'alto invece Massimo. Il pensiero che il Pd debba ancora soffrire degli effetti di un dualismo nato ai tempi del Pci è particolarmente deprimente: soprattutto se si pensa a quali problemi politici reali il Pd dovrebbe invece dedicarsi.

Punto primo. Dalle infinite e approfonditissime, e anche intrise di molto realismo, analisi sui risultati elettorali, che sempre vengono promesse e poco realizzate, bisognerebbe che qualcuno traesse qualche conclusione e soprattutto qualche indicazione di prospettiva sulla politica da seguire. Converrebbe infatti definire che cosa è oggi e che cosa sarà domani l''entità Pd'. Se continua ad avere la celebre vocazione maggioritaria; se si organizzerà per tentare di vincere le elezioni, una volta o l'altra; ovvero se ha intenzione di aprire una nuova strategia di alleanze, ed eventualmente con chi, dove e perché.

Non è proprio facilissimo, si capisce. Ci vuole il buon senso casalingo di riconoscere che il 13-14 aprile 2008 il Pd ha subito una brutale sconfitta, anche senza calcolare le speranze suscitate dai sondaggi e andate deluse nella realtà. C'è una sconfitta in sé. Una sconfitta 'noumeno'. Ma le sconfitte possono essere un punto di partenza o un'occasione di frana. Vale a dire: oggi il Pd è una galassia in espansione, oppure una stella che collassa dentro se stessa? Davanti all'Italia riformista c'è un universo nuovo o un buco nero vecchio? L'alternativa non è soltanto teorica. Implica un orientamento della sua classe dirigente, cioè quella che una volta si chiamava 'la linea'.

Bene, a quanto si vede la linea del Pd non è chiara. Una proiezione ottimistica nel futuro delineerebbe un partito in crescita, capace egemonicamente di rappresentare un'amplissima fascia di sfumature politiche, dal centro alla sinistra. Mentre una concezione più cauta porterebbe a ragionare nel modo seguente: il Pd è un grosso residuo politico, figlio della sinistra democristiana e nipote del Pci riformista. Le culture che rappresenta non hanno grande fortuna nell'Italia di oggi. Dunque è più conveniente pensare ad allargare l'alleanza, trattare con i cattolici dell'Udc, guardare ai socialisti, parlare con la sinistra radicale.

Ovviamente non è soltanto una questione teorica. A quanto si capisce, anche la classe dirigente del Pd è divisa. Deve ancora metabolizzare la batosta e quindi non è pronta a guardare al futuro. La stessa infinita querelle Veltroni-D'Alema in fondo rispecchia questa divaricazione del pensiero politico possibile. Ma ciò che è da evitare riguarda i modi con cui affrontare il problema: se si resta nelle fumosità, tipo "sia chiaro che la vocazione maggioritaria non significa l'autosufficienza", e roba simile, si può anche chiudere bottega.

Se qualcuno se lo fosse dimenticato, ci sono alle viste alcuni appuntamenti di rilievo. Uno, le elezioni europee, è un salto nel buio, perché con la proporzionale pura non c'è appello possibile al 'voto utile' (e neanche la ragionevole possibilità di introdurre soglie di sbarramento, come aveva proposto Dario Franceschini), e si tratterà di vedere come si rimetteranno in pista i partiti della defunta Sinistra Arcobaleno. L'altro appuntamento riguarda il referendum elettorale, che comporta una posizione netta: vale a dire, se si crede ancora nella vocazione maggioritaria del Pd, si dovrebbe puntare sul referendum Segni-Guzzetta (che se approvato porterebbe all'assegnazione del premio di maggioranza al partito, e non alla coalizione vincente).

Mentre qualora dovesse prevalere una concezione non espansiva del Pd, sarebbe meglio abbandonare le illusioni egemoniche e giocare con le carte, e le alleanze, disponibili.

Sono discorsi di troppo lungo periodo? Mica tanto. Le ore passano in fretta, i mesi corrono, 'tempus irreparabile fugit'. Si può aspettare fiduciosamente la crisi del governicolo Berlusconi IV, quell'esecutivo formato famiglia, di fronte a processi socioeconomici più grandi di lui (lui governo e lui Berlusconi). Ma nel frattempo si potrebbe cercare una strada, un'idea, un partito. Non c'importa nulla sapere chi siamo e da dove veniamo: ma almeno sapere dove andiamo, questo sì, sarebbe utile.

(16 maggio 2008)

da espresso.repubblica.it
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« Risposta #18 inserito:: Giugno 21, 2008, 05:07:30 pm »

Edmondo Berselli

La casta democratica


La superiorità morale della sinistra è qualcosa che non è intrinseca al Dna dei suoi leader, non è una virtù innata  Il sindaco di Bologna Sergio CofferatiIl pasticciaccio brutto di Genova, con il durissimo colpo subito dall'amministrazione di Marta Vincenzi, 'SuperMarta' per i titoli dei giornali, ha un rilievo importante e rischioso nel panorama politico italiano; e naturalmente getta ombre inquietanti sul Partito democratico. Questo per una serie di ragioni che conviene cominciare a districare prima che i problemi aumentino fino a diventare incontrollabili.

Per chi non l'avesse ancora capito, il Pd è in una condizione difficile. Ha una leadership indebolita dalla sconfitta elettorale; nutre un'incertezza strategica sul terreno delle alleanze, testimoniata dall'eterno duello fra Massimo D'Alema e Walter Veltroni; prova un'attrazione letale per la sfera del governo e per il Berlusconi seduttivo e presidenziabile di questi tempi; ha rinunciato nei fatti a difendere i risultati dei due anni del governo Prodi, consegnandolo al silenzio; non sa se il 33,1 per cento del 13-14 aprile potrà essere confermato alle elezioni europee del prossimo anno.

E via elencando cose sotto gli occhi di tutti. Come ha detto il sindaco di Salerno Vincenzo De Luca, sulla sicurezza la sinistra è preda di "sociologismi e inconcludenze". Sulla questione istituzionale, e in particolare sul federalismo fiscale, il Pd naviga a vista, facendo sentire voci diverse a seconda di chi parla al momento. Le sue risorse di credibilità principali, invece, sono elementi poco spettacolari, che si possono riscontrare soltanto sul campo. Ad esempio, la buona amministrazione nelle regioni 'rosse', frutto di sintesi storiche, di pragmatismo e di contiguità con il mondo della piccola e media impresa, consolidatisi sulla scorta di un rigore e un'onestà strutturali nelle procedure burocratiche e nelle decisioni politiche.

Ma il caso Genova, con le sue mance miserabili,
la sua Tangentopoli stracciona, è lì a dimostrare che la superiorità morale della sinistra è qualcosa che non appartiene ontologicamente al Dna dei suoi esponenti, non è una virtù antropologica innata. Quindi il Pd queste doti qualitative deve conquistarsele, mantenerle o riconquistarle ogni giorno (non dovremmo trascurare che ci sarà pure un motivo se 'La casta' di Stella e Rizzo è apparso come un atto d'accusa al centrosinistra, ben più che alla destra).

Ed è sotto gli occhi di tutti che il potere non appartiene alla sinistra per diritto naturale o divino, neanche nei suoi territori tradizionali. A suo tempo, il cerchio magico fu spezzato a Parma da Elvio Ubaldi, e da Giorgio Guazzaloca a Bologna nel 1999. Oggi, sotto le due Torri bolognesi, Sergio Cofferati ha deciso di ricandidarsi a Palazzo d'Accursio, ma è evidente che dovrà darsi da fare per andare a caccia dei voti di una città divenuta politicamente scettica.

In sostanza: il diritto ereditario si è esaurito anche in quell'Italia che era orgogliosa dei suoi sindaci e dei suoi amministratori. La Lega in Emilia-Romagna ha raddoppiato i voti, e nella zona appenninica ha spuntato percentuali da record (è il vecchio voto 'bianco' ancora alla ricerca di una rappresentanza). Analisti come Carlo Trigilia e Francesco Ramella hanno già individuato sintomi di degrado politico-amministrativo nelle regioni rosse, anche se le percentuali spuntate dal Pd alle elezioni politiche appaiono ancora confortanti.

In queste condizioni, il pericolo di un'erosione del consenso anche nelle aree di questa Italia 'centrale', un tempo fiore all'occhiello della capacità amministrativa del Pci, non è affatto un'ipotesi remota.

È vero che fa fatica ad affacciarsi sulla scena una plausibile classe dirigente di destra, ma non è il caso di contare sulle insufficienze altrui. Se è vero che il Pd deve ripartire dal territorio, o "avvicinarsi al Paese" (come ripeteEnrico Letta), deve mettere a frutto le personalità più convincenti che nel territorio agiscono.

