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Autore Discussione: FRANCESCO BEI.  (Letto 70546 volte)
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« Risposta #120 inserito:: Marzo 29, 2018, 06:32:23 pm »

Se Di Maio ostacola il governo M5S

Cara lettrice, caro lettore,
c’è qualcosa di sorprendente nella linea con cui il Movimento Cinque Stelle affronta il problema della formazione del governo. Una “stranezza” tanto più forte se raffrontata con la tattica che, specularmente, sta portando avanti l’altro pretendente al trono, Matteo Salvini. Il leader della Lega infatti al momento è inappuntabile. Ha aperto sul programma, arrivando a sostenere ieri che il reddito di cittadinanza – la bandiera dei grillini in campagna elettorale - si può fare. Non ha posto problemi personali, dicendo chiaramente di essere pronto a fare un passo indietro sulla premiership, pur rivendicando al centrodestra la guida del governo. Si può chiedere di più?

Dall’altro lato invece il refrain dei Cinque Stelle è: Di Maio o niente. L’alfa e l’omega di ogni discorso sul governo è sempre quello, il premier deve essere Luigi Di Maio. Il resto viene dopo. Ora è sorprendente appunto che una tale linea Maginot sia stata scavata proprio dai grillini a difesa della leadership di Di Maio. Perché in teoria tutta la narrazione M5s finora è stata incentrata sul programma. Il mito del programma, del mettere al centro di tutto “i temi” e non gli uomini o i destini personali dei leader. Il mantra dell’uno vale uno in fondo aveva questo assunto base: i parlamentari sono tutti fungibili, sono soltanto “portavoce” del Movimento. Non devono avere una faccia, come i capigruppo. Che infatti ruotavano ogni tre mesi nella scorsa legislatura.

Ora invece Di Maio è intoccabile. Se anche Salvini offrisse i suoi voti per realizzare per intero i venti punti del programma grillino, Di Maio pretenderebbe comunque di guidare lui il governo. E’ una posizione ideologica, che mostra una certa fragilità e alla lunga sarà difficile da difendere. E se Salvini proponesse un disarmo bilanciato, un passo indietro di entrambi per il bene comune? Si dirà, e i grillini infatti lo dicono, che Di Maio si è presentato agli elettori come candidato premier. Ma è una giustificazione che non giustifica niente. Sia perché anche Salvini si era attribuito questo titolo. Sia perché l’attuale legge elettorale, essendo proporzionale, postulava una trattativa parlamentare per arrivare a un governo parlamentare. Senza investitura diretta della premiership, come invece prevedeva – in vigenza del Mattarellum- la Costituzione materiale della Seconda repubblica.

Ha detto bene ieri Guido Crosetto, coordinatore di Fratelli d’Italia: “Se esiste la disponibilità di Di Maio e Salvini a fare un passo indietro per individuare una persona terza la cosa può essere risolta velocemente”. Ma è davvero questo che vogliono i grillini?

Francesco Bei
Capo della Redazione Romana, La Stampa

Da – La Stampa 27 marzo 2018
 
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« Risposta #121 inserito:: Aprile 02, 2018, 01:57:35 pm »

“Via Di Maio e programma comune” Il governo della Consulta tra M5S e Pd
Per la premiership tre giuristi. Anche Amato e Prodi in pressing.
Ora Renzi teme di restare solo
Richiesta di dialogo
Discutere la linea Pd sul governo prima delle consultazioni: la richiesta è arrivata da Dario Franceschini ed è stata sostenuta da Andrea Orlando che parla di «dialogo doveroso» con il M5S

Pubblicato il 31/03/2018 - Ultima modifica il 31/03/2018 alle ore 15:48

FRANCESCO BEI
ROMA

Pazienti, in attesa, i giocatori della partita sanno che si dovrà consumare senza esiti il primo giro di consultazioni al Quirinale prima che si faccia sul serio. Davanti a una selva di microfoni, appena usciti dallo studio alla vetrata, la prossima settimana i vari leader mostreranno i muscoli, parleranno agli italiani ancora il linguaggio della campagna elettorale. Eppure, sotto la superficie, molti sono già al lavoro per «aiutare» Mattarella a trovare una quadra superando i due maggiori ostacoli che oggi si frappongono al governo M5S-Pd-LeU: Matteo Renzi e Luigi Di Maio. 

