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Autore Discussione: GIORGIO CALABRESE. Buona tavola emergenze vere e finte  (Letto 3621 volte)
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« inserito:: Marzo 11, 2011, 04:26:49 pm »

11/3/2011

Buona tavola emergenze vere e finte

GIORGIO CALABRESE

Una volta mucca pazza, un’altra la febbre aviaria, poi quella suina... Si passa da un’emergenza all’altra. Catastrofi annunciate che fortunatamente restano tali. Dieci anni fa la crisi della carne bovina sparse terrore e svuotò le macellerie. Ma non c’è stata nessuna strage. Le conseguenze però si sentono ancora.

Le «emergenze alimentari» non fanno vittime, ma sconvolgono il mercato con ricadute economiche drammatiche. E lasciano pesanti conseguenze: pur essendo l’Italia la patria del cibo più buono e più sicuro del mondo, in un’indagine eseguita per la Coldiretti nazionale sulla sicurezza dei cibi, si è visto che il 90 per cento di italiani è ancora oggi molto preoccupato per la salubrità di ciò che mangia, soprattutto fuori casa. Nel 2001, quando scoppiò l’emergenza «mucca pazza», sembrava che tutto il sistema alimentare animale italiano sarebbe sprofondato. Gli effetti emotivi ed economici nei primi due anni furono veramente disastrosi. Invece, come era già successo nel 1986 col vino al metanolo, a distanza di dieci anni tutto è rientrato nella norma. La «catastrofe» annunciata che i cugini inglesi ci avevano regalato con le loro mucche malate, nutrite con farine «pazze» ricche di prioni, è diventata però la molla per avere allevamenti più controllati, sani e di qualità migliore.

Ma cosa era successo tra il 1985, epoca dell’epidemia in Inghilterra, e la metà degli Anni 90? Gli allevatori britannici nutrivano i loro bovini con farine ricche di elementi di origine animale che derivavano da carcasse miste a cervello di pecore infette, che venivano trattate con una temperatura di 130°C sotto pressione, assieme al dicloro-metano. Qualcuno poi ipotizzò che questo composto fosse cancerogeno e venne eliminato dal trattamento. Ciò fu la fine della sicurezza della salute delle carni di quei bovini. Infatti, quando il premio Nobel Stanley Prusiner scoprì i «prioni», cioè le proteine che non avevano Dna e che si svolgevano a forma di banda invece che rimanere di forma naturale ad alfa-elica, ci si rese conto che quel precedente trattamento inattivava i prioni, i bovini che si nutrivano di quelle farine non si ammalavano e gli uomini altrettanto. E godevano di buone bistecche.

Il nostro governo di allora, grazie al ministro dell’Agricoltura Pecoraro Scanio e a quello della Sanità Veronesi, prese delle misure di precauzione adeguate (come la eliminazione di quel tipo di farine, il ritorno a mangimi naturali e inoltre la rimozione di parti come il midollo, il cervello, gli occhi, le tonsille, l’intestino) che risultarono risolutive e che ancora oggi, dopo dieci anni, ci permettono di avere consumatori e allevatori soddisfatti. Era successa la stessa cosa con l’aviaria sui polli e la diossina sui suini, e siccome il nostro sistema di controllo e di intervento funziona abbastanza bene, grazie a un’alleanza positiva tra la cultura scientifica-medica e quella agricola, si evitarono guai alimentari alla salute e carenze nutrizionali.

Il vero problema è in quell’Europa dove è scoppiata «mucca pazza», da dove partono allarmi assurdi come quello sulla pandemia dell’aviaria che mai è scoppiata e dove il business di un’industria alimentare apparentemente asettica nasconde spesso un affarismo invasivo e poco sicuro dal punto di vista sanitario. Recentemente il ministro dell’Agricoltura Galan ha proposto a Bruxelles l’etichettatura obbligatoria degli alimenti, per avere maggior certezza sull’origine del cibo. Ma lassù sembrano sordi a questo richiamo. Bisogna evitare che nell’industria alimentare accada ciò che si è verificato in finanza: la buona tavola che, come la vicenda di mucca pazza dimostra, in Italia è assicurata, non ha bisogno di «bolle» che nascono con «emergenze» senza fondamento e finiscono in speculazioni economiche.

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