LA-U dell'OLIVO
Novembre 25, 2024, 08:11:46 pm *
Benvenuto! Accedi o registrati.

Accesso con nome utente, password e durata della sessione
Notizie:
 
   Home   Guida Ricerca Agenda Accedi Registrati  
Pagine: [1] 2 3 ... 6
  Stampa  
Autore Discussione: EDMONDO BERSELLI  (Letto 47688 volte)
Admin
Utente non iscritto
« inserito:: Luglio 08, 2007, 05:26:40 pm »

CENTROSINISTRA / GLI SCENARI POSSIBILI

Effetto Walter
di Edmondo Berselli

La candidatura di Veltroni ha spostato l'asse politico.

Aperto il confronto nel Pd. E messo in mora Berlusconi.

Ma il punto più critico è il rapporto col governo Prodi 

L'effetto Veltroni è passato sul centrosinistra e sulla politica italiana come un ciclone. Ma i giochi sono tutti fatti? L'abilità del nuovo entrato ha davvero acceso sul flipper democratico la lucina 'game over'? Non c'è dubbio che l'iniziativa del sindaco di Roma ha realizzato un evento politico di quelli che segnano una fase. Il blitz ha avuto successo. Si può dire tuttavia già adesso che il Partito democratico è un soggetto che si crea 'senza se e senza ma' a immagine e somiglianza del candidato Veltroni?

Dipende dagli angoli di osservazione. Per il momento dentro Palazzo Chigi si guarda all'appuntamento del 14 ottobre marcando silenziosamente le distanze. Romano Prodi ha bisogno di tempo per dimostrare che l'azione di governo ha dato risultati positivi e che dopo le stagioni delle tasse è arrivato il momento della redistribuzione. Nel circuito prodiano si sta cercando di mettere a fuoco il problema principale e per molti versi paradossale dell'esecutivo: come è possibile che una serie notevole di risultati positivi (controllo dei conti pubblici, livello dell'inflazione, dati sull'occupazione, sostegno alle imprese con il taglio del cuneo fiscale, ridefinizione della politica estera) si siano trasformati nella percezione pubblica in una catastrofe. Gradimento al 26-27 per cento, minimo storico, secondo i dati commentati su 'la Repubblica' da Ilvo Diamanti.

Ma la stessa candidatura di Veltroni, con il suo eccezionale rimbombo sui media e nell'opinione pubblica, ha dimostrato che la struttura del consenso è fluida. L'impopolarità di Prodi è il frutto di aspettative asimmetriche: il Nord si aspettava sviluppo e ha avuto tasse, il Sud voleva trasferimenti pubblico e non ha avuto nulla, i ceti medi qualificati avevano fatto buon viso a una redistribuzione virtuosa, a favore dei ceti non privilegiati, che invece non si è vista.

In ogni caso l'ingresso in campo del sindaco di Roma ha spostato in modo sensibile l'asse del confronto politico. Anche l'accanimento di Silvio Berlusconi contro Romano Prodi appare in qualche misura sfasato: serve per mobilitare il becerume contro le "stronzate" di Prodi, ma non va al di là della propaganda, oltre a introdurre un ulteriore quoziente di volgarità nel confronto politico. Il capo dell'opposizione sente il bisogno di scuotere il governo e la maggioranza per cercare di ottenere le elezioni a breve termine, ma per diversi aspetti oggi il baricentro dell'Unione non è più nell'esecutivo.

O meglio. Il governo Prodi costituisce la sintesi del centrosinistra, e proprio per questo mostra continuamente la corda, in quanto deve mediare a fatica tra sinistra riformista e sinistra alternativa. Ma in questo momento, se si vuole guardare alla prospettiva, ciò che conta davvero è il riallineamento degli schieramenti in vista del futuro confronto politico.

Ora, per ciò che riguarda il centrodestra la situazione è semplice. Berlusconi deve trovare il modo per giungere alle elezioni politiche in modo da riproporsi credibilmente come leader della sua coalizione e candidato insostituibile alla premiership. Ha poco tempo. Il rientro di Veltroni nella politica nazionale, con il discorso al Lingotto, ha rappresentato anche un salto generazionale cospicuo. Ogni giorno che passa, il Cavaliere invecchia. Magari non nella sua tenuta fisiologica e temperamentale, ma nella sua immagine, nel complesso degli interessi che rappresenta, nel contenuto simbolico dei suoi ideologismi e nella visione del paese che proietta nel futuro.

In sostanza, Berlusconi incarna quel complesso di pulsioni che fanno riferimento alla piccola e piccolissima impresa, al mondo delle partite Iva, a quell'universo di cittadini che sono disposti a scontare l'inefficienza pubblica come un prezzo da pagare per consentire l'interesse privato. Veltroni invece rappresenta un'Italia proiettata nell'immaginario, capace di accensioni emotive, in cui l'economia sembra la subordinata di un'evoluzione 'postpolitica', largamente fondata su fenomeni postmaterialisti.

Il salto qualitativo è impressionante, e per certi versi anche affascinante: in fondo, il confronto ideale tra la destra proprietaria di Berlusconi e la sinistra liberale di Veltroni si configura come un faccia a faccia tra il Novecento liberoscambista del Cavaliere e del sarkozismo alla lombarda di Giulio Tremonti, da una parte, e dall'altra il Duemila scintillante e spettacolare dell'autore delle notti bianche, l'impresario politico della movida romana, delle inaugurazioni, dei concerti, dell'economia dei servizi, dei media, del cinema, della reinterpretazione dell'effimero come strumento di consenso.

Ma nello stesso tempo la postpolitica di Veltroni pone serissimi problemi anche al centrosinistra e al Partito democratico. In primo luogo perché per ora l'investitura a leader del sindaco di Roma ha tutte le caratteristiche dell'operazione dall'alto, un gioco di strategia gestito da Massimo D'Alema e Franco Marini, con la collaborazione attiva di Dario Franceschini (un cervello politico di prim'ordine, capace di intuizioni notevoli, ma propenso a un realismo che potrebbe penalizzare le aspettative che si sono appuntate sul Pd come partito della fusione 'calda', promosso dal basso, frutto di una mobilitazione popolare), e con il sostanziale via libera di Francesco Rutelli, che per il momento sembra avere rinunciato, almeno nel breve periodo, alle ambizioni personali.

Resta da vedere quindi se il partito che nascerà il prossimo 14 ottobre può effettivamente organizzarsi intorno a una sola, per quanto amplissima e totalizzante, proposta politica. Se intorno a Veltroni si costituirà uno spettro di correnti secondo uno schema democristiano. A dispetto delle valutazioni più fideistiche sul carisma di Walter, nel Nord è presente una forte aspettativa legata ai temi più tradizionali della sinistra riformista, come il lavoro, l'impresa, la competitività sui mercati, le liberalizzazioni, l'impulso alla concorrenza e alla sburocratizzazione. È davvero possibile ricondurre tutto questo a una candidatura unico?

Nella sua intervista a 'L'espresso' e nella lettera di martedì scorso a 'La Stampa', Arturo Parisi ha confermato la sua concezione di un partito basato su un confronto esplicito, aperto, senza schemi precostituiti. Il principale ideologo del Pd, Michele Salvati, ha proposto sul 'Corriere della Sera', con una lieve provocazione, la candidatura di Guglielmo Epifani contro Veltroni: un modo per segnalare la necessità che il 'partito nuovo' nasca dalla dialettica e non dall'unanimismo, concludendo che se non c'è competizione, alle primarie del 14 ottobre "starò a casa".

Nel frattempo però sono diventate fortissime le pressioni verso una soluzione unitaria. Piero Fassino ha frenato il possibile candidato Bersani chiedendo che non venga scalfita "l'unità riformista". A Milano, il sottosegretario Enrico Letta, compagno di strada se non 'gemello' del ministro dello Sviluppo economico, ha sviluppato una piattaforma programmatica senza sciogliere i dubbi sul suo impegno diretto. Rosy Bindi ventila una candidatura di testimonianza, ma nel frattempo è in surplace. "Lanciare un partito nuovo", dice Salvati, "è stato un atto di coraggio. Ma ora questo coraggio non bisogna rimangiarselo".

Anche perché, come sanno bene a Palazzo Chigi, il punto centrale e critico della candidatura di Veltroni riguarda il rapporto con il governo Prodi. Nel caso di una intronizzazione mediatico-plebiscitaria, il rapporto fra il leader designato Veltroni e l'esecutivo di centrosinistra diventa critico. Se invece parte il gioco delle candidature, con il Partito democratico che diventa un'arena di confronto, Prodi si può riparare a Palazzo Chigi in attesa del risultato, e proporsi ancora come una sintesi pratica fra le anime della sinistra moderata.

In sostanza: con un Veltroni plebiscitato, sarà difficile mantenere una diarchia. Con un Veltroni sottoposto al vaglio democratico del voto delle primarie e a una competizione credibile, Prodi può prolungare se stesso: come un governo di garanzia, come un garante delle intese possibili in una politica che non è definita a priori.


**********

 
Il rebus del decalogo
 
I famosi 45 del Comitato promotore del Pd hanno già ricevuto la bozza di regolamento per l'elezione dell'Assemblea costituente del 14 ottobre, un po' pomposamente ribattezzata 'Decalogo per le assemblee costituenti del Pd'. Stefano Ceccanti, Salvatore Vassallo e Giuseppe Busia, i tre esperti tutti e tre ex Fuci (gli universitari cattolici) hanno sfornato l'ultimo testo una settimana fa, con la candidatura di Veltroni già sul tavolo. Con alcuni punti fermi: si vota domenica 14 ottobre, per eleggere 2.400 componenti dell'Assemblea costituente e i coordinatori regionali del Pd. Per partecipare ciascun cittadino dovrà dichiarare l'adesione al Pd e versare cinque euro. Si vota con il vecchio Mattarellum: l'Italia sarà ripartita in collegi uninominali, ogni collegio elegge almeno tre delegati che corrono in liste con l'alternanza uomo-donna. Ciascuna lista può indicare un candidato alla segreteria nazionale.

Per candidarsi alla leadership occorrono tra le 2 mila e le 3 mila firme raccolte in almeno cinque regioni, entro 15 giorni dall'approvazione del regolamento: presumibilmente, fine luglio. Potranno votare, novità assoluta, anche i sedicenni. Così, almeno, recita il decalogo.