Il primo luogo dove si combatte la battaglia è dentro e attorno al Partito democratico. Le uscite di Andrea Orlando e Dario Franceschini, terminali di un disegno più alto, rispondono infatti a un unico scopo. Preparare il terreno per un cambio di gioco, oltre il recinto aventiniano dove Renzi spera di rinchiudere i dem. Ma ancora è presto, prima devono consumarsi tutti i passaggi politici e costituzionali delle consultazioni. «Noi – spiega uno dei registi dell’operazione – non possiamo appoggiare un governo Di Maio. Nessuno nel Pd può spingersi a tanto. Lo stiamo facendo capire ai Cinquestelle. Ma è giusto che ci arrivino piano piano». I contatti con Franceschini e Orlando, tramite i grillini Emilio Carelli e Danilo Toninelli, sono frequenti e il ragionamento che viene esposto dai dem è sempre lo stesso: individuiamo insieme un programma limitato, offriteci un presidente del Consiglio votabile, un profilo «alla Rodotà», e una discussione si può aprire. Nonostante Renzi. «Anche il programma va impostato su punti chiari, che “parlino” ad entrambi gli elettorati ed escludano di fatto il centrodestra: legalità, lotta alla corruzione, difesa del lavoro, contrasto alla povertà. Oltre ovviamente alla legge elettorale». 

In questo ragionamento si riconoscono non soltanto i due ex-ministri. Ma anche alcune grandi figure di riferimento che, con discrezione e senza apparire, stanno spingendo pezzi di Pd in quella direzione. Nelle conversazioni ricorrono sempre i nomi di Romano Prodi e Giuliano Amato. Anche il percorso politico è in qualche modo già abbozzato. Perché a metà aprile, esaurito appunto senza esito il primo giro di consultazioni, nel Pd si aprirebbe una discussione vera. Pesante. Con una dichiarazione di smarcamento dallo schema renziano per bocca dello stesso Paolo Gentiloni. Un vero e proprio appello che dovrebbe suonare come un tana libera tutti. Nella speranza che anche l’ex segretario alla fine si pieghi o venga messo in minoranza. 

I nomi che circolano per guidare questo governo sono tre e tutti di giuristi di altissimo profilo: Giovanni Maria Flick, Paolo Grossi e Giorgio Lattanzi. I primi due ex presidenti della Corte costituzionale, l’ultimo – Lattanzi - presidente in carica. È quel «governo della Consulta» che si era affacciato proprio all’indomani del voto, poi inabissatosi nel calore dello scontro politico. A questo schema si tornerebbe - nella speranza di quella parte del Pd fuori dall’ortodossia renziana - anche per scongiurare il progetto alternativo che viene attribuito all’ex segretario dem. Ovvero quello di accodarsi a un governo di centrodestra, purché non guidato da Salvini ma da un leghista meno contundente come Giancarlo Giorgetti. Renzi sa bene cosa si sta muovendo alle sue spalle. E non è un caso, viene spiegato, se Andrea Marcucci, il fedelissimo capogruppo al Senato, ieri abbia sparato proprio in quella direzione: «Il Pd non sosterrà mai nessun governo del M5S. Se qualche dirigente vuol cambiare posizione, lo dica chiaramente». 

