28/8/2010
Un economista monco per Obama
STEFANO LEPRI
Chissà se Barack Obama avrà ripensato all’acida battuta (oggi inutilizzabile per rispetto alle disabilità) del suo predecessore Harry Truman, che una sessantina d’anni fa sbottò di volere come consigliere un economista monco. In inglese l’espressione «da una mano... dall’altra mano» serve per illustrare i pro e i contro a una determinata scelta; e Truman, uomo semplice esasperato da decisioni complicate, sognava qualcuno che gli offrisse suggerimenti univoci, «con una mano sola». Quel modo di dire frequentissimo compare una sola volta, a pagina 3, nel discorso che Ben Bernanke ha pronunciato ieri a Jackson Hole; l’incertezza sul da farsi permea tutte le sue parole, grazie ad altre immagini, tipo le medicine e i loro effetti collaterali dannosi. All’italiana, Bernanke ha dato un colpo al cerchio e uno alla botte. Non si sa bene che cosa fare, per evitare che il passo dell’economia americana continui a rallentare nella seconda metà dell’anno. I disoccupati ufficiali restano al 9,5%, ovvero 14,6 milioni di persone. Secondo un calcolo molto in voga negli Stati Uniti sono in realtà circa il doppio gli uomini e le donne in realtà disposti a lavorare qualora se ne presentasse l’occasione.
Non pare esserci rimedio sicuro per ridurre questo enorme spreco di risorse e sciupio di vite. Sarebbe sbagliato però darne la colpa alla banca centrale americana, e tanto meno al suo presidente, persona stimatissima nel mondo a dispetto di alcuni errori commessi prima della crisi. Sulla Federal Reserve si riversa al momento tutto il peso di una incertezza della politica. All’apparenza, si tratta di una incertezza transitoria, in vista delle elezioni di novembre che potrebbero andare male per il partito democratico di Obama. La Casa Bianca non può spendere nuovi soldi per stimolare l’economia e rimettere al lavoro i disoccupati, perché rafforzerebbe l’argomento dell’opposizione repubblicana che la politica di Obama significa tasse più alte in futuro; tuttavia senza «stimolo» probabilmente perderà il voto di molti disoccupati. Qualsiasi sia l’esito del voto, tuttavia, è difficile immaginare equilibri politici a Washington capaci di generare soluzioni efficaci. Non è transitorio il dilemma che la fase politica rivela, e che sta davanti alle autorità americane come, in diverso modo, a quelle di tutti i Paesi ricchi. Con gli interventi anticrisi presi tra il 2008 e il 2009 la spesa pubblica in deficit ha evitato una recessione sconvolgente come quella degli Anni 30. Quegli interventi hanno aggravato le condizioni del debito, diffondendo per il pianeta preoccupazioni sulla credibilità finanziaria di quasi tutti gli Stati.
Ora si constata che la dose di medicina non basta ad assicurare un pronto ritorno al livello di benessere precedente alla crisi. Somministrare una dose aggiuntiva di spesa in deficit comporta la grave controindicazione di più tasse nel futuro, con rischi di una catastrofe da sfiducia nel debito pubblico se non si avrà il coraggio di deciderle. Negli Stati Uniti il dilemma è più netto che nell’Europa protetta dal Welfare, perché le sofferenze della crisi si esprimono per gran parte nell’aumento dei disoccupati, mentre la classe media occupata non è disponibile a pagare più tasse a beneficio degli esclusi. All’impotenza della politica la Federal Reserve viene chiamata a supplire, con differenti farmaci dotati a loro volta di gravi inconvenienti: i bassi tassi di interesse che favoriscono la speculazione forse più della sana produzione, gli interventi «non convenzionali» che drogano i mercati e contengono anch’essi il rischio di un aumento del debito pubblico. Bernanke garantisce che non esiterà ad agire ogni volta che i vantaggi supereranno gli svantaggi; si ha fiducia che sia un medico abbastanza esperto da valutare il momento opportuno, ma deve curare una malattia con pochi precedenti. Gli eventuali errori comporterebbero elevati pericoli di instabilità finanziaria. Entrati nel quarto anno della crisi, tutto questo discorso di rimedi e di controindicazioni ci dice che per i Paesi avanzati è davvero finita un’epoca.
Forse non torneremo mai più ricchi come prima (dovrebbe ragionarci per prima l’Italia, dove il prodotto lordo pro capite, secondo l’Istat, era in calo già dal 2002); avanzamenti in qualche campo dovranno essere controbilanciati da rinunce in qualche altro campo, e la scelta sarà penosa. Negli Usa, in più, esiste un problema di ripartizione sociale dei sacrifici che non appare facile da risolvere. Come ha osservato il grande economista liberista (insegna a Chicago) Raghuram Rajan, è l’assenza di efficaci strumenti di Welfare a rendere così aspro il dibattito pro e contro lo «stimolo» sia con gli strumenti del governo sia con quelli della banca centrale. Di qua dall’Atlantico, giova a chiarirci il senso di altre scelte che stanno di fronte a noi.
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