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Autore Discussione: Giuliano Amato. Cari americani, siamo ancora vivi  (Letto 2679 volte)
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« inserito:: Settembre 06, 2010, 06:01:13 pm »

Cari americani, siamo ancora vivi

di Giuliano Amato

Questo articolo è stato pubblicato il 05 settembre 2010 alle ore 14:35.
L'ultima modifica è del 05 settembre 2010 alle ore 08:06.

   
Sembrerà un'astrazione ai tanti che si stanno dedicando a temi come la riforma elettorale, sprovvisti (almeno per ora) di qualunque attualità. A me invece il dibattito sull'Europa tenuto vivo in questi giorni dal Sole 24 Ore è parso un essenziale richiamo alla realtà. Quanto più sono esposti a rischi la nostra economia, i nostri posti di lavoro e i nostri conti pubblici, tanto più dovrebbe starci a cuore lo stato di salute del contesto europeo, che è il gancio a cui siamo attaccati. E se il gancio dovesse cedere, saremmo fra i primi ad andare a rotoli.

Ebbene, pochi mesi fa era stato il direttore del Council for Foreign Relations, Richard Haas, a scrivere Cara Europa, il XXI secolo non ha più bisogno di te (così titolava il suo articolo proprio Il Sole 24 Ore il 14 maggio scorso). Pochi giorni fa, un altro osservatore americano, quel Charlie Kupchan che in un libro recente aveva indicato nel XXI secolo il tempo dell'Europa, ha scritto a sua volta "Vecchia Europa, il tuo tempo è finito" (Il Sole 24 Ore, 1° settembre) parlando di una «morte lenta e prolungata» della nostra Unione. Ma che cosa ci sta succedendo, se è così che ci vedono dagli Stati Uniti? Siamo davvero a questo punto?
L'analisi così impietosa dei nostri amici americani è mossa da un dato di cui siamo noi stessi consapevoli, il vigore crescente dei nazionalismi e delle domande politiche interne rispetto alle ragioni comuni. In più, essi misurano la forza dell'Europa in primo luogo nella politica estera, e questo è proprio il terreno su cui la nostra azione comune è più embrionale e il peso degli stati nazionali è tuttora preminente. Anche di ciò siamo consapevoli, così come sappiamo che nelle stesse vicende economiche, dove - e lo vedremo - si è preso a fare ben di più, i ritardi con cui ci siamo mossi e il ruolo giocato dalle questioni (e dalle visioni) interne tedesche hanno colpito i nostri interlocutori, oltre a creare vistose divergenze fra noi e gli Stati Uniti.

Sono valutazioni critiche che non possiamo negare, al contrario - come dicevo - le condividiamo noi stessi. Quello che mi chiedo, però, è se esse portano davvero al cuore del problema che ha l'Europa di oggi e se aiutano a scorgere la soluzione, che pure comincia a delinearsi. I nazionalismi - è vero - ci sono e si sono accentuati, ma alla fin fine non sono una novità, c'erano anche prima e anche in passato ci hanno fatto attraversare dei brutti momenti. Né sono una novità i leader non smaglianti, perché neppure in passato abbiamo sempre avuto leader smaglianti.

Il fatto è che dal trattato di Maastricht in là, da quando decidemmo cioè che l'economia e gli affari esteri rivestivano sì un interesse comune, ma per realizzarlo ci saremmo limitati a coordinare le nostre politiche nazionali, ai nostri leader non è stato mai chiesto nulla più che un tale coordinamento: e quindi non l'adozione di politiche e di misure davvero europee, ma l'adozione di politiche e di misure nazionali, reciprocamente compatibili e compatibili con gli obiettivi comuni. Solo di recente e solo davanti all'incombere di una crisi che ha messo in discussione la stabilità dell'euro abbiamo dovuto accorgerci che questo sistema non aveva dato i frutti sperati e tanto meno ci sarebbe servito in un frangente così difficile.

Per i nostri nazionalismi diventava improvvisamente ineludibile produrre ciò che mai era stato chiesto loro di produrre, politiche e misure davvero europee. È stato a questo punto che essi, prima ben più rilassati fra le ampie pieghe del precedente vestito europeo, si sono trovati alle strette e sono venuti in piena luce come un ostacolo per la vitalità stessa dell'Unione. Un ostacolo che ad alcuni è parso insormontabile, quando la torsione nazionalista è stata percepita anche in Germania. Un tempo motore dell'integrazione, essa aveva ora un cancelliere che sembrava più sensibile ai suoi elettori che alle ragioni europee e una Corte costituzionale che, pur "assolvendo" il trattato di Lisbona, poneva paletti invalicabili all'integrazione e se stessa a guardia dei paletti.
Se questa è la novità in cui ci siamo trovati, però, è certo vero che gli interessi nazionali hanno avuto davanti ad essa una visibile impennata. Ma non è meno vero che non hanno impedito l'adozione di politiche e misure europee in un ambito nel quale non si era mai andati oltre il coordinamento di politiche e misure nazionali. È stato adottato in maggio un vero e proprio regolamento per dotare l'Europa di un meccanismo di stabilizzazione nel settore finanziario e un altro regolamento andrà martedì all'approvazione dell'Ecofin per l'istituzione di autorità europee di vigilanza nello stesso settore. Non è molto, ma gemendo e scricchiolando i nazionalismi stanno aprendo i primi spiragli verso soluzioni europee per questioni che non le avevano mai conosciute.

