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Autore Discussione: Vittorio Carlini. Trichet si smarca dalla politica ultra-espansiva di Bernanke..  (Letto 2694 volte)
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« inserito:: Agosto 29, 2010, 09:10:48 am »

Trichet si smarca dalla politica ultra-espansiva di Bernanke: il problema è il debito

di Vittorio Carlini

Questo articolo è stato pubblicato il 28 agosto 2010 alle ore 15:08.

   
Ha dato il «la» Ben Bernanke, affermando che la sua Fed è «pronta a misure straordinarie» per contrastare il rallentamento dell'economia. Poi ha continuato, sempre nella valli del Wyoming a Jacson Hole, Jean Claude Trichet. Il presidente della Banca centrale europea, nel simposio tra banchieri ed economisti organizzato dalla "riserva" di Kansas City, ha però preso una strada un po' diversa (leggi l'intervento in iglese): ha sottolineato che i governi rischiano di dar vita «a un decennio perduto», se ritardano nel contrastare la crescita dei debiti pubblici causati dalla crisi finanziaria. Certo, non c'è lo stop alle misure espansive di politica monetaria. Tuttavia, l'accento è posto su un maggiore rigore riguardo alle finanze pubbliche.

Le lezioni del passato
«La lezione che arriva dal passato - dice Trichet - ci insegna che affrontare l'eredità dei disavanzii pubblici non è soltanto un dovere ma anche la condizione necessaria per poter sostenere un recupero dell'economia». «Il primo nostro obiettivo devess'ere quello di non permettere che si ricada in un altro decennio perduto», come quello che, almeno sul fronte borsitisco, si è ormai concluso.

Il richiamo all'austerity fiscale contrasta, da un lato, con l'impostazione del presidente Barack Obama, che ha come primo obiettivo la spinta all'economia costi quel che costi ( o quasi); ma, dall'altro, si mette di traverso alla chiamata "alle armi" della liquidità formulata dal collega Bernanke. Mr. Bce ha mantenuto ferma l'impostazione di Eurotower di non indicare né propri outlook economici né strategie di politica monetaria in una settimana che vede appuntamenti rilevanti di diverse istituzioni su questi temi.

La riduzione del debito
Sul più lungo periodo, Trichet ha sottolineato che «la riduzione del debito tra i consumatori, i governi e gli imprenditori è essenziale per garantire il ritorno alla stabilità». L'impostazione di Trichet è, ovviamente, influenzata dalla storia recente del debito pubblico in Eurolandia, e non solo. «Alla fine di quest'anno il livello del debito pubblico, in Europa, sarà salito del 20% rispetto al 2007, mentre in Giappone e negli Stati Uniti sarà cresciuto del 40%», ha detto Trichet. Il quale, poi, ha dato un uleriore affondo: «Qualcuno - ha detto -suggerisce che nel breve periodo l'outlook economico suggerisce più deficit-spending e che il dibatito sul debito, per adesso, deve essere accantonato».

Vivere all'infinito con i debiti è sbagliato
«Così facendo -ha aggiunto il presidente della Bce - rischiamo di instradarci lungo una china molto pericolosa»,; rischiamo di finire come il Giappone quando le banche contribuirono a rendere debole l'economia, mantenendo in vita aziende tecnicamente fallite o non "protestando" prestiti non più esigibili. «Così l'opzione di "vivere con il debito" all'infinito non è una soluzione. Porterà solo ad avere più guai».

©RIPRODUZIONE RISERVATA
http://www.ilsole24ore.com/art/finanza-e-mercati/2010-08-28/trichet-smarca-politica-ultraespansiva-143253.shtml?uuid=AY3qseKC
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« Risposta #1 inserito:: Marzo 08, 2011, 03:38:26 pm »

L'enigma del prezzo della benzina.

Tra rendita dei paesi produttori, finanza e compagnie petrolifere

di Vittorio Carlini

Questo articolo è stato pubblicato il 02 marzo 2011 alle ore 08:03.

   
«Benzina mia, ma quanto mi costi!». Molti consumatori-automobilisti venerdì scorso, e poi il lunedì successivo, hanno imprecato. Una reazione pavloviana: prima alla mossa dell'Eni, che ha portato il prezzo consigliato della verde a 1,536 euro e quello del gasolio a 1,426 euro; poi, ai rialzi della stessa entità (2 centesimi) decisi da Shell, Tamoil e TotalErg. Senza dimenticare, peraltro, la IP che ha rincarato addirittura di circa 2,2 cent la benzina e 2 il diesel.