A quanto si capisce dai dati elettorali, il Pd è un'entità politica maggiormente competitiva nelle grandi città e fra le classi più scolarizzate: contiene in sé un elemento di dinamismo culturale e un contenuto di modernizzazione. Per valorizzare questi aspetti ci vuole un lavoro intenso e capillare, non un partito virtuale.

Occorre saper ascoltare i cittadini, e non mostrare la sovrana indifferenza assicurata dalla propria indiscutibile superiorità. Infine, se occorre, ci vuole anche la capacità di farsi da parte, tempestivamente, quando le cose si mettono male, per distrazione o per incapacità. Altrimenti, in ogni roccaforte presunta può essere al lavoro la sindrome Bassolino.

(10 giugno 2008)

da espresso.repubblica.it
« Ultima modifica: Luglio 12, 2008, 09:13:00 am da Admin » Registrato
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« Risposta #19 inserito:: Giugno 27, 2008, 11:48:40 am »

Edmondo Berselli

Petrolio a orologeria


La politica dei bassi tassi d'interesse perseguita dalla Federal Reserve ha dato man forte a quanti si sono messi a speculare sul barile  La borsa di Wall StreetFinalmente l'attenzione internazionale comincia a concentrarsi sulla bolla finanziaria che si sta sempre più gonfiando sul mercato del petrolio: il tema ha tenuto banco al vertice dei ministri economici del G8 in Giappone. Non se n'è cavato nulla di utile, ma almeno i termini della questione ora sono sul tappeto. Il nodo attorno al quale si discute è il clamoroso scollamento quantitativo tra petrolio reale e greggio virtuale. Il rapporto numerico fra le due grandezze è impressionante: ogni giorno la produzione media è di circa 85 milioni di barili, mentre sul mercato dei contratti a termine se ne movimentano per oltre un miliardo.

Le principali piazze sulle quali avvengono questi scambi di carta petrolifera sono Londra e, soprattutto, New York: collocazioni geografiche che rischiano di avere un peso non trascurabile sull'evoluzione della vicenda. Infatti, al richiamato summit giapponese del G8, sono stati proprio i rappresentanti del Regno Unito e degli Usa a contrastare le pressioni dei colleghi degli altri paesi affinché si concordassero misure atte a frenare almeno le eccessive facilitazioni con le quali si può speculare sui prezzi del greggio virtuale. Per esempio, imponendo maggiori margini di garanzia (il contante che va versato da chi firma un contratto a tempo, oggi a livelli irrisori) in modo da tener fuori dal gioco gli speculatori più avventurosi.

Attenzione, è stata la tesi opposta dalla coppia anglo-americana, interventi del genere rischiano di avere una controindicazione seria: la destabilizzazione del mercato. Un discorso non tanto dissimile da quelli che si facevano qualche anno fa negli Stati Uniti contro chi metteva in guardia sui pericoli della bolla speculativa che la politica del credito facile stava facendo ingigantire sul mercato dei mutui immobiliari. Dunque, un discorso che oggi suona ancor più miope e allarmante: soprattutto perché avvalora
la pessima sensazione che i governi di Londra e di Washington siano di fatto ostaggio dei mercati, perfino nei loro aspetti più deteriori, e non vogliano guardare oltre la realtà quotidiana anche per non dover ammettere gli errori delle proprie politiche economiche.

Il principale dei quali consiste nella strategia del denaro facile seguita dalla Federal Reserve prima e dopo la crisi dei mutui subprime. La miscela delle forti iniezioni di liquidità e dei bassi tassi d'interesse avrà magari salvato qualche banca dal collasso, ma in misura importante ha anche fornito munizioni ai tanti che si sono gettati a corpo morto nelle speculazioni sui mercati delle materie prime, petrolio in testa a tutte. Proseguire su questa strada sarebbe una follia, anche perché la bolla petrolifera può provocare sconquassi ben più devastanti di quella dei mutui immobiliari. Anzi, ne ha già provocati facendo emergere un po' dappertutto scenari di bassa crescita e alta inflazione. È davvero sconsolante che in proposito il G8 se la sia cavata con la banale richiesta al Fmi di fare uno studio per capire quanto vi sia di ordinario e quanto di patologico nelle speculazioni sui barili di carta. Un espediente che non promette nulla di buono.

(26 giugno 2008)

da espresso.repubblica.it
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« Risposta #20 inserito:: Luglio 09, 2008, 11:18:48 pm »

POLITICA IL COMMENTO

La deriva del talk show

di EDMONDO BERSELLI

 
C'è un'Italia che vuole esprimere la sua indignazione, contro le leggi canaglia, contro i provvedimenti ad personam, contro la manipolazione spregiudicata della Costituzione repubblicana. E questa Italia fa fatica a trovare una voce. Per questo ieri a Piazza Navona è venuta tanta gente. Persone che volevano far sentire la loro esasperazione, che cercavano di uscire dal cerchio stregato della frustrazione civile, provando a far risuonare nel paese la protesta contro l'improntitudine del potere berlusconiano. Era per molti aspetti una testimonianza di dignità democratica e di civiltà politica: il tentativo di uscire dal recinto dell'impotenza.

Ha rischiato di finire male. Di diventare la parodia di un talk show deteriore, un Bagaglino di sinistra aggravato dal turpiloquio e dalla malevolenza gossipara. Peggio ancora, di trasformarsi in un attacco distruttivo alla chiave di volta istituzionale della nostra democrazia. Perché quando il microfono finisce nelle mani di un Beppe Grillo, non è più la politica a esprimersi. È una torsione populista che attacca ogni istituzione, che rifiuta di avere fiducia anche nelle istituzioni di garanzia costituzionale. Che alla fine sottrae legittimazione alla Repubblica.

Difficile dire che cosa volesse significare, politicamente, l'attacco vernacolare portato da Grillo a Giorgio Napolitano. Qualcuno può davvero credere che la soluzione di un momento ad altissimo rischio per gli equilibri democratici possa passare per l'umiliazione pubblica e spettacolare del garante della Costituzione? Eppure dovrebbe essere chiaro a chi ha un minimo di intelligenza politica che il Quirinale è l'ultimo delicatissimo diaframma che si frappone all'assalto delle truppe berlusconiane: svilire Napolitano, ridurlo a un presidente fantoccio, a un'ombra senza qualità, significa né più né meno consegnare la Carta costituzionale a coloro che vorrebbero ritagliarla a proprio uso e consumo.

In sostanza, è accaduto che tutta la gente convenuta a Piazza Navona è stata espropriata delle sue intenzioni. Da protagonista di una denuncia, è stata ridotta in pochi minuti a spettatrice di uno show, uno dei tanti allestiti da Grillo, uno dei violenti "vaffa" antipolitici portati sulle piazze italiane. Con il risultato che tutti coloro che erano venuti a rappresentare le ragioni di un'opposizione civile alle leggi carogna, al "lodo Alfano", ai tentativi gaglioffi di mettere la museruola all'informazione, si sono ritrovati all'improvviso in un altro ruolo. Tutti improvvisamente ammutoliti, indotti a risate a denti stretti, e anche percepibilmente imbarazzati, mentre Sabina Guzzanti enunciava come verità di fatto e criteri di giudizio politico le dicerie sui comportamenti erotici del Cavaliere.

Ciò che colpisce è in primo luogo il sequestro delle oneste ragioni che hanno portato in piazza un'opposizione presente nella nostra società e poco o per nulla rappresentata nelle istituzioni politiche. Un'occasione di presenza e di vivacità democratica è stata confiscata, almeno per qualche minuto, da un accesso di varie volgarità, prive di qualsiasi finalità che non fossero quelle dello spettacolo in sé. Perché non dovrebbero esserci dubbi: un conto è la pratica di un'opposizione combattiva, con tutti i mezzi disponibili (per dire, con l'ostruzionismo nelle Camere e con gli slogan nelle piazze); e un altro conto è lo sputtanamento generale, che getta fango su tutto e tutti, a cominciare da quelli che dovrebbero essere compagni di strada.

Perché c'è un altro aspetto da mettere a fuoco. Per le piazze ingrillite, per i contestatori che trattano il presidente della Repubblica come un addormentatore delle coscienze, si realizza rapidamente uno spettacolare transfert politico, un trasferimento freudiano di capi d'accusa: l'avversario, anzi, il "nemico" non è più la figura del capo del governo depositario del conflitto d'interessi, il manipolatore che cambia le regole per tutelare la propria posizione. Per gli autori degli show più incendiari, va da sé che Berlusconi è il male: ma è l'alterità assoluta, e quindi costituisce un male contingente, un male materiale, ideologicamente insignificante, culturalmente inesistente.

