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Autore Discussione: FRANCESCO BEI.  (Letto 70387 volte)
Arlecchino
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« Risposta #105 inserito:: Ottobre 08, 2016, 04:54:09 pm »

L’ostacolo sulla strada del premier

08/10/2016
Francesco Bei

A voler personalizzare, se Ignazio Marino ha vinto ieri la sua mano e ha riavuto indietro il suo onore, gli «sconfitti» sono almeno due. Indirettamente il capo della procura di Roma, Giuseppe Pignatone, che vede smontata dal giudice un’accusa che ha contribuito, in ultima istanza, al defenestramento del sindaco e ha spianato la strada del Campidoglio ai grillini azzerando un’intera classe dirigente (la smentita di ieri arriva, tra l’altro, all’indomani delle 116 richieste di archiviazione per i principali esponenti politici imputati in Mafia Capitale). Ma è in fondo il gioco della giustizia, accusa e difesa si combattono e un giudice giudica. Pignatone fa il suo mestiere, porta prove che devono essere valutate. 

Politicamente lo sconfitto è invece Matteo Renzi, che fu il principale avversario di Marino, il vero artefice della sua caduta. Si può discutere finché si vuole sul fatto che la città fosse paralizzata, sulle gaffe di Marino, sulla sua scarsa empatia, sui ritardi, sulle immersioni ai Caraibi, sulla Panda in sosta vietata e sui cortocircuiti persino con il Papa. Ma aver trasformato un sindaco magari inefficiente e maldestro prima in un martire - con la grottesca vicenda delle dimissioni dal notaio dei consiglieri comunali - e poi in un nemico pubblico è stato peggio che un crimine, è stato un errore politico.

Adesso si tratterà di vedere quanto male potrà fargli Marino. La prima telefonata ricevuta dall’ex sindaco di Roma, quella con Massimo D’Alema, ha chiarito da che parte starà Marino nella guerra mortale che oppone Renzi e il vasto schieramento del No al referendum. Anche le attestazioni di stima a Marino da parte della minoranza dem, da Speranza a Cuperlo, rendono evidente che gli avversari del segretario del Pd, soprattutto quelli interni, possono contare da ieri su una nuova bocca di fuoco. Del resto, nell’intervista al nostro Fabio Martini, oggi Marino lo preannuncia trionfante: mi invitano ovunque a parlare del referendum e ci andrò per dire che la riforma di Renzi è scritta con i piedi.

Dalle parti del premier ieri sera ci si consolava con una battuta: «Per farci davvero male Marino avrebbe dovuto annunciare un comitato per il Sì». Ma la campagna, lo dicono i sondaggi, ancora non decolla, il Sud sembra perso e non c’è speranza che recuperi. Per Renzi si tratta solo di sperare che nelle regioni del Mezzogiorno sia alta l’astensione.

Ecco dunque la proposta. Invece di alimentare involontariamente la campagna del No con il miraggio delle sue dimissioni e l’addio alla politica (gli oppositori puntano più su questo aspetto che sul merito della riforma costituzionale), Renzi dovrebbe spiazzare tutti con un annuncio a sorpresa: me ne vado se vince il Sì. Soprattutto se vince il Sì. Nel senso: la mia missione era di cambiare l’Italia, ho ricevuto il mandato da Napolitano per questo, l’ho fatto, i cittadini l’hanno confermato con il voto, ora vi lascio in legato la Terza Repubblica, usatela bene. In un secondo toglierebbe ai suoi nemici l’arma di propaganda più forte, quella di voler instaurare una sorta di regime personale, ed entrerebbe nella storia. De Gaulle nel 1968 vinse le elezioni ma l’anno dopo perse per un soffio un referendum di scarso valore politico sulla riforma del Senato (!). L’indomani a mezzogiorno si dimise e si ritirò a Colombey-les-Deux-Églises, sulle Ardenne. Ma ancora oggi è sua la firma sulla Costituzione della V Repubblica.

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Da - http://www.lastampa.it/2016/10/08/cultura/opinioni/editoriali/lostacolo-sulla-strada-del-premier-VxJOmMN6hazOZwJzhnOuiL/pagina.html
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« Risposta #106 inserito:: Ottobre 10, 2016, 12:00:46 pm »

Franceschini, Padoan o Calenda: la sfida nell’ipotesi dopo-Matteo
A decidere potrebbe essere, paradossalmente, il segretario del Pd


10/10/2016
Francesco Bei
Roma

Appena cinquantacinque giorni, tanti ne mancano al referendum costituzionale, e Matteo Renzi potrebbe essere costretto a subire il rito del campanellino – quello che sancisce il passaggio di consegne tra il presidente del Consiglio uscente e il subentrante – dopo averlo inflitto a Enrico Letta. E saranno pure soltanto retroscena, cose che «i giornalisti si divertono a scrivere», come ha detto ieri Dario Franceschini nell’intervista con Maria Latella. Ma nei palazzi romani c’è un nome fra tutti che si rincorre per un’ipotetica successione a Renzi in caso di vittoria del No. Quello, appunto del ministro della Cultura. Lo stesso Renzi, due giorni fa a Firenze, ha buttato lì una battuta davanti all’interessato. «Caro Dario, l’ultimo ferrarese che è passato di qui ha fatto una brutta fine, una finuccia…». 

A Franceschini, che oltre a essere di Ferrara è anche un appassionato di storia, deve essere corso un brivido nella schiena pensando al dominicano Savonarola, arrostito in piazza della Signoria. Ma se le battute servono a stemperare una tensione, la realtà non cambia. Perché effettivamente se c’è qualcuno che può tenere unita l’attuale maggioranza e portarla a fine legislatura, mentre il Parlamento si impegna ad approvare una nuova legge elettorale, quello è Franceschini. Leader di Areadem, un correntone a cui fa riferimento la maggioranza dei parlamentari Pd e alla quale appartengono, tra l’altro, entrambi i capigruppo: Zanda e Rosato. Lo sa bene il premier quanto conti, visto che solo grazie a lui riuscì a far saltare il governo Letta. Vicino ai giovani turchi e alla sinistra di Orlando, Martina e Fassino, l’ex segretario Pd ha inoltre buoni rapporti con Forza Italia. Un tassello non secondario in vista di un post-referendum dove giocoforza saranno il Pd e Berlusconi a doversi mettere d’accordo. Ma soprattutto il ministro della Cultura gode della stima del capo dello Stato. 

A rimettere in cima al mazzo la carta Franceschini è stato, forse involontariamente, un suo fedelissimo, il deputato Piero Martino. Che su Twitter ha ripubblicato, aggiungendo un commento positivo, un retroscena di Panorama sulle mosse che potrebbero portare il suo capo a soffiare la poltrona a Renzi. Ingenuità o mossa calcolata? Fatto sta che a Montecitorio nei capannelli dem venerdì si parlava solo di questo tweet. E il giorno dopo…zac! Ecco Renzi che fulmina il ministro con la battuta sul rogo di Savonarola.

Ma se davvero le cose dovessero andare storte per il premier, ci sono almeno altri due uomini pronti a entrare nella rosa del capo dello Stato. Il candidato naturale è Pier Carlo Padoan, per il suo standing internazionale e perché Mattarella dovrebbe come prima cosa rassicurare i mercati. Quello stesso Padoan che a Bloomberg, da Washington, ha promesso: «Continueremo a spingere sulle riforme anche se dovesse vincere il no». Renzi quando l’ha letta è sobbalzato: «Continueremo chi?». Sebbene più defilato un altro candidato s’intravede sullo sfondo. Il giovane Carlo Calenda, possibile premier di un governo che ancora spinga sulla crescita. Raccontano che lo sventurato se ne sia vantato di recente con la persona sbagliata, che immediatamente è corsa a spifferarlo al premier, mettendo Calenda in cattiva luce. Perché non bisogna dimenticare un dato fondamentale: il 5 dicembre forse Renzi non sarà più a palazzo Chigi, ma certamente resterà al Nazareno. E qualsiasi successore dovrà avere anche il suo imprimatur.

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Da - http://www.lastampa.it/2016/10/10/italia/politica/franceschini-padoan-o-calenda-la-sfida-nellipotesi-dopomatteo-CcJnNWzTa1ayt0ezuoKscP/pagina.html
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« Risposta #107 inserito:: Dicembre 10, 2016, 11:19:20 pm »

Renzi adesso è tentato dall’anno sabbatico: “Voglio togliermi di torno”
Il premier: ma nel Pd mi chiedono di restare.
Sms a Merkel: “Non torno indietro”

Pubblicato il 06/12/2016

Francesco Bei
Roma

«Devo staccare. Voglio prendermi una vacanza con Agnese». E’ passata una notte e Matteo Renzi ha sbollito solo in parte la rabbia e la delusione per il risultato del referendum. Chiamato al Colle, il capo dello Stato lo avvolge con lunghi ragionamenti sulla stabilità e lo sostiene cercando di frenarne la tentazione di mollare tutto e subito. 