Forse lo fanno perché la necessità è più forte di loro. Ma forse non sono tutti chiusi come li si è dipinti. Prendiamo proprio la Germania. Giovedì scorso Carlo Bastasin ha ricordato giustamente su questo giornale il discorso tenuto dalla Merkel ad Aquisgrana il 13 maggio (Il XXI secolo può ancora essere il secolo europeo). Mentre dobbiamo tutti quanti prender nota della sentenza con la quale il 27 agosto la Corte costituzionale tedesca, guidata dal suo nuovo presidente, il quarantatreenne Andreas Vosskuhle, ha fortemente corretto la precedente decisione sul trattato di Lisbona, manifestandosi nuovamente aperta al diritto dell'Unione e ai suoi possibili sviluppi.
Nonostante tutto, siamo ancora in carreggiata. Dove rischiamo di uscirne è caso mai nelle politiche economiche che seguiamo, a partire proprio dalla Germania. Ha ragione Padoa Schioppa, intervistato venerdì su questo giornale, a sostenere le ragioni di una crescita equilibrata e di consumi meno elevati di un tempo. Ma può la Germania continuare a vivere sulle esportazioni (Philip White, del Centre for European Reform, invita il 2 settembre a valutare con cautela il recente aumento dei consumi tedeschi, dopo la loro prolungata caduta)? E possono gli altri europei seguirla sulla stessa strada, tenendo tutti bassa la domanda interna a spese, evidentemente, di disavanzi commerciali altrui? Insomma, va bene un'Europa più tedesca nell'equilibrio dei conti, e magari anche nella produttività, ma non va bene un'economia europea che aggrava gli squilibri del mondo. Per evitarlo, e per evitare che la stessa Germania rimanga prigioniera di sé, sono ancora misure europee a servire; misure d'integrazione del mercato e d'investimento, che senza rischi per i conti pubblici dinamizzino la crescita del nostro continente e gli stessi consumi interni.
L'Unione Europea è ancora viva e gli amici americani, anziché dichiararla defunta, la richiamino alle responsabilità che le spettano. Toccherà a noi allargare gli spiragli verso il futuro che abbiamo cominciato ad aprire.

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« Risposta #1 inserito:: Aprile 01, 2012, 04:27:28 pm »

Sulla crescita passare ai fatti

di Giuliano Amato

1 aprile 2012

È venuto a trovarmi in questi giorni un mio amico greco, un professore molto stimato in patria e fuori, che ha dato vita ad Atene ad una eccellente istituzione di formazione e di ricerca, con ramificazioni in diversi paesi, soprattutto dell'est europeo. Preciso queste cose per sottolineare che non si tratta né di uno sprovveduto, né del greco delle vignette mitteleuropee, disteso pigramente al sole in attesa che qualche tedesco paghi il conto delle sue spese.

Ebbene, mi ha fatto un quadro del suo paese davvero sconfortante, descrivendomi un assetto istituzionale e amministrativo, nel quale - parole sue - «nessuno fa niente», ed una società nella quale dominano ormai la sfiducia, la passività, il rinchiudersi in una vita sempre più piccola e sempre più povera. Naturalmente si chiede come salvare i suoi figli dal desolante futuro che così si prefigura. Vorrebbe mandandoli a crescere e a studiare altrove, sempre che la morsa della crescente tassazione gli lasci i soldi per farlo.

In Grecia dunque, al di sotto e al di là di una vicenda finanziaria della quale si parla sui mercati come di un relativo successo - si è evitato il fallimento e il paese è ancora nell'euro - è davvero cominciato il grande freddo. Ed è cominciato con tutte le caratteristiche che i manuali di economia attribuiscono alle recessioni gravi, nelle quali si crea un circolo vizioso senza vie d'uscita. Gli imprenditori non investono, perché le loro aspettative nel futuro non vedono nulla di buono, i pochi che lo farebbero non trovano i capitali necessari, perché le banche sono dominate loro stesse dal timore di aumentare soltanto le già cospicue sofferenze, i consumatori non comprano, perché il poco che hanno se lo tengono per affrontare una vita sempre più piena di incertezze e di bollette e tasse da pagare. Quando i governi sono partecipi dello stesso clima e incapaci di introdurre in quel contesto antidoti efficaci, il circolo vizioso è completo.