Secondo questo schema, la destra padrona è una disgrazia che ci è capitata, l'ultima incarnazione della mediocrità italiana, ma con cui non vale la pena prendersela. Più colpevoli sono i suoi elettori, semmai. E più colpevoli ancora, secondo una lista inesorabile di concatenazioni, sono i rappresentanti della sinistra moderata, coloro che hanno accettato di trattare con il Cavaliere, che hanno creduto nel "dialogo" e ancora adesso non si sono accorti di essere diventati complici della malattia, soci di un virus, partecipi di una metastasi. Il vero nemico, insomma, è il tuo compagno.

Si corre il rischio che una parte della sinistra, ed è la parte maggioritaria, si riduca al silenzio, fino a non riuscire a dire nulla, in nessuna occasione, fino all'ammutolimento più totale. E che un'altra parte, un'altra sinistra, venga consegnata a un furore astratto, televisivo, mediaticamente estremo, incapace tuttavia di trovare strade che conducano alla politica.

Ieri Furio Colombo e poi anche Antonio Di Pietro hanno cercato di uscire dal reality show che si stava realizzando (e che avevano contribuito a organizzare, prima che gli scappasse di mano), e di riportare la gente alla realtà. Ma in futuro occorrerà riflettere con severità radicale. Se prosegue l'assopimento della politica, se frange significative della società italiana si confermeranno nell'idea di essere escluse e di non avere voce, l'attrazione del nichilismo spettacolare di Grillo e compagni risulterà irresistibile.

E non è una prospettiva gradevole quella di una sinistra divisa fra l'ammutolimento e l'ipnosi cattiva generata da un talk show permanente. Dove si va da cittadini, e si torna da spettatori di uno spettacolo deprimente, dove tutti sono colpevoli, dunque la politica e anche l'opposizione diventano inutili e resta solo il "vaffa". Chi ha deciso di muoversi contro le leggi ad personam merita qualcosa di più, e la politica deve darglielo.

(9 luglio 2008)

da repubblica.it
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« Risposta #21 inserito:: Luglio 20, 2008, 08:16:06 am »

Edmondo Berselli


Un governo di maniaci


Ministri che si dedicano alle proprie fissazioni, senza senso delle cose, ordine, accuratezza.
 
Il governo Berlusconi non ha un programma.

Adesso pare che il ministro dell'istruzione Mariastella Gelmini, definita a suo tempo dai supporter "tenero germoglio del berlusconismo", si sia concentrata sul voto in condotta. Interessante. Collegare il profitto, come si chiamava una volta, quando c'erano le mezze stagioni, al comportamento. Ecco la soluzione ai problemi della scuola. Anzi, con il ripristino del sette in condotta e della bocciatura in tutte le materie in caso di infrazioni gravi, ecco un possibile impegno per il programma di governo.

Quale programma? Già, è vero. Il governo Berlusconi non ha un programma. Ma se è per questo il centrodestra non ha nemmeno una cultura. Sono lontani se non lontanissimi i tempi in cui il Cavaliere si proponeva come il rappresentante domestico di Ronald Reagan e di Margaret Thatcher, nel nome del neoliberismo e del taglio delle tasse. Altri giorni, allorché re Silvio prometteva meno tasse per tutti e il 'sogno'. Altre estati allorché il divo Berlusconi, fra un vulcano artificiale e una serata con le señoritas si proponeva come l'interprete nostrano dello spirito neoconservatore.

Anche Berlusconi alla fine dev'essersi convinto, come accadde a Benito Mussolini che "governare gli italiani non è difizzile, è inuttile!". E quindi si dedica a importanti strategie internazionali, puntando sulla sua trascinante simpatia: dove nessuno lo prende sul serio, ma che lui presenta come grandi innovazioni geopolitiche. Al G8 di Tokyo: aumento dei depositi sui futures, per bloccare la speculazione (la proposta, scrivono freddamente le cronache, non è stata presa in considerazione). E poi: i governi fissino un tetto al prezzo del petrolio! Idem con patate. La prossima volta, per stupire il mondo, verrebbe bene una proposta sugli Ufo, magari presentati come "i nostri amici sconosciuti" (quelli conosciuti sono Putin e Sarkozy).

In sostanza, il Popolo della libertà non possiede più le 'ricette' per "il nuovo, grande, straordinario miracolo italiano" che Berlusconi promise nel 1994 all'epoca della discesa in campo. Non sa più che cosa dire sul "nostro tesoro nascosto, il Mezzogiorno". Ha rinunciato alle fantasmagorie sulle tasse e alla curva di Laffer. Si butterà sulle riforme costituzionali per far credere di esistere e per confermare a suon di decisioni l'egemonia della destra sulla politica italiana. E nel frattempo darà corpo al suo vero programma: che consiste nell'integrare gli interessi di riferimento della destra in una struttura corporata, in modo che possa spolpare il lavoro dipendente. Le corporazioni potranno prosperare, mentre gli altri pagheranno con l'inflazione il prezzo della prosperità altrui.

Basta guardare alle prese di posizione dei ministri e dei principali esponenti del Pdl, per capire che cosa sta succedendo. Poiché non esiste più una cultura comune nella destra, ogni protagonista si sente autorizzato a esprimere le sue manie. È una congrega di fissati, ognuno dei quali coltiva da decenni un pensiero fisso, attraverso il quale pensa di risolvere a cascata tutti i problemi nazionali. Oltre alla signora fissata con i grembiuli a scuola, c'è quello delle impronte digitali, quello del federalismo fiscale, quello dei fannulloni nel pubblico impiego, quello dell'abolizione del valore legale del titolo di studio. Ognuno convinto che c'è un modo per penetrare nel meccanismo della società, un problema che, una volta risolto con una trovatina, si ripercuoterà beneficamente su tutti gli aspetti del vivere civile.

Abolire i limiti di velocità in autostrada, permettere la deducibilità fiscale delle spese. Mandare l'esercito nelle città. La tolleranza zero. Multare quelli che fanno pipì nei parchi. Ripristinare le pene corporali. Vietare le sigarette ai giardini pubblici.Sono le soluzioni semplici a cui si affezionano le anime semplicissime. Tutti coloro che ignorano la complessità delle società contemporanee, gli interessi in gioco, la rete degli effetti. D'altronde, il miglior talento del governo, Giulio Tremonti, è l'inventore dei condoni, dell'ipoteca sulla proprietà delle case, della Robin Tax, della social card.

In realtà il governo non farà nulla. Per fare qualcosa ci vuole senso delle cose, ordine, accuratezza. Una compagnia di fissati si dedicherà alle proprie fissazioni. Chi ad acquistare coltelli di notte, chi a parlare di donne, chi a convincere il bar che i bambini zingari vanno strappati ai genitori, eventualmente per farli partecipare a qualche reality show strappalacrime. Perché c'è una soluzione per tutto. Anche se si ignora quale sia il problema

(18 luglio 2008)

da espresso.repubblica.it
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« Risposta #22 inserito:: Agosto 09, 2008, 06:33:36 pm »

Edmondo Berselli


Veltroni al bivio di settembre


Il governo lavora per diventare maggioranza permanente. E lo fa con i soldi degli altri  Certo è difficile inventarsi strategie politiche in agosto: e allora per il Pd conviene proiettarsi sulla riapertura dopo le ferie. Settembre può diventare una stanca parata di numeri due e di dibattiti frustranti alle ex feste dell'Unità, ora in molti casi Feste democratiche, in cui si continuerà a dire stancamente che Silvio Berlusconi con il suo governo non fa niente per i ceti poveri e il reddito fisso. Oppure si può cominciare a fare opposizione in modo convinto e convincente: se lo si fosse dimenticato, ci sono davanti a noi quasi cinque anni di governo di destra; ergo il mestiere dell'opposizione va imparato e praticato (è il mestiere che gli elettori hanno assegnato al Partito democratico).

Prima premessa: fuori i conti. Pierluigi Bersani insiste che il deficit stimato dal ministro dell'economia Giulio Tremonti è sovrastimato, e lascia intendere che il guru no global dell'antimercatismo sta costituendo una provvista per i costi delle riforme future, forse per superare indenne gli shock di spesa del federalismo fiscale. Non conviene avere un'idea chiara e passare a una battaglia manovriera sui conti del superministro?

Seconda premessa. Con una delle sue più spettacolari giravolte acrobatiche, Berlusconi ha annunciato che si taglia la spesa pubblica per non aumentare le tasse. Ma la riduzione del carico fiscale è sempre stata la stella polare del capo del Pdl; mentre adesso sostiene che ci dobbiamo accontentare che le tasse restino come sono, se non dovranno addirittura aumentare. Una presa in giro colossale, pronunciata con la faccia tosta dello statista preoccupato, mentre si ha la sensazione, come ha intuito Enrico Letta, che la flessione dell'Iva sia dovuta non solo e non tanto alla crisi dei consumi, bensì alla ripresa dell'evasione.