Mollare - oltre la poltrona a palazzo Chigi anche quella da segretario del Pd – questo è il vero desiderio del premier. Il quale confida a Mattarella qual è adesso il suo sogno segreto: «Mi piacerebbe staccare per davvero, prendermi un sabbatico, magari un anno negli Stati Uniti, ma i miei amici del Pd non me lo permettono». 
 
Le pressioni del Presidente alla fine fanno breccia sul capo del governo. Che quando scende dal Quirinale riferisce ai suoi di essersi piegato. «Io sinceramente avrei evitato, non sarei rimasto un minuto di più, ma è un fatto di serietà istituzionale e prima di tutto viene l’Italia. Non voglio passare per uno che fa i capricci, un bambino viziato che se ne va con il broncio. Quindi proseguiamo fino alla legge di stabilità». La garanzia che Renzi riesce a strappare a Mattarella è che anche il Capo dello Stato si adopererà con il presidente Grasso affinché l’iter della Finanziaria in Senato sia il più rapido possibile e si arrivi all’approvazione definitiva entro una manciata di giorni. Senza tornare alla Camera. 

Renzi lo ripete ai suoi dopo essersi congedato nel pomeriggio dai ministri con un brindisi a palazzo Chigi. «Il mio obiettivo è togliermi subito di qui. Sembra assurdo ma non riesco ad andarmene. Di solito i miei predecessori facevano le barricate per restare, io invece voglio togliermi di torno e non ce la faccio». La soluzione è il compromesso raggiunto con il Capo dello Stato, una soluzione a tempo. Costretto suo malgrado a restare in carica, in realtà Renzi si comporta come se già fosse uscito da quel portone. E il primo segnale è stato quello di cancellare tutti gli appuntamenti previsti nei prossimi giorni, atteggiandosi di fatto a premier dimissionario. Ma tra l’intenzione e la realtà ci passa in mezzo il Parlamento e le procedure della sessione di Bilancio. Perché se è vero che Mattarella ha garantito di dare una mano, la verità è che nessuno può impedire al Senato di emendare in lungo e in largo la legge approvata da Montecitorio. E’ il bicameralismo perfetto, bellezza, e gli italiani in maggioranza hanno mostrato di averlo in gran conto. Se la Finanziaria dovesse subire rilevanti modifiche, come ad esempio chiede Forza Italia con i suoi capigruppo (“via i bonus, le mance elettorali, i miliardi regalati senza coperture”), la legge dovrebbe tornare alla Camera e allora addio al progetto di lasciare palazzo Chigi già entro la fine di questa settimana. Renzi ne è consapevole: «Le opposizioni, se vogliono che me ne vada subito, mi devono dare una mano». 

Quanto alla legge elettorale per il Senato o alle modifiche da fare all’Italicum, pure da concordare con le opposizioni, il premier fa spallucce: «Io non me ne occupo, con quelli non parlo, ci penserà il Parlamento». Insomma, il morale è ovviamente sotto i tacchi, ma appena gli si nominano gli avversari Renzi torna Renzi: «Voglio vedere adesso cosa riusciranno a fare». Dei progetti per il futuro, di cosa accadrà al partito, è ancora presto per parlare. Al momento i pochi di cui si fida veramente lo stanno martellando con un mantra: «Sei a capo di un fronte riformista che si riconosce nella tua leadership. Un fronte che, con questo referendum, ha dimostrato di avere la maggioranza relativa del paese». E’ quello che ha scritto Luca Lotti nel suo tweet: «Abbiamo vinto col 40% nel 2014. Ripartiamo dal 40% di ieri!». Non sarà facile, l’idea di ritirarsi dalla scena pubblica lo sta davvero solleticando. Un piccolo segnale lo si è colto ieri quando, nella riunione più ristretta a palazzo Chigi, si è parlato delle consultazioni al Quirinale. E Renzi ha detto chiaro e tondo che non ha molta voglia di stare ancora sotto i riflettori. «Non so se andrò io, preferirei mandare i vicesegretari. Vediamo, l’importante è che non sembri uno sgarbo al capo dello Stato». 

Quello che al premier ha fatto piacere è il sostegno che sta arrivando in queste ore sia al Pd che a palazzo Chigi da tanti cittadini che gli chiedono di «non mollare» e lo ringraziano per essersi speso senza riserve in campagna elettorale. Nulla ovviamente che possa far dimenticare quella massa enorme di elettori che gli ha votato contro. «Abbiamo commesso errori, non c’è dubbio, non possiamo prendercela con chi vota». Nella lunga giornata di ieri il centralino di palazzo Chigi ha smistato anche molte telefonate di leader europei che volevano esprimere personalmente il loro rammarico per le dimissioni. Alcuni provando anche a convincerlo a restare. Con Angela Merkel invece ogni formalità è superata da tempo, i due si stimano e si sono scambiati i rispettivi cellulari. Così «Angela» già nella serata di domenica, con uno scambio di sms, ha saputo dal diretto interessato quello che sarebbe accaduto: «Non torno indietro». 
 
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Da - http://www.lastampa.it/2016/12/06/italia/speciali/referendum-2016/renzi-adesso-tentato-dallanno-sabbatico-voglio-togliermi-di-torno-kATY6fBnabLNA3whmz5BoN/pagina.html
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« Risposta #108 inserito:: Dicembre 17, 2016, 01:52:29 pm »

Renzi e Gentiloni, prima lite sul ruolo di Boschi e Lotti
Il premier vorrebbe affidare la delega sul Cipe a De Vincenti per dare un senso al ministero per il Sud, ma il leader Pd: è di Luca

Pubblicato il 17/12/2016     Ultima modifica il 17/12/2016 alle ore 09:50
Francesco Bei
Roma

Non è ancora una crepa, ma certo nell’ingranaggio finora oliato dei rapporti fra Paolo Gentiloni e Matteo Renzi qualcosa non sta girando per il verso giusto. Stavolta non si tratta di sfumature lessicali, come quando il nuovo presidente del Consiglio, nel discorso sulla fiducia, ha messo in chiaro - senza tener conto delle impazienze di Renzi - che il suo governo non ha una scadenza, anzi andrà avanti «finché avrà la maggioranza».

 No, stavolta si parla di una questione molto più delicata, il ruolo di Luca Lotti e Maria Elena Boschi a Palazzo Chigi. 

Che Gentiloni abbia dovuto pagare un forte prezzo politico e d’immagine per far contento il leader dem e mantenere Boschi nella squadra, nonostante le promesse di lasciare la politica in caso di sconfitta al referendum, è noto. Quello che non è stato ancora raccontato è che fino all’ultimo il presidente incaricato ha provato a puntare i piedi, cercando di convincere il segretario del Pd “dell’errore politico” che stava commettendo. Una discussione che si è protratta a lungo nelle ore successive alle dimissioni di Renzi. A sentire gli habitué del Quirinale, anche sul Colle ha provocato un certo stupore e imbarazzo l’insistenza di Renzi, che avrebbe trattato per avere precise garanzie sul ruolo dell’ex ministra delle riforme, prima ancora di discutere il nome del nuovo presidente del Consiglio.

Giusta collocazione 
Incassata la Boschi, si trattava di trovare la giusta collocazione anche per Lotti, l’altro dioscuro del renzismo. La sua presenza al governo, al contrario di Boschi, non destava alcun problema in Gentiloni e nemmeno l’upgrade da sottosegretario a ministro dello Sport. Le complicazioni sono arrivate dopo e riguardano le deleghe da attribuire al neotitolare dello Sport. Perché Lotti, spalleggiato da Renzi, dà per scontato di mantenere almeno le competenze che aveva da sottosegretario su editoria e, soprattutto, sul Cipe, dopo che è sfumata la speranza di avere sotto di sé i Servizi segreti. Mentre Gentiloni sarebbe di tutt’altro avviso e avrebbe ingaggiato un braccio di ferro con l’ex presidente del Consiglio, adottando la tattica del muro di gomma, senza andare allo scontro aperto. Sta di fatto che, a tre giorni dal voto di fiducia, le deleghe a Lotti sono ancora un mistero.
Da Palazzo Chigi fanno sapere che il lavoro è in corso, i testi sono quasi pronti, ma di fatto è ancora stallo. Potrebbe sembrare una questione di lana caprina, un puntiglio. Se non fosse che dal Cipe, il comitato per la programmazione economica, e soprattutto dal Dipartimento Cipe presso la presidenza del Consiglio, passano tutte le decisione strategiche sulle infrastrutture da fare. E’ quello il luogo della pianificazione di tutti i grandi appalti italiani, mentre la parte operativa viene poi delegata ai ministeri competenti. Un posto di grande potere, com’è evidente. A cui Lotti, sostenuto da Renzi, non vuole assolutamente rinunciare. 