I due leader che in campagna elettorale più si sono combattuti - Renzi e Di Maio - in questa fase sono tatticamente alleati per evitare ogni soluzione che passi sopra le loro teste. Come quella rivelata ieri da La Stampa e attribuita a Max Bugani, un Cinquestelle della prima ora: passo indietro di Di Maio e dialogo con il Pd. Ieri mattina, in un Transatlantico deserto, nonostante gli strali del quartier generale grillino che smentiva le parole di Bugani, un rilassato Alessandro Di Battista ad alcuni deputati di sinistra confidava: «Quella di Bugani? Una sua opinione personale». Per ora. 

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Da - http://www.lastampa.it/2018/03/31/italia/politica/via-di-maio-e-programma-comune-tre-giuristi-per-un-governo-mspd-xpGsFFQes2bVsyJhckIJkN/pagina.html
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« Risposta #122 inserito:: Aprile 14, 2018, 06:08:27 pm »

Il miglior governo? Quello che non c’è

Cara lettrice, caro lettore,
e se facessimo a meno del governo? A più di un mese dal voto, senza concrete prospettive di superamento dei veti reciproci tra centrodestra, m5s e Pd, qualcuno ci sta pensando sul serio. È stato il ministro Graziano Delrio a dire per primo che il re è nudo: «Possiamo resistere anche tre anni senza Governo». Una battuta paradossale, quella del ministro dei Trasporti, ma sarebbe davvero solo fantapolitica?

È utile ricordare che nel 2010 il Belgio andò avanti piuttosto bene senza un premier per 544 giorni, nel 2015 gli spagnoli stettero quasi un anno con la Moncloa vuota, in Olanda e Germania lo stallo è durato mesi. E in tutti i casi citati l’economia filava a gonfie vele.

Oltretutto l’idea di un autogoverno parlamentare, orizzontale, risponde molto a una certa idea grillina delle origini. Non a caso è stato Roberto Fico, ultimo interprete del sentimento utopistico di Casaleggio senior, a invitare i partiti a mettersi al lavoro prescindendo dalle trattative per il governo. «I gruppi parlamentari – ha dichiarato il presidente della Camera - secondo me devono dialogare fino in fondo per cercare di risolvere i problemi che affliggono il paese: lotta alla povertà ma anche lotta alla corruzione o annullare gli incidenti sul lavoro con misure e controlli molto più adeguati». Un appello alla democrazia dal basso, alla via parlamentare per uscire dallo stallo. Ancora più significativo perché pronunciato proprio nel giorno dello scontro tra Salvini e Di Maio. Parole, quelle di Fico, in sintonia con l’approccio più di sinistra della presidente del Misto, Loredana De Petris (LeU): «È assurdo che, in una situazione così delicata per l’intero Paese, la crisi si sia avvitata in una serie di veti e pregiudiziali che prescindono completamente dal merito. Come LeU abbiamo già detto che siamo pronti a un confronto programmatico in Parlamento con tutti tranne che con la destra».

Dunque avanti così, con accordi in Parlamento e senza un esecutivo. Del resto ne era convinto Thomas Jefferson, uno dei padri fondatori degli Stati Uniti: «Il miglior governo è quello che governa meno». Ancora meglio, il miglior governo è quello che non c’è.

Francesco Bei
Capo della Redazione Romana, La Stampa

Da – lastampa.it
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« Risposta #123 inserito:: Aprile 25, 2018, 04:47:56 pm »

Per i partiti la ricreazione sta finendo

Pubblicato il 20/04/2018 - Ultima modifica il 20/04/2018 alle ore 07:22

FRANCESCO BEI

Dopo la giornata sull’ottovolante di ieri - con le aperture, poi la gelata e la sfilza di accuse reciproche - verrebbe da concludere che i vincitori delle elezioni non si stanno dimostrando all’altezza delle aspettative che hanno suscitato. Un conto è prendere i voti, altro è la fatica di formare una maggioranza. Luigi Di Maio e Matteo Salvini lo stanno scoprendo a proprie spese. Sarebbe divertente poter ascoltare l’audio della telefonata intercorsa fra i due ieri mattina e capire come si è potuta ingenerare questa commedia degli equivoci. Ma stiamo ai fatti. 