Ora spetta ai 45 decidere.


da espressonline
« Ultima modifica: Luglio 12, 2008, 09:16:23 am da Admin » Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #1 inserito:: Agosto 20, 2007, 05:52:05 pm »

POLITICA
IL COMMENTO

L'ideologia del forzaleghismo
di EDMONDO BERSELLI


DEV'ESSERE all'opera uno dei grandi e ricorrenti paradossi italiani se una delle più squinternate iniziative politiche mai lanciate nel nostro paese, la rivolta fiscale architettata da Umberto Bossi, è diventata un tema sociale e politico di primo piano. Il paradosso è che la ribellione contro le tasse avviene nel paese dell'evasione. D'altronde non si può dimenticare che, sotto la guida del suo insostituibile leader, la Lega ha lanciato nel tempo diverse altre iniziative insensate, dal parlamento di Mantova al governo padano, dalle elezioni del Nord nei gazebo alle minacce di secessione e di spartizione "federale" dell'Italia.

Quindi non c'è da stupirsi se Bossi proietta nel cielo della politica agostana una provocazione delle sue: semmai ci sarebbe da mettere a fuoco che l'estate è costellata di clamorosi casi di evasione o elusione fiscale, a cominciare dall'affaire che coinvolge il londinese "residente non domiciliato" Valentino Rossi. Sicché si ha la sgradevole sensazione che dietro l'appello all'insurrezione antitasse si nasconda una mobilitazione di alcuni ceti contro gli altri, i "liberi di evadere" contro gli obbligati al pagamento.

Si capisce in questo senso la totale sintonia che Silvio Berlusconi ha confermato al suo principale alleato, proprio lui Bossi. Non dovrebbe sfuggire infatti, e lo confermano le prese di distanza da parte di Alleanza nazionale e dell'Udc, che la ventilata insurrezione contro la fiscalità generale è un tipico tema del "forzaleghismo", cioè dell'ideologia profonda della Casa delle libertà, di quel nordismo sbrigativo che accomuna il mondo della Lega con l'insediamento politico ed elettorale di Forza Italia.

Sono settori del commercio, della piccola impresa, parte del tessuto imprenditoriale, professionale e in generale del lavoro autonomo, in sostanza quell'universo sociale che rifiuta antropologicamente la sinistra, non vuole saperne di parole come redistribuzione, e considera le tasse semplicemente come un prelievo insopportabile, a cui sottrarsi ogni volta possibile. Che questo discorso non tocchi il lavoro dipendente privato e pubblico, il quale non ha la minima possibilità di sottrarsi alla tassazione sul reddito, è la dimostrazione di quanto sia ideologica la forzatura di Bossi, vale a dire di come sia legata alla nozione di un'autentica lotta di classe (dichiarata, come si vede, dalla parte avvantaggiata).

Per questo vanno prese sul serio le parole con cui Walter Veltroni ha commentato l'appello di Bossi ("Se passa il principio che chi perde le elezioni smette di pagare le tasse, questo paese ha finito di esistere"); anzi, vanno semmai approfondite, proprio in quanto la rivolta fiscale non minaccia di inceppare soltanto il funzionamento dello Stato, ma costituisce la premessa di un confronto sociale durissimo, virtualmente capace di spaccare in due parti la società italiana, e di progettare la politica come la vendetta dei privilegiati su tutti gli altri.

"Prodi deve andarsene", dice Bossi, "perché così vuole la gente". Sbaglia, volutamente, per eccesso: pretende la caduta del governo un certo tipo di "gente", quella che immagina di poter trarre ricavi consistenti dai principi politici e fiscali del forzaleghismo. E in questo senso, se si capiscono quali interessi sono in gioco, diventa meno surreale la discussione se sia giusto, o doveroso, pagare le tasse. Diventa meno bizzarro che il segretario di stato vaticano, monsignor Tarcisio Bertone, avverta il bisogno di annunciare al meeting di Rimini che davanti a "leggi giuste" pagare le tasse è un dovere.

Non è il caso di prendere sul serio le dichiarazioni di Roberto Calderoli, che ha visto nelle parole del cardinale un sostegno alle posizioni leghiste. In effetti se le leggi sono ingiuste, come pensa Calderoli sulla base del dogma bossiano, è giusta la ribellione. C'è solo il problema di individuare chi sia, e in base a quali norme, a decidere se le leggi sono giuste o sbagliate.

Per la verità, monsignor Bertone si è limitato a stabilire un criterio di pura ovvietà. Non è poco, dal momento che quando il povero Prodi espresse la propria meraviglia perché nelle omelie domenicali non si sentono spesso inviti alla correttezza fiscale, ci furono risposte piuttosto risentite. Giulio Andreotti dichiarò che quelle parole non gli erano piaciute, e quindi praticò la piccola rappresaglia di votare contro il governo al Senato. Il settimanale dei paolini "Famiglia cristiana" rispose che pagare le tasse è un dovere, ma aggiungendo la clausola insidiosa che quando poi si assiste allo sciupio delle risorse pubbliche, quel dovere appare un'imposizione arbitraria: senza che molti mettessero in rilievo che questo è il tipico sofisma paraleghista dell'evasore: "pagherei le tasse se lo Stato non sprecasse i miei soldi".

E dunque bisognerebbe salutare le parole del segretario di stato Bertone semplicemente come un omaggio all'ovvio. Ma di questi tempi anche l'ovvietà, nella politica italiana, sembra esprimere una salutare controtendenza. Quindi viene voglia di ringraziare le ovvietà del cardinale: almeno per quel poco o quel tanto che contribuiscono a ripristinare condizioni di equità fra le due Italie del fisco, quella che paga automaticamente in silenzio e quella che invece può permettersi di aderire alla rivolta fiscale o di fomentarla. E talmente squilibrato il rapporto fra queste due porzioni di società che ogni parola a conforto risulterà consolante, e non solo per il governo Prodi.

(20 agosto 2007)

da repubblica.it
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #2 inserito:: Settembre 02, 2007, 11:35:54 am »

PORTE GIREVOLI

Se Unione fa rima con tassazione
di Edmondo Berselli


L'azione fiscale del governo mostra solo la faccia cattiva di Visco. E non l'altra che punta alla crescita del paese 

Dietro la concezione delle tasse espressa dall'Unione dev'esserci una incomprensione del paese reale. Non si spiega altrimenti il forcing autolesionista che ha dato luogo alla sortita sulla tassazione delle rendite al 20 per cento. Non tanto perché la misura non sia 'giusta' o 'in linea con l'Europa', ovvero 'compresa nel programma del centrosinistra': tutto vero, ma la catastrofe comunicativa nasce dalla sensazione che si tratti di un nuovo balzello. L'aumento, se non si è capito male, ci sarebbe (da due a due miliardi e mezzo di euro), ma il senso dell'intervento su questa porzione del regime fiscale andrebbe nel senso di una razionalizzazione complessiva. E allora ditelo, fatelo capire, argomentatelo: non lo si può presentare slegato da una concezione di fondo, dentro un quadro riformatore, altrimenti i cittadini capiscono una sola cosa: mani nelle tasche.

Tutto questo mentre il gettito tributario continua a superare le previsioni, per ragioni che non sono ancora state spiegate con chiarezza. E soprattutto mentre il centrodestra sta coordinando tutti i propri sforzi per dipingere il governo Prodi come un'idrovora che drena risorse dal sistema economico e spegne la crescita. Nello stesso tempo, l'ex Casa delle libertà, compreso Pier Ferdinando Casini, conduce una campagna per imporre i propri stereotipi e la propria retorica all'opinione pubblica. Uno dei più martellanti sostiene che il livello di tassazione 'percepito come giusto dai cittadini' è un terzo del reddito. E su questa bubbola per babbei la propaganda diventa asfissiante: tutti gli esponenti grandi e piccini del centrodestra la ripetono con compunzione, facendola diventare una realtà autoevidente.

In realtà, basta leggere gli ottimi e sintetici articoli di Nicola Cacace sull''Unità' per rendersi conto che la propaganda dei berluscones è una bufala colossale, che il livello di tassazione italiana è solo leggermente superiore alla media europea, che rimane un problema di eccessiva tassazione del profitto d'impresa (temperato come sempre da livelli di elusione molto elevati), eccetera eccetera, con tanti saluti alla favola delle tasse a un terzo del reddito.

Ma per rispondere alla campagna del centrodestra, che nell'autunno diventerà martellante, e di cui Umberto Bossi ha già dato un saggio con la storiella militare del fucile ("C'è sempre una prima volta"), occorre una consapevolezza un po' più sofisticata di quanto l'Unione non abbia dimostrato finora. Vincenzo Visco avrà tutte le ragioni a ricordare che il problema risiede nella "pandemia" dell'evasione, che nonostante tutto è a livelli intollerabili per un paese europeo evoluto.

Ma l'azione del 'cane da guardia' Visco, terrore dei commercialisti e del lavoro autonomo, rappresenta solo una faccia, quella cattiva, dell'azione fiscale del governo. Ce ne dovrebbe essere un'altra, legata all'uso della leva fiscale come strumento per favorire la crescita. E su questo punto l'Unione brancola. Aveva cominciato male il suo lavoro, rimodulando la curva dell'Irpef dopo il 'regalo' di Giulio Tremonti nella scorsa legislatura, senza accorgersi che colpiva indiscriminatamente il lavoro dipendente qualificato, cioè il settore sociale dove l'Ulivo aveva il maggiore insediamento ("Solo voi potete capirci", aveva ridacchiato con un po' di imbarazzo Pier Luigi Bersani quando glielo avevano fatto notare).

Ma eravamo ancora nella plumbea stagione post-berlusconiana in cui sembrava che i conti fossero allo sfacelo e quindi il sacrificio obbligatorio. Oggi invece sarebbe il momento di agire per dare slancio al paese, e non soltanto alle aziende, già gratificate dal taglio del cuneo. Invece, il modello di pensiero prevalente nell'Unione sembra quello di una distribuzione del vantaggio fiscale a stralci, in parte 'ai redditi più bassi', 'alle famiglie', in parte 'alle imprese', sempre con una concezione che sembra preferire il sostegno egualitarista più che l'incentivo.

In realtà, si tratterebbe di far capire a settori consistenti della società italiana che il governo non ha intenzione di mettere i bastoni fra le ruote alle aree più dinamiche, che non intende più penalizzarne il reddito. Anche perché sono queste categorie che hanno visto tutte le corporazioni protestare e ottenere qualcosa dopo ogni protesta, per riprendere a protestare subito dopo, dato che la protesta conviene. Solo il lavoro dipendente tace, perché la sua rappresentanza naturale, il sindacato, ha un solo pensiero fisso, le pensioni. Forse, un pensiero su questo tema da parte di Enrico Letta, candidato 'democrat' in sintonia con un'idea di sviluppo, non sarebbe sgradito, a quell'elettorato così mortificato e così prezioso.


da espressonline.it
« Ultima modifica: Settembre 02, 2007, 12:20:33 pm da Admin » Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #3 inserito:: Settembre 28, 2007, 10:54:23 pm »

PORTE GIREVOLI

Beppe grillo l'algerino
di Edmondo Berselli


Sartori getta la spugna e si mostra ingrillito. Ma noi al posto di un De Gaulle abbiamo il comico genovese  Beppe GrilloLa premessa è che il professor Giovanni Sartori è il maggiore scienziato politico italiano, possiede un prestigio indiscusso, ha un alone di autorità internazionale. Liberaldemocratico a pieni titoli, ha insegnato a tutti che cos'è la democrazia. Se non abbiamo capito male a suo tempo, secondo la lezione di Sartori, la democrazia è un sistema di governo articolato in istituzioni, fatto di procedure, determinato da processi formalizzati. (È anche tante altre cose, ma questa sintesi estrema dovrebbe essere sostanzialmente corretta).