L’idea di Palazzo Chigi 
Qual è invece l’idea di Gentiloni? «Come si può giustificare - è il ragionamento del premier - che il ministro dello Sport abbia la delega sul Cipe, che senso ha? Meglio affidarla al titolare del Mezzogiorno». Il ministro della coesione territoriale e del Mezzogiorno, dicastero nuovo di zecca e fiore all’occhiello di Gentiloni (che vuole dimostrare di aver sentito la rabbia che è salita dal Sud il 4 dicembre), al momento infatti è una scatola vuota. C’è la targa sulla porta, mancano i poteri veri. Tanto che il povero Claudio De Vincenti è stato definito dagli avversari “il ministro dei convegni”. Perché oltre a quelli per il Mezzogiorno potrà fare poco. 

 Braccio armato 
La programmazione regionale è del ministro Enrico Costa, i fondi europei, che sarebbero di sua competenza, sono già tutti impegnati fino al 2020, della parte operativa dello sviluppo si occupa Invitalia, braccio armato del ministero di Carlo Calenda. L’unica strada per dare un senso al ministro del Meridione, per Gentiloni, è quindi metterlo a capo della cabina di regia del Cipe. Il precedente del ministro Fabrizio Barca, che cumulava le deleghe sul Cipe, sulle regioni e sui fondi europei, farebbe pendere la bilancia a favore di De Vincenti. Ma la resistenza di Lotti e Renzi è potente e Gentiloni rischia di finire stritolato tra due vasi di ferro. 

Il Giglio Magico 
Su una cosa tuttavia sono tutti d’accordo nel governo: le deleghe su Cipe ed Editoria, che di norma vanno al sottosegretario alla presidenza del Consiglio, non possono finire a Boschi. Il primo a dolersene sarebbe proprio Lotti, da sempre rivale di “Meb” nel Giglio Magico.
 
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Da - http://www.lastampa.it/2016/12/17/italia/politica/renzi-e-gentiloni-prima-lite-sul-ruolo-di-boschi-e-lotti-tS4U7SRL0RUxtxy8bbOq2H/pagina.html
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« Risposta #109 inserito:: Gennaio 23, 2017, 11:14:53 am »

Berlusconi: “Trump ha ragione su Putin. Ma l’isolazionismo è un errore”
“Sono molto deluso dall’astensione della Lega su Tajani. Serve una legge proporzionale. No alle preferenze, sì ai collegi piccoli”
Silvio Berlusconi tra il 1994 e il 2001 è stato alla guida di quattro governi

Pubblicato il 23/01/2017
FRANCESCO BEI - ROMA

Presidente Berlusconi, le celebrazioni del 60° anniversario dei Trattati di Roma colgono l’Unione in una crisi potenzialmente fatale: i 27 divisi su tutto, con la Gran Bretagna che annuncia una «hard Brexit» e Donald Trump che sembra voltare le spalle sia all’Ue che alla Nato, considerando l’alleanza atlantica «obsoleta». C’è ancora una possibilità per l’Europa? 
«Il sogno europeo oggi è più attuale che mai. La costruzione dell’Europa come è stata realizzata dai burocrati di Bruxelles invece è fallita e sta suscitando crescenti reazioni di rigetto. Vede, il sogno europeo è quello con il quale è cresciuta la mia generazione: era il sogno di un grande spazio di libertà, economica, politica e civile; di pace e sicurezza condivisa. Cosa ne è rimasto oggi? Una cosa, importante: la pace nel nostro continente. Ma tutto il resto è svanito, si è dissolto. L’Europa deve ripensarsi a fondo, oppure muore. Parola di un convinto europeista». 
 
L’Ue ci ingiunge di fare una manovra correttiva di 3,4 miliardi di euro. Il governo sembra intenzionato a tenere duro, respingendo la richiesta di nuovi tagli e tasse. Come sta operando Gentiloni nel rapporto con Bruxelles? 
«In questa vicenda si sommano due torti, uno europeo e uno italiano. Entrambi vanno al di là della responsabilità contingente del governo Gentiloni, che si trova a gestire una situazione che ha ereditato. Il torto dell’Europa è quello di applicare un rigore burocratico e formalistico, che non tiene conto né delle esigenze dello sviluppo, né delle particolari condizioni dell’Italia, dall’emergenza profughi a quella dei terremoti». 
 
Dunque assolve Gentiloni e getta la croce su Renzi? 
«Il governo Renzi ha impostato un bilancio in deficit, quindi creando ulteriore indebitamento, non per fare investimenti o per rilanciare lo sviluppo, ma per distribuire promesse di denaro a pioggia in vista del referendum. Quel progetto è fallito, ma sono rimasti i conti da pagare, per il governo Gentiloni e per tutti gli italiani. Come si comporterà il nuovo esecutivo in questa difficile partita è tutto da vedere: credo però che la scelta di evitare affermazioni roboanti che poi non si è in grado di sostenere sia un apprezzabile segnale di serietà». 
Un’altra crisi che sembra colpire sempre più duramente l’Italia è quella dell’immigrazione clandestina. Il ministro Minniti suggerisce il doppio binario: espulsioni per i clandestini, accoglienza e integrazione per chi ne ha diritto. La convince questo approccio? 
«L’approccio del ministro Minniti è corretto, ma affronta solo la parte finale del problema. Quello che dovremmo chiederci non è soltanto come gestire profughi e clandestini una volta arrivati in Italia: è piuttosto come evitare che ci arrivino. Il mio governo aveva realizzato una serie di accordi con i governi del Nord Africa, primo fra tutti la Libia di Gheddafi, per fermare all’origine questo traffico di esseri umani. Purtroppo sappiamo com’è andata. Se non si chiude questo flusso, se non riusciamo a stabilizzare l’Africa e il Medio Oriente, allora il problema esploderà. E per questo non bastano le forze dell’Italia, e neppure quelle dell’Europa. Occorre una grande coalizione che veda protagonisti l’Europa, gli Stati Uniti, la Russia, la stessa Cina, i Paesi Arabi moderati». 
 
È iniziata l’era Trump e gli Stati Uniti sembrano privilegiare rapporti diretti con la Russia di Putin e con la Gran Bretagna, senza vincolarsi ai vecchi alleati europei. Vede dei rischi nel nuovo approccio della presidenza Trump? 
«Io da un lato vedo con molto favore il ritorno ad una collaborazione con la Russia di Putin che per l’America e tutto il mondo libero dev’essere un amico e un alleato, non certo un nemico. Dall’altro vedo tutti i rischi di un ritorno all’isolazionismo. Sarebbe un grave errore, se accadesse, sia per il mondo intero, ma anche per l’America». 
 
Pochi giorni fa, dopo decenni, un italiano è riuscito a conquistare la poltrona più prestigiosa del parlamento europeo. Ma la Lega non ha votato Tajani. Se l’aspettava? 
«Sono rimasto molto deluso. Non credevo che la Lega potesse essere indifferente nella scelta fra un moderato espressione del centro-destra e un esponente del Pd sostenuto da tutta la sinistra. Faccio fatica a capire, ma non voglio polemizzare: per me le ragioni dell’alleanza sono più importanti».
 
Ormai non passa giorno senza che Salvini non la attacchi personalmente. Che idea si è fatto di questo martellamento? 
«Immagino che Salvini si stia ponendo un problema di leadership che è del tutto prematuro e che comunque non appassiona gli italiani. Sono ben altri, e più concreti, i temi ai quali bisogna dare una risposta: fisco, sicurezza, immigrazione, giustizia, infrastrutture. E comunque le leadership non si misurano sulle polemiche, ma sul consenso».
 
Il segretario del Pd le sembra cambiato? Ha capito la lezione del 4 dicembre? 
«Me lo auguro per lui. Spero rifletta e impari dalla sconfitta. Ma per ora non ho visto molti segni di cambiamento».
 
Quali sono le linee guida che dovrebbero ispirare la nuova legge elettorale? Proporzionale con un premio di governabilità al primo partito? 
«È fondamentale che la nuova legge elettorale consenta la massima corrispondenza fra il voto espresso dai cittadini e la maggioranza parlamentare. Ogni distorsione in senso maggioritario, in uno scenario tripolare come l’attuale, porterebbe al governo una minoranza contro il parere dei due terzi degli elettori». 
 