Al di là dello stato d'animo degli automobilisti, i numeri racchiudono la risposta dei petrolieri ai problemi causati dalla rivolta in Libia. Una mossa che "provoca" la domanda, scontata: si tratta di rincari giustificati dalle condizioni di mercato, in particolare dalla crisi scoppiata in Medio Oriente e nel Nord africa?

La struttura del prezzo di un litro di benzina
Per rispondere al quesito, fondamentale è analizzare la struttura del prezzo di un litro di carburante,contraddistinto dalle seguenti voci:
A) Il prezzo internazionale del carburante, detto Platts (dal nome della piattaforma privata dove si incrociano domanda e offerta), che indica il costo della materia prima e che vale circa il 35% del totale;
B) Il margine lordo dell'industria petrolifera (10%);
C) La tassazione (accise e Iva) che pesa per circa il 55%.

Il valore "ottimale" alla pompa
Ebbene, secondo lo studio settimanale pubblicato da Nomisma Energia al 28 febbraio 2011, il Platts valeva 53,08 centesimi al litro; il margine medio lordo 15,05, le accise 56,4 e l'Iva (20%) 24,9 cent. Il che significa, sempre per Nomisma, un prezzo ottimale alla pompa di 149,43 centesimi per un litro di verde. Un valore, insomma, inferiore a quello medio effettivo (150,8) rilevato dal Ministero per lo sviluppo economico.

I costi industriali
Ma non è solo questione di Platts o margini medio lordi. Per rendersene conto basta un esercizio, puramente teorico, utile a capire tra quali pieghe produttori e operatori riescono a fare soldi. Quale? È sufficiente ragionare come il signor Rossi che, quando si fa i conti in tasca, procede in maniera molto semplice: definisce quant'è il suo reddito (i suoi ricavi); quali le sue spese (i costi) e, facendo la banale sottrazione, individua il suo "profitto". Ebbene, riconducendo il tema del prezzo della benzina al rapporto tra ricavi e costi industriali, come farebbe il signor Rossi, salta fuori un elemento interessante.

«In media - spiega Davide Tabarelli Presidente di Nomisma Energia - il greggio di buon livello, per esempio dell'Algeria, ha un costo industriale di estrazione di circa 3 dollari al barile. A questi, se ne devono aggiungere altri 2 per il trasporto verso la raffineria, la quale ne spenderà circa 3 nella realizzazione dei diversi derivati del barile. In totale siamo a 8 dollari al barile che, se calcolato in Platts, significa un prezzo di 3 centesimi al litro». Cioè, a livello puramente teorico, il prezzo del carburante sui mercati internazionali definito attraverso i soli costi industriali è a un livello infinitesimamente minori di quelli del Platts. A costi così bassi, il signor Rossi potrebbe fare moltissimi profitti, e partire per le Haway.

Certo, può obiettarsi: il raffronto non deve essere fatto direttamente perché c'è petrolio e petrolio; la filiera, inoltre, può avere colli di bottiglia; il mercato, poi, ha mille "frizioni" che giustificano un Platts più elevato. Tuttavia, pur facendo mille distinzioni, non si arriverà mai a quei livelli di prezzo internazionale presi come punto di partenza per calcolare quanto paghiamo un litro di verde.

La rendita dei paesi produttori
E allora, come giustificare una simile situazione? «Nel Platts - risponde Tabarelli - la parte più rilevante della quotazione è costituita dalla rendita pagata ai paesi produttori: cioè, il margine incassato dagli stati che possiedono pozzi petroliferi». Cui deve aggiungersi la finanziarizzazione della domanda. In una testimonianza di fronte al Congresso Usa, Michael Masters, importante gestore di hedge fund, già nel 2008 indicava l'effetto della domanda speculativa sui prezzi delle commodity: basta ricordare che gli asset allocati nelle strategie di trading sui commodity index è passato da circa 13 miliardi di dollari nel 2003 a 260 miliardi nel marzo del 2008.

«È un elemento dominante - conferma Tabarelli-. Di recente a Londra, durante l'International petroleum industry week, girava una battuta: il prezzo del petrolio è definito dalla domanda; gli elementi dell'offerta, cioè i costi di produzione, sono quasi indifferenti». Col che, ovviamente, i problemi si moltiplicano. Non è la solita questione "moralista" (che pur esiste) della speculazione, che dà anche profondità al mercato. Tutt'altro. Sono i mille e più mille prodotti finanziari legati alle commodity, rispetto ai quali molte proposte di riforma sono state fatte, ma nessuna si è trasformata in fatti concreti. Tanto che lo stesso Pasquale De Vita, presidente dell'Unione Petrolifera sottolinea: «Sicuramente qualcosa va fatto. Si tratta di rendere le transazioni più trasparenti ed evitare che le Borse si trasformino in una scommessa continua. Ciò non vuol dire, però, penalizzare gli operatori ma semmai garantirli».