I Cinque stelle arrivano al massimo ad accettare, bontà loro, che Forza Italia sostenga gratis dall’esterno un esecutivo Di Maio. Ma considerano una bestemmia far sedere i propri capigruppo insieme a quelli delle tre forze del centrodestra per parlare di programma. Eppure il 29 marzo, appena venti giorni fa, sono stati proprio i capigruppo M5S a svolgere un giro di incontri programmatici con tutti i colleghi, compresi quelli di Forza Italia e FdI. Al termine dei quali Toninelli disse che «quando non si parla di poltrone ma di soluzioni ai problemi dei cittadini, anche forze politiche differenti possono dialogare per il bene del paese». Cos’è cambiato da allora? Che stavolta si fa sul serio e il tempo della ricreazione è finito. È bene che tutti ne prendano atto rapidamente. 

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Da - http://www.lastampa.it/2018/04/20/cultura/per-i-partiti-la-ricreazione-sta-finendo-kQvljeewt89phiukN1LuzI/pagina.html
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« Risposta #124 inserito:: Maggio 26, 2018, 06:03:03 pm »

Steve Bannon: “L’Ue sarà costretta a trattare con l’Italia anti-sistema”

L’ex stratega di Trump era stato il primo a prevedere la saldatura Lega-M5S: “Roma sarà capofila europea del movimento populista. La priorità è l’emergenza migranti”

Pubblicato il 23/05/2018 - Ultima modifica il 23/05/2018 alle ore 10:50

FRANCESCO BEI
ROMA

Steve Bannon, ex stratega della Casa Bianca, ora libero battitore e ideologo del movimento “antisistema”, è stato il primo a prevedere quello che poi è effettivamente avvenuto: la saldatura tra le due forze “populiste” italiane per un governo che ribaltasse il paradigma liberale europeo. 

A due mesi da quell’intervista a La Stampa, Bannon torna a osservare con curiosità e ammirazione l’esperimento in corso in Italia, tanto da aver deciso di fare tappa domenica nel nostro Paese. 

Come lei si era augurato fin dall’inizio, Lega e Movimento Cinque Stelle hanno trovato un accordo per formare il nuovo governo. C’è il nome del presidente del Consiglio, il contratto di programma e anche l’indicazione dei principali ministri. Come giudica questa intesa? 
«Penso che quello tra M5S e Lega sia un patto intelligente, sono certo che farà gli interessi del popolo italiano. Dimostra inoltre la maturità e la saggezza politica di leader come Di Maio e Salvini, capaci di mettere da parte le ambizioni personali per il bene del loro Paese».

Cosa significa per l’Italia essere guidata dal primo governo europeo composto dalle forze “anti-sistema”? 
«L’Italia, con il suo “governo di unità”, diventerà la capofila in Europa del movimento populista anti-establishment. Per la prima volta, Bruxelles sarà costretta a trattare con un governo anti-sistema in un paese fondatore dell’Unione. Un governo che può godere del sostegno travolgente del suo popolo».

Come vede i rapporti di forze e le dinamiche interne tra M5s e Lega nel nuovo governo? 
«I due partiti, come ho detto prima, hanno dimostrato pazienza e saggezza nel mettere da parte le legittime ambizioni personali dei loro leader e questo dimostra al mondo che il loro rapporto funziona. Se Di Maio e Salvini governeranno con il pragmatismo che hanno dimostrato finora, con il tempo l’Italia ne avrà grandi benefici».

Hanno individuato una figura terza come Giuseppe Conte. Un professore, un tecnico, anche se ora lo definiscono un “politico”. Questo non contraddice tutti gli slogan di Lega e M5S contro i presidenti del Consiglio “non eletti dal popolo”? 
«Il popolo ha eletto i partiti. Questi stessi partiti stanno ora lavorando per raggiungere un compromesso positivo che pochi credevano si potesse davvero trovare. Io dico che questo non solo potrebbe ma dovrebbe accadere: saranno poi i cittadini, alle prossime elezioni, a decidere se premiare oppure no il lavoro che sarà stato fatto».