Bene, la settimana scorsa, sulla prima pagina del 'Corriere della Sera', Sartori ha pubblicato un editoriale che potremmo considerare una specie di evento culturale. Parlava di Beppe Grillo, che "ci sa fare", della 'casta' descritta da Gian Antonio Stella e Sergio Rizzo, della terra che trema sotto la classe politica. Usava parole come "putrefazione"; ventilava un possibile "tsunami"; e concludeva: "Confesso che una ventata - solo una ventata - che spazzi via i miasmi di questa imputridita palude che è ormai la Seconda Repubblica, darebbe sollievo anche a me. E certo questa ventata non verrà fermata dalla ormai logora retorica del gridare al qualunquismo, al fascismo, e simili".

Il professor Sartori ha ripetuto concetti simili anche nel programma di Santoro 'Annozero'. Per questo non sembra un'esagerazione parlare di evento culturale, a proposito del Sartori ingrillito. Perché se il venerato maestro di tutti noi getta la spugna, e dichiara che il sistema politico italiano è da buttare, e il ceto politico da liquidare, non so come la pensi l'opinione pubblica media, ma c'è da prenderlo sul serio.

Sono quasi vent'anni che si cerca di razionalizzare il sistema politico della Repubblica. Siamo passati attraverso ondate (o ventate) di populismo, in coincidenza con Tangentopoli e in seguito alle sferzate antipolitiche di Silvio Berlusconi e della Lega; sono stati cercati rimedi istituzionali con i referendum elettorali dei primi anni Novanta, con l'imperfetta legge elettorale semimaggioritaria, battezzata 'Mattarellum' proprio da Sartori, con tentativi farraginosi di riforma costituzionale. Può essere che i rimedi siano stati insufficienti. D'altra parte, contro l'incerto e ondivago sforzo di raddrizzare le gambe storte del sistema, e contro la transizione infinita, si è abbattuto anche il disastro della legge elettorale approvata unilateralmente nel 2005 dalla Casa delle libertà, il 'Porcellum' (altra definizione di Sartori).


Ma a questo punto, è inutile stare a sottilizzare: Sartori è andato giù con la scure: putrefazione, Seconda Repubblica palude imputridita. Non rimane che rivolgere al maestro, con una certa angoscia, la domanda classica: 'che fare?'. Perché è stato lui a insegnarci che la politica si può migliorare solo attraverso le istituzioni: e noi ci eravamo convinti, adottando la via faticosa dei miglioramenti graduali, delle riforme possibili, dei compromessi praticabili.

I sistemi politici si possono modificare attraverso trasformazioni istituzionali; con l'emergere di leadership e proposte culturali nuove; con la trasformazione dei partiti. In Italia, abbiamo provato tutte queste strade, e il risultato è ormai chiaro: non una transizione incompleta ma una transizione spezzata. Probabilmente Sartori potrebbe aggiungere che le democrazie cambiano anche in conseguenza di vicende traumatiche: una sconfitta in guerra, un cambio di regime istituzionale come la fine di una monarchia.

Tuttavia le rivoluzioni devono creare altre istituzioni, pena il fallimento. Lo ha insegnato Tocqueville, lo ha spiegato Hannah Arendt. Forse Sartori ha in mente che i sistemi democratici più o meno putrefatti possono essere travolti da eventi esterni, o eccentrici rispetto alla politica tradizionale. Il caso citato più di frequente è quello dell'Algeria, che procurò alla Francia il passaggio dalla ingestibile Quarta repubblica all'efficienza politica della Quinta.

Solo che il nostro algerino si chiama Grillo, e la nostra Algeria è un'Algeria interna, fatta di un 'popolo' astioso, anzi rabbioso, convinto che si possa andare verso modalità di democrazia diretta, felice di spedire il proprio insulto, 'vaffa', verso tutti. In sostanza, già le proporzioni sono squilibrate, se è vero che la Francia ha avuto il generale De Gaulle e noi abbiamo Beppe Grillo. Sicché non resta che prendere atto dello scarto di Sartori; ma poi viene naturale chiedergli davvero come agire, secondo quali prospettive, in che direzione. Si può anche augurarsi che la Repubblica imputridita venga spazzata via: ma dopo, e anche intanto, caro maestro, 'che fare'?

(28 settembre 2007)

da espresso.repubblica.it
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #4 inserito:: Dicembre 02, 2007, 12:45:11 pm »

POLITICA

IL COMMENTO

Qualcosa è accaduto

di EDMONDO BERSELLI


Ci vuole una certa inclinazione alla fiducia per credere all'ultima posizione assunta da Silvio Berlusconi; eppure con l'incontro di ieri fra il leader degli azzurri e Walter Veltroni il processo politico ha assunto una velocità improvvisa, e sul tappeto c'è un accordo possibile sulla riforma elettorale. Forse si profila anche qualcosa di più, il ridisegno del sistema politico italiano.
È vero che la tessitura dell'accordo è fragilissima, e che l'intelaiatura potrebbe crollare al minimo colpo di vento. Ma intanto, qualcosa è accaduto. Da quel che si capisce, non si è trattato di un'improvvisata. Non c'è un gesto estemporaneo, una trovata spettacolare, un'invenzione plateale, all'origine del faccia a faccia tra i due leader. La situazione politica si è messa in moto, e con modalità telluriche, dal momento della nascita del Partito democratico. Quella che era stata giudicata una deludente fusione a freddo, si è rivelata l'innesco di un mutamento multiplo, che come in un sistema di vasi comunicanti si è trasmesso a destra e a sinistra. Nelle ultime settimane si è poi sviluppata una decifrabile trama diplomatica, e ieri si è cominciato a osservarne i primi effetti.

In primo luogo, si è annullata come per miracolo la pregiudiziale di incompatibilità fra il leader di Forza Italia e il leader del Partito democratico. Berlusconi aveva riconosciuto nei giorni scorsi la legittimità democratica del centrosinistra "moderato", per poi presentarsi, con la solita goliardia, come il "Messia" che conduce o costringe il centrosinistra verso un approdo liberal o socialdemocratico. Per parte sua, Veltroni ha cercato l'incontro con il suo interlocutore, senza cedere alla tradizionale ostilità metafisica della sinistra verso il Cavaliere nero.
Detto questo, il summit di ieri ha marcato una ulteriore novità, e consistente, sul piano dei rapporti fra opposizione e maggioranza. Per la prima volta la caduta del governo Prodi, o la sua uscita dalla comune in caso di approvazione della nuova legge elettorale, non è stata rivendicata da Berlusconi come una condizione ultimativa del dialogo sulla formula del voto, e questo fa pensare a un nuovo e significativo cambio di passo da parte del leader del centrodestra. Vale a dire che dopo essersi logorato i muscoli (e anche l'immagine, agli occhi dei suoi ex alleati) nello sterile esercizio, a dispetto degli slogan propagandistici e delle acrobazie lessicali Berlusconi sta ragionando nei termini di un progetto di più lungo periodo.
Progetto che è figlio di una sconfitta ma che in fondo è semplice, non è solo suo, e che può attrarre consenso. Infatti la dichiarazione di morte presunta del bipolarismo è largamente condivisa dall'arco delle forze politiche.

A sinistra si oppongono alla "deriva proporzionale" quasi soltanto gli ulivisti capeggiati da Arturo Parisi, che vedono con orrore il ritorno alla politica delle "mani libere". A destra, Gianfranco Fini insiste perché il sistema elettorale resti ancorato su alleanze dichiarate in via preventiva e sull'indicazione del premier da parte degli schieramenti, ma è difficile capire se si tratta di qualcosa in più della resistenza di un leader fortemente indebolito, che cerca di ritrovare uno spazio e un ruolo in una prossima alleanza.
Per il resto, si tratta di sfumature e di interessi. Sfumature tedesche che piacciono a Rifondazione comunista e all'Udc, sfumature spagnole che spiacciono, e si capisce, ai partiti più piccoli. Interessi alla sopravvivenza, da parte di qualsiasi entità politica presente in Parlamento, e interessi corposissimi da parte dei due protagonisti. Perché Veltroni e Berlusconi stanno già immaginando quale dovrebbe essere il format della politica futura. Schema americano, due personalità e due partiti schierati l'uno contro l'altro, con un metodo elettorale che favorisca le due forze maggiori, e che induca le entità minori a raggrupparsi.

Non sorprende, allora, che ieri si sia osservata una sostanziale coincidenza di vedute sul modello elettorale ispano-tedesco, il "Veltronellum" o "Vassallum" che dir si voglia, almeno come base negoziale. E neppure che Berlusconi abbia accettato di prendere in considerazione quelle modificazioni dei regolamenti parlamentari tese a rafforzare il potere del capo del governo. Resta decisa la sua opposizione alle riforme costituzionali elencate da Veltroni, dalla riduzione del numero dei parlamentari al superamento del bicameralismo, ma è evidente che questo tema è condizionato dal fattore tempo: se ci fosse un accordo ragionevole e i tempi di realizzazione fossero prevedibili, uno spazio di trattativa si aprirebbe.

Dopo di che, occorre chiedersi quali sono le probabilità che questo progetto vada in porto. In verità il cammino è accidentatissimo, perché c'è la necessità di trovare un accordo soddisfacente sia per i due piccoli giganti, Pd e Pdl, sia per i "nanetti", che di fronte a una minaccia alla loro esistenza possono in ogni momento far saltare governo, legislatura e accordi di sistema. Basta niente per mandare all'aria il puzzle. E il referendum incombe, offrendo tentazioni di sabotaggio ai partiti più piccoli. Ma il rischio peggiore è che per tenere insieme interessi diversi, e per far sì che il compromesso tra Veltroni e Berlusconi non assomigli a un patto leonino, il modello ispano-tedesco venga condito all'italiana, con soglie di sbarramento infinitesimali ed espedienti per il recupero anche dei partiti minimi. Ieri potrebbe anche essere crollato un muro, fra i due partiti a vocazione maggioritaria che vogliono disputarsi il governo.

Ma se al crollo del muro non seguisse la costruzione di un edificio istituzionale decente, resterebbero per terra le macerie. E con le macerie, l'ultima occasione per provare a razionalizzare la politica italiana.