Quindi è il caso di mettere a fuoco in primo luogo il tema politicamente più rilevante di questa stagione. A dispetto delle storielle di un'azione sedicente 'di sinistra', per autocertificazione berlusconiana,
il governo in carica e la sua maggioranza hanno tutto l'aspetto di un esecutivo esplicitamente classista. Hanno diviso in due la società italiana, corporando gli interessi delle imprese e del lavoro autonomo, premurandosi di aggiungere qualche lustrino e le fatuità come la 'social card' per illudere la componente più inconsapevole di lavoro dipendente, pensionati e marginalità sociale.

In questo modo, il governo sta consolidando il blocco sociale di riferimento, a cui concederà di arricchirsi sfruttando l'inflazione (cioè manovrando i prezzi ai danni di coloro che non possono rivalersi). Si tratta di un'analisi rozzamente materialista, come no; ma come talvolta succede, la rozzezza individua un problema; sarebbe dunque un errore per il Pd occuparsi soltanto dell'eleganza astratta dei diritti e delle costuzioni giuridico-costituzionali mentre la destra comincia a spolpare concretamente il lavoro dipendente a ogni livello professionale.

E allora Walter Veltroni e tutti i ministri del governo ombra dovrebbero fare il piacere di uscire dall'estemporaneità e dalle dichiarazioni a stralcio sui singoli provvedimenti. Basta guardare gli attacchi al welfare, alla scuola, a tutte le strutture pubbliche, per rendersi conto che il governo Berlusconi sta preparando un colossale trasferimento di richezza da una parte all'altra della società. Qualcosa di simile a ciò che avvenne con l'adozione dell'euro, quando a interi settori e categorie fu concessa mano libera ai danni del reddito fisso.

Se lo schema non fosse ancora chiaro, ripetiamolo: il Pdl sta preparando le condizioni per diventare una maggioranza permanente, e lo fa con i soldi degli altri. Poiché la situazione è drammatica, e la prospettiva scoraggiante, ci vuole uno scatto di iniziativa. Una ricognizione minuziosa sugli andamenti economici, sul contenuto delle misure del governo, e una campagna d'autunno razionale e corale.

Per capirci: il discorso sulle riforme (federalismo, Costituzione, giustizia) non sono in questo momento la vera priorità per il Pd. La priorità effettiva è contrastare l'azione di una maggioranza politica che potrebbe costringere il Pd a diventare effettivamente, come ha detto Massimo D'Alema, un "minoranza strutturale" nel Paese e ad "aggregarsi" alla maggioranza, secondo il lessico del Cavaliere.

Se non si coglie questa drammaticità, Veltroni continuerà a essere un capo politico ininfluente, il Pd un partito ipotetico, l'opposizione un esercizio fumoso. È ora di svegliarsi. Altrimenti, quando ci si sveglierà davvero, sarà il risveglio da un incubo a portare il Pd e i suoi elettori nella realtà più nera.

(08 agosto 2008)


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« Risposta #23 inserito:: Agosto 15, 2008, 11:28:14 pm »

POLITICA

IL COMMENTO

La scelta delle gerarchie


DI EDMONDO BERSELLI



ALLA FINE per rintuzzare le critiche di Famiglia Cristiana al governo Berlusconi e per spegnere il focolaio delle polemiche è dovuto intervenire il direttore della sala stampa del Vaticano: e in quel momento si è capito che se padre Federico Lombardi aveva scelto di intervenire ai microfoni del Tg1 voleva dire che sullo sfondo si erano mosse le alte gerarchie, chissà, la segreteria di Stato, la presidenza della Cei, evidentemente preoccupate per la piega presa dagli eventi, e dalla durezza delle risposte nel governo e nel Pdl.

E difatti padre Lombardi, con le sue misuratissime parole, ha provveduto a ripartire le competenze e a definire le responsabilità: Famiglia Cristiana, ha detto il portavoce del papa, è un giornale importante del mondo cattolico ma non rappresenta affatto la linea del Vaticano o della Cei, e quindi i suoi giudizi identificano soltanto chi li ha scritti e il direttore del settimanale, don Antonio Sciortino.

Difficile immaginare una presa di distanza più radicale. Non si ricordano interventi equilibratori di questo tenore allorché il settimanale dei Paolini aveva criticato aspramente Romano Prodi e il suo governo, e più tardi il "pasticcio in salsa pannelliana" del Pd. E a questo punto viene anche da chiedersi per quale motivo le alte sfere vaticane hanno deciso un intervento che ha tutta l'aria di voler ridurre ufficialmente a Famiglia Cristiana a voce periferica e irrilevante.

Si può dissentire dalle valutazioni espresse dall'editorialista Beppe Del Colle, o comunque giudicare esasperato il giudizio secondo cui con misure come "la sciocca e inutile trovata" delle impronte digitali ai bimbi rom il nostro Paese sfiora il rischio di un nuovo fascismo. Ma nondimeno, per inquadrare decentemente i fatti, occorre anche considerare che il più importante e venduto giornale cattolico rappresenta un punto di vista significativo nella cultura cattolica, e non solo cattolica, italiana.
Sotto questa luce, non è facile definirlo politicamente. Destra e sinistra non sono termini che possono restituire integralmente la posizione storicamente rappresentata dal giornale dei Paolini.

Infatti Famiglia Cristiana si colloca rigorosamente nella tradizione cattolica per ciò che riguarda la concezione della famiglia, e su altri temi che attengono al magistero etico della Chiesa. Ma nello stesso tempo il settimanale ha sempre rappresentato un punto di riferimento per il cattolicesimo più aperto e non impaurito dalla modernità.

L'ortodossia verso il magistero papale, insieme con l'amore filiale manifestato verso i pontefici da Wojtyla a Ratzinger, non ha mai impedito ai Paolini, prima sotto la direzione di don Leonardo Zega e poi con la guida di don Sciortino, di esporre una propria linea culturale e finanche "sociale", legata a quelle inquietudini conciliari che hanno vivificato a lungo il cattolicesimo italiano e che hanno trovato nel papato di Montini l'espressione più compiuta, e nel pensiero del cardinale Martini la presenza più suggestiva.

Sarebbe una sciocchezza attribuire alla direzione di Famiglia Cristiana e ai suoi giornalisti un orientamento esplicitamente di sinistra. Si scadrebbe al grado di livore manifestato in questi giorni da Maurizio Gasparri, e dalle controaccuse di fascismo da parte dell'ex Udc Carlo Giovanardi (che si è scagliato contro i "toni da manganellatore" che don Sciortino consente ai suoi collaboratori). Eppure, non ci sono dubbi che nel corso degli anni Famiglia Cristiana ha rappresentato una delle sempre più rare isole di riflessione e anche di critica verso l'ineluttabilità del disincanto politico, e verso l'edonismo cinico che ha segnato l'ultima fase della modernizzazione del nostro Paese.

Se esiste un luogo in cui persiste un atteggiamento non corrivo, cioè non arrendevole, verso la brutalità e la volgarità dell'Italia consumista e televisiva, questo è stato ed è Famiglia Cristiana. Prendere tale atteggiamento e proiettarlo come una critica essenziale verso il berlusconismo può essere una forzatura: ma nondimeno è connaturata alla mentalità del giornale dei Paolini l'idea di una società sobria, esente dai fulgori effimeri, dagli amori fatui, dall'iperconsumo irresponsabile. E di converso di una partecipazione alla sofferenza degli umili, qualunque sia il loro posto nella società dell'euforia coatta. Una condivisione dettata dalla fede, dall'umanità, dalla curiosità verso ciò che è diverso, e dalla disponibilità culturale verso ciò che è inedito.

Che da destra si manifesti un'insofferenza tanto acuta verso il settimanale cattolico sembra la dimostrazione palese che il rapporto con il mondo cattolico viene sentito sotto un aspetto strumentale e problematico. Come una risorsa politica ed elettorale, ma anche come una possibile fonte di delegittimazione. D'altronde, appartiene interamente allo spirito di Famiglia Cristiana la critica verso quei provvedimenti governativi di taglio spettacolare, che sembrano fatti apposta per aumentare l'inquietudine dei cittadini, vale a dire per intensificare l'allarme sociale che dichiarano di voler combattere (con rischi, se non di un nuovo "fascismo", di un circolo vizioso di misure sempre più aspre e sempre più inadeguate rispetto all'allarme generato).