Collegi piccoli o preferenze? 
«Ritengo che le preferenze siano il peggior sistema possibile per garantire una effettiva rappresentanza degli elettori. I candidati devono piuttosto essere proposti agli elettori in piccole circoscrizioni, in modo che i cittadini sappiano con chi hanno a che fare e dove cercarli dopo l’elezione».
 
Il 26 gennaio ricorre il 23° anniversario della sua discesa in campo. Farà entrare aria nuova in Forza Italia? 
«Le rottamazioni non ci appartengono. Ma voglio che almeno un terzo dei nostri candidati e dei nostri eletti per la prossima legislatura siano persone che non hanno mai fatto politica, ma che abbiano dimostrato in altri campi le loro capacità. Nei prossimi giorni rivolgerò un appello alla “società civile”: apriamo le nostre liste a chi se la sente di candidarsi». 

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Da - http://www.lastampa.it/2017/01/23/italia/politica/berlusconi-trump-ha-ragione-su-putin-ma-lisolazionismo-un-errore-uOmIzq0FFBlUZ9FLQtjzIN/pagina.html
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« Risposta #110 inserito:: Marzo 22, 2017, 12:30:25 pm »

Il dg Campo Dall’Orto: “Rete salva solo con la qualità. Basta pressioni degli agenti”
“Sabato si è rotta la fiducia con i telespettatori”

Pubblicato il 21/03/2017
Francesco Bei
Roma

Nessuna distrazione, nessun incidente, nel caso di “Parliamone sabato”, «è stata rispettata la catena di comando. Se vogliamo è ancora più grave, perché il problema non riguarda solamente la conduttrice, ma tutto un gruppo di lavoro. E chi doveva controllare evidentemente ha sbagliato». Antonio Campo Dall’Orto, direttore generale della Rai, difende la decisione di cancellare il programma “Parliamone sabato” dopo lo scivolone sulle donne dell’Est.

Ha capito cosa è successo? La responsabilità arriva fino al direttore di Raiuno Andrea Fabiano? 
«L’errore si è fermato prima. Ho ripercorso tutta la catena di controllo e purtroppo ogni passaggio è stato rispettato. Ma se vogliamo è ancora più grave, perchè chi doveva controllare ha dato via libera».

Perché è ancora più grave? 
«Io credo molto nel principio di responsabilità e nella delega. Ma per funzionare in un’azienda come la nostra, che è a contatto con il pubblico, questi due principi devono poggiare su una cultura forte e condivisa».

Quello che è mancato sabato scorso? 
«Esattamente, un errore lo possiamo fare tutti. Ma sabato è successa una cosa enorme: se si arriva a rompere il patto di fiducia con i telespettatori e a dare una rappresentazione completamente inaccettabile delle donne, significa che nessun campanello d’allarme è suonato. Per questo il programma è stato cancellato».

La Perego paga per tutti? Il trash in tv, specie nel daytime, abbonda sovente anche sulla Rai... 

«Sarebbe sbagliato prendersela con lei, anche perché un programma è fatto di tante persone. In questo caso un gruppo di lavoro ha ritenuto che fosse accettabile un contenuto inaccettabile per il servizio pubblico».

Insisto, cosa state facendo per evitare il trash nelle trasmissioni destinate al largo pubblico? 
«È da mesi che lavoriamo per cambiare i contenuti del daytime, quella parte di televisione che più di tutte, proprio perchè si rivolge a un pubblico largo, deve essere coerente con l’identità del servizio pubblico. Un’identità sempre più slegata dal modello di tv commerciale». 

In concreto? 
«Solo per fare un paio di esempi, abbiamo tolto la cronaca nera dalla domenica pomeriggio, per evitare di scadere nel sensazionalismo e abbiamo investito molto nella divulgazione culturale, con esempi quali la prima della Scala in diretta su Raiuno, oppure Fuocammare in prima visione su Raitre. Adesso ripensiamo tutti i contenitori».
 
Polemica sulla Rai e le donne dell’Est. I vertici a chi devono fare le scuse?
Per fare cosa? 
«Il modello è un po’ quello di Uno Mattina, che sa tenere insieme contenuti di qualità, giornalismo e l’infotainment più leggero».

C’è anche il problema di manager esterni, come Lucio Presta (marito e agente della Perego), che nei programmi fanno il bello e il cattivo tempo. Farete qualcosa per contenerne lo strapotere? 

«La verità è che quanto più un’azienda ha le idee chiare sulla sua mission, tanto più è indipendente da figure esterne di questo tipo. I manager come Presta ci sono in tutte le tv del mondo, fanno il loro mestiere, ma sei tu azienda che devi avere la forza per decidere in maniera autonoma senza sottostare alle pressioni».

Intanto come tapperete il buco del sabato pomeriggio su Raiuno? 
«Non si tratta di tappare un buco. Ho chiesto ad Andrea Fabiano di sviluppare dei progetti che vadano nella direzione di una televisione sempre più scritta, con gruppi autoriali e giornalistici più strutturati. Tanto più il servizio pubblico è scritto, come con le fiction, tanto più è forte e difendibile. Vale anche per il varietà e lo dimostrano i casi di Bolle, di Mika su Raidue, o la Notte al Museo di Alberto Angela».

A che punto siete con il tetto agli stipendi delle star? Riuscirete a farlo saltare? 
«Siamo fiduciosi che le Istituzioni possano accompagnarci verso una soluzione positiva, altrimenti le conseguenze potrebbero essere significative. Per avere un’azienda forte e indipendente è indispensabile lasciare alla Rai la libertà d’azione per cercare i migliori talenti sul mercato».

Vista la situazione della Rai, qualcuno ha anche lanciato l’idea di mettere a gara la concessione di servizio pubblico. Si sente in pericolo? 
«La concessione si giustifica proprio per il modo in cui stiamo portando avanti questa cultura che prova a unire qualità e ascolti. Siamo noi della Rai che dobbiamo provare tutti i giorni ad essere all’altezza della missione che ci è stata affidata». 

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« Risposta #111 inserito:: Marzo 23, 2017, 11:09:31 am »

Strappo che va oltre la politica

Pubblicato il 17/03/2017 - Ultima modifica il 17/03/2017 alle ore 09:59

FRANCESCO BEI

Si possono legittimamente criticare i senatori che, votando contro la decadenza di Augusto Minzolini, hanno di fatto svuotato di senso la legge Severino. Si può certamente attaccare il Pd, accusarlo di consociativismo con Forza Italia, denunciarne il doppiopesismo quando si trattò di cacciare dal Senato Silvio Berlusconi. Si possono fare e dire molte cose e il Movimento Cinque Stelle, nella conferenza stampa di ieri, ha detto tutto quello che c’era da dire e anche di più.

 Ciò che tuttavia non si può fare – e spiace ricordarlo a un giovane che da quattro anni ricopre (grazie ai voti del Pd) la carica di vicepresidente della Camera – è lasciare libertà di caccia ai picchiatori. Perché di questo stiamo parlando. Quando Luigi Di Maio sostiene che i senatori a favore di Minzolini non si devono lamentare «se poi qua fuori i cittadini manifestano in maniera violenta», bisogna dire chiaro che il limite è stato sorpassato. Il limite della convivenza civile, quello che dovrebbe imporre a tutti, specie a chi rappresenta le istituzioni parlamentari, di fermarsi prima della soglia dell’incitamento indiretto al linciaggio. Ogni giustificazionismo della violenza è sbagliato. Di Maio è un moderato, domani potrebbe persino avere l’onore di rappresentare l’Italia nel mondo. Quelle parole non gli appartengono e farebbe bene a riconoscerlo. E anche il gesto di stracciare una legge dello Stato, altamente simbolico, appare del tutto fuori luogo. 
 
Tra i senatori messi alla gogna da Di Maio e Di Battista c’è anche la giornalista antimafia Rosaria Capacchione, sotto scorta, un garantista a 24 carati come Luigi Manconi, un antirenziano doc come Massimo Mucchetti, fino al filosofo dell’operaismo Mario Tronti. Tutti eversori e venduti? Di Maio è un politico capace e siamo certi che saprà emendarsi da questo scivolone. Nel frattempo, lo invitiamo a riflettere su queste tre righe. «Le istituzioni parlamentari, con tutti i loro difetti, hanno una funzione: proteggere un minimo di libertà politiche e di diritti personali contro il dispotismo, mentre i fascisti intendono fare uso della forza di strada per abolire le istituzioni parlamentari». Lo scriveva Gaetano Salvemini a Carlo Rosselli. Sappiamo com’è finita.
 
