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Autore Discussione: ALEXANDER STILLE.  (Letto 57730 volte)
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« Risposta #45 inserito:: Novembre 30, 2012, 11:33:51 am »


17
nov
2012

I giornalisti e le previsioni elettorali: Mea Culpa

 Alexander STILLE


Nel giornalismo, a differenza di altri mestieri, raramente si paga un prezzo per i propri errori.

Spesso grandi firme del giornalismo proclamano una certa posizione con toni di assoluta certezza per poi dire l’esatto contrario sei mesi dopo, con lo stesso tono, e senza una parola di autocritica.

Le elezioni dovrebbero essere un buon momento per una resa dei conti, perché spesso chi fa il nostro mestiere ama previsioni che poi si rivelano giuste o sbagliate. In questo caso, vorrei fare un mea culpa.

Su Repubblica del 10 dicembre 2010, ho scritto: “Spero di aver torto, ma temo proprio che questa settimana il governo Obama abbia firmato la sua condanna a morte. Ha raggiunto un compromesso con i Repubblicani che sembra una resa, poiché ha esteso i tagli delle tasse varate da George W. Bush.”

Ovviamente la previsione è risultata sbagliata. Continuo a pensare che l’estensione dei tagli di Bush sia stata un errore – è infatti di nuovo all’ordine del giorno dopo queste elezioni, e ora Obama sembra adottare una linea più dura. Forse allora, preso dalla rabbia e dalla delusione del momento, ho giudicato troppo aspramente un compromesso sgradevole fatto in un contesto politico molto difficile.

Sarebbe comunque divertente e illuminante stilare un elenco delle previsioni più clamorosamente sbagliate e dei voltafaccia più significativi, sia del giornalismo italiano sia di quello americano.

Alcune osservazioni sulle elezioni americane:

1.) Sembra emergere una maggioranza democratica abbastanza solida nel paese, grazie a cambiamenti demografici piuttosto profondi. L’aumento costante della popolazione ispanica e di altri gruppi di immigrati, che tendono a votare in modo massiccio per i democratici, riflette la realtà sempre più vicina che gli Stati Uniti saranno tra un paio di decenni un paese dove le minoranze sono una maggioranza.

2.) Dopo lo smacco alle urne, i Repubblicani cercano il colpevole del loro risultato negativo. Ci sono sostanzialmente due campi: quelli che attribuiscono la responsabilità della sconfitta a Mitt Romney, visto come un candidato incapace, che solo alla fine è riuscito a dare un po’ di vita alla sua campagna elettorale. Altri invece danno la colpa allo spostamento sempre più a destra del partito repubblicano, che si è rivelato non in sintonia con la grande maggioranza degli americani. Sono valide un po’ tutte e due le tesi, perché i problemi sono legati. Negli ultimi trent’anni il partito repubblicano ha abbracciato un liberismo piuttosto spietato, abbinato a un’ostilità spesso dichiarata verso tutte le esperienze sociali, di cui beneficiano in pratica quasi tutti gli americani. Questo spirito antigovernativo ha spesso una tinta leggermente razzista, e spesso neppure tanto leggermente, in cui le minoranze nere ed ispaniche sono dipinte come lazzaroni che aspettano l’elemosina dello stato. Questa posizione molto ideologica, che non tiene conto della complessità dei rapporti intrecciati tra stato, mercato e società civile, ha dato l’impressione di un partito sostanzialmente interessato a tagliare le tasse per i ceti più ricchi e che disprezza le categorie meno fortunate. Queste posizioni, rafforzate da un atteggiamento molto ostile nei confronti delle nuove ondate di immigrazione, e da una rigidità sempre più marcata su questioni sociali come l’accesso all’aborto e alla contraccezione e i diritti degli omosessuali, relegano i repubblicani in una posizione di netta minoranza. Romney è stato un candidato debole, anche perché per adeguarsi ad un partito sempre più estremista ha dovuto sposare molte di queste posizioni, rimangiandosi una buona parte della sua carriera passata. Questo lo ha reso un candidato non autentico e poco convincente, sia per la destra sia per il resto del paese. Sembrava aver trovato la sua voce alla fine della campagna elettorale, assomigliando di nuovo al governatore moderato del Massachusetts. Però se fosse stato cosi per tutta la campagna elettorale non avrebbe vinto le primarie e avrebbe scatenato una rivolta della base repubblicana, mettendo sempre più in evidenza le contraddizioni del partito.

3.) Questa era un’elezione che i Repubblicani avrebbero dovuto vincere.  Il partito di opposizione durante una recessione grave è di solito in vantaggio, come è avvenuto in Francia per esempio. Con un programma convincente e un candidato plausibile, battere Obama era più che possibile. E’ su questo i Repubblicani devono riflettere molto, se non vogliono rimanere all’opposizione per molto tempo.

da - http://stille.blogautore.repubblica.it/2012/11/17/i-giornalisti-e-le-previsioni-elettorali-mea-colpa/
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« Risposta #46 inserito:: Dicembre 08, 2012, 05:01:43 pm »


8
dic
2012


Berlusconi, dalla tragedia alla farsa

 Alexander STILLE

La storia si ripete prima come tragedia poi come farsa, scriveva Marx a proposito di Luigi Napoleone. Ma che dire di un Berlusconi che si presenta come candidato premier per la sesta volta, cercando di tornare come primo ministro per la quarta volta, dopo tre mandati completamente fallimentari? E’ una scena patetica per certi versi, come un attore su cui è calato il sipario sotto una tempesta di fischi, che cerca di tornare sul palcoscenico.

La ricandidatura di Berlusconi era del tutto scontata: così malato di protagonismo, ancora drogato di megalomania, nonostante i suoi ripetuti fallimenti non poteva fare a meno di ripresentarsi. Era impensabile che lui potesse guardare dalla panchina mentre lasciava giocare una squadra capeggiata dal suo successore prediletto, Angelino Alfano.

Se c’è un filo conduttore in tutte le azioni politiche di Berlusconi è di fare sempre e comunque gli interessi di Berlusconi e mai quelli della collettività. Il suo protagonismo ha fatto sì che nessun cespuglio potesse mai crescere per diventare albero sotto l’enorme ombra che lui proietta da vent’anni sul centrodestra italiano.

Così come Crono che mangia i propri figli, Berlusconi semina caos tra le file della sua creatura, il Popolo della libertà.

Stride il contrasto tra il tentativo di restaurare forme di democrazia interna in altri partiti e la maniera del tutto monarchica in cui Berlusconi ha annunciato la sua seconda “discesa in campo”. Nessuna consultazione all’interno degli organi direttivi del partito ma una mossa puramente personale. Non lo annuncia neppure lui in persona ma manda Alfano, come una specie di maggiordomo. Indicative anche le parole usate dal segretario del Pdl: “Anche oggi Berlusconi mi ha espresso la volontà di tornare in campo da protagonista. E’ lui il detentore del titolo. E’ stato lui l’ultimo ad alzare la coppa. Le primarie erano per la successione, ma essendoci lui in campo non ha senso farle”. Interessanti i termini scelti da Alfano: “Berlusconi mi ha espresso la volontà di tornare in campo da protagonista.” Tutto personale, uomo a uomo e la voglia di essere protagonista. Poi, le continue metafore sportive, “tornare in campo” “detentore del titolo” “alzare la coppa”, come se guidare l’Italia forse tutto  un gioco per la gloria personale del giocatore. E quando mai, anche nello sport, un giocatore non deve neppure competere per rimanere capo di una squadra, come se un atleta delle Olimpiade del 2008 venisse messo a fare il capitano della squadra nazionale senza doversi misurare con i suoi concorrenti?