Se la Grecia ci si trova dentro - conveniva il mio amico - è certo colpa dell'unilateralità delle politiche europee, che di sicuro non si sono mai preoccupate di verificare se il malato sarebbe sopravvissuto alla cura. Ma la ragione principale - aggiungeva con inattesa cattiveria mitteleuropea - è che la Grecia è abitata dai greci, rimasti fondamentalmente statalisti e sprovvisti di quell'attitudine a reagire e di quell'arte di fare possibilmente da sé, che ha sempre caratterizzato gli italiani nella loro lunghissima storia.

Mi confortava, da italiano, sentirgli dire queste cose. E mentre lo ascoltavo misuravo la distanza che c'è tuttora fra l'Italia e la Grecia. L'organismo economico italiano continua ad avere zone di forte vitalità, a partire dalle sue imprese esportatrici che in più casi hanno chiuso il 2011 meglio di quanto avessero fatto nel 2010. I consumi sono fortemente diminuiti, ma siamo ancora lontani dal deserto greco. Abbiamo uno stato che, con tutti i suoi difetti, funziona ancora e c'è in esso un governo che gode del maggioritario consenso dei suoi cittadini e che è riuscito a riassestare il debito pubblico, non con un concordato al ribasso con i suoi creditori, ma ridando fiducia sui mercati ai titoli italiani.

Viva l'Italia, dunque, ma fino a un certo punto, perché non siamo malati come la Grecia, ma i primi sintomi si stanno affacciando anche da noi e allora tutto ciò che abbiamo di meglio, a partire dal nostro Governo, lo dobbiamo mettere subito a frutto, per fermarli finché siamo in tempo. I fatti preoccupanti che hanno preso ad accadere anche in Italia li conosciamo tutti e i numeri ne sono soltanto una parte, si tratti di quelli sulla caduta della produzione industriale, sul «marzo orribile» di cui ha parlato Sergio Marchionne, sugli esercizi commerciali e sulle piccole imprese che muoiono e su quelle che hanno cessato di nascere, sui giovani senza lavoro. Al di là dei numeri, c'è il pericolo, sempre più reale, che prenda piede il pessimismo e che questo porti con sé lo scoramento, la rinuncia a impegnarsi in nuovi tentativi, l'appagamento cercato più che nella realizzazione di sé, nella recriminazione contro gli altri. Ed anche di tutto questo cogliamo, nella nostra esperienza quotidiana, segni crescenti.

È su questo fronte, allora, che dobbiamo far valere le migliori armi di cui rispetto ad altri disponiamo. E se la prima è il nostro governo, è giusto che si sia subito dedicato ai temi più strutturali dai quali dipende la nostra crescita nel medio termine, ma è bene che ora abbassi lo sguardo anche al presente e ne contrasti l'avvitamento. Qui il capitolo che si apre non è quello delle grandi riforme, è quello delle soluzioni pratiche che portano l'ossigeno laddove questo è urgentemente richiesto. Pensiamo all'ossigeno finanziario di cui hanno bisogno le imprese ancora pronte ad investire ( e ancora mosse - per nostra fortuna - da aspettative positive) e alla stretta in cui molte di loro si trovano da mesi, chiuse fra i crediti di cui lo Stato ritarda o nega loro il pagamento e i prestiti che non riescono a ricevere dalle banche.

Il governo può ammettere a compensazione crediti e tributi, può organizzare con le banche - e vedo che comincia sia pure con circospezione a farlo - una sorta di factoring per l'acquisto da parte loro dei crediti delle imprese nei suoi confronti, può avere un ruolo nell'evitare quel credit crunch (paralisi dei crediti) che le banche negano, ma di cui le imprese hanno cominciato a fornire testimonianze quotidiane. E poi ci sono le opere pubbliche, i progetti già cantierabili, i lavori locali con i quali comuni e province hanno tenuto su per anni le loro economie e che ora il governo, almeno per la parte in cui li ha lasciati sopravvivere alla stretta finanziaria, ha interesse più a benedire che a contrastare

Non sto proponendo nulla di nuovo. Sono cose di cui si parla da tempo e di cui ha parlato più volte lo stesso ministro Corrado Passera. Qualche banca, del resto, si è già data meritoriamente una mossa e reclamizza ora i suoi progetti per l'Italia.. È bene allora che le cose dette diventino per tutti cose che si fanno. Il paese oggi apprezza giustamente il governo, ma se dovesse dilagare fra gli italiani la sfiducia di ciascuno nel proprio futuro, se il peso (destinato ad aumentare) di imposte e bollette generasse un crescente malessere sociale al fianco di quello già visibile di chi perde il lavoro o sta finendo fra i cosiddetti esodati, questo stesso apprezzamento inevitabilmente cadrebbe. E il grande freddo arriverebbe anche da noi.

Non ce lo possiamo permettere. È vero - direbbe il mio amico - che l'Italia è abitata dagli italiani e non dai greci, ma c'è un limite anche alla nostra arte di fare da soli e ce lo insegna la nostra storia. A periodi di grande crescita, addirittura di autentico splendore, sono seguiti non solo decenni, ma a volte secoli di desolante declino. Proviamoci subito ad invertire la china.

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