(1 dicembre 2007)

da repubblica.it
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #5 inserito:: Dicembre 20, 2007, 10:06:28 pm »

TELEVISIONE

Luttazzi fa autogol

di Edmondo Berselli


La conclusione alla querelle televisiva con Giuliano Ferrara è che i satiristi farebbero bene a scegliere con attenzione i loro bersagli  Ciò che è sfuggito ai critici di Daniele Luttazzi nella querelle televisiva con Giuliano Ferrara, è che si è trattato di un duello fra spiriti irridenti: e nonostante Luttazzi si qualifichi (anche con apposite epistole a Dagospia e a questo giornale) come satiro politico, sottolineando politico, la vittoria è andata al politico satirista direttore del 'Foglio', sottolineando satirista.

Non solo perché di questi tempi la vena di Giulianone si è mostrata in abbondanza sul suo giornale con l'autocandidatura alla direzione prima de 'l'Unità' degli Angelucci e poi del 'manifesto' nella versione Cusani; da tempo infatti Ferrara conduce una battaglia sulfurea, in quanto fautore di D'Alema che sostiene il partito di Veltroni con il supporto di Berlusconi (ma in privato aggiunge sornione: "Sì, ma con la benedizione di Ratzinger").

Bene, contro un tipaccio così, l'esile Luttazzi aveva tutto da perdere: perché mentre molti lo criticavano per la maleducazione, il conduttore di 'Otto e mezzo' ha pubblicato sul 'Foglio' una recensione di Luttazzi, firmata dall'acribioso Christian Rocca, in cui si dimostrava che l'ormai celebre scena sadomaso che immortalava il ciccione nella vasca da bagno, sommerso da un profluvio sterco-urinario, era il calco di uno sketch di Bill Hicks vecchio di anni; la definizione del neologismo 'giulianone' come l'esito immondo di una pratica sessuale alternativa si deve al comico Dan Savage; e un'idiozia sul volo di una mosca per cui Luttazzi si accapigliò con Bonolis, ritenendosi scippato, oltre che essere patrimonio dell'umanità ha il copyright del comico George Carlin.

Conclusione: i satiristi farebbero bene a scegliere con attenzione i loro bersagli.


(20 dicembre 2007)

da espresso.repubblica.it
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #6 inserito:: Dicembre 21, 2007, 06:51:41 pm »

Si va verso il Referendum

È l'unica via per superare l'impasse sulla legge elettorale e per far sì che i partiti tornino a dedicarsi alla politica 

DI EDMONDO BERSELLI


Non ci vuole una fantasia eccezionale per immaginare tutte le difficoltà che il negoziato 'di sistema' fra Walter Veltroni e Silvio Berlusconi sulla legge elettorale si troverà ad affrontare, oltre a quelle che ha già incontrato nelle prime mosse. Da un lato ci sono le infinite varianti che qualsiasi formula deve contemplare per non scontentare troppo i soggetti politici minori, partiti e partitini (che nel centrosinistra potrebbero praticare ritorsioni contro il governo, e nel centrodestra minacciare svolte strategiche sul piano delle alleanze elettorali, portando sino in fondo la politica delle mani libere). E in via complementare a complicare le cose ci sono gli interessi dei partiti, maggiori e minori, che si intersecano con la tattica, la visione e le ambizioni dei leader, nonché il problema della durata del governo, e quindi della coalizione un tempo chiamata Unione, e dell'ex Casa delle libertà: insomma, una scacchiera con troppe varianti.

Tradotto in sintesi, il tema della legge elettorale può essere enunciato nel modo seguente, in una specie di nuovo Postulato delle impossibilità: "I conflitti sul sistema proporzionale sono il frutto della proporzionale". Vale a dire: noi ci troviamo già ora in una condizione proporzionale. Il metodo maggioritario è stato abbandonato dalla classe politica, sulla base del giudizio sommario secondo cui 'il bipolarismo è fallito'. Conta poco che il fallimento sia stato determinato dalla scelta suicida e folle del Porcellum, che reintroduceva la proporzionale esaltando il ruolo di ogni entità politica presente in un'alleanza politico-elettorale. Adesso si tratta di fare i conti con un consenso quasi generale che pretende il ritorno alla Repubblica manovriera dei partiti, delle contrattazioni post-elettorali, degli aghi della bilancia, dei due forni.


Benissimo, ci vuole realismo, inutile fissarsi sulle illusioni. Tre politologi, Piero Ignazi, Luciano Bardi e Oreste Massari hanno rilanciato sul 'Sole 24 Ore' l'argomento dell'uninominale a doppio turno (il sistema francese), ma il fascino della proporzionale è irresistibile. In primo luogo perché toglie drammaticità al confronto politico: c'è in tutti la convinzione ragionevole che con la proporzionale chi vince conquista il potere, ma chi perde non perde mai del tutto e mantiene un rassicurante potere di veto. Da questo punto di vista, anche le organizzazioni di rappresentanza economica, la Confindustria, le grandi aziende come Enel e Eni, il sistema bancario, il mondo dell'informazione, a cominciare dalla Rai, si sentono tutti rassicurati.

Si torna all'Italia del patteggiamento, e ciò risulta terapeutico per l'ansia di chi non sopporta il sapore della sconfitta, nonostante il fantasma delle lottizzazioni future. Eppure proprio il sentimento proporzionalista impedisce una razionale scelta della formula: ragion per cui ci si accapiglia sul Vassallum di Veltroni, sul sistema tedesco con doppia scheda elettorale, sulle soglie di sbarramento del progetto Bianco, sull'ampiezza delle circoscrizioni nel modello ispano-germanico, ancora su eventuali 'premietti' di maggioranza.

Eh sì, decenza vorrebbe che il nuovo metodo favorisse la formazione e la competizione di due partiti principali, costringendo i satelliti a raggrupparsi. Ma per ottenere questo scopo occorrerebbe un accordo di ferro tra Berlusconi e Veltroni, che in troppi hanno interesse a sabotare, per convenienze di bottega, gridando all''inciucio'. È chiaro tuttavia che accontentando tutti si arriva alla proporzionale pura, cioè presumibilmente alla disgregazione del sistema politico.

E allora la domanda sul 'che fare' ha poco senso in questo momento. Sarà pure possibile anche un tentativo di Romano Prodi, per quadrare il cerchio, in modo che l'accordo fra Silvio e Walter sia blindato dal governo in modo da garantire gli alleati della maggioranza, quelli a sinistra del Partito democratico. Ma è molto più probabile che invece si vada inevitabilmente verso il referendum. A metà gennaio la Corte costituzionale esprimerà il suo parere in proposito. Se sarà positivo, tanto vale prendere atto che il referendum si profila come l'unico modo per superare l'impasse. E anche per far sì che i partiti tornino a dedicarsi alla politica. Perché sono mesi che ci si dedica al discorso sul metodo: che è un'attività cartesiana, ma che a un certo punto dovrà pur cedere il passo ai contenuti. Altrimenti, è vero che la metafora bizantina è abusata: ma si resterebbe sempre di qui all'eternità, nei corridoi della politica a disquisire del sesso angelico della proporzionale.

(20 dicembre 2007)

da espresso.repubblica.it
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #7 inserito:: Gennaio 07, 2008, 12:22:01 pm »

TELEVISIONE

Servizietto pubblico

di Edmondo Berselli


L'Italia non è un paese avanzato.

Siamo nel pieno del Medioevo più la televisione: di là si staglia l'Imperatore, di qua si profila il feudatario  D'accordo, è vero, come obietta su 'la Repubblica' Giovanni Valentini, che in tutti i paesi avanzati c'è il servizio pubblico e c'è il canone, anche molto più caro che da noi. Ma c'è un ma. L'Italia non è un paese avanzato.

Siamo nel pieno del Medioevo più la televisione: di là si staglia l'Imperatore, con i suoi possedimenti immensi su cui non cala mai l'antenna, di qua si profila il feudatario, il vassallo, il valvassore, fino al giullare di corte e al servo della gleba, richiesto di certe corvée. Per capire questa realtà feudale, che sfiora la grandezza degli affreschi di Marc Bloch per inoltrarsi nei territori dei Vanzina, basta un ripasso dei ludi telefonici fra Silvio Berlusconi e Agostino Saccà.

Presidente, direttore, tu, lei, il papa, la soldatessa, lo stronzo, quasi meglio di Totò e Peppino, con annessa la malafemmina di turno.

Ragion per cui si tratterebbe di capire come si può riformare il servizio pubblico (o il servizietto, per meglio dire) per rifarlo più bello e più grande che pria (bravo, grazie). E la risposta è quella volterriana: nel migliore dei mondi possibili, quello del dottor Pangloss, basta una buona riforma, per ridare alla televisione una "maggiore" autonomia dalla politica, come dice di solito il ministro Gentiloni. Ma siccome noi viviamo in uno dei peggiori pianeti dell'universo, maggiore o minore autonomia sono parole che non valgono niente.

Tanto vale prenderne atto, e trarre le conclusioni. Si è sempre detto che la Rai è lo specchio del paese. Be', il paese è quel che è, e fa quel che può.

Oltretutto, con il ritorno della proporzionale, l'incubo della lottizzazione è ancora più incombente.

Nessuno che abbia buoni propositi, per l'anno che comincia?

(04 gennaio 2008)

da espresso.repubblica.it
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #8 inserito:: Gennaio 25, 2008, 10:57:38 pm »

I sinistrati

di Edmondo Berselli

Le liti continue. Le scelte impopolari. Il tradimento di Mastella. Il progetto di Veltroni di correre da solo.

Radiografia degli errori che hanno messo in crisi l'Unione. E dato fiato all'antipolitica 


Una specie di processo. Oppure una seduta di autocoscienza politica. Fumo di sigari toscani. Gli sguardi dello staff di Palazzo Chigi, qualcuno sbigottito, qualcuno divertito, tipo euforia degli abissi, allegria di naufraghi. Battute finto ciniche, e una domanda che aleggia sulla crisi: mi sapete dire dove abbiamo sbagliato? Già, dov'è l'errore fondamentale del governo Prodi, dov'è il baco della maggioranza? La domanda principale che si rivolgono tutti è semplice. Nasce da una constatazione brutale, già messa a fuoco da tempo: una serie di dati sostanzialmente positivi è stata percepita dall'opinione pubblica, dai cittadini, dall'elettorato, anche dentro il centrosinistra, come un disastro totale. E allora di chi è la colpa di questa malattia? Risposta: di Berlusconi e dei berluscones. Controllo di ampi settori di stampa, le reti Mediaset.