Ormai non ci credono neppure quelli pagati per credere. Diceva qualche mese Vittorio Feltri: “Berlusconi è bravissimo a vendere il prodotto, persino a immaginarlo. Ma non è capace di farlo. Pensa all’etichetta, alla confezione, alla rete distributiva, ma di quel che c’è dentro, lo dimostra il suo ventennio, gli importa poco.”

da - http://stille.blogautore.repubblica.it/2012/12/08/berlusconi-dalla-tragedia-alla-farsa/?ref=HREA-1
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« Risposta #47 inserito:: Febbraio 24, 2013, 04:06:44 pm »


21
feb
2013

Intelligenza e talento: contro Dario Fo

Alexander STILLE

L’appoggio pubblico di Dario Fo a Beppe Grillo dimostra ancora una volta che il talento e l’intelligenza sono due qualità molto diverse, spesso lontane. Fo è un uomo di teatro davvero brillante; quando recita, entra dentro un personaggio sul palcoscenico, sembra impossessato da un genio comico. Ma quando da uomo normale apre bocca a parlare della politica si rivela un uomo profondamente normale, anzi banale. Esprime sempre i luoghi comuni della sinistra extraparlamentare degli anni settanta – una cultura ingessata e sclerotica – dimostrando di non aver imparato mai nulla.

Gente che ha sbagliato tutto, o quasi, convinta non di aver sbagliato mai. Protetta di un invincibile senso della propria giustizia contro ogni incursione della realtà. Mi ricordo vari spettacoli di Fo e Rame alla palazzina Liberty di Milano nei primi anni ottanta, durante il periodo più buio degli anni di piombo: in uno spettacolo hanno raccontato di un operaio costretto a rubare dalla miseria, la fame e la spietatezza del padrone capitalista.

Fu un tentativo non molto sottile di giustificare la violenza terroristica e “i furti proletari” come frutto inevitabile della disperazione materiale, mentre la realtà di quei tempi era del tutto diversa: l’Italia stava sperimentando un benessere sempre più diffuso, un periodo di crescita economica accelerata che stava minando la possibilità di una rivoluzione popolare.

Il terrorismo piuttosto che una necessità materiale fu una scelta politica da parte di vari leader della sinistra extraparlamentare i quali, avendo capito che il Partito Comunista – e con esso la stragrande maggioranza della classe operaia – si stava spostando verso posizioni socialdemocratiche decisero che l’unica strada rimasta aperta verso la rivoluzione era la violenza.

Mi ricordo bene che dopo gli spettacoli di Fo, raccoglievano soldi per il “soccorso rosso,” facendo discorsi pietosi sui “poveri” amici – ex-capi di Potere Operaio, Lotta Continua e Autonomia che hanno dovuto fuggire in Francia per sottrarsi a processi per terrorismo.

Mai un cenno alle barbarie delle Brigate Rosse o di Prima Linea e delle responsabilità politiche e morali dei loro amici che hanno mandato allo sbaraglio una fetta importante della loro generazione: prese alla lettera le prediche e gli scritti sulla necessità della lotta armata. Ed eccoci trent’anni dopo con Beppe Grillo – non per paragonare Grillo ai capi della sinistra extraparlamentare – sempre con le arringhe di un mondo ultra-semplificato, del popolo “buono” e i soliti cattivi, di demagogia vuota senza programmi e senza prospettive.

Sarebbe bello vivere nel mondo dei demagoghi di destra e sinistra – un mondo in cui non si pagano le tasse ma i servizi sono tutti gratis; in cui le università sono aperte a tutti (gratis) e a ognuno è garantito un buon lavoro dopo la laurea; non si sfrattano quelli che non pagano il mutuo e non si paga l’IMU; dove non puoi essere licenziato dal lavoro ma l’economia cresce e c’è benessere per tutti. Dove la politica si riforma sostituendo cittadini normali ai soliti politici di professione – (abbiamo visto con la Lega com’è finita). Ma il mondo reale dove viviamo è purtroppo molto più complesso ed è un mondo di scelte difficili, a volte dolorose, e di compromessi.

da - http://stille.blogautore.repubblica.it/2013/02/21/intelligenza-e-talento-contro-dario-fo/
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« Risposta #48 inserito:: Febbraio 26, 2013, 05:24:05 pm »


26
feb
2013

Riflessioni sul voto

Alexander STILLE

I risultati di oggi portano ad alcune riflessioni ma non sono necessariamente nefasti. Il successo straordinario del Movimento 5 Stelle di Beppe Grillo è solo l’ultimo e il più forte grido di protesta contro un sistema partitico malato che si trascina avanti da moltissimo tempo.
Il fenomeno della Lega lombarda nei primi anni ’90, le picconate di Francesco Cossiga contro la cosiddetta partitocrazia, e poi l’esplosione di tangentopoli nel ‘92 furono già ammonimenti molto chiari di una forte voglia di cambiamento. I partiti tradizionali sono stati lenti e spesso sordi nel voler cogliere il pieno significato di questo malessere molto diffuso, e il successo del movimento di Grillo è la dimostrazione chiara che questo problema non può più essere rimandato.

D’altra parte sorprende la relativa tenuta di Berlusconi, che, pur perdendo diversi punti rispetto al 2008, ha evitato il crollo previsto ed è riuscito ad ottenere un risultato che sembrava quasi inimmaginabile alcune settimane fa. Questo voto va però nel senso assolutamente contrario del voto per il M5S ed è numericamente un voto più grande. Il berlusconismo ha rappresentato la difesa degli elementi peggiori del vecchio sistema partitico. La legge elettorale con cui si è votato, e che Berlusconi ha rifiutato di modificare, è una legge che toglie la possibilità ai cittadini di scegliere i propri rappresentanti e mette i segretari e i capi dei partiti in posizione decisiva per decidere chi va al potere, quindi è un facile strumento di clientela che conosciamo fin troppo bene. Per di più, Berlusconi ha difeso un sistema di conflitto di interessi di scala nazionale che è uno dei punti chiave del programma di Grillo. Grillo ha anche proposto il divieto ai candidati condannati in primo grado, che metterebbe fuori gioco una bella fetta dei candidati di centrodestra, compreso il loro capolista Berlusconi stesso.

L’insuccesso della coalizione di Mario Monti sorprende assai meno, seppur forse un po’ ingiusto. A Monti è toccato il compito ingrato di mettere in sesto i conti dello Stato in un momento di crisi economica mondiale, senza un appoggio politico proprio. E’ stato quindi come un medico che ha dovuto somministrare medicine amare, e in una situazione economica di prolungata crisi si capisce facilmente perché la gente non voglia prenderne di più. Uno dei chiari messaggi è che la politica europea dell’austerità ha finora peggiorato la qualità di vita della maggioranza dei cittadini, ed è giusto che la politica discuta delle possibilità per dare prospettive migliori per i cittadini normali, sia lavoratori che disoccupati, e non solo gli interessi dei mercati finanziari e delle banche, eccetera.

Per il Partito Democratico di Pier Luigi Bersani è una vittoria sobria: alcuni possono parlare di sconfitta, e sicuramente i dirigenti di quel partito speravano in un margine di vittoria migliore e in uno spazio di manovra maggiore. Detto ciò, la coalizione di centrosinistra sembra emergere comunque come la prima del Paese, e Pd e Sel sono i partiti a cui il maggior numero di italiani ha dato il compito di interpretare e gestire in termini concerti quello che dovrebbe uscire da questo risultato contraddittorio e complesso.

Nella migliore delle ipotesi il successo del Movimento 5 Stelle e il bisogno di trattare con loro per formare il governo di cui il paese ha bisogno potrebbe indurre i leader del Pd a riflettere seriamente su alcune forme più radicali e di uscire un po’ dall’atteggiamento, comprensibile per chi sta dentro la macchina governativa da molto tempo, di semplicemente gestire un pò meglio l’esistente, e di pensare un po’ in termini ambiziosi. Mettersi d’accordo con il movimento di Grillo su alcuni punti per ridurre il costo della politica, ridurre seriamente il numero di deputati e senatori, i livelli duplicati di governo, una legge seria sul conflitto di interessi, un piano economico che privilegia di più la crescita rispetto all’austerità, sono tutti temi su cui potenzialmente si più trovare un terreno comune. D’altra parte è un momento di prova anche per il movimento di Grillo, di dimostrare capacita ancora non viste di dialettica e di compromesso con persone che fino all’altro ieri erano considerate zombie e vampiri. Ci sono elementi nella retorica di Grillo e di altri del suo movimento che sono chiaramente impraticabili. Per esempio, Grillo ha parlato della possibilità di non pagare il debito pubblico o di pagarne solo parte, ma bisogna anche fare i conti con il fatto che moltissime delle persone che possiedono titoli di stato sono semplici risparmiatori italiani, quindi si tratterebbe solo di togliere soldi da una tasca per metterli in un’altra, alle stesse persone. L’idea di pagare mille euro al mese a tutti i disoccupati quando la competitività dell’economia italiana è in calo da vent’anni è un idea con poco futuro, per cui auspichiamo che queste due forze politiche, che insieme costituiscono oltre 50% degli elettori italiani, e potenzialmente con il movimento di Monti oltre il 60%, si mettano a lavorare seriamente per fare tre o quattro cose importanti per il popolo italiano che li ha votati, e agiscano con grande senso di responsabilità. Solo allora qualcosa di buono potrebbe uscire fuori da queste elezioni storiche.