Non è facile oggi stare dentro i panni del direttore di Famiglia Cristiana. Rappresenta una posizione impopolare rispetto a quel mondo cattolico, maggioritario, che dopo la fine della Dc ha scelto di farsi rappresentare dalla destra. Non troverà sostegni apprezzabili a sinistra, dove la parte laica guarderà sempre con sfavore le sue posizioni sui temi politicamente sensibili della bioetica.

Ma il pericolo maggiore, prima ancora delle proteste di chi viene criticato, e che riguarda tutti i cattolici consapevoli, è quello di restare schiacciati da un implicito patto di potere fra la destra trionfante di questa stagione e il realismo politico delle gerarchie vaticane: cioè dalla strana e nuova conciliazione che sembra delinearsi, un nuovo patto di interessi e di potere che potrà premiare la Chiesa come istituzione temporale, ma che lascerebbe senza voce un cattolicesimo che ancora accetta di misurarsi con i dubbi, le incertezze e le angosce del nostro tempo.

(15 agosto 2008)

da repubblica.it
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« Risposta #24 inserito:: Agosto 25, 2008, 06:24:21 pm »

Cavalier recessione

di Edmondo Berselli


Attacco agli apparati pubblici. Fine della lotta all'evasione. Dai primi cento giorni di governo emerge la strategia di Berlusconi: cavalcare la crisi. E a pagare saranno i lavoratori dipendenti  I primi cento giorni del Caimano, del Cavaliere, dello 'statista', dello stratega di affari geopolitici sono una sfida micidiale al Pd e a tutte le opposizioni. Anzi, un attacco putiniano in pieno assetto di guerra. Peccato non essersene accorti. Come ha detto Giulio Tremonti presentando la manovra: "L'Italia possiede un punto di forza: la stabilità politica; che resterà per cinque, dieci, forse quindici anni".

Se il Pd fosse meno impegnato nelle sue beghe, a creare fondazioni, a demolire Sergio Chiamparino, a proiettare nel cielo dell'estate vaghe astrazioni fra il letterario e lo sciamanico, un lunghissimo brivido scenderebbe nella schiena dei suoi dirigenti, primo fra tutti Walter Veltroni.

Come aveva detto Massimo D'Alema? Rischiamo di diventare una "minoranza strutturale". Infatti, per la prima volta si assiste in Italia al profilarsi di una nuova specie di guerra di classe. Berlusconi e Tremonti hanno in mente il progetto perfetto per diventare eterni.

Per capirlo, bisogna uscire dal coacervo dei singoli provvedimenti: l'abrogazione dell'Ici era un atto dovuto dopo la campagna elettorale, la detassazione (parzialissima) degli straordinari è una misura irrilevante nella quantità, la campagna su immigrazione e sicurezza ha un valore simbolico fortissimo, con l'esercito in strada e le vecchiette che dicono "vi vogliamo bene" ai soldati, ma i suoi contenuti saranno da valutare più avanti.

Ma è il lavoro dietro le linee quello che viene condotto dal governo, e nasce da una concezione darwiniana della politica. Di destra vera e cattiva, senza inibizioni e remore culturali. Il Popolo della libertà vede con chiarezza una perdita di peso del lavoro dipendente e di tutti i ceti riconducibili nel perimetro del reddito fisso, e quindi la possibilità di creare un blocco sociale di maggioranza che possa confermarsi, come ha ripetuto Tremonti, "a tempo indeterminato". Un settore politico che copre la metà della società, 'la società del 50 per cento' (diversamente dalla "società dei due terzi" descritta a suo tempo dal socialdemocratico tedesco Peter Glotz), che
governa agevolmente contro tutti gli altri ceti dispersi e perdenti.

Per ottenere questo scopo, a suo modo 'storico', Berlusconi si è premunito garantendosi l'immunità, con la cinica operazione del provvedimento bloccaprocessi, che è servito a introdurre la 'mediazione' del lodo Alfano: prima si minaccia l'atomica e poi si negozia da posizioni di forza. Un capolavoro di violenza sulle istituzioni.

A questo punto, sereni e tranquilli, si può passare alla Fase 2, la fabbricazione di una maggioranza sociale e politica non aggredibile dalle opposizioni. Con un esemplare ragionamento da economista, Francesco Giavazzi sul 'Corriere della Sera' del 17 agosto ha scritto che Tremonti, che pure ha evocato spesso lo spettro del Ventinove, "rischia di ripetere gli errori di Herbert Hoover, il presidente che, nel tentativo di raggiungere il pareggio di bilancio nel mezzo di una recessione, creò le premesse per la grande depressione".

Tremonti, dice Giavazzi, tiene la pressione fiscale invariata per un triennio, "al livello elevatissimo al quale l'aveva lasciata Prodi". Strano, per gente che aveva sempre puntato sul 'meno tasse per tutti'. Tanto più, aggiunge l'editorialista del 'Corriere', che "come ha spiegato con grande chiarezza Guido Tabellini (.), ciò che servirebbe è un'energica riduzione delle tasse sul lavoro".

Ora, consideriamo che Giavazzi è uno dei più celebri economisti italiani, e che Guido Tabellini è un quasi premio Nobel. Si può immaginare allora che Tremonti sia uno sprovveduto che durante una fase di stagnazione e inflazione approva riduzioni di spesa con effetti, direbbero i suddetti economisti, 'pro-ciclici', cioè con una seria probabilità di aggravare la recessione?

Non è possibile. Una interpretazione più realistica è quella di Pier Luigi Bersani:il governo sta facendo provvista per affrontare i costi inevitabili della struttura federalista. Ma c'è anche un'interpretazione più inquietante. La recessione può essere un fenomeno preoccupante sotto l'aspetto economico, ma funzionale invece al disegno politico del Pdl. Basta dividere in due la società: da una parte il già citato reddito fisso, lavoro dipendente e pensionati; dall'altra imprese e lavoro autonomo (professioni, commercio, artigiani ecc.).

Per queste categorie sociali, né l'inflazione né la stagnazione rappresentano un'inquietudine. Alle imprese è stato lanciato il messaggio sulla contrattazione da flessibilizzare, sul lavoro precario e perfino su aspetti premoderni del rapporto fra imprenditori e lavoratori, come la cancellazione della legge che impediva la pratica delle dimissioni firmate in bianco. Alle categorie del lavoro autonomo, che Bersani aveva tentato con qualche limitato successo di sottoporre alla concorrenza, viene assegnata di fatto la possibilità di manovrare prezzi e tariffe. Non che il mercato si possa comprimere con i calmieri; ma la scomparsa del contenimento dell'inflazione dalle priorità vere del governo mette allo scoperto la pesante sfasatura, per il reddito fisso e per i contratti, fra l'inflazione programmata, del tutto irrealistica, e l'inflazione reale.

In ogni caso i pilastri dell'azione del governo sono da un lato l'attacco a tutti gli apparati pubblici; dall'altro il tendenziale smantellamento del contrasto all'evasione.

Il primo aspetto è spettacolare (così come è uno show quotidiano l'azione intimidatoria di Brunetta sul pubblico impiego): i trenta miliardi in tre anni di tagli alla macchina pubblica incidono su scuola, università, sanità, sicurezza, e su tutti gli enti locali, in maggioranza di centrosinistra, che avranno difficoltà pesanti nell'assicurare i servizi.

L'altro, il ritiro dalla lotta all'evasione, è più strisciante. Si compone di provvedimenti invisibili, che non fanno titoli sui giornali, e che non accendono la fantasia dei commentatori.

Tanto per dire, sul 'Sole 24 ore' Stefano Micossi riconosce al governo di avere avviato per il paese un percorso di "riforme strutturali, capaci di liberarne il potenziale di crescita e modernizzarne le istituzioni obsolete". Converrebbe allora capire se fra queste riforme va compresa anche l'istituzionalizzazione politica dell'evasione, che l'ex viceministro dell'Economia, l'odiatissimo ma efficiente Vincenzo Visco ha riassunto in questo modo: "Ormai si è convinti che le tasse le debbano pagare solo i lavoratori dipendenti".

Per chi volesse avere un'idea delle misure 'anti-antievasione', secondo Visco non c'è che l'imbarazzo della scelta: abolizione della tracciabilità dei compensi, indebolimento delle norme sugli assegni bancari, eliminazione dell'elenco dei fornitori, con l'aggiunta dello smantellamento dello staff ministeriale che aveva lavorato con il governo precedente.