Secondo lei il governo M5s-Lega su quali temi si dovrebbe concentrare? 
«La priorità dovrebbe essere l’immediata restituzione al popolo italiano della sovranità sul proprio Paese con la soluzione dell’emergenza immigrazione. Da questa riconquista di sovranità dovrebbe quindi discendere un serio progetto per liberare il gigantesco potenziale imprenditoriale degli italiani, il loro talento nella creazione del lavoro e nella crescita».

Ma quale sarà l’impatto di questo governo sull’Unione europea? 
«Il “governo di unità”, come mi piace chiamarlo, avrà un impatto enorme su Bruxelles. Insieme alla vittoria schiacciante di Victor Orban in Ungheria, il messaggio è chiaro: i cittadini rivogliono indietro i loro Paesi e li rivogliono ora».

Commissari Ue, leader europei e media internazionali stanno già esprimendo scetticismo e critiche: pensa che l’Italia si ritroverà isolata? 
«L’Italia, mi creda, non sarà isolata, anzi si è appena messa all’avanguardia del cambiamento in Europa. Inoltre, se anche volesse, l’Unione europea non si può permettere di isolare uno dei suoi membri fondatori, specialmente con le implicazioni che questo avrebbe sulla questione dei confini». 

Come pensa che l’amministrazione americana possa reagire alla formazione di questo governo? Non crede che ci possano essere tensioni tra Washington e Roma, visti i rapporti stretti fra la Russia e la Lega di Salvini? 
«Sono un privato cittadino ed esprimo solo la mia personale opinione, ma credo che l’amministrazione degli Stati Uniti e il popolo americano supportino tutto ciò che ritengono sia nei migliori interessi dell’Italia e dei suoi cittadini». 

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Da - http://www.lastampa.it/2018/05/23/italia/ora-bruxelles-deve-trattare-con-un-governo-antisistema-WKBBRUWwED8MEzcfWOZ6IK/pagina.html
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« Risposta #125 inserito:: Maggio 31, 2018, 01:09:11 pm »

Mattarella un cuneo fra i sovranisti

Pubblicato il 31/05/2018 - Ultima modifica il 31/05/2018 alle ore 10:50

FRANCESCO BEI

In una crisi che sembrava avvitata e senza sbocchi, improvvisamente ieri si è prodotto un potente fattore di novità. Non è ancora chiaro se questo sarà sufficiente a sbloccare lo stallo, ma il cambiamento di fronte è notevole e va registrato. Invertendo una dinamica che sembrava consolidata, Sergio Mattarella è infatti riuscito a incunearsi nel fronte «sovranista» e a dividere i dioscuri del cambiamento. Da una parte Luigi Di Maio, dall’altra Matteo Salvini. Uniti nell’attacco al Quirinale, «servo della Germania e delle agenzie di rating» solo 48 ore prima. La svolta arriva alle 17.30, quando la deputata Laura Castelli, vicinissima a Di Maio, a sorpresa si rivolge in modo perentorio al professor Savona: «Stupisce che non abbia ancora maturato la decisione di fare un passo indietro». Un cambiamento radicale di posizione, se si pensa che il giorno prima i grillini chiedevano la messa in stato d’accusa di Mattarella proprio per non aver voluto nominare Savona all’Economia suggerendone uno spostamento in un altro dicastero. Preannunciata dalla nota di Castelli, ecco che la richiesta del passo indietro a Savona diventa la posizione ufficiale di Di Maio dopo un incontro al Quirinale con il capo dello Stato. 