No, troppo facile. Facciamo la lista: abbiamo avuto un po' di crescita che il Cavaliere se la sognava di notte, i conti sotto controllo, la ricostituzione dell'avanzo primario, il deficit ridotto oltre le attese alla faccia di Almunia, la disoccupazione in discesa, l'inflazione sotto le aspettative, l'andamento del debito pubblico finalmente di nuovo in discesa, l'evasione messa sotto attacco, il tesoretto, i primi effetti della redistribuzione, l'abolizione dello scalone, la 'quattordicesima' ai pensionati poveri, l'adozione di strumenti a favore del lavoro discontinuo. I precari, dici? Ok, tutti argomenti forti, che 'Romano' ha rivendicato a Capodanno, cercando di passare all'attacco e scommettere sulla "nuova concertazione" con le imprese e il sindacato. Per provare a far crescere la produttività, abbassare le tasse, sostenere i redditi.

E allora, secondo voi che cosa è andato storto? C'è anche un'altra risposta: la comunicazione. Il governo agisce ma non sa comunicare. Facce che si rivolgono verso il volto freak di Silvio Sircana, il 'portavoce unico' del governo nominato a Caserta all'epoca della verifica nei pressi della reggia (anzi, "l'unico portavoce di cui non si conosce la voce", ironizzano anche i suoi amici e i collaboratori).

Ancora no, tutte storie. All'epoca, pure il governo Berlusconi, Dio l'abbia in gloria, elevava ululati lamentandosi che le sue trentasei o trentasette mirabili riforme erano state fraintese, non capite. E prima di lui si erano lamentati Giuliano Amato e Massimo D'Alema. No, ragazzi, quando il popolo non capisce non si può fare come diceva Bertolt Brecht, cioè chiedere le dimissioni del popolo. Ci dev'essere una ragione strutturale.

C'è sempre una ragione strutturale, dicono i più realisti. Quelli come Giulio Santagata, per esempio, che si ostinano a guardare i fatti. O quelli che sono stati considerati i pasdaran, almeno per un certo periodo, dell'Unione, come Arturo Parisi. I prodiani puri. È colpa loro, dice qualcuno, perché in seguito alla loro miopia, o alla loro fissazione intellettuale, non si è stati capaci di leggere adeguatamente il risultato delle elezioni del 9 aprile 2006.

Non avevamo vinto, boys. 'Romano' poteva anche dire che la maggioranza così ridotta era "sexy", ma questa era un'illusione ottica. Sexy sarà Carla Bruni, chiedere a Sarkozy, non Clemente Mastella. E quindi è stato un errore fare la voce grossa, e forzare sulle cariche istituzionali. Probabilmente non si poteva dare retta a Berlusconi sul governo istituzionale, sulle larghe intese, soprattutto dopo un voto che aveva spaccato l'Italia e una campagna elettorale che era diventata uno scontro di civiltà.

Ma la politica è la politica, devo dirvelo io? Si poteva essere più duttili. Parisi aveva detto che "vincere significa prendere un voto in più"? A che cosa è servito prendersi la presidenza della Camera, quella del Senato, e infine il Quirinale? Più che altro a rendere tesi i rapporti, a mostrare ingordigia, a sprecare energie anziché a creare spazi operativi.

Non dovevamo essere così fondamentalisti, dice qualcuno. Ci voleva diplomazia verso Casini. E soprattutto dovevamo rivolgerci al Paese con messaggi più rigorosi. Noi eravamo quelli della sobrietà, della serietà, del lavoro, e il primo messaggio in bottiglia che abbiamo lanciato nel mare magnum dell'opinione pubblica, anche ai nostri elettori, è stato quello del numero dei posti di governo, ministri e sottosegretari. La carica dei 102, o dei 104, non sappiamo nemmeno quanti sono.

Adesso riconosciamo che anche questa inflazione numerica era un effetto della coalizione "larga", dall'Udeur a Rifondazione, da Lamberto Dini a Franco Turigliatto (scusate, qualcuno mi spiega chi li ha scelti, Turigliatto e gli altri dissidenti?). E nel momento della verità, o della disperazione, dovremmo anche dire che in effetti noi non avevamo un programma: avevamo il famoso libro di 281 pagine, che aveva certificato gli accordi tra forze politiche poco compatibili.

E allora, diciamolo: abbiamo governato avendo dentro l'Unione un virus mortale. Una specie di impossibilità esistenziale, ontologica, genetica a stare insieme. I rifondaroli, i teodem come la Binetti, i superlaici, gli atei come il matematico impertinente Odifreddi, i nemici della Nato e delle basi militari, i contrari all'Afghanistan, i liberisti, gli statalisti, eccetera eccetera eccetera. Vedi come sono finiti i Dico. Guarda i casini con il papa e la Cei.

E le continue crisi sulla politica estera, ogni volta uno psicodramma. Eppure abbiamo chiuso la base della Maddalena con ordine, abbiamo la guida di 13 mila uomini in Libano, siamo venuti via dall'Iraq in modo indolore, l'ha riconosciuto anche Bush: e allora spiegate il mistero dolorosissimo: Zapatero viene via dalla guerra in modo traumatico ed è un eroe, noi usciamo con eleganza, con tutti i crismi, con il rispetto dell'alleanza e siamo dei pirla.

No, gente, il problema è stato economico. E anche sociale. E anche di 'manico', se permettete. Perché quando Bersani ha lanciato le prime liberalizzazioni avevamo il 97 per cento favorevole: solo che ci siamo giocati tutto perché abbiamo calato le brache con i tassisti a Roma. Anche Veltroni ci ha messo del suo, nel caso specifico. E a un certo punto abbiamo dovuto vedere anche la scenetta di Gianfranco Fini, davanti a un pubblico di imprenditori, che difendeva il Pra, grande lezione di liberismo postfascista.

Siamo diventati impopolari troppo presto. L'idea di Tommaso Padoa-Schioppa di tenere insieme i due momenti, risanamento e impulso alla crescita, non è stata capita. Si è capito soltanto che eravamo il governo delle tasse. E lui diceva che pagarle è "bellissimo". I politologi hanno spiegato che non ce la potevamo fare, perché al Nord si aspettavano libertà ed efficienza, e hanno avuto fisco, e Visco; al Sud si aspettavano trasferimenti pubblici, cioè soldi, che non sono arrivati. Tuttavia noi, beh, noi siamo stati dei geni: aumentare l'ultima aliquota, penalizzare il lavoro dipendente qualificato, quello che traina il paese anche secondo De Rita e il Censis, oltretutto un settore dove avevamo il maggiore insediamento elettorale: fantastico. Quando qualcuno ha provato a dirlo a Bersani, lui è scoppiato a ridere: "Solo loro possono capirci!". Bella battuta, ma politicamente un mezzo suicidio.

Sì, ma ve lo siete dimenticati che non passava giorno senza che Francesco Rutelli attaccasse la politica fiscale del governo? E i fischi della Confesercenti a Prodi, una platea che non doveva essere per forza ostile? E il governatore Draghi, che non ha perso l'occasione di dire che sì, avevamo risanato, ma l'avevamo fatto "dal lato delle entrate", cioè con le imposte. Ela Confindustria ammette a denti stretti che il risanamento c'è, ma è congiunturale: avviene nei saldi di bilancio, non con la messa in efficienza dei comportamenti statali, non con la valorizzazione della spesa.

Lascia perdere la Confindustria, guarda: con il suo stile ora felpato, e ora aggressivo come nell'ultima assemblea generale, quando si è messo a urlare "mai più nuove tasse", Luca di Montezemolo ha portato a casa quello che nessuno dei suoi predecessori era mai riuscito a mettersi in tasca. I tre punti di cuneo fiscale, l'Irap, l'Ires. L'aveva detto Santagata: "Questo governo di perfetti incapaci ha operato un intervento fortissimo sulla tassazione alle imprese". Non l'abbiamo detto abbastanza forte o abbastanza chiaro. E quindi siamo stati dei polli. Anche perché nel frattempo i due punti di cuneo destinati ai lavoratori sono finiti nel mucchio dell'Irpef, e non li ha visti praticamente nessuno. E i Comuni e le Regioni ci hanno messo l'ultima briscola aumentando le addizionali.

Ci voleva più attenzione. Già con la prima Finanziaria, settembre 2006, il consenso era crollato. Renato Mannheimer aveva rilevato una caduta verticale, che riguardava in particolare la gente in possesso dei titoli di studio più elevati, "i segmenti centrali della vita socioeconomica del paese". Abbiamo visto le contestazioni a Prodi al Motorshow di Bologna, praticamente a casa sua. Era partita una raffica fastidiosa di aumenti di prezzi, tariffe, ticket, bolli. Un pulviscolo fiscale, come l'ha chiamato Giuseppe Berta, micidiali polveri sottili di tasse. Mica male per un governo che era nato esprimendo l'intenzione di restituire il potere d'acquisto perso negli ultimi anni, provando a "rimettere il dentifricio nel tubetto", come ripeteva Prodi. Non siamo stati capaci di fare un po' di sano populismo con le tariffe: se il signor Moretti alzava le tariffe degli Eurostar bisognava che qualcuno gli dicesse, eh no, caro amico, prima mi fai vedere il miglioramento del servizio.

E allora, aveva un bel dire Romano che "il paese è impazzito". Certo, abbiamo visto all'opera le corporazioni, lo spirito di clan, i particolarismi. È arrivata la "mucillagine", come ha detto il Censis. La società "sfilacciata" del presidente dei vescovi, il cardinale Bagnasco. E l'indulto, dove lo metti l'indulto? E le interviste di Prodi a cazzeggio come quella alla 'Zeit'? E la perdita di credibilità a causa delle indagini e le intercettazioni su D'Alema e Fassino?

Abbiamo avuto anche la sfortuna di intercettare l'ondata dell'antipolitica. Il libro di Gian Antonio Stella e Sergio Rizzo sulla 'casta' ha rovesciato addosso alla classe politica quintali di fango. Qualcuno di importante, uno come Giovanni Sartori, il grande politologo, ha perfino preso sul serio Beppe Grillo e il 'Vaffa Day'. Ha detto che "ci sa fare" e che era meglio che Prodi sparisse dalla circolazione, essendo il tappo su una situazione politica bloccata.

Bene, di nemici ne abbiamo avuti tanti. Ma noi non siamo stati capaci di fare qualche battaglia esemplare. Per esempio, qualcuno sa dove è finita la legge sul conflitto d'interessi? E la legge Gentiloni sul sistema televisivo, che oltretutto non è proprio una rivoluzione? E poi c'è stata la botta dell'immondizia a Napoli. Mica colpa di Prodi. Ma vaglielo a spiegare alla gente che Bassolino non ha responsabilità: quello è andato in tv da Bruno Vespa e ha detto che ha fatto quel che doveva fare, ha firmato le carte, ha mandato avanti gli atti. Ma la monnezza è lì, e Gianni De Gennaro mica può fare miracoli.