Via libera al sommerso, quindi, sotto la coltre fumogena di operazioni come la 'social card' e un esproprio patrimoniale con strizzata d'occhio come la 'Robin Tax': tanto che nessuno nell'opposizione sembra in grado di cogliere la portata dello choc sociale che è stato innescato. Vale a dire un trasferimento di ricchezza potenzialmente colossale, mascherato dietro le filosofie di Tremonti sull'economia sociale di mercato, sul federalismo fiscale, sulla resistenza 'di comunità' alla globalizzazione.

Ci sono insomma due linee di confronto, e di scontro, dell'opposizione con la maggioranza: una corre su questa redistribuzione regressiva, di tipo castale. L'altra sull'operazione 'istituzionale' di tipo federalista. Entrambe le iniziative di fondo del governo possono innescare tensioni fortissime nel tessuto sociale e nazionale. Con la prima, l'attacco al reddito fisso, il Pdl ha cominciato a costruirsi il suo blocco politico, e lo fa 'con i nostri soldi', cioè con i soldi dell'opposizione. Con la seconda, aprirà un tiro alla fune spaventoso fra Centro-nord e Sud, che potrà essere gestito soltanto aprendo i rubinetti delle casse pubbliche, cioè a spese del bilancio dello Stato. Con rischi fortissimi o dell'aumento della tentazione separatista, oppure di un attentato materiale alla crescita (ma non importa, si è già visto che nella recessione la maggioranza e i suoi elettori ci sguazzano).

È per questo che il Pd, e tutte le opposizioni residue dovrebbero dedicare l'autunno a un'azione di duro contrasto al progetto generale berlusconian-tremontiano. Il 'dialogo', le 'commissioni à la Attali' e altre finzioni collaboranti vanno lasciate a momenti migliori. Il punto centrale è: attrezzarsi a fare opposizione sulle questioni reali. Per il dialogo sulle questioni immaginarie verranno tempi migliori, forse, chissà, un giorno, se nel frattempo non ci avranno spolpati.

(25 agosto 2008)

da espresso.repubblica.it
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« Risposta #25 inserito:: Agosto 27, 2008, 07:40:34 pm »

TELEVISIONE

Botola sadica

di Edmondo Berselli



Chi partecipa al programma condotto da Fabrizio Frizzi rischia una piccola tortura. Può esibirsi in uno studio televisivo, ma se il pubblico lo boccia viene buttato in acqua  Basta la sigla del programma condotto da Fabrizio Frizzi 'La botola' (su Raiuno dopo il tg delle 20) per capirne la perfezione. La botola è una botola reale, che riporta con il pensiero a torture ed esecuzioni capitali. Qui a farsi torturare benevolmente da Frizzi e a subire la pena della botola che si spalanca sotto il perdente, e lo fa cadere in un sotterraneo pieno d'acqua, sono i soliti italiani medi, quelli sempre pronti a candidarsi alla 'Corrida'.

Sono tutti simili: sanno fare una cosa, un numeretto, un piccolo show, cantare una canzone stonando il giusto, suonare brani orchestrali tamburellando sui denti (un vero classico degli artisti dilettanti), esibirsi in spettacolini di danza. Sono in genere mediocri, ma Frizzi è un maestro a cogliere nelle esibizioni di ognuno un tratto personale apprezzabile: se stona ammira l'energia, se non va a tempo sottolinea la personalità. Ma il clou è l'acme di sadismo che si registra nel momento in cui due contendenti vengono piazzati su due botole affiancate, in attesa della decisione del voto del pubblico che condanna l'uno o l'altro a precipitare nel vuoto e nell'acqua.

Vale la pena di rischiare uno shock acquatico per puntare a una somma modesta? Il fatto è che i concorrenti non puntano al denaro. Desiderano andare in scena, mostrare in tv la specialità che ha fatto divertire parenti e amici. Siamo sempre dentro il familismo amorale più il 'Grande fratello', frullati in un solo show serale. A ogni botola che si apre, non si sa bene se prevale il divertimento per la piccola suspense o la vergogna per vedere maltratti dei virtuali vicini di casa. Alla lunga, prevale l'insofferenza.

(27 agosto 2008)


da espresso.repubblica.it
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« Risposta #26 inserito:: Agosto 29, 2008, 11:27:06 pm »

Edmondo Berselli


Il ministro Lorello

Brunetta il più amato dagli italiani? No, il suo format è solo intimidatorio. Colpisce i sintomi ma non la malattia  Il ministro della Funzione pubblica
Renato BrunettaE poi dicono che sono finite le ideologie. È come nella sintesi di Karl Barth: "Quando il cielo si spopola di Dio, la terra si popola di idoli". Finito il socialismo, almeno nella provincia italiana, sono rimasti i socialisti. Anzi, come dice uno dei divi del Pdl, il ministro Renato Brunetta: "Io sono un socialista in Forza Italia". La trovata è talentuosa, e a suo modo plausibile, dal momento che fra i berluscones c'è di tutto, dagli ex socialisti agli ex liberisti, dagli ex dc agli ex fascisti. A quanto pare, Brunetta è il ministro più popolare, grazie alla sua campagna contro i fannulloni del pubblico impiego. Ne è consapevole. Ammesso che nel frattempo non abbia smentito, Brunetta ha dichiarato al settimanale famigliare 'Gente': "Io, povero, non bello e non ricco, ho fatto il culo al mondo e sono la Lorella Cuccarini del governo Berlusconi, il più amato dagli italiani".

Ma qui cominciano i problemi. Perché il ministro 'Lorello Cuccarini' Brunetta ha creato un format infallibile, irresistibile, di eccezionale successo. Secondo il quale l'Italia si divide in due parti precise: da un lato "60 milioni di cittadini che vogliono vedere premiato il merito e puniti i furbi"; dall'altro "un milione di lavativi", "la stima che abbiamo di tutta un'area politico-culturale-amministrativa: al massimo 500 mila statali, e poi politici, sindacati".

Da questa prima osservazione (tratta da una rivelatrice intervista a Conchita Sannino de 'la Repubblica', apparsa il 21 agosto) sembrerebbe di capire che esistono fannulloni per appartenenza 'd'area', culturale e politica. Bah. Ma il cuore della strategia di Brunetta è l'invenzione di una stragrande maggioranza di italiani buoni costretta a fronteggiare un fortilizio di farabutti neghittosi, asserragliati nel privilegio del non lavoro. A parte il simbolismo della cifra tonda, 60 milioni contro 1, è ideologica, e manipolatrice, l'idea che l'inefficienza della pubblica amministrazione, la scarsa produttività degli apparati burocratici, e di conseguenza l'insoddisfazione di cittadini e imprese, dipenda dalla strenua fannullaggine di una minoranza proterva.


Il format di Brunetta è infallibile, e suscita un grande successo popolare, perché chiama al tifo i 60 milioni di gentiluomini che scelgono di stare ovviamente dalla parte del bene e della modernità, contro il milione di fautori del male e dell'arcaismo. E allora, come definire l'azione del ministro? Su una base manichea, si innesta un'iniziativa populista; si agitano fantasmi, nemici immmaginari, indicando un generico capro espiatorio. Ma questa è demagogia in quintessenza. A suo tempo il populismo socialista provocò l'irritazione di Nino Andreatta, che nella famosa "lite fra comari" con Rino Formica accusò il Psi di "nazional socialismo" (il compianto economista bolognese traduceva mentalmente dall'inglese, anteponendo in modo meccanico l'aggettivo al sostantivo e combinando così qualche pasticcio lessicale e politico: ma chi voleva intendere intendeva).

L'azione di Brunetta è intimidatoria. Colpire i sintomi di una malattia, cioè l'inefficienza, ossia bastonare le conseguenze senza toccare le cause, è un peccato intellettuale. Riformare la pubblica amministrazione è un compito essenziale, ma per uscire dal cerchio dei rimedi medievali (la gogna per i peccatori, i vagabondi, i nullafacenti), occorre una diagnosi adeguata, che valuti le differenti realtà territoriali e gli standard di rendimento, magari con qualche confronto europeo, nonché alla fine i danni provocati dalle intromissioni della politica (perché quanto a clientelismo, lottizzazioni e assunzioni di favore nemmeno i socialisti amici di Brunetta scherzavano).

E poi occorre una terapia davvero moderna e riformista, che consiste nel procedere al ripristino di una catena di comando, cioè alla responsabilizzazione di tutti gli snodi dell'apparato pubblico. Altrimenti siamo sempre alle 'gride' manzoniane, che produrranno nuovi Azzeccagarbugli, e frustrazioni supplementari nei cittadini.

da espresso.repubblica.it
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« Risposta #27 inserito:: Settembre 11, 2008, 09:09:12 am »

TELEVISIONE

Politica ai Ferri

di Edmondo Berselli


Omnibus estate su La7, condotto da Manuela Ferri, è l'unico salvagente per i tossicodipendenti del talk show politico.