Come il Pd deve ascoltare il grido di protesta che rappresenta il M5S, il movimento di Grillo deve anche accettare che la voce del quasi 40% degli italiani che ha votato per il Pd e per Monti va rispettata.

Se invece il Pd non coglierà l’opportunità di questo momento e le persone elette nel movimento di Grillo si arroccassero in posizioni di pura intransigenza e su posizioni poco realistiche, il risultato sarà il caos totale, un disservizio vero verso la stragrande maggioranza degli italiani che vuole qualcosa di meglio e non solo la ripetizione dell’esistente, ma che vuole anche una certa stabilità e governabilità. Altrimenti queste forze faranno un grande regalo al berlusconismo, la forza che non vuole cambiare niente e che farà di tutto per approfittare del caos per proteggere i propri interessi e impedire che il paese progredisca.

da - http://stille.blogautore.repubblica.it/?ref=HREA-1
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« Risposta #49 inserito:: Marzo 04, 2013, 06:21:27 pm »


26
feb
2013

Riflessioni sul voto

Alexander STILLE

I risultati di oggi portano ad alcune riflessioni ma non sono necessariamente nefasti. Il successo straordinario del Movimento 5 Stelle di Beppe Grillo è solo l’ultimo e il più forte grido di protesta contro un sistema partitico malato che si trascina avanti da moltissimo tempo.
Il fenomeno della Lega lombarda nei primi anni ’90, le picconate di Francesco Cossiga contro la cosiddetta partitocrazia, e poi l’esplosione di tangentopoli nel ‘92 furono già ammonimenti molto chiari di una forte voglia di cambiamento. I partiti tradizionali sono stati lenti e spesso sordi nel voler cogliere il pieno significato di questo malessere molto diffuso, e il successo del movimento di Grillo è la dimostrazione chiara che questo problema non può più essere rimandato.

D’altra parte sorprende la relativa tenuta di Berlusconi, che, pur perdendo diversi punti rispetto al 2008, ha evitato il crollo previsto ed è riuscito ad ottenere un risultato che sembrava quasi inimmaginabile alcune settimane fa. Questo voto va però nel senso assolutamente contrario del voto per il M5S ed è numericamente un voto più grande. Il berlusconismo ha rappresentato la difesa degli elementi peggiori del vecchio sistema partitico. La legge elettorale con cui si è votato, e che Berlusconi ha rifiutato di modificare, è una legge che toglie la possibilità ai cittadini di scegliere i propri rappresentanti e mette i segretari e i capi dei partiti in posizione decisiva per decidere chi va al potere, quindi è un facile strumento di clientela che conosciamo fin troppo bene. Per di più, Berlusconi ha difeso un sistema di conflitto di interessi di scala nazionale che è uno dei punti chiave del programma di Grillo. Grillo ha anche proposto il divieto ai candidati condannati in primo grado, che metterebbe fuori gioco una bella fetta dei candidati di centrodestra, compreso il loro capolista Berlusconi stesso.

L’insuccesso della coalizione di Mario Monti sorprende assai meno, seppur forse un po’ ingiusto. A Monti è toccato il compito ingrato di mettere in sesto i conti dello Stato in un momento di crisi economica mondiale, senza un appoggio politico proprio. E’ stato quindi come un medico che ha dovuto somministrare medicine amare, e in una situazione economica di prolungata crisi si capisce facilmente perché la gente non voglia prenderne di più. Uno dei chiari messaggi è che la politica europea dell’austerità ha finora peggiorato la qualità di vita della maggioranza dei cittadini, ed è giusto che la politica discuta delle possibilità per dare prospettive migliori per i cittadini normali, sia lavoratori che disoccupati, e non solo gli interessi dei mercati finanziari e delle banche, eccetera.

Per il Partito Democratico di Pier Luigi Bersani è una vittoria sobria: alcuni possono parlare di sconfitta, e sicuramente i dirigenti di quel partito speravano in un margine di vittoria migliore e in uno spazio di manovra maggiore. Detto ciò, la coalizione di centrosinistra sembra emergere comunque come la prima del Paese, e Pd e Sel sono i partiti a cui il maggior numero di italiani ha dato il compito di interpretare e gestire in termini concerti quello che dovrebbe uscire da questo risultato contraddittorio e complesso.

Nella migliore delle ipotesi il successo del Movimento 5 Stelle e il bisogno di trattare con loro per formare il governo di cui il paese ha bisogno potrebbe indurre i leader del Pd a riflettere seriamente su alcune forme più radicali e di uscire un po’ dall’atteggiamento, comprensibile per chi sta dentro la macchina governativa da molto tempo, di semplicemente gestire un pò meglio l’esistente, e di pensare un po’ in termini ambiziosi. Mettersi d’accordo con il movimento di Grillo su alcuni punti per ridurre il costo della politica, ridurre seriamente il numero di deputati e senatori, i livelli duplicati di governo, una legge seria sul conflitto di interessi, un piano economico che privilegia di più la crescita rispetto all’austerità, sono tutti temi su cui potenzialmente si più trovare un terreno comune. D’altra parte è un momento di prova anche per il movimento di Grillo, di dimostrare capacita ancora non viste di dialettica e di compromesso con persone che fino all’altro ieri erano considerate zombie e vampiri. Ci sono elementi nella retorica di Grillo e di altri del suo movimento che sono chiaramente impraticabili. Per esempio, Grillo ha parlato della possibilità di non pagare il debito pubblico o di pagarne solo parte, ma bisogna anche fare i conti con il fatto che moltissime delle persone che possiedono titoli di stato sono semplici risparmiatori italiani, quindi si tratterebbe solo di togliere soldi da una tasca per metterli in un’altra, alle stesse persone. L’idea di pagare mille euro al mese a tutti i disoccupati quando la competitività dell’economia italiana è in calo da vent’anni è un idea con poco futuro, per cui auspichiamo che queste due forze politiche, che insieme costituiscono oltre 50% degli elettori italiani, e potenzialmente con il movimento di Monti oltre il 60%, si mettano a lavorare seriamente per fare tre o quattro cose importanti per il popolo italiano che li ha votati, e agiscano con grande senso di responsabilità. Solo allora qualcosa di buono potrebbe uscire fuori da queste elezioni storiche.

Come il Pd deve ascoltare il grido di protesta che rappresenta il M5S, il movimento di Grillo deve anche accettare che la voce del quasi 40% degli italiani che ha votato per il Pd e per Monti va rispettata.

Se invece il Pd non coglierà l’opportunità di questo momento e le persone elette nel movimento di Grillo si arroccassero in posizioni di pura intransigenza e su posizioni poco realistiche, il risultato sarà il caos totale, un disservizio vero verso la stragrande maggioranza degli italiani che vuole qualcosa di meglio e non solo la ripetizione dell’esistente, ma che vuole anche una certa stabilità e governabilità. Altrimenti queste forze faranno un grande regalo al berlusconismo, la forza che non vuole cambiare niente e che farà di tutto per approfittare del caos per proteggere i propri interessi e impedire che il paese progredisca.