...la liquidità di Bernanke e la finanziarizzazione del barile...
Già garantirli. L'obiettivo non è facile. Soprattuto col costo del denaro pari a zero e a fronte di quell'eccesso di liquidità, voluta dalla Fed, sempre in caccia di maggiore remunerazione. «Un più alto ritorno - dice Sergio Pigoli, consulente indipendente- che viene trovato nelle commodity, petrolio compreso. È il modo attraverso cui Ben Bernanke, ben consapevole di come le materie prime siano ormai anche e soprattutto degli asset finanziari, tenta di scaricare parte dell'effetto inflattivo della sua politica ultra-espansiva». Certo, la conseguenza sulla bolletta energetica si fa sentire ma la scommessa è proprio quella: giocare sul filo del rasoio tra inflazione e spinta all'economia.

...e i profitti delle compagnie petrolifere
Infine, last but not least, «nella differenza tra il Platts calcolato sui costi industriali - dice Tabarelli - e quello reale c'è anche la remunerazione dell'attività mineraria delle compagnie petrolifere, che può valere tra i 3-4 centesimi al litro».

Un margine che i petrolieri non considerano elevato: «Il prezzo della benzina non può direttamente collegarsi a quello del petrolio, che va raffinato e poi distribuito con tutti i costi industriali associati - ribatte De Vita-. Sicuramente c'è un "eccesso" di margine per i paesi produttori. Per chi distribuisce invece il margine non arriva all'1% del prezzo finale, uno dei più bassi tra attività industriali così complesse». Le associazioni dei consumatori, su questo punto, non sono daccordo: ma è noto, la querelle non si esaurirà certamente con un semplice articolo come questo.

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da - ilsole24ore.com/art/economia
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« Risposta #2 inserito:: Marzo 22, 2011, 10:26:40 pm »

Buffett sul Giappone:il terremoto un'occasione per comprare -

Come guadagnare sul costo del denaro

di Vittorio Carlini

Questo articolo è stato pubblicato il 21 marzo 2011 alle ore 12:52.

 
Warren Buffett non cambia idea sul Giappone. Il terremoto? Una occasione per comprare


Certo, le parole «...an extraordinary event, really creates a buying opportunity» («un evento eccezionale, crea veramente un'opportunità d'acquisto») saranno state estrapolate dal discorso. Certo, la premessa (non abbiamo motivo di dubitarlo...) sarà stata una mozione di sentimento che esprime vicinanza alla popolazione, alla gente che ha perso tutto, alle persone che, dopo lo tsunami, devono affrontare il pericolo nucleare. Tuttavia, non può non far "specie" sentire Warren Buffett parlare in simili termini della Borsa di Tokyo. Si sapeva: il crollo dei corsi azionari, subito dopo la catastrofe, si sarebbe prima o poi fermato, lasciando il posto al rimbalzo tecnico (dal terribile venerdì il Nikkei ha perso il 12%). È quello che in questi giorni sta parzialmente succedendo. Un segnale, seppure solo a livello finanziario, di ripresa. Quella ripresa, non solo economica, che tutti sperano possa coinvolgere i villaggi, le persone, le comunità distrutti dal terremoto e dall'acqua.

Un obiettivo, peraltro, cui la stessa strategia di Buffett può contribuire: invece di vendere, si acquista o si mantengono le posizioni;
e questo può dar carburante per la rimonta. «Ci vorrà del tempo per la ricostruzione - ha detto Buffett-, ma ciò non cambia il futuro economico di questa nazione. Se avessi azioni giapponesi certamente non le venderei adesso per quello che è successo dieci giorni fa».
Tutto sensato, tutto "cinicamente" utile all'economia giapponese. E, tuttavia, se il denaro non dorme mai, forse sarebbe meglio si fermasse un momento, almeno nelle parole. Anche la forma, alle volte, conta. Spiace dirlo, ma il Giappone non «è un'occasione d'acquisto», Mr Buffett.

Non ci sono solo azioni, titoli e obbligazioni. Ci sono anche le persone. Come quei 1.400 dipendenti, della fabbrica di Tungaloy (macchinari per la lavorazione del legno), al momento tutti evacuati per il rischio di contaminazione radioattiva. Un gruppo di proprietà della Iscar Metalworking che il fondo Berkshire ha acquistato (detiene l'80%) nel 2006 per quattro miliardi di dollari. Un impianto che Buffett-persona, naturalmente, non visiterà nel suo viaggio nel Far East. E che, invece, Buffett-investitore manterrà in portafoglio. Una strategia utile, ma non riconducibile alla «buy opportunity».
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