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« Risposta #112 inserito:: Aprile 03, 2017, 05:01:29 pm »

Ma il governo evita lo scontro con Mosca

Pubblicato il 31/03/2017 - Ultima modifica il 31/03/2017 alle ore 06:57

FRANCESCO BEI

Il popolo italiano ama la Russia. La sua letteratura immensa, i suoi paesaggi, la sua storia, i musei, la musica, la gente. E i russi amano giustamente il nostro Paese, l’estate popolano le nostre spiagge, visitano le nostre città d’arte, vestono la nostra moda, adorano il nostro cibo. Un amore ricambiato, dunque. E’ del tutto legittimo che il governo italiano e le principali forze politiche – su questo punto c’è una sorta di unanimità – si battano da tempo nelle sedi opportune per un ripensamento delle sanzioni contro Mosca. Tra le nazioni europee siamo politicamente i più vicini alla Russia. 

Ma questo non può giustificare quello che potrebbe accadere o sta già accadendo riguardo a una possibile interferenza nelle elezioni in Italia e negli altri Paesi che andranno al voto quest’anno nell’Unione Europea. Non sappiamo se l’avvertimento che gli Stati Uniti hanno trasmesso al nostro e ad altri governi occidentali, di cui ha scritto ieri Paolo Mastrolilli, sia fondato su fatti concreti oppure no. A noi è sufficiente per giudicare quello che è squadernato sotto gli occhi di tutti: la posizione di acritico sostegno a tutto ciò che viene dal Cremlino da parte della Lega e del M5S. Quando un importante esponente dei cinque stelle, di fronte all’ondata di arresti degli oppositori di Putin, ribatte con un «e allora Guantanamo?», come se i diritti umani e civili in Russia avessero la stessa protezione rispetto agli standard occidentali, il problema non è la Stampa o il presunto accanimento nei confronti dei grillini.

La trave che il M5S si rifiuta di vedere è la possibilità che una grande potenza straniera stia cercando di influenzare direttamente i risultati delle elezioni a casa nostra. Come forse ha fatto negli Stati Uniti. Abbiamo già avuto in Occidente per oltre quarant’anni dei partiti comunisti che erano la longa manus di Mosca: coordinati dal Cremlino venivano usati come quinte colonne dal patto di Varsavia per indebolire la capacità di risposta della Nato. E di nuovo, curiosamente, è oggi proprio il M5S a proporre l’uscita dell’Italia dall’Alleanza Atlantica. Che è cosa diversa, caro Alessandro Di Battista, dalla legittima difesa dell’export italiano in Russia colpito dalle sanzioni.
 
L’altra anomalia, certamente meno grave ma da segnalare, è il silenzio del governo italiano su queste presunte interferenze russe. In tutti i Paesi europei e anche a Bruxelles si studiano contromisure o quanto meno si prende atto del problema. Da noi, al contrario, tutto tace. 
 
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« Risposta #113 inserito:: Aprile 08, 2017, 05:34:30 pm »

Due segnali che svelano la fragilità

Pubblicato il 06/04/2017

FRANCESCO BEI

Non è privo di utilità, per capire dove sta andando l’Italia e l’Europa, leggere insieme i due eventi politici della giornata di ieri, così apparentemente diversi. Da una parte l’elezione a sorpresa di un senatore Ap, con i voti dell’opposizione, a presidente della prima commissione di Palazzo Madama, quella per intenderci da cui passerà la legge elettorale; dall’altra la votazione on line del programma Esteri del M5S, con gli iscritti al blog chiamati a scegliere tre su dieci proposte pre-selezionate dagli «esperti».
 
Il primo avvenimento, in tempi normali, sarebbe stato derubricato a incidente parlamentare. Poco più di un anno fa, sempre al Senato, venne eletto presidente della commissione lavori pubblici il forzista Altero Matteoli. E nessuno nel Pd si appellò a Mattarella. Ma in politica contano i tempi e il contesto. E il quadro attuale è di una debolezza imbarazzante: è debole il governo, al limite della paralisi. E’ debolissima la maggioranza, a Palazzo Madama esposta a ogni refolo, a ogni ricatto, a ogni rappresaglia. Poco importa se del voto di ieri siano responsabili gli scissionisti Pd per punire Renzi, una frangia di Ap per punire Alfano, il fronte dei proporzionalisti contro i maggioritari, oppure gli stessi renziani.
 
Magari per creare l’incidente e provocare una crisi. Quello che conta è che il Pd, con i suoi organi dirigenti, ha cercato di drammatizzare al massimo l’episodio, dando una forte scrollata all’albero in cima al quale è seduto Paolo Gentiloni. Qualcuno pensa davvero che una situazione tale possa durare ancora un altro anno? 
 
E questo ci riporta alla seconda notizia di ieri, i grillini che avanzano nella costruzione di una forza di governo, con un programma che non siano solo slogan o «stelle». Stavolta è toccato alla politica estera, fondamentale per capire che tipo di Italia hanno in mente e dove la vogliono collocare in Europa e nel mondo. Con una certa schematizzazione, non è sbagliato inserire il M5S - alla luce della lettura dei dieci punti sottoposti al voto - in quel fronte composito di partiti e movimenti, di destra e di sinistra, che si propongono di smantellare l’Europa che conosciamo, con il suo sistema di trattati (compresa la Nato), per tornare a un mondo di Stati nazionali, al vecchio concerto europeo delle potenze, dove ciascuno è libero di perseguire i propri interessi.
 
In fondo, con tutte le dovute differenze fra il Fronte nazionale di Marine Le Pen - partito di estrema destra, venato anche di antisemitismo - e il Movimento Cinque Stelle, la visione europea che ne viene fuori è la stessa: Nazioni che si riprendono le quote di sovranità cedute nei decenni verso le istituzioni comuni, che siano l’Unione europea o la Nato. Governi che non si impicciano degli affari interni degli altri Paesi, fine dell’interventismo umanitario e stop alla diplomazia dei diritti umani. Significa che Putin è padrone a casa sua di fare ciò che vuole con i suoi oppositori interni, basta che continui a fare affari con le imprese italiane. Significa lasciare Assad libero di continuare a combattere la sua guerra ai «ribelli» nei modi che crede. Il testa a testa fra l’europeista Macron e la sovranista Le Pen in Francia segnerà il destino di tutta l’Europa. Se dovesse prevalere la candidata di destra, l’Ue sarebbe finita, inutile girarci intorno. Se al contrario all’Eliseo vincesse Macron e in Germania, in autunno, i tedeschi premiassero un altro grande europeista come Martin Schulz, la storia prenderebbe una svolta. Sarebbe il rilancio del sogno federalista. In Italia, quando finalmente arriveranno le elezioni, il bivio sarà ugualmente decisivo. Lo si è cominciato a capire ieri, bastava leggersi i dieci punti sul Blog. 

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Da - http://www.lastampa.it/2017/04/06/cultura/opinioni/editoriali/due-segnali-che-svelano-la-fragilit-775cf5TrRtV5OYc1fN5LxO/pagina.html?wtrk=nl.direttore.20170406.
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« Risposta #114 inserito:: Luglio 11, 2017, 09:32:14 am »

Matteo Renzi nega l’isolamento: “Il premier la pensa come me”
Il segretario Pd: “Abbiamo colto nel segno, ora non si discute più di alleanze”

Pubblicato il 11/07/2017 - Ultima modifica il 11/07/2017 alle ore 07:39

FRANCESCO BEI
ROMA

All’Italia serve una «scossa», un piano pensato in grande per farci uscire dalla crescita misurata sempre sui decimali. Il tempo è arrivato, perché «di austerità ne abbiamo avuta fin troppa e non ha funzionato». 

Quello che Matteo Renzi ha proposto nel suo libro «Avanti» - portare il rapporto deficit/Pil alla soglia del 3 per cento, violando deliberatamente il Fiscal Compact, e usare questo surplus per abbassare le tasse - è stato accolto ieri in maniera ruvida a Bruxelles, mentre Gentiloni è rimasto in silenzio e Padoan non ha sprizzato entusiasmo. Ma il segretario del Pd nega che la sua battaglia sia in contrasto con quanto sta facendo il governo in Europa. «La dichiarazione di Padoan l’abbiamo concordata ed ha ragione lui: io parlo del futuro, della prossima legislatura». 
 
LEGGI ANCHE - L’Ue ignora le proposte di Renzi: “Parliamo con Gentiloni e Padoan” (M. Bresolin) 
 
Quanto al premier, parlando con i collaboratori Renzi spiega che è «ridicolo» immaginare una distanza tra lui e Gentiloni: «Paolo queste cose le conosce bene, ne parliamo insieme da una vita. Del resto non è una proposta estemporanea, sono due anni che il mio team ci sta lavorando e ne ho parlato anche con diversi professori di economia. Sarà questa una delle idee del Pd in campagna elettorale». Il senso del ragionamento è chiaro: Gentiloni, a differenza di Padoan, non è un tecnico. È un dirigente di primo piano del Pd, renziano della prima ora. Se è comprensibile la prudenza odierna di palazzo Chigi per non entrare in conflitto palese con la Commissione Ue, è chiaro che il leader del Pd dà per scontato che il capo del governo sappia da che parte della barricata stare. 
 