DA - http://stille.blogautore.repubblica.it/2013/02/26/riflessioni-sul-voto/
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« Risposta #50 inserito:: Maggio 09, 2013, 11:55:19 pm »


3
mag
2013

Quel pasticciaccio a Montecitorio

 Alexander STILLE

Cerchiamo di capire qualcosa degli eventi davvero eccezionali delle ultime 2-3 settimane. Un mese fa Pier Luigi Bersani era il capo dello schieramento politico più forte e numeroso in Parlamento e stava provando a mettere insieme un governo. Ora è un ex-segretario di un partito frantumato e in profonda crisi, essendo stato costretto a fare quello che con grande risolutezza aveva negato: un governo di larghe intese con Silvio Berlusconi e la destra italiana. Vedere questo spettacolo – quasi come vedere qualcuno che commette harakiri in pubblico – è stato scioccante e tragico.

Subito dopo le elezioni del 24-25 febbraio, il Partito Democratico sembrava aver tratto qualche lezione utile. Aveva capito di aver pagato un prezzo troppo alto per il suo appoggio al governo Monti, alla politica di austerità imposta ad un paese già sprofondato in un serio disagio: senza che sacrifici analoghi fossero chiesti alla classe politica italiana.

Questa immobilità ha spianato la strada al grande successo del M5S di Beppe Grillo, che chiedeva con chiarezza la riduzione del numero dei parlamentari e dei loro stipendi, l’eliminazione dei governi provinciali e la fine della politica vecchio stile, fatta di accordi sottobanco e compromessi indicibili. “Abbiamo capito la lezione,” dicevano molti dirigenti del PD, promettendo che avrebbero offerto un’alternativa più chiara rispetto ai partiti di centro, tagliando fuori anche Berlusconi, l’incarnazione del non-cambiamento e dell’uso della politica per scopi personali.

Tragicamente, tra i deputati del PD e quelli del M5S c’erano i numeri per il primo governo di sinistra di questa repubblica: Bersani ha cercato di convincere il movimento di Grillo ad individuare cinque o sei punti condivisibili, base di un accordo politico. Ha incontrato soltanto l’intransigenza di Grillo, sottovalutando forse il controllo quasi totalitario del comico genovese sui neoparlamentari.

Va dato atto a Grillo di aver agito con coerenza nel rifiutare qualsiasi forma di alleanza politica coi partiti tradizionali, scommettendo che questo no avrebbe creato le condizioni per un cambiamento molto più radicale del sistema italiano. Vedremo se avrà avuto ragione. Nel frattempo, però, scommettendo sull’idea che ‘peggio va, meglio è’ corre molti rischi, e la possibilità che la perfezione sia nemica del bene potrebbe portare a conseguenze tragiche per il paese.

Il povero Bersani si è trovato poi davanti al grattacapo di eleggere un nuovo presidente della Repubblica e qui ha perso la testa. Per la meraviglia di tutti, ha fatto l’unica cosa che non avrebbe dovuto fare: intraprendere trattative private con Berlusconi tirando fuori il nome di Franco Marini, persona rispettabilissima ma inaccettabile come risposta al desiderio di rinnovamento, sia per la sua avanzata età sia per il metodo con cui è stato scelto. Bersani ha così provocato una rivolta interna al suo partito, bruciando anche la candidatura di Romano Prodi e portando alle proprie dimissioni e alla spaccatura del PD.

Come è arrivato a fare un errore del genere? Bisogna ammettere che la politica istupidisce e rende miopi anche le persone più intelligenti e di buona volontà. Bersani si è trovato invischiato nel mondo degli accordi e dei bilanciamenti politici, perdendo di vista la grande insoddisfazione del paese e la voglia di cambiamento. E’ davvero ironico che un’elezione condotta all’insegna del cambiamento porti alla rielezione di un capo di stato quasi novantenne.

Avendo ormai una paura matta del massacro elettorale, il PD ha optato in fretta e furia, ma con meno potere di negoziato, per un matrimonio con Berlusconi e il Popolo della Libertà, portando al governo di Enrico Letta. Può venire fuori qualcosa di buono da un esecutivo nato in circostanze cosi infelici? Letta è un uomo intelligente e capisce che deve in qualche modo soddisfare la domanda popolare per un cambiamento: lo ha dimostrato nella scelta di nuovi ministri, includendo più giovani, più donne e il primo ministro di colore. Letta cercherà di usare i suoi buoni uffici con Angela Merkel per dare un po’ di respiro all’Italia dalla cosiddetta politica di austerità, e sta anche proponendo varie misure per ridurre il costo della politica. Ma quanto lontano può andare sulla strada delle riforme, con Berlusconi come partner? Mettere il Cavaliere di Arcore a capo di una nuova costituente sarebbe come mettere la volpe a guardia del pollaio.

La grande tragedia è che tutte queste manovre politiche avvengono su uno sfondo tetro per sessanta milioni di italiani: dieci anni di crescita zero e vent’anni di stagnazione, il livello più alto di disuguaglianza dell’Europa occidentale, tasse spropositatamente alte per chi le paga e amnistia fiscale per quelli che ne fanno a meno. Districare problemi così profondi e intrecciati è una bella sfida per un governo così fragile.

da - http://stille.blogautore.repubblica.it/2013/05/03/il-disfatto-che-dire/?ref=HREA-1
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« Risposta #51 inserito:: Maggio 28, 2013, 11:06:33 pm »


23
mag
2013

Un vero scandalo

Alexander STILLE

Se vogliamo trovare un vero scandalo, sta nell’ostruzionismo ad oltranza del partito repubblicano verso  qualsiasi misura adottata dall’amministrazione Obama per favorire la ripresa economica del paese. Durante l’amministrazione Obama, il governo americano a livello statale e federale ha perso circa 550.000 posti di lavoro.

Nonostante gli attacchi quotidiani contro lo “statalismo” di Obama quindi, le strutture statali sono “dimagrite” grazie a tagli di spese governative. Una delle misure nel piano di stimolo economico varato da Obama nel 2009 fu l’appropriazione di soldi riservati all’assistenza dei singoli Stati per evitare tagli di personale. I singoli Stati, a differenza dello Stato centrale federale, sono quasi tutti obbligati a portare in equilibrio i propri conti ogni anno, e quindi di fronte ad una perdita notevole di entrate fiscali, in un momento di crisi economica grave, sono per legge costretti a tagliare delle spese per portare in pareggio il bilancio. Dal punto di vista macroeconomico questo è un errore gravissimo: licenziare poliziotti, insegnanti, vigili del fuoco in un momento di recessione significa peggiorare la crisi, abbassando ancora di più la circolazione di denaro. Il piano di Obama ha dunque per un certo periodo di tempo cercato di evitare questa misura, limitando in parte il danno della recessione. Dopo il primo piano di stimolo, tuttavia, i repubblicani hanno imposto misure di austerità che hanno limitato la crescita. Naturalmente hanno giustificato le loro azioni invocando l’idea della responsabilità fiscale, ma lo scopo era palesemente politico: negare qualsiasi successo all’amministrazione Obama, nonostante questo facesse sprofondare milioni di persone nella miseria della disoccupazione. Già con i 550.000 posti di lavoro statali persi grazie a tagli governativi il tasso di disoccupazione nazionale ha guadagnato 1 punto, e ai tempi delle elezioni del 2012 era l’8,1% piuttosto che il 7,1%: era un assioma della politica americana che un presidente in carica non potesse essere rieletto se il tasso di disoccupazione era sopra l’8%. La natura puramente politica di questa strategia viene riconfermata da una recente notizia di grandissima importanza: il deficit americano è sceso sotto il 4% del PIL, meno della metà del 10,1% del 2009, il che dimostra che la ripresa economica, seppure più debole di quello che avrebbe dovuto essere, ha cominciato ha riportare sotto controllo il deficit. A quanto è valsa quindi la perdita del lavoro di centinaia di migliaia, se non milioni, di persone causata da queste misure di austerità? I repubblicani hanno agito consapevolmente per impedire la crescita della nostra economia, sapendo che sarebbe stata una condanna politica fatale per loro. Questo si che è uno scandalo.