La mossa a sorpresa del capo M5s, dovuta al timore per un arretramento nei sondaggi e per gli scricchiolii della sua leadership interna (ieri nell’assembla dei gruppi parlamentari grillini per la prima volta si sono alzate voci di critica), è tale da aver riaperto i giochi. Ora, come si dice con una metafora abusata, il «cerino» è in mano al segretario leghista. Se accetta di spostare Savona, già domattina – come maliziosamente gli suggerisce il grillino Fraccaro – potrà sedersi al Viminale per iniziare a espellere i clandestini. Altrimenti sarà sua la responsabilità di aver fatto precipitare il Paese alle urne in piena estate, con tutti i rischi del caso. L’alternativa Cottarelli è infatti piena di incognite. Chi dovrebbe votare il governo del Presidente? Nessuno. Né Salvini, né tantomeno i grillini. Persino il Pd si è chiamato fuori, per non farsi massacrare in campagna elettorale a causa del sostegno all’ennesimo governo tecnico. 

Secondo la Costituzione se un governo non ottiene la fiducia e non esiste un’altra maggioranza, il Capo dello Stato ha il dovere di procedere senza indugio allo scioglimento delle Camere. Traccheggiare per far piacere a Salvini e trascinare la legislatura fino a settembre appare impervio. Ieri in Transatlantico fiorivano congetture su ipotetici ordini del giorno, sottoscritti da tutte le forze politiche, per chiedere al Presidente di «procrastinare» lo scioglimento e consentire così alle Camere di approvare una mini-manovra per scongiurare almeno l’aumento dell’Iva e arrivare al voto a fine settembre. Perfino se il Capo dello Stato prendesse in considerazione questa ipotesi, sarebbe del tutto evidente la debolezza di un espediente ai limiti della costituzionalità. 

Per Mattarella la soluzione più lineare resta quella del «governo politico» affidato ai vincitori del 4 marzo. Ecco perché ha deciso di aspettare ancora prima di far suonare la campanella dell’ultimo giro. Stavolta ha dalla sua parte nuovamente Luigi Di Maio, che ha capito di aver commesso un errore strategico con la richiesta di impeachment e, da politico ormai navigato, ha fatto marcia indietro senza pensare all’orgoglio personale. Chissà quanto deve essergli infatti costata ieri quella salita al Colle che somigliava tanto a un’andata a Canossa. Ma nella guerra di nervi con Salvini, Di Maio ieri ha segnato un punto. La parola ora è al leader della Lega. Mattarella intanto ha già vinto la sua mano: se anche il M5s arriva a chiedere a Savona di fare un passo indietro, evidentemente le questioni poste dal Colle non erano peregrine; e dopotutto far partire il «governo del cambiamento» dovrebbe essere per Salvini un obiettivo più importante che impuntarsi sulla casella del professor Savona.

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Da - http://www.lastampa.it/2018/05/31/cultura/mattarella-un-cuneo-fra-i-sovranisti-ewBaPKevXYnByVo6suI13O/pagina.html
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« Risposta #126 inserito:: Agosto 02, 2020, 05:20:17 pm »

La sfida di Di Maio al premier

01 AGOSTO 2020

DI FRANCESCO BEI


Il modo in cui un leader politico si misura con la gestione di un'emergenza è spesso uno strumento utile per valutarne il profilo, la tenuta, l'ambizione o lo scopo che si prefigge. È stato così per Giuseppe Conte, che attraverso il crogiuolo della pandemia ha compiuto la sua metamorfosi da "avvocato del popolo" del governo giallo-verde a "punto di riferimento dei progressisti" (per usare un'espressione in voga nel gruppo dirigente del Pd). E potrebbe essere lo stesso per Luigi Di Maio, un giovane leader ancora in cerca di un'identità politica compiuta. Il quale in questi giorni, con una serie di interventi sempre più incisivi sulla nuova ondata di migranti, sta emergendo sulla scena dopo essere rimasto per mesi fuori fuoco.