Il giorno dopo, Renzi si gode l’effetto che fa. In un tempo che consuma qualsiasi idea in un amen, la sua provocazione in effetti ha monopolizzato il dibattito. «Abbiamo colto nel segno, lo dimostrano proprio queste reazioni contrarie di Bruxelles. Visto che la Commissione presenterà tra il 2017 e il 2019 una proposta per integrare il Fiscal Compact nel quadro giuridico dell’Ue, a quel punto la posizione ufficiale del Pd è che l’Italia debba mettere il veto. Mentre per loro era tutto scontato, adesso non lo è più, questo inserimento devono trattarlo con noi. Un primo risultato lo abbiamo già ottenuto». 
 
A Renzi premeva tracciare una linea da cui ripartire, consapevole che la battaglia vera deve ancora cominciare. «Il punto oggi era ribadire, senza fare polemiche sterili, che l’austerità è un errore». E non a caso, a dimostrazione che «abbiamo colto nel segno», il primo a contrattaccare è stato Dijssemloem, «il custode dell’austerità, quell’olandese che accusò gli europei del Sud di dissipare i soldi in alcol e donne. Uno che per fortuna, avendo il suo partitino preso il 4 per cento, tra poco non sarà più presidente dell’Eurogruppo». 
 
Della trattativa in Europa, minaccia di veto compresa, se ne dovrà insomma fare carico «il prossimo governo, da chiunque esso sarà guidato: Gentiloni, Renzi, Zaia, Draghi, chiunque. È una battaglia italiana, non mia». Certo, per condurla con efficacia serve un governo forte, con una prospettiva di legislatura. «Per questo mi premeva andare subito al voto, perché a Bruxelles i rapporti di forza contano eccome. Lì ti misurano al centimetro: l’apertura sulla flessibilità è nata all’indomani della vittoria alle Europee, prima non ci si filava nessuno».
 
L’altro effetto di cui Renzi molto si compiace è che il dibattito domestico da 48 ore ruota attorno a questo. «Non si parla più di alleanze o di legge elettorale ma di cose concrete, adesso voglio vedere chi dice che non abbiamo idee». E la sinistra che lo attacca? «Ma come fa Bersani a non essere d’accordo con il deficit al 2,9? Infatti non può, è costretto a fare polemica su come spendere quei soldi che resteranno in Italia. Ma di quello ne possiamo discutere, io sono per abbassare le tasse, loro parlano di investimenti. Benissimo, facciamo metà e metà?». 

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Da - http://www.lastampa.it/2017/07/11/italia/politica/matteo-renzi-nega-lisolamento-il-premier-la-pensa-come-me-QH7C2L5zTTGx1RnXHY0ktN/pagina.html
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« Risposta #115 inserito:: Luglio 18, 2017, 04:39:39 pm »

Alfano: la collaborazione col Pd ormai s’è conclusa
«Ma continuiamo a sostenere lo stesso governo, Gentiloni corretto. Lo ius soli? Una legge giusta proposta nel tempo sbagliato»

Il leader di Alleanza popolare Angelino Alfano ha ormai rotto con il Pd

Pubblicato il 18/07/2017

FRANCESCO BEI
ROMA

Pd addio, «la collaborazione con loro si è ormai conclusa», annuncia il leader di Alternativa popolare Angelino Alfano.

 
Lei è appena uscito dalla riunione con gli altri ministri degli esteri dell’Ue dove si è parlato proprio di Libia e dell’ondata di migranti sulle nostre coste. La solita solidarietà a parole all’Italia? 
«Diciamo che tutti hanno ben chiara l’insostenibilità di questa situazione, sarebbe bene che tutti avessero il coraggio di fare insieme a noi seri investimenti in Africa per diminuire le partenze e applicassero quanto già sottoscritto in termini di ricollocamenti».
 
Intanto in Italia avete fatto questo sgambetto al Pd sullo ius soli. Si è vendicato di Renzi che l’ha trattata come un leader di un cespuglio senza voti? 
«Macché...Semplicemente: una legge giusta, se fatta in un modo o in un tempo sbagliato, rischia di diventare sbagliata al di là del merito». 
 
Voi lo ius soli l’avete votato alla Camera, adesso avete cambiato idea. Al di là della buona volontà di Gentiloni di approvarla a settembre, la legge è finita su un binario morto? 
«Noi abbiamo ribadito a Gentiloni che non siamo pentiti del voto favorevole alla Camera. Ma alcuni correttivi saranno necessari al Senato, anche su questioni delicate».
 
Per esempio? 
«La concessione della cittadinanza nei confronti di figli i cui genitori non l’abbiamo chiesta. Alcuni elementi di debolezza vanno colmati».
 
Ma così si rischia di non fare più in tempo a votarla, e poi ci sarà la sessione di bilancio... 
«Non abbiamo pregiudiziali ideologiche contro lo ius soli, ma ciascuno ha le sue priorità: noi per esempio, per questo finale di legislatura, chiediamo l’approvazione della legge sulla legittima difesa».
 
Insomma, proponete uno scambio al Pd: ius soli in cambio della legittima difesa? 
«Nessun baratto, ma vogliamo concordare un’agenda di fine legislatura con le forze che sostengono il governo». 
 
Intanto con il rinvio dello ius soli avete ottenuto gli applausi del centrodestra. State lavorando per tornare alla casa madre? 
«Con questa legge elettorale che non prevede alleanze, abbiamo la possibilità di costruire un’area autonoma, popolare e liberale. A questo soltanto stiamo lavorando. Non sono previste alleanze e noi non le stiamo cercando: sono gli altri, da Monza a Catanzaro passando per Genova, che alle ultime amministrative le hanno cercate con noi».
 
E dopo il voto? 
«Vedremo come si saranno espressi i cittadini».
 
Dopo la decisione di bloccare la fiducia sullo ius soli si è guastato il vostro rapporto con Gentiloni? 
«Il presidente del Consiglio è stato molto corretto, ha mostrato rispetto verso chi lo sostiene pur ribadendo che la legge la vuole fare. Il rispetto e la buona educazione talvolta sono un optional, come il metallizzato sulle auto, mentre Gentiloni le ha di serie. Ha esercitato inoltre una leadership di sua stretta competenza - in quanto premier - nel decidere di non mettere la fiducia».
 
A differenza di altri, come Renzi, intende? Con il segretario del pd ha più avuto modo di parlare dopo la rottura sulla legge elettorale? 
«Non ce n’è stata né l’occasione né la necessità».
 
Probabile che si vada al voto con queste leggi rimaste dopo il taglia e cuci della Consulta. Voi cosa farete? 
«Cercare alleanze è un modo per confondere gli elettori visto che non sono previste dal Consultellum. Io credo invece che occorra al più presto lanciare una proposta politica che unisca tutti coloro che sono distinti e autonomi dalla sinistra, ma che non vogliono andar dietro a chi, come Salvini, ci vuole portare fuori dall’Europa».
 
Addio Pd dunque? 
«La collaborazione con loro si è ormai conclusa, sosteniamo lo stesso governo, ma non facciamo parte della stessa coalizione: diciamo che abbiamo un parente in comune, di nome Gentiloni, ma tra noi e loro non c’è più alcun legame».
 
Con Berlusconi invece come vanno le cose? L’ha più sentito? 
«Sì, ci siamo incontrati al funerale di Kohl».
 
E...? 
«Ci siamo salutati ma non abbiamo parlato di politica».
 
Un’ultima cosa, c’è molta polemica sulla missione Triton: la destra e M5s sostengono che Renzi abbia barattato la flessibilità sui conti con l’accettazione della clausola per cui i migranti sarebbero stati sbarcati nei nostri porti. È andata così? 
«Io all’epoca ero al Viminale, il negoziato sulla flessibilità non era, ovviamente, nelle mie competenze, ma mi sento di escludere scambi. E comunque Triton, per quanto riguarda le navi europee, conta solo il 10 per cento sul totale degli sbarchi».