E a questo punto... A questo punto ci mancava soltanto la spallata, non quella di Berlusconi: l'autospallata, quella di Veltroni. Noi correremo da soli. Capito? Una fatica d'inferno per tenere unita la coalizione, uno sforzo bestiale per mostrare all'Italia che si poteva governare, anche con i comunisti e Rifondazione, con Diliberto e Giordano, mentre Bertinotti diceva che 'Romano' è come Vincenzo Cardarelli, "il più grande poeta morente", e quello là, Veltroni, mette sul tavolo l'asso del Pd che vuole andare da solo alle elezioni. Puri si vince. E adesso siamo qui, ai piedi di Cristo. No, lascia perdere Cristo e la santa madre Chiesa, è meglio.

Eppure qualcuno un giorno dovrà inchinarsi alla testa quadra di 'Romano', alla sua ostinazione reggiana, e magari anche alla sua caratteristica leggendaria.
Il famoso 'culodiprodi'? E dov'è finito? Questi venti mesi di resistenza disperata si devono tutti a lui. E magari a quelli che ce l'hanno messa tutta, come la Finocchiaro al Senato. Sì, ma lui, Romano, che fa, che farà, Romano? Se volete un consiglio, credetemi, non datelo mai per morto, Romano.

(24 gennaio 2008)

da espresso.repubblica.it
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #9 inserito:: Febbraio 02, 2008, 10:04:55 am »

Edmondo Berselli

Partita tutta da giocare

D'ora innanzi i sondaggi vedranno Berlusconi in calo. E se il Pd avrà un messaggio forte da dare al Paese...  Certo che se uno spaurito elettore del centrosinistra, con lo spirito demoralizzato dall'abbattimento del governo Prodi, si lasciasse impressionare dalla colossale, e vittoriosa a priori, campagna lanciata da Silvio Berlusconi, dovrebbe lasciare ogni speranza: il centrodestra ha già vinto, dato che i sondaggi riservati che circolano fra le multinazionali mostrano dati spaventosi, da thriller o da horror, quasi 30 punti di differenza fra i due schieramenti, il presagio di un trionfo berlusconiano con qualsiasi sistema elettorale e con qualsiasi alleanza.

Insomma, neanche farle, le elezioni. Conviene consegnare il potere direttamente al Cavaliere, con tutti i salamelecchi del caso, un cuscino con le chiavi di Roma e mazzi di fiori. E poi mettersi nella posizione acconcia per ricevere con espressione compunta l'omaggio dell'ombrello di Altan.

Ma nelle situazioni difficili, e quella presente a essere franchi è una situazione perlomeno molto problematica, non conviene cedere alla disperazione.
E che sarà mai, Berlusconi. Il populista democratico, come lo chiama Giuliano Ferrara, che abbiamo già conosciuto, con la sua corte di Dell'Utri, Gasparri, Fini, La Russa, Cuffaro, Previti, ecc. Facce note e stranote, e quindi esorcizzabili. Inoltre, qualcuno lo ricordi alla destra, non sta bene cantare vittoria prima di avere disputato la partita. Non sta proprio bene, non fa parte del galateo. E poi, è proprio scritto nei cieli della patria che il destino italiano debba dipendere da Berlusconi e dalle sue 'troupe'?

Va da sé che il centrosinistra è alla canna del gas. Sono bastati pochi senatori fra Mastella, Fisichella e Dini, per buttare all'aria il difficile e complicato contratto con 19 milioni d'italiani, stipulato a suon di voti nell'aprile 2006. Mentre passeggia sconsolato in Strada Maggiore a Bologna, Romano Prodi non riesce a farsi una ragione di come sia finita questa vicenda politica: pazienza cadere, ma
cadere per lo sgambetto di gente che rappresenta soltanto se stessa, questa è peggio che una beffa, è una tragedia travestita da farsa.

Dunque, adesso, la parola spetta a Veltroni. Il quale ha un compito mica da poco: deve convincere metà del Paese, quella parte che non ha voglia di rivedere certe facce al potere, che i giochi non sono fatti. Recuperiamo la saggezza padana di Giovanni Trapattoni: non dire quattro se non l'hai nel sacco. Una buona campagna elettorale riduce le distanze. Il centrodestra trionfante di oggi è tutto da valutare: in 20 mesi di opposizione non ha espresso un'idea che sia una, se non quella di mandare a casa Prodi. E allora quale sarebbe la sua miracolosa credibilità?

E va bene, Veltroni ha un compito proibitivo. Ma può anche puntare a far diventare competitivo il Partito democratico. Qualsiasi partita giochi, nel 2008, in coalizione o da solo, deve guardare qualche metro davanti a sé. Non troppo lontano: nel 2009 ci sono le elezioni europee. Ecco, perdere 'bene' le elezioni politiche e vincere benissimo l'anno dopo, facendo diventare il Pd il primo partito italiano sarebbe già un ottimo progetto: sempre ammesso che il centrodestra berlusconiano vinca davvero il confronto nell'immediato.

Perché 'Walter' avrà tanti difetti, ma si sa che come 'homo televisivus' non è inferiore a Berlusconi: anzi, forse lo batte, perché è più giovane, piace alle mamme, alle nonne e alle zie, è rassicurante, può essere convincente. Quindi non vale la pena di fasciarsi la testa prima di essersela rotta. Anziché alzare le mani in segno di resa, conviene ricordare ciò che ebbe a dire il senatore Enrico Morando, rivolgendosi ai parlamentari del centrodestra, durante la discussione in aula per uno dei tanti voti di fiducia, a proposito dell'andamento della spesa pubblica: "Noi non siamo granché, ma voi avete fatto un disastro".

Quindi conviene giocarsela. Con qualsiasi formato, da soli o in alleanza con la sinistra. Perché in questo momento l'importante è partecipare. Esserci. D'ora in avanti si assisterà al lento calo dei sondaggi favorevoli alla destra: è fisiologico, non ci vuole un indovino. Non appena il confronto si scalda, la mobilitazione cresce. E quindi c'è spazio per una proposta politica stringente. Non il paradigma del 'ma anche', ma un progetto politicamente impegnativo. Perché in questo momento vale più il messaggio che si offre all'opinione pubblica che non il perimetro dell'alleanza. Se la sinistra, una sinistra moderna, ha un segnale o un messaggio da dare al Paese, questo è il momento per mostrarlo. Il pessimismo, e il masochismo, sospendiamoli, almeno per qualche settimana.

(01 febbraio 2008)

da espresso.repubblica.it
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #10 inserito:: Febbraio 05, 2008, 09:14:48 am »

POLITICA IL COMMENTO

Tra calcolo e scommessa

di EDMONDO BERSELLI


È FINITA come ormai si era capito che finiva, nonostante gli sforzi di persuasione morale da parte del Quirinale, con il rammarico del presidente del Senato, la disillusione di Walter Veltroni per l'"occasione mancata", la soddisfazione degli inquilini della ristrutturanda Casa delle libertà e di Silvio Berlusconi.

Adesso c'è da aspettare soltanto che si compia l'atto obbligato di indire il referendum e che il presidente Napolitano sciolga le Camere per convocare le elezioni. Ma il tentativo di Franco Marini, per quanto silurato a priori dal niet del centrodestra, non è stato del tutto inutile.

Nello stilare un bilancio della crisi, occorre innanzitutto mettere a fuoco la linearità dell'asse fra i vertici istituzionali: Napolitano e Marini condividevano l'idea che occorresse praticare ogni ragionevole tentativo per evitare di andare alle urne con una formula elettorale già rivelatasi infausta, e insieme hanno tentato di venire a capo del rebus. Il capo dello Stato ha esercitato la sua autorevolezza, nell'auspicio che la razionalità delle preoccupazioni più volte manifestate potesse convincere una parte del centrodestra a impegnarsi nella riforma del sistema elettorale. Il presidente del Senato ha allargato la platea delle consultazioni alle parti sociali, allestendo una specie di "concertazione di scopo" e cercando di fare avvertire alla politica l'opinione praticamente unanime del sindacato e delle imprese.

Non è servito a niente. Ha prevalso il "sacro egoismo" del centrodestra, convinto di poter vincere a mani basse le prossime elezioni, a dispetto delle trappole di cui è disseminato il sistema elettorale del Senato.

Berlusconi e i suoi alleati faranno il possibile per respingere l'etichetta di sfasciacarrozze, cioè di gente che per pura voracità elettorale ha rifiutato la chance di modificare utilmente le regole della politica. Tuttavia è chiaro che il centrodestra ha sabotato il tentativo di Marini praticamente all'unanimità (fatto salvo qualche tenue distinguo di Pier Ferdinando Casini): Berlusconi con qualche generico rilancio sugli accordi costituenti da fare nella prossima legislatura, An con la durezza che Gianfranco Fini rispolvera quando sente odore di interesse personale e di partito, al punto di dimenticarsi di avere sostenuto il referendum Segni-Guzzetta; e la Lega addirittura con una sgrammaticatura volgare, rifiutando il confronto con il presidente del Senato.

Tutto questo per poter condurre una campagna contro "il migliore avversario possibile", Romano Prodi, contando sull'impopolarità del governo, senza avere mai indicato, in venti mesi, una proposta politica che non fosse la famosa "spallata" per mandare a casa il centrosinistra. Il calcolo è elementare, ma che sia esatto è tutto da vedere. Perché sul campo politico si è già vista una realtà nuova: al calcolo di Berlusconi, si contrappone la scommessa di Veltroni. Vale a dire che la decisione del segretario del Partito democratico di correre da solo, e comunque di stringere alleanze soltanto con chi condivide il programma del Pd, rappresenta una novità in grado di scompaginare molte previsioni.

In pratica: fra qualche tempo Berlusconi e il centrodestra potrebbero anche accorgersi di combattere una battaglia immaginaria. Perché la scommessa solitaria di Veltroni e del Pd rappresenta una innovazione politica radicale, con una fortissima assunzione di responsabilità anche personale. È una specie di rupture nella strategia bipolare, discutibile e discussa anche all'interno del partito, rischiosa negli esiti ma anche rigorosamente impegnativa sul piano politico, e quindi presumibilmente di impatto ancora imprevedibile sull'opinione pubblica. E dunque non va sottovalutato che fin da oggi si pone sul tappeto una questione che investe la credibilità delle proposte politiche: perché è probabile che gli elettori dovranno scegliere fra uno schieramento e un partito.

Come conseguenza c'è un'asimmetria vistosa fra quello che sarà lo schieramento di centrodestra, un'alleanza verosimilmente composta da qualsiasi formazione in grado di portare voti, e invece il Partito democratico, orientato a presentarsi nella competizione elettorale con un'identità precisa e a presentare un programma stringente per chi vorrà accettarlo. La novità è così spettacolare che potrebbe avere riflessi importanti nell'elettorato, e potrebbe anche imporre al centrodestra qualche forma di razionalizzazione della propria offerta politica.