DA - http://stille.blogautore.repubblica.it/2013/05/23/un-vero-scandalo/
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« Risposta #52 inserito:: Luglio 07, 2013, 11:25:12 am »


26
giu
2013

La condanna di Berlusconi vista dagli USA

Alexander STILLE

I lettori americani hanno appreso della condanna di Silvio Berlusconi nel caso Rubygate a sette anni di carcere e hanno subito pensato: “Adesso è tutto finito.” I tre giudici hanno stabilito anche una interdizione perpetua ai pubblici uffici. Il reato di Berlusconi, ricordiamoci, andava ben aldilà dello sfruttamento di una minorenne e il mantenimento di una harem di prostitute per le feste “bunga bunga”: comprendeva una serie di abusi di ufficio. La sera in cui la giovane immigrata marocchina Karima El Mahroug (in arte Ruby Rubacouri) è stata arrestata per furto, Berlusconi, (informato da una prostituta brasiliana conosciuta in una visita di stato in Francia) ha telefonato alla polizia di Milano insistendo che la ragazza era la nipote dell’allora presidente egiziano Hosni Mubarak e che doveva essere evitato un conflitto diplomatico. La polizia ha affidato la ragazza a Nicole Minetti, una giovane igienista dentale che faceva la spogliarellista alle feste di Berlusconi vestita da suora e organizzava le altre ragazze dell’harem. Per questo le è stato dato un ruolo politico molto ben retribuito al Consiglio regionale della Lombardia. Come la Minetti ha spiegato eloquentemente in una telefonata intercettata ad un’altra ragazza dell’harem: “A lui fa comodo mettere te e me in Parlamento perché, dice: “Bene, me le sono levate dai coglioni e i cittadini pagano lo stipendio”.

Come si può sopravvivere politicamente a una condanna del genere, ci si chiede. Ci sono varie ragioni, alcune tecnico-legali, altre culturali e politiche. E considerate che questa è la terza condanna di Berlusconi soltanto in questo anno. E per certi aspetti la prima condanna dell’anno è particolarmente inquietante. Nel dicembre del 2005, un funzionario di una compagnia privata incaricata di fare intercettazioni telefoniche per la magistratura si presenta da Paolo Berlusconi e gli offre un “regalo di Natale”: la registrazione rubata – in violazione del segreto istruttorio – di una telefonata di Piero Fassino, leader del Partito Democratico della Sinistra, che parlava di una scalata bancaria. “Allora, abbiamo una banca?” diceva Fassino. In realtà, le conversazioni erano di poco conto, considerate “penalmente irrilevanti” dalla magistratura. Ma servivano — pubblicate subito dopo sul Giornale di proprietà del fratello di Berlusconi – e riprese dai telegiornali del Cavaliere e di quelli della Rai (controllati indirettamente dal premier) a creare l’atmosfera di uno scandalo nazionale, di poteri occulti di sinistra che controllavano l’economia. Il caso ha dominato i mesi della campagna elettorale del 2006, servendo ad adombrare l’equivalenza morale dei veri processi di Berlusconi (penalmente molto rilevanti) alle malefatte dei suoi avversari politici. Ed  è servito a ridurre fortemente, praticamente a zero, il margine di vittoria del centro sinistra nelle elezioni del 2006. Romano Prodi ha dovuto governare con una maggioranza debolissima, spianando la strada per il ritorno trionfante di Berlusconi nel 2008. Il caso presentava lo scenario da incubo di quando Berlusconi è entrato in politica: l’uomo più ricco del paese che usa la sua vasta fortuna, i suoi media e l’accesso ai segreti di stato per distruggere i suoi “nemici” politici e per condizionare l’atmosfera mediatica e politica del paese.

L’altra condanna del 2013 è nel caso dei diritti cinematografici dell’impero televisivo di Berlusconi. Per oltre vent’anni l’azienda del premier (secondo la sentenza) ha prodotto acquisti e vendite inesistenti per evadere molti milioni in tasse e creare flussi di denaro in contanti nelle disponibilità di Berlusconi stesso. (Molte delle ragazze delle feste del Cavaliere hanno portato via buste di denaro e, come vedremo, il denaro può servire anche in politica).

Ma per certi aspetti, il caso legale più grave che riguarda Berlusconi è uno per cui è stato indagato nel febbraio di quest’anno: il pagamento di tre milioni di euro ad un ex-senatore del centro-sinistra per far cadere il governo di Romano Prodi nel 2008, Sergio De Gregorio. Ha testimoniato De Gregorio stesso: “”Ho partecipato all’Operazione libertà diretta a ribaltare il governo Prodi…Discussi a Palazzo Grazioli con Berlusconi di una strategia di sabotaggio, della quale mi intesto tutta la responsabilità…Non mi voglio giustificare, so che è un reato…Ma avevo debiti fino al collo.” Comprare voti per fare cadere un governo è uno dei reati più gravi che si possa immaginare in una democrazia, eppure il caso, scoppiato a febbraio, non ha influito in alcun modo nel voto degli italiani nelle elezioni avvenute alla fine di quel periodo.

E quindi come mai questi scandali – solo uno dei quali avrebbe distrutto per sempre la carriera di qualsiasi politico in quasi tutti gli altri paesi democratici – non hanno impedito a Berlusconi di continuare come sempre?

Per cominciare ci sono alcune particolarietà del sistema legale italiano. Ci sono i tre gradi di giustizia e la presunzione di innocenza fino all’ultimo appello. Ma la vera anomalia del sistema giudiziario italiano è la prescrizione. In qualsiasi altro paese, “l’orologio” della prescrizione si ferma appena inizia l’azione giudiziaria, proprio per evitare che l’imputato, con mille cavilli legali, possa prolungare il processo e evitare la condanna con una strategia di rinvii.  Approfittare dell’anomalia del sistema giudiziario italiano è naturalmente quello che ha fatto ripetutamente Berlusconi. Il leader del centro-destra è stato condannato e prescritto in sei processi per reati gravissimi – che vanno da comprare sentenze e giudici nel Lodo Mondadori a pagare politici – Ma dal punto di vista legale, queste condanne non esistono, permettendo a Berlusconi di affermare a gran voce che è sempre stato assolto, mai condannato e quindi una vittima di persecuzione giudiziaria.

“Oggi difendere Silvio Berlusconi significa difendere la democrazia,” ha commentato il portavoce Daniele Capezzone dopo la sentenza del caso Fassino. “Difendere il diritto degli italiani a scegliere i propri rappresentanti, difendere il diritto di un Paese a non vedere rovesciato per via giudiziaria l’esito democraticamente deciso dagli elettori nelle urne.”

La domanda, a questo punto  è la seguente: come mai la sinistra italiana non ha mai fatto un tentativo serio di riscrivere la legge sulla prescrizione, armonizzandola con il diritto di tutti gli altri paesi democratici? Ma manca una risposta esaustiva.

Berlusconi è anche riuscito con la sua grande macchina mediatica (vedi il caso Fassino) ad aumentare la sfiducia degli italiani nelle istituzioni e in particolare verso l’odiata classe politica. Ho assistito qualche anno fa ad una conversazione illuminante tra vari giovani a Palermo che parlavano scandalizzati della mancanza di processi penali nei confronti di Romano Prodi. Per loro la fedina penale pulita del politico bolognese non era segno della sua maggior probità morale, ma del contrario. “Berlusconi imputato venti volte e Prodi neanche una!” dicevano. La premessa era: tutti i politici fanno schifezze, ma viene indagato solo Berlusconi. Questo spiega lo slogan ultimo di Giuliano Ferrara, editore del Foglio, altro giornale vicino al centro destra di Berlusconi, “Siamo tutti puttane.”

da - http://stille.blogautore.repubblica.it/2013/06/26/la-condanna-di-berlusconi-vista-dagli-usa/
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« Risposta #53 inserito:: Luglio 30, 2013, 11:07:04 am »


25
lug
2013

Sesso e Potere (di nuovo!)