Da - http://www.lastampa.it/2017/07/18/italia/politica/alfano-la-collaborazione-col-pd-ormai-s-conclusa-mgh8eJgFfDCEVyhZgGV2NK/pagina.html
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« Risposta #116 inserito:: Agosto 08, 2017, 06:13:54 pm »

Berlusconi: “Parigi deve capirlo, non è più il tempo di Colbert e del Re Sole”
Il leader di Fi: “Fincantieri? L’Italia ha perso peso con gli ultimi governi”. E sui retroscena dell’intervento in Libia nel 2011: “Il tempo è galantuomo”
Ex Premier Silvio Berlusconi è tornato a essere uno dei protagonisti del dibattito politico

Pubblicato il 04/08/2017

FRANCESCO BEI
ROMA

Reduce da una settimana a Merano in un centro benessere, dal quale torna «in forma, “ricaricato”, con molte idee e molti progetti per l’Italia», Silvio Berlusconi attacca l’atteggiamento «né liberale né europeista» del presidente Macron sul caso Fincantieri/Stx e attende invece speranzoso a settembre un «successo» elettorale della Merkel per trovare un nuovo equilibrio in Europa. 

I francesi propongono una partnership 50-50 allargata anche al settore militare. Ma il ministro Padoan anche oggi ha ribadito il no del governo. Lei accetterebbe? 
«Certamente no. I governi francesi, forse memori della lezione di Colbert, non esitano ad usare la forza politica, diplomatica e anche militare dello Stato per difendere gli interessi delle aziende francesi e ostacolare quelle straniere. Non dimentico che fui costretto a cedere la rete tv che avevo creato in Francia, La Cinq, che aveva troppo successo perché il governo di allora potesse accettarla. Però dall’epoca del Re Sole il modo di intendere i rapporti in Europa dovrebbe essere cambiato. Ma i presidenti francesi se ne sono accorti?».
 
Parigi teme per l’occupazione e per il possibile scippo di tecnologia... 
«Il cantiere di Saint-Nazaire non è un’impresa pubblica che viene privatizzata, bensì un’impresa che i francesi avevano già venduto a un gruppo coreano che deteneva il 66% ed è poi fallito, e che Fincantieri, con una operazione dalla logica industriale impeccabile, ha rilevato. Bloccarla non mi sembra un atteggiamento né liberale né europeista».
 
Anche in Libia gli interessi italiani e francesi si scontrano. Gentiloni non è stato invitato al summit di Parigi e la Francia sostiene Haftar che ha un forte atteggiamento anti-italiano. Esiste una via d’uscita? 
«Dispiace dirlo, ma in questi anni il peso specifico del nostro Paese a livello internazionale è sensibilmente diminuito. Basti pensare alla dilettantistica e sciagurata gestione dell’emergenza immigrazione da parte della sinistra. Il mio governo era riuscito, stipulando accordi bilaterali con i Paesi della sponda sud del Mediterraneo, prima fra tutti la Libia di Gheddafi, a impedire che i migranti partissero dall’Africa». 
 
È il lavoro che sta portando avanti Minniti. Anche Forza Italia ha votato la missione, no? 
«Adesso sembra che a sinistra abbiano finalmente capito che questa è la strada giusta da seguire, e siamo i primi a compiacercene. Abbiamo espresso un voto favorevole all’iniziativa del governo per senso di responsabilità, da settembre verificheremo puntualmente quello che accade. Bisogna operare sui punti di imbarco e sulle acque libiche per fermare e controllare sul nascere l’invasione». 
 
Giorgio Napolitano ha ricostruito su Repubblica il retroscena dell’intervento in Libia nel 2011, attribuendo al suo governo la decisione finale sulla missione decisa da Francia e Inghilterra. Conferma la versione del Presidente emerito? 
«Non mi piacciono le ricostruzioni interessate e autoassolutorie. Per fortuna il tempo è galantuomo e posso dire anche io, come il Presidente Napolitano: “ho un ricordo che altri forse hanno cancellato”. Quello che è importante è che anche il Presidente Napolitano ricorda e riconosce come io fossi contrario all’intervento militare in Libia e come lo abbia manifestato in quella e in altre circostanze, fino alle dimissioni del governo. Tanto da aggiungere: “che Berlusconi abbia evitato quel gesto per non innescare una crisi istituzionale al vertice del nostro Paese, fu certamente un atto di responsabilità da riconoscergli ancora oggi”. E questo mi basta».
 
A settembre si vota in Germania: un’elezione importante anche per far ripartire l’Europa? 
«Elezioni importantissime, dalle quali mi aspetto – e naturalmente mi auguro - un successo della signora Merkel e del suo partito, che è come noi parte integrante del Ppe, il centro cristiano e liberale, alternativo alla sinistra, che noi orgogliosamente rappresentiamo in Italia».
 
Quali sono i suoi rapporti con la Cancelliera? 
«I miei rapporti con la signora Merkel sono sempre stati eccellenti. Non sono riusciti a scalfirli neppure le dicerie malevole su una battuta volgare che non ho mai pronunciato, e che le solite intercettazioni, una volta tanto utili, hanno clamorosamente smentita. E neppure è servita la “trappola” creata da Sarkozy contro l’Italia nel 2011, quando la signora Merkel fu coinvolta suo malgrado, con un sorriso, in un giudizio sarcastico sul nostro Paese. Oggi la signora Merkel è in Europa forse l’unico statista con una visione all’altezza dei tempi». 
 
A novembre invece sarà la volta delle elezioni in Sicilia. Chi vince lì vince in Italia? E Forza Italia alla fine si presenterà con Ap? 
«Per dire la verità, le elezioni siciliane sono molto importanti, ma non sono e non saranno decisive per il futuro del Paese, come tanti vorrebbero far credere. L’eventuale accordo con Ap si baserà su considerazioni locali: già in altre importanti regioni, la Lombardia e la Liguria, governiamo bene insieme, senza che questo preluda ad alleanze nazionali, impossibili con chi fino ad oggi ha sostenuto la sinistra». 
 
Lei di recente ha rilanciato il sistema elettorale tedesco, naufragato alla Camera. Ma senza un premio di maggioranza non c’è il rischio di non avere alcuna maggioranza dopo il voto? Non la spaventa il caso spagnolo, con lo spettro di dover tornare al voto a giugno 2018? 
«Se non sbaglio la Spagna dalla morte di Franco, come la Germania dal 1949, hanno conosciuto governi democratici che, in un regime di alternanza, hanno portato i due paesi ad una trasformazione e ad una crescita straordinaria. Dunque il sistema proporzionale non funziona così male. Le difficoltà a formare un governo non dipendono dalla legge elettorale: il problema si è posto poche settimane fa anche nel Regno Unito dove il sistema di voto è strettamente uninominale». 
 
Se si andasse invece a votare, nonostante l’appello di Mattarella, con i due sistemi attuali, è possibile immaginare una lista unica Forza Italia-Lega-Fdi? 
«Non voglio neppure prendere in considerazione l’idea che il saggio appello del Capo dello Stato a modificare l’attuale legge elettorale sia lasciato cadere nel vuoto, vanificando così ancora una volta la possibilità per i cittadini di scegliere davvero il loro futuro».
 
Intanto per Forza Italia che programmi ha? 
«Mi dedicherò ad un intenso programma di incontri con i protagonisti dell’impresa, delle professioni, del lavoro, della cultura, ai quali spiegherò le mie idee sulla “rivoluzione liberale” per l’Italia, e che spero di convincere a scendere in campo con noi».

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« Risposta #117 inserito:: Agosto 08, 2017, 06:19:28 pm »


Se il Colle si sostituisce a Gentiloni

Pubblicato il 08/08/2017

Francesco Bei

La crisi istituzionale che ha investito ieri il governo, arrivando a far traballare la poltrona del ministro dell’Interno, sembra rientrata solo grazie all’intervento diretto del capo dello Stato. Secondo la Costituzione (articolo 95), spetta al presidente del Consiglio mantenere l’unità di indirizzo politico del governo, coordinando l’attività dei ministri. Ora era evidente da giorni che, sulla materia del contrasto all’immigrazione clandestina, la cacofonia nell’esecutivo aveva raggiunto livelli di guardia.

Ma lo sforzo di persuasione di Gentiloni con quei ministri più propensi ad ascoltare il grido di dolore delle Ong, non era stato sufficiente ad evitare l’isolamento e la conseguente minaccia di dimissioni del titolare del Viminale. Così si è resa necessaria la copertura del capo dello Stato, che ieri ha rimesso in equilibrio l’asse del governo facendo capire a tutti che Minniti gode dell’apprezzamento del Quirinale. A conferma della legge della fisarmonica presidenziale: quando la politica è debole i poteri del capo dello Stato si dilatano. Per Mattarella è la prima volta. 