Perché con il calcolo si può conquistare il potere; ma una scommessa intelligente può far saltare il banco. E quindi toccherà anche a Berlusconi decidere se vuole vincere una battaglia apparentemente già vinta, ma perciò ovvia, e quindi potenzialmente deludente, e di certo non proprio originale né creativa per i cittadini, oppure se non valga la pena di accettare una sfida, dopo avere rifiutato, per la fretta di vincere, l'ultima occasione di scrivere regole decenti.

(5 febbraio 2008)

da repubblica.it
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #11 inserito:: Febbraio 19, 2008, 03:15:45 pm »

POLITICA IL COMMENTO

Il "Vaffa DaY" di Viva Radio2

di EDMONDO BERSELLI


AIUTO, anche a Fiorello è venuto il ghiribizzo e si è ingrillito. Aveva finito da poco il suo programmino corsaro e citazionista in tv, con il bianco e nero così trendy e la caratteristica atmosfera da Studio uno, ed eccolo invece di nuovo in radio, ma ora in formato Mr Hyde, a testa bassa contro la politica.

"Quando vi arriva il certificato elettorale strappatelo e buttatelo per strada", ha detto. Ora, è fuori discussione che il cittadino Rosario Fiorello, come pure la star Fiorello, ha tutte le ragioni a prendersela con i partiti, gli amministratori e i politici a causa dei rifiuti a Napoli. Si capisce un po' meno invece l'idea di trasformare Viva Radio2 in un altro santuario dell'antipolitica, lanciando sondaggi e invitando gli ascoltatori a far sentire la loro voce contro presumibilmente tutto, dall'emergenza rifiuti alla giustizia ingiusta e ai condannati che "non passano neanche un giorno in prigione".

Ma non si era stabilita consensualmente la fine del tempo dell'antipolitica, dei "Vaffa Day" e delle mobilitazioni piazzaiole, almeno per un po'? Siamo in piena campagna elettorale, con un vincitore annunciato che pare in fase di rallentamento e l'inseguitore che ha messo le marce alte: si confrontano i programmi, i cittadini si fanno un'idea, anche gli astensionisti pian piano rinunceranno all'astensione e voteranno.

E dunque proteste come "i politici non fanno niente quindi prendiamo in mano noi la situazione", detto dalla coppia Fiorello & Baldini, hanno un immediato e deprimente sapore qualunquista. Un qualunquismo fuori moda, e oltretutto promosso da uno studio della Rai, che è il luogo del servizio pubblico, sacrario della politica se ce n'è uno: in ogni caso non esattamente la sede più adeguata per lanciare un programma contro la politica, oltretutto alla presenza cerimoniale di Claudio Cappon, il non proprio impolitico direttore generale della Rai.

Ci dev'essere una malattia particolare, la botta del comico, il colpo dell'entertainer, o un interruttore nervoso che improvvisamente si incenerisce, un comando neurale che scatta all'improvviso, che a un certo punto induce gli intrattenitori a scendere in campo vociando. Anche in tempi di par condicio, anzi meglio, inaugurando una nuova forma di par condicio: nel senso che come fu per il grillismo, e ora anche per il neonato fiorellismo, i partiti sono tutti uguali, così come sono uguali leader e comprimari, tutti alla pari, tutti ugualmente colpevoli e da indicare al dileggio o alla rabbia del partito dell'audience.

Eppure c'è sempre qualcosa di irritante allorché un protagonista del divertimento, un bravo parodista, un eccellente cantante autodidatta, insomma Fiorello, con quel suo dilettantismo elevato a genialità, invade il campo altrui e decide di dire alla politica "fatti più in là". Anche perché aleggia sempre il sospetto che la popolarità trascini con sé il consenso e magari la credibilità.

Il mai schierato politicamente Fiorello infatti è un perfetto non-politico, ma è anche il talentuoso imitatore di Andrea Camilleri, l'autore delle esilaranti telefonate al presidente Napolitano, il firmatario di infernali parodie dell'opera di Riccardo Cocciante, l'inimitabile imitatore di Gianni Minà e delle sue avventure cubane in anni "formidabili".

Per tutto questo, Rosario Fiorello è più insidioso di Grillo: perché Grillo è volutamente antipatico, attacca a brutto grugno, non vuole mezze misure. Mentre Fiorello è una specie di sintesi di tutto ciò che è televisivo e radiofonico insieme; è l'evoluzione di Mike Buongiorno, che prima della Rai e di Mediaset aveva alle spalle una storia antifascista e resistenziale, quindi politica, ma non si sarebbe mai concesso sconfinamenti; è l'erede del "nazionalpopolare" Pippo Baudo, che una volta attaccò il presidente socialista della Rai Enrico Manca ma solo perché a sua democristianità Baudo tutto si può fare ma non toccargli il mestiere.

E quindi se l'ex intrattenitore del villaggio vacanze, il situazionista da spiaggia che si vestiva da papa per movimentare le mattinate, da tempo diventato supereroe e salvatore della tv, insomma se Fiorello attacca i partiti e dice "strappate il certificato", è come se fossero la televisione e la radio, un loro concentrato totale, ad assaltare la politica. Mica male come programma, solo a capire se si tratta di un programma televisivo, radiofonico, politico o antipolitico.

Nell'incertezza, per evitare confusioni, non verrebbe male, come diceva la vecchia politica, abbassare i toni, fare un passo indietro; anzi, come gli dice talvolta il suo mentore Bibi Ballandi: "Fiore, stare bassi, per schivare i sassi".

(19 febbraio 2008)

da repubblica.it
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #12 inserito:: Febbraio 23, 2008, 02:35:19 pm »

Edmondo Berselli

Il paradosso Gianfranco Fini


Il leader di An ha sbagliato tutte le grandi scelte politiche ma nei sondaggi risulta il più credibile  Gianfranco FiniPer avere voluto a tutti i costi le elezioni anticipate, Silvio Berlusconi doveva essere matematicamente, scientificamente certo della vittoria. In effetti fino a un paio di settimane fa prevedere una impasse del Popolo delle libertà sembrava più che altro una boutade. Ma è proprio scritto che a destra si prospettino soltanto magnifiche sorti, e progressive? E che quindi il Partito democratico debba soltanto puntare a una sconfitta onorevole, in attesa che il tempo faccia dimenticare il fallimento dell'alleanza che fu chiamata Unione, condizionata dalla sinistra radicale e sabotata alla fine dai centristi Mastella e Dini?

Può darsi. Può darsi che per il momento occorra soprattutto parare i colpi e pararsi il didietro, per evitare il fatidico ombrello di Altan. Ma i sondaggi non sono una scienza esatta. Lo straordinario vantaggio vantato dal Cavaliere è un atto di fede, se è vero che i sondaggisti indipendenti stimano al 30 per cento i cittadini che non si pronunciano. Ma al di là dei dati scientifici ci sono altri metodi per cercare di indovinare i risultati elettorali. Valgono più o meno come l'analisi dei fondi di caffè o del volo degli uccelli, ma ognuno crede a ciò che vuole. E quindi le prossime elezioni possono anche essere divinate in base al 'paradosso Fini'.

Non dite che non conoscete il paradosso Fini. Si chiama così perché Gianfranco Fini è l'uomo politico che ha sbagliato tutte, diconsi tutte, le grandi decisioni politiche; e ciò nonostante è riconosciuto dai sondaggi come l'uomo politico italiano dotato di maggiore credibilità. Mistero misterioso. L'elenco degli errori 'strategici' del capo dell'ex An è impressionante. Poco prima di Tangentopoli inneggiava al fascismo come una teoria politica non transeunte, e proponeva un "fascismo del Duemila" come eterno destino dell'Msi. Poi si oppose al referendum maggioritario, convinto che il suo partito dovesse rimanere nella nicchia. Quindi alternò il bene e il male in un ottovolante da 'tenetevi stretti': divenne maggioritarista fondamentalista, parlò di Mussolini come massimo statista del secolo, si unì allo sfortunato Mariotto Segni, ripudiò il fascismo "male assoluto", fece cadere il divo Tremonti. E infine ha annunciato che An si scioglierà nel Pdl.

Ma chi può giurare che quest'ultima sia la 'cosa giusta'? Fini potrebbe semplicemente avere ceduto il partito per assicurarsi la primogenitura. Ma la sua scelta rappresenta uno, e solo uno fra gli altri, dei processi in corso a destra. L'unificazione tra Forza Italia e An, con l'alleanza della Lega, prospetta una forza popolar-conservatrice più simile alla bavarese Csu che alla Cdu di Angela Merkel; in ogni caso ha liberato energie politiche a destra e al centro. A destra si aprono spazi per il duo Storace & Santanché, i quali faranno una fiammeggiante campagna contro 'Esaù' Fini, reincarnazione del personaggio biblico che si vendette l'eredità per un piatto di lenticchie (in questo caso 'un partito per uno strapuntino', secondo le battute feroci degli storaciani).

Al centro invece si è determinato un affollamento imprevisto. L'Udc, la Rosa bianca, l'Udeur, ovvero Casini, Tabacci, l'orfano e sfrattato Mastella. A cui si aggiunge la campagna per la moratoria antiaborto di Giuliano Ferrara (che rimane credibile se va in solitaria, ma non come lista veicolo sospettata di trasferire voti cattolici a destra).

Il fatto è che la politica è in movimento tellurico, tutta. E allora fare previsioni è un esercizio sterile, per il momento. Anche perché almeno finora il Pdl e Berlusconi in persona non sembrano avere proposto novità sostanziali, programmatiche, politiche o psicologiche. A quanto si capisce, il Cavaliere proporrà alcune fra le sue tipiche 'ricette', misure di riduzione fiscale, provvedimentini che piacciono ai commercialisti e alle aziendine, oltre alle solite campagne contro piemme, giudici, intercettazioni, e la proposta della tolleranza zero contro i clandestini.

Ma di un nuovo 'sogno' finora non c'è traccia. È anche possibile che, come dice Giuseppe De Rita, il futuro si giochi sulle grandi connessioni infrastrutturali ("Visto che non possiamo gingillarci ancora fra Ponte di Messina e pavimentazioni comunali"), e quindi sulla modernità delle proposte politiche. A cui forse è più disponibile il Pd, mentre il Pdl sembra ancora per molti versi espressione di corporazioni, categorie, clan professionali, notabilati, oltre all'elettorato d'ordine della vecchia An. Quell'Italia invecchiata che riesce difficile presentare come un'espressione di spinta e di innovazione, sarkozista o imprenditoriale che sia: quando in realtà è la solita Italiona di stampo corporativo. Corporazioni degli anni Duemila: ma sempre corporazioni sono.