Alexander STILLE

Ci ritroviamo di nuovo di fronte al rapporto tra sesso e potere pubblico. Anthony Weiner, candidato per la carica di sindaco di New York, ha dovuto ammettere di aver di nuovo mandato messaggi a sfondo sessuale a donne che non sono sua moglie. Weiner si è dimesso dal Congresso americano due anni fa quando è venuto fuori che aveva mandato foto del suo corpo nudo a delle sue fans via Twitter. La moglie di Weiner, Huma Abedin, lavora al Ministero degli Esteri ed era una dei consiglieri più stretti di Hillary Clinton. Le dimissioni di Weiner erano controverse: non aveva violato nessuna legge ma il fatto di aver diffuso immagini semi-oscene attraverso un mezzo pubblico come Twitter sembrava poco consono alla dignità di un deputato. Sulla scia di una reazione pubblica molto forte e negativa, Weiner si era dimesso nel 2011. Weiner è poi scomparso dalla vita pubblica per un po’ di tempo e nel frattempo ha avuto un figlio con sua moglie. Chiaramente Weiner non si era rassegnato e dopo aver aspettato due anni di quarantena si è rilanciato, presentandosi come candidato sindaco di New York. Alla sorpresa di molti, è montato subito in testa ai sondaggi – evidentemente il pubblico americano non è poi così puritano. In fondo, non aveva violato la legge; se sua moglie l’ha perdonato, perché non noi? Era possibile vedere Weiner come, in parte, vittima delle tecnologie digitali: in cui il muro tra il pubblico e il privato è diventato improvvisamente labile.

Ma ora, Weiner non molla ma mi sembra difficile che sopravviva a questo ultimo capitolo. Perché potrebbe chiedersi un lettore italiano: ha solo civettato via e-mail con delle donne. Noi abbiamo Berlusconi che è stato condannato (in primo grado) per sfruttamento di una prostituta minorenne, che ha mentito alla    polizia, invocando false ragioni di stato (la nipote di Mubarak) per tirare fuori la ragazza delle mani della giustizia in modo che non raccontasse le meraviglie delle serate “bunga bunga” nella casa del primo ministro! E continua, non solo a rimanere nel parlamento, ma a condizionare la vita del paese e tiene un quarto o un terzo del paese con lui.

Cercherò di spiegare il punto di vista di un americano. È vero che il comportamento di Weiner potrebbe sembrare solo un comportamento privato disdicevole – o forse neanche disdicevole secondo il proprio punto di vista. Non è a questo punto un problema morale ma con questo secondo caso, Weiner è entrato nel regno della psicopatologia. Un cittadino privato può fare quello che gli pare – se sua moglie glielo permette. Sono fatti loro. Ma un uomo pubblico dev’essere un po’ prudente e dimostrare di avere del giudizio. Un politico che ha pagato un prezzo molto alto – quasi rovinandosi la carriera – che commette gli stessi errori, è una persona fuori controllo. Può dire, una volta, “non sapevo che messaggi mandati via Twitter erano più o meno pubblici.” Ma nessuno, nel 2013, può pensare che le mail “private” mandate via Internet non possono fare il giro del mondo. Weiner non ha saputo resistere a un gioco pericoloso: ha perfino inventato un’identità elettronica, firmandosi “Carlos Danger,” (Carlo Pericolo), dimostrando che, almeno inconsciamente, ha riconosciuto di rischiare tutto per un gioco cretino. Io, che ero quasi pronto a votare per Weiner, non lo potrei più fare. Si è dimostrato non solo cretino ma psicologicamente squilibrato.

da - http://stille.blogautore.repubblica.it/2013/07/25/sesso-e-potere-di-nuovo/
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« Risposta #54 inserito:: Agosto 04, 2013, 08:14:44 am »


2
ago
2013

Non trattiamo sulla giustizia

Alexander STILLE

Una delle cose che mi manda in bestia della giustizia italiana è la mancanza di chiarezza. Non succede quasi mai che il sistema dica chiaramente: l’imputato è colpevole, la sua pena è x. Lascia sempre spazio ai vari azzeccagarbugli per operare. Fa piacere – non mi vergogno di dirlo – che sia stato finalmente condannato in forma definitiva Berlusconi, dopo decine di processi molto più gravi con prove schiaccianti, dove il Cavaliere l’ha spuntata, con la fedina penale immacolata, grazie a mille cavilli, e soprattutto la prescrizione.

Sei condanne – sei – annullate per via della prescrizione. Per reati gravissimi – tangenti, sentenze comprate – in cui Berlusconi è riuscito a falsare completamente la competizione economica e, in politica, quella democratica attraverso l’uso sistematico della corruzione. “Ognuno ha il suo prezzo, basta stabilire qual è” era un’assioma ripetuto con convinzione nel mondo berlusconiano, secondo una persona che ho intervistato tempo fa. E Berlusconi è riuscito a trasformare questa spregiudicatezza cinica e quasi nichilista in una scala di valori nazionale e una filosofia di vita.

Ma mi preoccupa molto la parte della sentenza della Cassazione sulla durata dell’interdizione di Berlusconi. Anche con una sentenza definitiva, assumendosi piena responsabilità per la pena inflitta, la Cassazione lascia la decisione finale su questo punto agli altri – naturalmente con ragionamenti legali complicatissimi e incomprensibili ai cittadini normali – che dovranno decidere un punto cruciale: pagherà un prezzo vero per il suo reato il cittadino Berlusconi o troverà un sistema per uscirne con un prezzo puramente simbolico? L’incertezza lasciata dalla sentenza, naturalmente, apre spazi per il negoziato.

Trovo mostruoso che la giustizia sia trattabile. Ma lo è spesso stato in Italia e lo è sempre stato nell’epoca Berlusconi. Alcune delle prescrizioni e “assoluzioni” di Berlusconi sono dipese da cambiamenti nel codice penale imposti da Berlusconi stesso (in quale altro paese democratico può un imputato cambiare la legge sulla base della quale lo si dovrebbe giudicare?) e a volte negoziati con il centro-sinistra. La legge che gli risparmierà di passare un paio di anni in carcere – come quasi tutti gli altri delinquenti – è stata passata da un governo di centrosinistra, su insistenza di Berlusconi, per impedire che andasse in galera Cesare Previti, condannato per avere comprato dei magistrati per il suo cliente maggiore (Berlusconi). Com’è bello che, aiutando gli altri, spesso si aiuta se stessi!

Con la posizione finale di Berlusconi ancora incerta, hanno cominciato già altri negoziati. Il Popolo della Libertà cerca certe “garanzie” per il suo appoggio all’attuale governo. I berlusconiani parlano di “democrazia decapitata”, dicendo: come si può condannare qualcuno votato a gran voce dal popolo? Dimostrano un’incomprensione totale dello Stato di diritto e mostrano i loro istinti profondamente illiberali.

Un rappresentante eletto non è esonerato dall’obbligo di rispettare la legge. Marion Barry, sindaco molto popolare di Washington, DC, è finito in prigione e poi rieletto dopo il suo rilascio, ma ha dovuto servire la sua pena. Il governo di Enrico Letta non dovrebbe trattare nulla in materia di giustizia. Finora Letta ha lavorato molto bene, ma la “stabilità”, se si tradurrà in complicità, sembrerà confermare il detto che ognuno ha un prezzo. Il Partito Democratico non dovrebbe avere paura di una crisi di governo e possibili elezioni.

da - http://stille.blogautore.repubblica.it/?ref=HREA-1
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« Risposta #55 inserito:: Agosto 08, 2013, 08:37:41 am »


7
ago
2013

Il reato dimenticato

ALEXANDER STILLE

C’è un detto famoso tra gli avvocati americani: quando i fatti sono contro i fatti, parla della legge. Quando la legge ti è contro parla dei fatti. Quando sia i fatti che la legge ti sono contro: urla! E quello che vediamo o sentiamo dopo la condanna di Berlusconi – molte urla. Attaccano il giudice della Cassazione Antonio Esposito per alcune parole in un’intervista al quotidiano Il Mattino. Cosi, si riesce a cambiare l’argomento, di non parlare più del reato di Berlusconi, 270 milioni, sottratti al fisco e a Mediaset per creare fondi neri. Ma si inventa un nuovo presunto nemico, Esposito, facendo di Berlusconi una vittima piuttosto che un malfattore punito per un reato provato.