Esistono diverse chiavi di lettura di questo protagonismo del ministro degli Esteri, in chiave interna al Movimento Cinque Stelle, nel rapporto con Conte e, in fine, nella relazione con il Pd e il suo vertice. Ma intanto va sgombrato il campo da una prima impressione frettolosa riguardo alle sue uscite. Il fatto che abbia sentito il bisogno di parlare a ridosso della missione di Luciana Lamorgese in Tunisia non significa che il bersaglio sia la ministra dell'Interno. Nessun controcanto. Anzi, i grillini vicini a Di Maio assicurano che i due viaggiano in sintonia, tanto che ancora ieri si sono sentiti per concordare la linea e starebbero lavorando a una nuova visita a Tunisi, questa volta insieme e accompagnati dal commissario Ue all'Immigrazione e dall'Alto rappresentante per la sicurezza. Per provare a trasformare un dramma per ora solo italiano in problema comune.

Appurato che Lamorgese, ministra "tecnica", non è la sagoma nel mirino del collega della Farnesina, è evidente che l'attivismo dimaiano ha un altro scopo. Di fatto più i toni del ministro degli Esteri crescono, più viene in luce, in parallelo, l'inabissamento pubblico del presidente del Consiglio sull'immigrazione.

Una materia che, a differenza del Covid, non prevede vie d'uscita di breve-medio periodo e porta più oneri che onori. Curiosamente, sia dalle parti del Pd che da quelle Di Maio si odono le stesse lamentele a mezza bocca sulla scarsa "proattività" del premier su questo tema, quasi che il raddoppio degli sbarchi fosse solo un problema del Viminale o delle forze politiche della maggioranza e non di palazzo Chigi.

Ma è chiaro che la questione immigrazione, oltre a misurare la distanza tra Di Maio e Conte, è anche il pantografo grazie al quale il ministro degli Esteri sta provando a profilare la sua identità politica di leader moderato in un delicatissimo momento di passaggio del Movimento Cinque Stelle. La creatura di Grillo e Casaleggio è infatti nel pieno di una tumultuosa trasformazione dall'esito ancora incerto (prova ne sono le battaglie di questi giorni tra le diverse correnti).

È una crisi di maturità inevitabile e troppo a lungo rimandata, che ora ha un punto di approdo in autunno negli Stati Generali e nella definizione di un nuovo assetto di leadership dopo il "governatorato" di Vito Crimi. La prima mano di questa partita è finita in pareggio. Conte, che pensa a un rapporto stabile e organico con il Pd e Leu, si è speso personalmente per l'alleanza alle Regionali tra M5S e sinistra, ma ha ottenuto il punto solo in Liguria.
Di Maio è infatti riuscito a sabotare l'alleanza pre-elettorale nelle altre Regioni, a partire da quella di provenienza di Conte, la Puglia. Pari e patta. Ora siamo alla vigilia del matchpoint e Di Maio - a partire dal contrasto agli sbarchi clandestini - sta chiaramente piantando i paletti identitari di un movimento di centro che guarda a destra. O che, in ogni caso, non intende lasciare a Salvini e Meloni, come ha notato ieri su queste colonne Stefano Folli, il monopolio della sicurezza e della linea dura sull'immigrazione. Conte invece - pensiamo solo alla serata illuminante con i ragazzi del Cinema America - è ormai pienamente nel ruolo di novello Prodi, nella prospettiva di un Movimento Cinque Stelle che, insieme al Pd, rifondi un centro-sinistra da proiettare anche nella prossima legislatura. In questo il premier intercetta e completa il disegno strategico del Partito democratico.
È proprio dall'esito di questa battaglia identitaria che vede protagonisti Conte e Di Maio che si capirà non solo il destino del M5S - una forza che comunque ha trovato un suo bacino stabile di elettori - ma anche, probabilmente, il futuro e la durata dell'esecutivo.

da repubblica
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