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Niente accordo fra i centristi, salta la Direzione
Il ministro Lorenzin punta all’intesa con il Pd, Lupi vuole una corsa in solitaria

Pubblicato il 02/12/2017 - Ultima modifica il 03/12/2017 alle ore 07:24

FRANCESCO BEI
ROMA

Nulla di fatto. I centristi non riescono a trovare la quadra al loro interno fra chi, come il ministro Beatrice Lorenzin, punta a stringere un’alleanza di governo con il Pd e l’ala invece “autonomista” di Maurizio Lupi. Così la direzione che lunedì avrebbe dovuto prendere una decisione finale slitta ancora di una settimana. Nell’ultima riunione era stato approvato quasi all’unanimità (salvo i voto contrari di Roberto Formigoni e Gabriele Albertini) un documento che dava mandato al coordinatore Lupi e al vice Gentile di «approfondire i contenuti di un’opzione che prevede la prosecuzione di un’alleanza di governo in vista della campagna elettorale o di fare un’alleanza con le forze centriste per un’eventuale corsa autonoma in vista di prossime elezioni». 

Lorenzin spinge per proseguire l’intesa con il Pd di Renzi, perché «andare da soli significherebbe danneggiare i moderati e regalare la vittoria ai populisti Salvini e Grillo». Il coordinatore Lupi, sensibile alle richieste dei lombardi e dei liguri più favorevoli al centrodestra, vorrebbe invece mantenere un profilo autonomo. Accettando anche il rischio di non superare l’asticella del 3 per cento fissata dalla legge elettorale. In mezzo Angelino Alfano, che comunque ha deciso di non correre in un collegio uninominale ma soltanto nella quota proporzionale. 
Una settimana è quindi passata invano e la decisione di far slittare la Direzione certifica l’impasse. Lunedì si terrà soltanto la segreteria ristretta di Alternativa popolare.
 
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Da - http://www.lastampa.it/2017/12/02/italia/politica/niente-accordo-fra-i-centristi-salta-la-direzione-62c5bm6uhiPJTr23pHfBPL/pagina.html
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« Risposta #119 inserito:: Dicembre 21, 2017, 12:34:22 pm »


Maria Elena Boschi: “Quegli incontri erano doverosi, non farò il capro espiatorio”
La sottosegretaria: nessun favore, pronta a ricandidarmi


Pubblicato il 21/12/2017

Francesco Bei
Roma

«Non sono stata io a chiedere di acquisire. Io mi sono informata sul se, non ho chiesto di. É una informazione, non una pressione. C’è una differenza abissale». È questa la linea del Piave di Maria Elena Boschi, al termine di 48 ore infernali sul caso Banca d’Etruria. Una differenza semantica tra «pressione» e «informazione» che la spinge a resistere contro le richieste di dimissioni che si alzano pubblicamente dalle opposizioni. E contro le voci interne al Pd che vorrebbe non si ricandidasse. 

Lei lamenta di essere diventata il capro espiatorio dell’intera crisi bancaria, quando Banca Etruria in fondo vale una piccola frazione del totale. Ma se è vero, non sente anche una responsabilità nell’errore speculare del Pd che ha impostato il lavoro della commissione come una revanche contro la Banca d’Italia e il suo governatore? 

«Io non mi lamento, io prendo atto. Ci sono stati scandali, perdite bancarie per almeno 44 miliardi di euro, vergognose mistificazioni e di che cosa parlano gli addetti ai lavori? Solo della mia agenda e dei miei appuntamenti che sono, peraltro, del tutto legittimi e doverosi. Penso che il Pd abbia fatto benissimo a chiedere la Commissione di inchiesta non per vendicarsi, anche perché non si capirebbe di cosa, ma per mettere in evidenza i nodi che impediscono alla vigilanza di funzionare bene. Noi siamo quelli della trasparenza, sempre. Qualcuno ha trasformato il racconto di questa Commissione in una caccia all’uomo, anzi alla donna. Ma ognuno è responsabile di ciò che fa: il Pd fa bene a insistere per fare chiarezza».

 Il banchiere Ghizzoni, pur dicendo che lei non fece «pressioni», di fatto ha ripetuto in commissione quello che scrisse Ferruccio De Bortoli nel suo libro. Fair play vorrebbe che ritirasse la querela nei confronti di De Bortoli… 

«Eh no. De Bortoli sostiene che io vada da Ghizzoni per chiedergli di comprare la banca e che l’Ad a quel punto faccia fare le verifiche. A chiedere a Unicredit di valutare l’acquisizione era stata Mediobanca e le necessarie verifiche erano state fatte prima che io chiedessi informazioni a Ghizzoni. De Bortoli mi ha confuso con Mediobanca, ma non è la prima volta che prende di mira qualcuno di noi del cosiddetto “Giglio Magico”. Proprio non gli andiamo giù, peccato. L’azione civile va avanti e spero solo che non cada tutto nel dimenticatoio».

Lei nel 2014 era già ministro e braccio destro del presidente del Consiglio. Non le sembra che già il solo fatto di chiedere informazioni a un banchiere sia una forma di pressione? 

«Vediamo di dirla chiara. Non ho fatto pressioni, non ci sono stati favoritismi, mio padre è stato commissariato, mio fratello si è licenziato per non creare difficoltà ad altri dipendenti. Se qualcuno mi dimostra che ho favorito i miei, tolgo il disturbo domattina. Io penso di averli danneggiati, ma è un’altra storia. Rivendico invece il fatto di aver chiesto informazioni. Sarebbe stato assurdo il contrario. Parlare con gli amministratori delegati e ascoltare gli amministratori delegati è una delle attività di chi sta al governo: chi non lo capisce o è in malafede o è totalmente vittima della demagogia qualunquista».

Nel suo post del 9 maggio scorso lei scrisse «non ho mai chiesto all’ex Ad di Unicredit, Ghizzoni, né ad altri, di acquistare Banca Etruria». Alla luce dell’audizione di oggi lei conferma la sua versione? 

«Non sono stata io a chiedere di acquisire. Ma Mediobanca prima, il management di Bpel poi. Io mi sono informata sul se, non ho chiesto di. È una informazione, non una pressione. C’è una differenza abissale». 

Siamo alla fine della commissione d’inchiesta, in questa ultima settimana si è saputo di plurimi contatti che lei ha intrattenuto con Vegas (Consob), con Panetta (Bankitalia) fino a Ghizzoni (Unicredit). Perché di questi colloqui si è saputo solo adesso? 

«Trasecolo. I miei contatti con queste persone sono talmente segreti da essere o nei palazzi istituzionali o in sedi pubbliche. Vegas, Visco e Ghizzoni dicono che il mio comportamento è stato corretto e normale. Ma davvero vi sembra una notizia che un ministro incontri il capo della Consob o un alto dirigente di Banca d’Italia o un amministratore delegato? Per di più una persona che è suo malgrado spesso seguita da fotografi. Il tentativo è quello di trovare un ottimo capro espiatorio per non discutere delle vere vicende che hanno riguardato il sistema bancario italiano. Io non mi faccio utilizzare come foglia di fico per coprire chi ha sbagliato in questi anni. Da mesi sembra che Banca Etruria sia l’unica priorità per questo Paese. A me dispiace solo che quella storia non sia stata salvata, il resto appartiene al chiacchiericcio. La mia famiglia è presa di mira da due anni, ma non abbiamo mai chiesto alcun trattamento di favore. Dura lex, sed lex. A differenza di chi è colpevole e non paga mai».

Marco Carrai sostiene di aver mandato quella e-mail a Ghizzoni per conto di un cliente e non da parte sua o di Renzi. Converrà che è coincidenza sorprendente… 

«Conosco Marco Carrai. Se dice una cosa, è quella. Ma per chi non si fida basta rileggere le notizie locali dell’epoca per sapere che esisteva un interessamento per la Federico Del Vecchio. Sorprendente è che un deputato Cinque Stelle chieda un appuntamento al Governatore Visco su un fatto personale e nessuno dica una parola sul tema. Ma forse il problema è che quel deputato, Villarosa, non è toscano».

Al di là del merito, nel suo partito alcuni pensano che la vicenda bancaria sia diventata una zavorra troppo pesante in campagna elettorale. Non ha mai pensato, per il bene del Pd, di rinunciare alla candidatura? 

«Io non ho un problema personale. A me pare evidente quanto sia meschina la strumentalizzazione di queste ore. Se chiedono a me, io darò la disponibilità a correre in qualsiasi collegio con l’entusiasmo e la forza di chi non ha niente da temere. Perché la verità e più forte delle strumentalizzazioni. La decisione però spetta al Pd e ai cittadini: io nel frattempo lavoro e vado avanti».

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Da - http://www.lastampa.it/2017/12/21/economia/maria-elena-boschi-quegli-incontri-erano-doverosi-non-far-il-capro-espiatorio-ePunq92Wc5OhFnuVn866ZM/pagina.html
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