Questa storia ricorda purtroppo molto un altro episodio:  un giornalista della Stampa strappò a Luciano Violante due parole sul caso Dell’Utri. E all’improvviso, invece dei rapporti tra la mafia e Berlusconi, si cominciò a parlare del “caso Violante.” Il giornalista, caso vuole, era Augusto Minzolini, che poi ebbe grande fortuna nella sua carriera e nelle sue finanze: contratti generosi con l’azienda del premier, la direzione di TG1, ora in Parlamento. I casi cambiano ma il metodo è sempre lo stesso. Usare i media per cambiare la realtà.

DA - http://stille.blogautore.repubblica.it/?ref=HRER3-1
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« Risposta #56 inserito:: Febbraio 09, 2014, 05:14:54 pm »

30
gen
2014

Scandali del sesso: Liscia, Gassata o Ferrarelle?

Alexander STILLE
 
Mi scuso con i lettori di Repubblica per il mio lungo silenzio. Mi sono spostato da New York a Parigi e trovandomi in un paese nuovo non sapevo cosa scrivere. Per molto tempo mi sono abituato a vedere il mondo da un’angolazione particolare: di uno che si muoveva tra gli Stati Uniti e l’Italia. Aggiungere un altro paese a un blog che si chiamava già “In un altro paese” era complicato. Ma ora mi sto abituando. Dunque, ricominciamo.

Lo scandalo a sfondo sessuale del presidente francese François Hollande merita alcune riflessioni. Mi ha ricordato per certi versi una pubblicità dell’acqua minerale Ferrarelle. Vi ricordate: liscia, gassata…Ferrarelle? In questo caso, la liscia sarebbe l’America con il suo moralismo sessuale un po’ noioso; l’Italia con le feste “bunga bunga” sarebbe decisamente gassata; mentre la Francia sarebbe Ferrarelle – una via di mezzo tra il frisson di effervescenza dell’affaire del presidente con l’attrice Julie Gayet e la sobria riservatezza francese con cui Hollande l’ha gestito.

A parte gli scherzi, questi scandali – ormai eventi ricorrenti della vita politica in un mondo mediatico sempre più trasparente – hanno un significato più grande se non altro come cartina di tornasole di ogni società. Guardando lo svolgersi dello scandalo Hollande-Gayet qui in Francia la sensazione era, allo stesso tempo, molto familiare ma anche profondamente diversa. Familiare, ormai, è lo scenario del politico preso in flagrante dall’occhio sempre più onnipresente e invasivo dei nostri media. La Francia, in passato, (come l’Italia) ha sempre trattato le avventure sentimentali/sessuali dei suoi dirigenti con la massima discrezione. Tutta la stampa francese sapeva che il presidente François Mitterrand aveva una seconda famiglia, compresa una figlia, ma tutti hanno taciuto fino al 1994, quando costei aveva 20 anni. Ma nascondere ora è molto più difficile: la notizia della storia con Julie Gayet ha girato per mesi su Internet e quindi era quasi inevitabile che venisse fuori. C’erano paparazzi che aspettavano nell’ombra per documentare la storia e Hollande è caduto nella trappola con molta ingenuità cercando di nascondersi con un casco da motorino, come un adolescente. Con la pubblicazione delle foto il resto della stampa francese non ha potuto ignorare la storia, che è circolata subito in tutto il mondo: e quindi pagine e pagine di copertura. Eppure, se il mondo mediatico è cambiato – e impone una certa trasparenza, rendendo pubblico il privato e privato il pubblico – il modo in cui i francesi hanno reagito (Hollande compreso) è stato molto francese. I sondaggi hanno subito rivelato che il 77 percento dei francesi considerano la vicenda puramente privata. E quindi questo atteggiamento culturale ha dominato durante la conferenza stampa di inizio anno, quando Hollande ha dovuto affrontare la questione. La stampa – diversamente da come sarebbe stata la stampa americana in una circostanza analoga – è stata molto guardinga e rispettosa. I giornalisti hanno fatto due domande tutt’altro che dure. E lui è riuscito a scampare con due o tre frasi semplici dicendo: “le cose private devono restare private.” La stampa americana l’avrebbe bombardato di questioni: quante volte è andato in questo appartamento della Gayet? È sempre stato accompagnato dal suo servizio di protezione? Chi è il proprietario dell’appartamento? ecc.

Mi sembra, sulla base degli ultimi scandali di questo tipo, che ci sia una specie di convergenza culturale in atto. Gli europei stanno diventando più americani – abituandosi alla personalizzazione della politica e alla necessità di soddisfare un po’ la curiosità del pubblico e della stampa. Ma, più sottilmente, gli americani si stanno spostando anche loro verso una posizione più europea. Venticinque anni fa, gli americani e gli europei erano, su questo argomento, su due poli opposti. Gli americani sono partiti da una posizione di moralismo rigido e assoluto. Nel 1988, Gary Hart, uno dei candidati democratici più forti per la presidenza, è stato spiato con una giovane donna che non era sua moglie e, sotto un blitz mediatico apocalittico, ha ritirato la sua candidatura: tanto era lo sdegno, tanta era la valanga di pubblicità negativa che era impossibile continuare. Gli americani hanno dovuto diventare un po’ tolleranti con l’arrivo in scena di Bill Clinton: ha ammesso una infedeltà passata durante la campagna elettorale ma ha salvato la situazione con una doppia intervista – con le dovute “scuse” al pubblico e alla moglie che è apparsa con lui, mostrando il suo continuo appoggio. Ma gli Stati Uniti – per lo stupore di paesi europei come l’Italia e la Francia – hanno quasi distrutto il loro governo in un parossismo di moralismo sulla vicenda di Monica Lewinsky. A proprie spese, gli americani hanno dovuto riconoscere che se fosse continuato a ritenere l’adulterio come una caratteristica squalificante per partecipare alla vita pubblica non ci sarebbe rimasto nessuno a guidare il paese. E quindi in anni recenti gli USA hanno abbassato molto la soglia morale: la destra ha perdonato Newt Gringrich, pluridivorziato con vari scandali extraconiugali; la sinistra ha perdonato Anthony Weiner, colpevole di aver mandato delle foto oscene via Twitter – finché non ha continuato a farlo dopo il primo episodio, dimostrando di essere non immorale ma squilibrato e inaffidabile. Allo stesso tempo, i francesi hanno modificato un po’ il loro atteggiamento di discrezione totale riconoscendo che talvolta i fatti privati hanno un risvolto pubblico. Nel caso di Mitterrand, il presidente mise sotto controllo i telefoni di circa 100 persone per tenere segreta la notizia della sua seconda famiglia: un mini-(non tanto mini) Watergate francese. Poi, le accuse di stupro e di prostituzione contro Dominique Strauss-Kahn hanno mostrato che la riservatezza può tradursi facilmente in omertà. Nel caso italiano, forse qualcosa è cambiato: una parte della società ha capito che le battute piccanti del Cavaliere sono misogine, ma c’è una parte della società che gira con il prosciutto sugli occhi, pensando che i suoi festini con prostitute – anche pagate da imprenditori ansiosi di aver appalti dallo Stato – siano faccende puramente private.

DA - http://stille.blogautore.repubblica.it/2014/01/30/scandali-del-sesso-liscia-gassata-o-ferrarelle/
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« Risposta #57 inserito:: Maggio 07, 2014, 08:31:43 am »

5
mag
2014

Renzi, un’occasione da non sprecare

Alexander STILLE
 
Sento tra molti italiani di sinistra un forte scetticismo se non di ostilità verso Matteo Renzi. Per ragioni comprensibili, sono ormai scettici sulla possibilità che dal mondo politico esca qualcosa di buono. C’è chi non ha apprezzato il suo modo di far fuori Enrico Letta – troppo machiavellico. C’è chi non ama le sue doti telegeniche – la sua capacità di vendere le sue politiche con una conferenza stampa – e lo etichetta come un Berlusconi di sinistra. O forse non tanto di sinistra, secondo quelli che lo considerano troppo pragmatico, o democristiano.

Gli ostacoli obiettivi anche nelle migliori delle ipotesi sono notevoli. Anche con una maggioranza forte e compatta, il compito di cambiare l’Italia (in meglio) è una sfida difficilissima. Trovare il giusto equilibrio tra mosse indirizzate a ridurre il deficit e quelle fatte per rilanciare l’economia, tra misure mirate a rendere più competitiva l’Italia e il desiderio di garantire un certo elemento di sicurezza, è tremendamente complesso e date tutte le difficoltà si potrebbe dire pressoché impossibile.