Perché d'estate non tutti vanno in vacanza. Per quasi tutto il mese d'agosto gli intossicati di politica, e di talk show politici, coloro che non sanno vivere senza Vespa, Mentana, Floris, Mannoni, Annunziata, Piroso, Telese, Parenzo, Formigli eccetera, avrebbero dovuto accusare forti sintomi di crisi d'astinenza. Per forza, diranno gli attentissimi lettori: in agosto la politica va in vacanza. E i relativi talk show anche.

Errore: un'isola di salvezza per gli 'addict' c'è anche durante le ferie. È il programma de La7 'Omnibus estate', condotto da Manuela Ferri.
Talk show per tossici veri: uno si sveglia al mattino, accende la tv, e vede nel teleschermo il ministro La Russa, detto a suo tempo dai camerati milanesi 'il volto demoniaco del fascismo'.

Ci vogliono nervi saldi. Oppure Piero Sansonetti, il volto combattente del comunismo. O Mario Ajello, il volto ironico del commento. E anche Franco Grillini, il volto bolognese dell'orgoglio gay. Ammetteranno lorsignori che, alla vista di tali protagonisti, personalità deboli e meno scafate scatterebbero immediatamente con il pollice sui tasti del telecomando, alla ricerca di un documentario sui bruchi, sulle rane gibbose, sui bramiti d'amore di certi ungulati.

E invece no: il tossicodipendente segue affascinato il dibattito, chiedendosi se ci sarà Cicchitto in collegamento. E così osserva la conduttrice Ferri, che ha l'aria di una che potendo sarebbe a 10 mila chilometri di distanza dove il mare è più blu; tuttavia, già che c'è, sfoggia la bravura che l'aveva già fatta notare a Telelombardia. Sempre preparata, calma, con l'aria di dire: ma guarda con chi mi tocca parlare la mattina presto.

E noi, lì, allocchiti.


(08 settembre 2008)


da espresso.repubblica.it
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« Risposta #28 inserito:: Settembre 18, 2008, 03:40:38 pm »

POLITICA condividi         

Alcuni ministri hanno imposto un modello comunicativo che divide il paese in due

Il maestro è Berlusconi. Ma il metodo è stato messo a punto da Brunetta

Quando la politica diventa un format


di EDMONDO BERSELLI

 

E SE LA DEMOCRAZIA contemporanea fosse più vicina a un format che a un complesso strutturato di regole? Nella politica come gioco mediatico, le percentuali di gradimento per il governo schizzano in alto. L'audience appare soddisfatta. Eppure qualcuno dovrà pur chiedersi quali sono le ragioni del consenso che sta accompagnando Silvio Berlusconi.

Dati addirittura "imbarazzanti", ha confessato il premier reprimendo un brivido di piacere di fronte a quel 60 per cento di favorevoli che campeggia nei sondaggi.

L'imbarazzo è un sentimento soggettivo; a sinistra, invece, il picco di popolarità è considerato inspiegabile. Anche osservando da vicino l'azione dell'esecutivo e dei singoli ministri riesce difficile spiegare il perdurare della luna di miele. Difatti, a causa di quelle congiunture economiche sfortunate a cui Berlusconi e Tremonti sembrano condannati, la crescita è praticamente sottozero; l'inflazione ha rialzato la cresta; i consumi flettono; parti consistenti della società italiana avvertono il peso di un andamento economico sfavorevole. Sullo sfondo si intravede l'incubo del Ventinove. E allora?

Allora è probabile che per il momento serva a poco giudicare il governo Berlusconi con le categorie tradizionali della politica e dell'economia. Occorre invece un approccio culturale, se non addirittura antropologico: il governo e i ministri più popolari sono riusciti, chissà se per intenzione esplicita o per un caso fortunato, a imporre un modello, una forma specifica di comunicazione. Anzi, un format.

Come in un programma televisivo di successo, Renato Brunetta, Roberto Maroni, Mariastella Gelmini, e perfino la "new entry" Mara Carfagna, sono riusciti a trasmettere un contenuto secondo modalità standardizzate, di tipo essenzialmente mediatico-televisivo, e quindi a mettersi in comunicazione con il pubblico (ovvero lo stadio di implosione nella privacy a cui è stata consegnata l'opinione pubblica).

Il maestro del format è ovviamente Berlusconi. È stato lui per primo a dare una cornice competitiva e spettacolare alla politica, separando gli italiani "della libertà" dai "comunisti", e quindi a declinare la gara elettorale come un giudizio di Dio fra due Italie separate e inconciliabili. Ma Berlusconi è stato in grado più che altro di dividere, mobilitando la propria parte, fanatizzando ideologicamente i pasdaran del berlusconismo e chiamando a raccolta gli elettori anche più tiepidi contro l'esercito del male, in cui il sostantivo "comunisti" riuniva amministratori, magistrati, sindacalisti, impiegati pubblici, politici fannulloni, insegnanti sessantottini.

Ma in questo modo il consenso non poteva crescere oltre i limiti fisiologici della destra, oltre la sua geografia politica. Per superare il perimetro del voto conservatore occorreva un'invenzione culturale. La Lega, e in particolare Roberto Maroni, hanno aperto la strada, con le iniziative sulla sicurezza e le misure contro l'immigrazione irregolare: ma eravamo ancora nei pressi delle azioni classiche, in cui si individua un nemico vero o virtuale, e lo si etichetta esponendolo alla pubblica opinione, generando così processi dominati dalla configurazione classica del capro espiatorio.

Lo straniero, l'altro, il nomade, identificato come una figura potenzialmente incline a crimini come il furto o lo stupro, capace di violenze inaudite sotto l'effetto della coca, senza rispetto nemmeno per i codici della criminalità autoctona tradizionale.

Il passaggio successivo è stato formalizzato con metodi di rara efficacia da Brunetta, che lo ha pure teorizzato nelle numerose interviste concesse durante l'estate. Nello schema del ministro della pubblica amministrazione, la popolazione nazionale si divide in due parti ben individuate: da un lato, "sessanta milioni" di italiani per bene, contrapposti a un milione di farabutti, fannulloni, lavativi, buoni a niente, sabotatori. Dal lato dei fondamenti empirici, il modello descrittivo di Brunetta è irrilevante.

Ma quanto a capacità di mobilitazione è formidabile. Il format del ministro è un perfetto produttore di consenso, perché colloca la stragrande maggioranza dei cittadini dalla parte del buon senso e della buona volontà, e consegna a una gogna ipotetica un imprecisato milione di italiani (questi sì "imbarazzanti", quindi licenziabili, punibili, penalizzabili dagli ukase ministeriali).

Sarebbe superfluo dire che il format è impreciso, e non descrive nulla della società contemporanea, se non fosse che come modello proposto in pubblico ha successo. Anzi, un successo travolgente. Da un lato rassicura, dall'altro esorcizza. Rassicura i bravi cittadini, gli impiegati onesti, l'intera platea di chi auspica efficienza e rigore nei comportamenti pubblici; esorcizza il rischio di una società contagiata dagli imbroglioni, indifferente ai dettami etici, governata dai criteri di un familismo ancora e sempre amorale.

Naturalmente, il format distorce la realtà nel momento stesso in cui fa entrare a forza le tessere in un mosaico predeterminato. Semplifica con forzature impressionanti, attribuisce responsabilità collettive di procedura alla disposizione individuale, identifica l'inefficienza come il prodotto della furbizia e della neghittosità individuale anziché alla cattiva organizzazione degli apparati.

Non è L'isola dei famosi a essere cattiva in sé; sono un paio di protagonisti, su cui si può concentrare l'animosità degli altri. Ma il format è dannatamente efficace, perché permette a una maggioranza sociale dispersa, anonima, prima di riconoscersi, poi di autoassolversi (nessuno è colpevole, nella soap in cui tutti i cattivi, pochi, sono immediatamente riconoscibili), e infine a sostenere l'azione delle autorità contro questi imprecisati cattivi soggetti, a cui possono essere assegnate tutte le responsabilità.

Non c'è un inventore certo del format. Si è creato per prove ed errori, per tentativi e cambiamenti successivi. Che nel pubblico ci sia una disposizione favorevole, ormai quasi naturale, è fuori dubbio. Basta partecipare a una presentazione dei libri di Gian Antonio Stella e Sergio Rizzo (La casta e il più recente La deriva) per rendersi conto che il pubblico si autointerpreta ogni volta come una moltitudine di bravi e onesti cittadini, stupefatti, e anzi angosciati, di fronte all'impazzimento dei meccanismi della politica, agli sprechi, alle piccole e grandi corruzioni delle strutture pubbliche.