(22 febbraio 2008)

da espresso.repubblica.it
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #13 inserito:: Marzo 15, 2008, 12:28:16 pm »

Edmondo Berselli

Tremonti Stranamore


Nel suo ultimo saggio l'ex ministro avvisa: è finita l'età dell'oro. E ipotizza dazi e barriere doganali. E il liberismo?  Lo sanno anche i bambini che a pensar male si fa peccato. È il primo pensiero che affiora nell'aprire il nuovo libro di Giulio Tremonti, possibile futuro ministro del Pdl, nel caso non proprio scontatissimo che Silvio Berlusconi vinca le elezioni e riesca a fare un governo. Il saggio di Tremonti si intitola 'La paura e la speranza'. Per capire il clima di queste pagine basta il primo capoverso: "È finita in Europa l'età dell'oro". È finita la fiaba del progresso continuo e gratuito. La fiaba della globalizzazione, la "cornucopia del XXI secolo. Una fiaba che pure ci era stata così ben raccontata. Il tempo che sta arrivando è un tempo di ferro".

A pensare male si fa peccato, lo diceva anche Giulio Andreotti. Ma intanto viene da chiedersi se non ci troviamo davanti a una contraddizione. Un dilemma. Anzi, un dilemmone avvolto in un enigma. Perché si vorrebbe capire qual è la visione offerta dal Popolo della libertà. Nel senso che Berlusconi è sempre stato l'uomo delle visioni e delle televisioni, del miracolo, del 'sogno'. Todos caballeros! Non si paga! Meno tasse per tutti! E adesso invece c'è un guastafeste, un ex professorino pessimista, che parla dei tempi grigi e dei giorni bui che ci attendono. Il dottor Stranamore che al posto dell'arma nucleare detiene la crisi globale. Il quale si oppone all'ultima ideologia, il "mercatismo", ventilando dazi, ipotizzando barriere doganali contro il dumping sociale delle economie asiatiche, prevedendo crisi epocali e progettando di bloccare il processo di globalizzazione.

E allora c'è qualcosa che non va. Non si capisce per quale motivo un elettore né di qua né di là, abituato a votare con il portafogli più che con il cuore, dovrebbe scegliere una Cassandra che gli promette avvenimenti funesti. Lo stesso cavalier Berlusconi ha annunciato provvedimenti "impopolari". Ohibò, ma allora è il mondo alla rovescia, come nel carnevale, solo che qui il carnevale diviene quaresima.

Sono rimasti molto sorpresi i liberal-liberisti del centrodestra, che pensavano di poter vivere fra poco nel migliore dei mercati possibili. Il severo professor Francesco Giavazzi ha criticato. Il professor Angelo Panebianco si è dichiarato "non d'accordo". Anche il professor Renato Brunetta ha detto che parlare di dazi, be', non è il caso. Il liberalissimo atque chiarissimo professor Dario Antiseri ha ribadito che il protezionismo non lo convince. E il rigoroso presidente della liberista Adam Smith Society, Alessandro De Nicola, ha condannato: "Da sessantottino che era in gioventù, Tremonti è diventato un conservatore ottocentesco. Assomiglia a certi aristocratici inglesi, che consideravano la rivoluzione industriale una sciagura". Infine, di fronte alle ricette di Tremonti sulla riscoperta dei valori, l'austero professor Gian Enrico Rusconi ha sentenziato: "I valori spirituali e morali sono l'ultima risorsa retorica alla quale si ricorre quando non si sa più che cosa dire".

Si fa peccato, ma spesso ci si azzecca. E per pensare male fino in fondo bisogna risalire alle origini della confluenza tra Forza Italia e An. Che ha dato luogo a un transpartito, a un partito ermafrodita, che mette insieme l'istinto liberal-privatista di Berlusconi con la cultura nazionalcorporativa del partito di Gianfranco Fini. Che cosa vuole allora il Pdl? Liberalizzare o proteggere? Puntare sul mercato o sulla rendita? Perché ha pensato di mettere in lista il capo dei tassisti romani Loreno Bittarelli, il più accanito oppositore della liberalizzazione di Bersani?

A meno che, a pensar male. A meno che il Pdl non abbia l'intenzione magica di applicare selettivamente il liberismo e il protezionismo. Per esempio, essere protezionista con il proprio elettorato, con le categorie, i clan, le tribù, i privilegi, le rendite, le tariffe dei professionisti tutelati dall'assenza di concorrenza. E invece di essere spregiudicatamente liberalizzatore nei confronti del lavoro dipendente, privato e pubblico, dove si annida il voto a sinistra. In questo caso, ecco fatto il gioco di prestigio.

Berlusconi non promette più miracoli, ma difenderà gli interessi.

Insomma, tanto rumore per poco. Il petrolio, le materie prime, la fine dell'età dell'oro. La paura e la speranza. Le sette parole d'ordine tremontiane (valori, famiglia, identità, autorità, ordine, responsabilità, federalismo). Se a pensare male si fa peccato, ma si va vicini alla realtà, viene da pensare, malissimo, che il programma massimo del Pdl è la lotta di classe praticata con altri mezzi. Rappresentata simbolicamente dall'ombrello di Altan, con qualcuno che lo mette in quel posto, l'ombrello, a qualcun altro.

Ci si azzecca, ci si azzecca.

(14 marzo 2008)

da espresso.repubblica.it
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #14 inserito:: Aprile 05, 2008, 11:15:06 am »

Edmondo Berselli

La casta dei supermanager


Siccome molti di noi sono moderni, disincantati, aperti al mercato, fautori della concorrenza e confidenti nella competitività e nell'innovazione, non c'è nessuna ostilità verso i grandi emolumenti dei manager, ovvero dirigenti industriali, finanziari e bancari, attivi nei settori tradizionali o nei settori del terziario più o meno avanzato. Figurarsi: vale per tutti il paradigma con cui se qualcuno si scandalizza per lo stipendio di Ibrahimovic, come a suo tempo di Maradona o Platini, e auspica la moralità del calmiere, gli si risponde a brutto grugno: guarda che se in campo ci vai tu, quei soldi non te li danno.

Dopo di che, capita fra le mani un editorialino non firmato del 'Sole 24 Ore', non proprio un quotidiano ostile al capitalismo e alle imprese, che domenica 30 marzo, a pagina 10, scrive: "Il 2007 è stato un anno d'oro" per i vertici aziendali. "Tra super-stipendi, bonus e stock option, i top manager di banche, industrie e imprese di servizi hanno messo in cassa cifre da capogiro, spesso meritate ma, in alcuni casi, anche molto distanti dal valore creato per gli azionisti".

Ah, però. Il quotidiano della Confindustria si riferisce a una tabellina pubblicata il giorno prima, sabato 29, in cui a pagina 37, in apertura della sezione 'Finanza e mercati', si riportava la classifica provvisoria delle retribuzioni manageriali. Classifica interessantissima, che vede al primo posto Matteo Arpe (37 milioni e mezzo lordi), l'ex amministratore delegato di Capitalia, uscito dalla banca dopo una brusca rottura con il secondo della classifica, Cesare Geronzi (24 milioni), seguito dai due ex Telecom Riccardo Ruggiero e Carlo Buora (rispettivamente 17 e quasi 12 milioni di euro).

Il quotidiano diretto da Ferruccio de Bortoli è un solido esempio di professionalità giornalistica, e spiega il perché e il percome di tanti soldi. Qui c'è una buonuscita, qua un bonus, qui una stock option, poi una liquidazione, gli incentivi all'esodo, il compenso straordinario, il premio alla carriera, il patto di non concorrenza: insomma, c'è sempre una spiegazione a far capire perché i primi cinque della graduatoria hanno incassato 102 milioni di euro, contro i 58 dei Top Five nel 2006. Da cui si capisce che c'è una certa inflazione anche per i manager, in primo luogo, e poi che in realtà, senza il premio per le fusioni, per le integrazioni, le acquisizioni e compagnia bella, i manager devono accontentarsi, nel senso che in testa alla classifica provvisoria si situa Luca Cordero di Montezemolo, presidente della Fiat e della Ferrari (poco più di 7 milioni di euro) davanti a Sergio Marchionne, amministratore delegato della Fiat poco meno di 7 milioni; (vedere inchiesta a pagina 154).


Che dire? Boh. 'Il Sole 24 Ore' commenta con una frasetta al cianuro: "Anni fa si diceva che il problema italiano era nel considerare il salario una variabile indipendente: oggi la stessa questione sembra porsi per i manager", valutando l'aumento dei compensi in relazione al segno meno che caratterizza l'andamento della Borsa. Vero è che Marchionne e Montezemolo hanno alle spalle il risanamento della Fiat e i successi della Ferrari. Ma vero anche che ci sono dirigenti che hanno praticato soprattutto il modulo di Woody Allen 'prendi i soldi e scappa'. Catastrofiche gestioni delle ferrovie si sono tradotte in buonuscite sensazionali; tragiche corresponsabilità in casi penosi come quello dell'Alitalia hanno visto correre stipendi da fiaba.

E allora qui non è certo il caso di essere moralisti, né di stracciarsi le vesti, perché siamo tutti modernissimi e competitivi e aperti e bla bla. Ma con tutti i pomposi codici etici che sono stati approvati nelle aziende, ci fosse mai stato qualcuno che avesse rispolverato qualche vecchia usanza dell'ultraliberista economia americana, dove in certe società la retribuzione dei top manager non doveva superare limiti prefissati. Si potrebbe stabilire che la remunerazione di un dirigente, fusioni o no, buonuscite e stock option comprese, non ecceda, che so, il multiplo di cento volte il salario di un usciere.

È troppo poco? Il mercato disapproverebbe? I sostenitori della libertà d'impresa si straccerebbero le vesti? Ma ci sarebbe una soluzione alternativa, allora: dopo avere tanto blaterato di trasparenza e concetti collegati, non si potrebbe connettere il compenso dei manager al rendimento aziendale? A obiettivi, fatturati, efficienze da raggiungere? Perché il mercato è bello e fa bene: ma ormai sembra che il mercato debba agire a senso unico. E questo non è bello, questo non va bene. A proposito della casta: la sensazione è che non ci sia solo la casta politica. Qui le caste prosperano, altroché: e di Maradona e Platini se ne vedono pochini.

(04 aprile 2008)

da espresso.repubblica.it
« Ultima modifica: Luglio 12, 2008, 11:19:05 pm da Admin » Registrato
Pagine: [1] 2 3 ... 6
  Stampa  
 
Vai a:  

Powered by MySQL Powered by PHP Powered by SMF 1.1.21 | SMF © 2015, Simple Machines XHTML 1.0 valido! CSS valido!