Ma ciò che è estremamente positivo in Renzi è che parte della premessa “perché impossibile?” Dobbiamo comunque provare a fare tutto il possibile, a cominciare da ora. Il paese ha perso vent’anni cruciali nell’era di Berlusconi in cui tutti i problemi più urgenti – molti del tutto evidenti già nei primi anni 90 – sono stati rimandati. Sia perché Berlusconi non amava prendere decisioni impopolari, sia perché s’interessava molto di più ai suoi problemi che a quelli degli italiani. Ma anche perché la sinistra è sempre stata divisa – ricordiamoci quello che ha fatto Fausto Bertinotti ogni volta che Romano Prodi o Massimo D’Alema hanno cercato di fare delle riforme. Ma bisogna riconoscere che prima di Renzi quando ha proposto delle riforme la sinistra l’ha sempre fatto in modo troppo timido e troppo limitato – come se sperasse che le sue misure passassero senza attrarre troppa attenzione e senza articolare una visione complessiva di che tipo di società volesse. Renzi ha la virtù di volere offrire quella visione e di sapersi spiegare agli italiani. Alcuni la considerano demagogica ma sarebbe un male sottovalutare l’importanza delle sue doti di comunicazione e del suo decisionismo. Ma la fretta di Renzi è anche la fretta di una generazione di italiani che vedono la strada bloccata nel contesto attuale.

Osservo Renzi dall’ottica della Francia dove François Hollande e il suo partito socialista hanno recentemente incassato una sconfitta semi-catastrofica in parte perché mancano loro molte delle doti di Renzi. Hollande non sente il bisogno di comunicare granché al suo elettorato e in parte per questo la sua popolarità è scesa ai minimi storici (20 per cento). Per questo motivo è molto difficile per lui proporre cose nuove perché ha perso molta credibilità. E ha dovuto mettere Manuel Valls, un giovane più carismatico e più pragmatico, uno alla Renzi, alla carica di primo ministro. Hollande sa bene che la Francia deve cambiare ma non ha il coraggio di farlo se non attraverso mezze misure.

Mentre capisco lo scetticismo e le obiezioni a certe proposte di Renzi, non capisco il senso di aperta ostilità di una parte della sinistra. Finalmente, la sinistra ha un leader capace, un leader con carisma, uno con un po’ di grinta e anche astuzia politica, con una dote notevole di comunicazione (anche con un pizzico di demagogia) un leader capace di lanciare riforme importanti nel sistema italiano – fermo da vent’anni. E una parte della sinistra entra in fibrillazione. C’è perfino chi parla di “svolta autoritaria”. Direi che dopo 20 anni di immobilismo è molto maggiore il rischio di immobilismo ulteriore. Troviamo uno che, finalmente, vuole fare qualcosa e tutti anche a sinistra, cercano il pelo nell’uovo. Prese una per una, sicuramente tutte le proposte di Renzi sono discutibili.  Ma nel loro insieme, vanno nella direzione giusta: ridurre il costo della politica, aprire il mercato del lavoro, ridurre i livelli di burocrazia, una legge elettorale che produca un governo stabile. Piuttosto che mettere tutte le proposte di Renzi in un tritacarne legislativo da cui uscirà a pezzi, molto meglio vararle più o meno come sono, in modo che abbiano una certa coerenza. Poi, se vediamo che ci sono cose che non vanno, cambiamo di nuovo ma non cerchiamo scuse di nuovo per non cambiare.

La fretta di Renzi è comprensibile: ci sono rari momenti (1993-1994, per esempio; 1996, primo governo Prodi) in cui si è offerta una possibilità di cambiamento reale. Bisogna approfittarne prima che passino. L’affermazione di Grillo – un vero rischio autoritario – ha svegliato la sinistra e l’ha messa davanti un bivio – o si cambia o si muore. Questa crisi ha prodotto un leader che ha colto l’urgenza del momento e ha dimostrato delle doti politiche notevoli. Non sprechiamo l’occasione.

Da - http://stille.blogautore.repubblica.it/2014/05/05/renzi-unoccasione-da-non-sprecare/?ref=HREA-1
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« Risposta #58 inserito:: Luglio 04, 2017, 05:34:56 pm »

26GIU2017

Impeachment per Trump?

Alexander STILLE

Una domanda che si sente molto spesso in questi giorni: può (oppure dovrebbe) il Congresso americano andare verso l’impeachment del presidente Donald Trump? Ci sono tre aspetti da considerare. Esistono gli elementi legali e fattuali per giustificare l’impeachment? Esiste la volontà politica per farlo? E poi, è una buona idea?

Screen Shot 2017-06-26 at 8.52.38 AMPer ora, a mio avviso, non ci sono gli elementi per giustificare un serio tentativo di impeachment. Mentre è fuori dubbio che il governo russo ha fatto di tutto per influenzare le elezioni americane a favore di Trump, mi sembra improbabile che ci sia stata una vera e propria collusione tra la campagna elettorale di Trump e i servizi segreti russi. È chiaro che i russi hanno tentato di stabilire contatti con alcune persone dell’entourage di Trump e certuni (chi per avidità, chi per ingenuità) sono stati al gioco. Ma è difficile immaginare che abbiano, per esempio, coordinato le fughe di documenti della campagna elettorale democratica o cose di quel genere. D’altro canto, c’è qualcosa di strano nel rapporto tra Trump e la Russia: non sappiamo tutto sui possibili rapporti finanziari dell’azienda di Trump e sembra un po’ bizzarro che Trump – uomo di destra in un partito in genere ostile alla Russia - non abbia mai una parola critica nei confronti di Putin. Ma se non emergono nuovi elementi significativi  – prove di collusione o di rapporti economici compromettenti – sarà difficile giustificare la decisione storicamente così importante di sollevare un presidente eletto dal suo incarico.

Molto dipende, ovviamente, della volontà politica. Per ora, i repubblicani hanno il controllo sia della Camera dei Rappresentanti sia del Senato e – anche se molti in privato considerano Trump un uomo inadatto alla presidenza e pericoloso – non vogliono fare nulla per aiutare i loro avversari democratici. Pur non amando Trump, sono stati felici di salire sul carro del vincitore. Abbandoneranno Trump solo quando saranno convinti che lui è diventato così tossico da danneggiare la loro parte politica. Hanno visto con preoccupazione il tasso di approvazione di Trump scendere sotto il 40 percento ma sicuramente sono rimasti sollevati dalla vittoria di due candidati repubblicani in elezioni speciali (seggi lasciati vacanti da parlamentari che sono usciti dal Congresso per servire nell’amministrazione Trump). Se i democratici riprenderanno il Congresso nel 2018, i gioco si riapriranno: avrebbero i numeri per votare l’impeachment.

La tentazione sarebbe molto forte. È certamente comprensibile considerare Trump una minaccia per la democrazia e forse per il mondo. Ma, basandomi sull’esperienza italiana con Berlusconi, starei molto attento. Mi ricordo molto bene le parole di Indro Montanelli al momento del cosiddetto ribaltone di Umberto Bossi che privò Berlusconi della sua maggioranza governativa nel 1994: “Gli italiani devono farsi un’immunità a Berlusconi e farlo hanno bisogno di una buona dose.” Il ribaltone di Bossi era una manovra politica in qualche modo antidemocratica: Berlusconi aveva vinto le elezioni e gli hanno impedito di governare con una strategia politica. Nello stesso modo se il popolo di Trump vedesse il proprio uomo cacciato per una manovra parlamentare la rabbia populista diventerebbe più forte. Se invece perderà alla fine del suo mandato per la propria incapacità e le tante promesse non mantenute, potrà essere la fine non solo di Trump ma del fenomeno Trump. L’impeachment rappresenta una specie di scorciatoia per i democratici, un modo facile eliminare l’odiato Trump. Ma non può sostituirsi al lavoro più difficile – e comunque necessario – di riguadagnare la fiducia di una parte importante dell’elettorato che ha votato per Barack Obama nel 2012 e ha abbandonato il partito nel 2016.

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