Il format è quindi infallibile perché sgrava la coscienza: c'è un'altra Italia, là sullo sfondo, a cui dare la colpa. Un'Italia fortunatamente minoritaria, insignificante anche numericamente rispetto ai sessanta milioni di italiani brava gente, i quali possono deprecare scuotendo la testa il residuo milione di cattivi soggetti.

Il contenuto populista del format è fortissimo: in primo luogo perché inibisce qualsiasi distinguo. Sottilizzare è vietato: non vorrete stare dalla parte dei fannulloni, o dei corrotti. Attribuire la responsabilità dei disfunzionamenti a questioni di struttura e di imperfezione degli apparati è uno dei vizi della sinistra e del sindacato. Sono sciocchi giustificazionismi: bisogna licenziare gli assenteisti, mandare a domicilio le visite fiscali, colpire i fannulloni nel vivo dello stipendio, mettere in galera i corrotti e tenerceli.

Ma più ancora che di populismo si tratta di demagogia allo stato puro: i progetti e i provvedimenti del ministro Gelmini sul voto in condotta, i grembiuli, il "maestro unico" implicano tutti l'idea di un "ritorno" a una condizione nostalgica, in cui l'autorità e l'ordine erano sanciti da rapporti sociali e codici culturali apparentemente immutabili (e purtroppo distrutti dal "nullismo" del Sessantotto, come ripete spesso Giulio Tremonti, ministro che dichiara di ispirarsi sinteticamente al motto "Dio, patria e famiglia").

Dovrebbe essere chiaro che non si esce a ritroso dalla modernità, e che gli anni Cinquanta non sono riproducibili per decreto se non, per l'appunto, nella realtà artificiale del format. Il revanscismo dei ministri del Pdl conduce a una fiction: nessuno dei nessi e nessuna delle contraddizioni della modernizzazione, nessuno dei processi descritti a suo tempo da Max Weber, viene affrontato dagli applauditi serial della destra.

Eppure le semplificazioni, almeno per ora, generano consenso. Le scorciatoie mobilitano risorse affettive, emotive, sentimentali nella società. Rappresentano un antidoto al nichilismo, allo sradicamento morale e all'assenza di senso caratteristici dell'età contemporanea. Offrono soluzioni vicarie di fronte agli choc generati dalle scie vertiginose della globalizzazione.

Perfino i poveri, infatti, nelle soap sono pochi, e risultano trattabili con espedienti come la social card, non con gli apparati "socialisti" dello stato sociale, come ha spiegato da sinistra Laura Pennacchi nel suo ultimo libro, La moralità del Welfare. Contro il neoliberismo populista, editore Donzelli, pagg. 260, euro 27).

Il format offre soluzioni, ma in genere si tratta di soluzioni narrative. Cioè terapie che portano all'individuazione della causa, come se la causa fosse una sola, e la curano con un colpo di scena o un happy ending. Formidabile, per esempio, la trama allestita da Mara Carfagna sulla punizione on the road di prostitute e clienti: come se la realtà metropolitana fosse costituita da pochi devianti, dediti agli incontri sessuali nelle periferie, da dissuadere con le maniere forti.

Mentre il numero stesso dei frequentatori dei viali, e la straordinaria varietà dell'offerta erotica, mostrano una realtà proliferante, in crescita continua, legata sia a scelte individuali sia a macrocircuiti illegali, sostanzialmente incontrollabili con i metodi di polizia.

Cioè una realtà "sociale". Un mercato. Eppure il romanzetto rassicurante di pochi peccatori da colpire con la mano dura è irresistibile. È la tolleranza zero, o una sua imitazione. È il decisionismo che corregge funzionamenti complessi con misure di fantastica semplicità. È il format, amici telespettatori.

(18 settembre 2008)

da repubblica.it
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« Risposta #29 inserito:: Settembre 19, 2008, 10:31:48 am »

Edmondo Berselli


Paradigma Mariastella


Il ministro Gelmini è l'emblema della nuova ideologia di destra, portatrice di una modernizzazione reazionaria  Mariastella GelminiPiù di Brunetta, e più di Tremonti, il ministro Mariastella Gelmini impersona lo spirito autentico del governo Berlusconi. La trentacinquenne Gelmini campeggia su copertine e fotografie agghindata in abiti colorati, in uno stile che ricorda gli anni Cinquanta, a cui gli occhiali da vicepreside aggiungono un tocco 'vintage'.

Ma ciò che più interessa, e la rende un emblema della nuova ideologia di destra, è la sua azione e le idee che la ispirano. Il ministro Gelmini infatti è la portatrice dell'autentico pensiero che anima il governo, già identificato come portatore di una modernizzazione reazionaria (o se si preferisce di una restaurazione modernizzatrice: sempre di ircocervo si tratta).

Per questo la Gelmini va presa alla lettera. E alla lettera vanno presi i pilastri della sua opera. Per dire, il recupero del grembiule e del voto in condotta non sono semplici proclami demagogici: costituiscono gli indizi di un metodo, secondo il quale problemi complessi si risolvono con operazioni semplici, fra gli applausi di una società vecchia e stanca, che rimpiange la propria modesta gioventù.

Chi scrive ha avuto la ventura di frequentare la scuola materna e le elementari in una provincia bianca degli anni Cinquanta, dove i maestri comandavano 'mani in prima' e 'mani in seconda' ('in prima' dovevano essere appoggiate sul banco; 'in seconda' portate dietro la schiena). All'asilo, le suore punivano i bambini cattivi con castighi graduali che cominciavano con la pacca della riga da sessanta centimetri sul palmo della mano, potevano passare al cerotto sulla bocca e giungere a legare i troppo vivaci alla sedia con una fune grossa due centimetri.

Perché non recuperare queste usanze? Solo perché non lo consente il buonsenso? Ma il buonsenso non è una categoria politica, l'importante è reagire al "nullismo"
, come lo chiama Tremonti, del Sessantotto, ripristinare il principio di autorità, recuperare una società ordinata. E se questo non basta, sarà bene applicare integralmente tutte le soluzioni o le fissazioni del ministro Gelmini: a cominciare dall'eccellente idea di tornare al maestro unico (o per meglio dire alla maestra unica, vista la composizione del corpo insegnante alle elementari).

La polemica contro il 'modulo', cioè contro la riforma che portò alle équipe coordinate di insegnanti è un vecchio tema di destra, che si è sempre nutrito di considerazioni in parte economiche e in parte filosofiche. Certo, tre insegnanti al posto di uno costano di più, anche se non tre volte di più, e possono apparire una soluzione corporativa alla crisi demografica, secondo lo slogan 'meno bambini, più maestri'.

Le critiche filosofiche invece hanno sempre preso di mira il fatto che il 'modulo' rappresenterebbe un attentato alla libertà d'insegnamento e un attacco gravissimo alla psicologia degli alunni, disorientati dalla varietà delle figure di riferimento.

Nessuno dei fautori del ritorno all'insegnante unico, in politica, ha mai chiesto che si procedesse a valutazioni empiriche sui risultati della scuola elementare, e a confronti con la scuola primaria almeno europea, sui metodi, sulle peculiarità delle pedagogie nazionali. Magari si scoprirebbe che il 'modulo' è una schifezza, ma finora ha funzionato. Magari l'Europa è più avanti, è più indietro, è più di lato, ma l'insegnante multiplo non l'abbiamo inventato noi.

Invece no. Ciò che importa è trasmettere l'idea di un proficuo ritorno al passato, all'ordine, al merito (si fa per dire, naturalmente: sappiamo che la meritocrazia, come la concorrenza, si applica agli altri). È la restaurazione selettiva, rivolta preferibilmente verso inemici di classe, che per il momento potrà piacere a un paese vecchio mentalmente e provinciale culturalmente, che crede di poter riassaporare i metodi di una tradizione già da un pezzo in frantumi.

Illusioni. Illusionismi. Il tentativo di far credere che i problemi si risolvono a partire dalla coda, guardando a un tempo che non esiste più, quando si faceva la buona azione quotidiana e i dodicenni non compravano la cocaina all'angolo di strada. E allora avanti, c'è modo di fare di più e meglio: abolire la sciagura famigliare del divorzio, tornare all'adulterio punito con il carcere.

E quanto alla scuola, ridateci i meravigliosi professori di 'Amarcord' con i loro tic, quello là che vuol tenere intatta la cenere della sigaretta, quella lì che scandisce "la pro-spet-ti-va!". Tutto stupendo, anche secondo il sessanta per cento degli italiani che nei sondaggi mostrano di gradire: ma noi, noi anime prave, che cosa abbiamo fatto di male, per meritarci tutto questo?

(19 settembre 2008)

da espresso.repubblica.it
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