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« inserito:: Agosto 12, 2010, 04:53:19 pm » |
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12/8/2010 Un futuro pieno di rischi per Internet JUAN CARLOS DE MARTIN* A parte gli addetti ai lavori, finora poche persone - soprattutto in Italia - hanno colto uno degli aspetti più importanti di Internet, ovvero la sua relazione con l’innovazione. Tutti sono testimoni - quando non beneficiari diretti - dello straordinario flusso di innovazioni prodotto grazie alla Rete in questi anni. Ma relativamente pochi hanno finora colto le ragioni di fondo che hanno reso possibile tale esuberanza. Ragioni che non sono legate ad un’improvvisa maggior ingegnosità di informatici e imprenditori, ma piuttosto al fatto che per la prima volta gli innovatori avevano a disposizione una rete di telecomunicazione strutturalmente - potremmo dire: costituzionalmente - diversa dalle reti precedenti. La costituzione della Rete è caratterizzata, per esplicita volontà dei suoi inventori, da due aspetti essenziali: semplicità e apertura. Semplicità perché Internet, a differenza delle reti di telecomunicazione che l’hanno preceduta, è una rete «stupida», ovvero l’«intelligenza» - ciò che rende possibile i vari servizi online - è ai margini della rete stessa, nei nostri computer, non dentro la rete medesima, che si limita a smistare i bit il più velocemente possibile. Per introdurre un nuovo servizio, quindi, non è necessario aggiornare tutta l’infrastruttura di rete (come invece occorre fare nella telefonia), basta pubblicare un software. Apertura perché non occorre chiedere il permesso a nessuno per innovare su Internet: una ragazza con una buona idea, un computer e una connessione a Internet ha tutto ciò che le serve per realizzare e poi lanciare la sua idea al mondo. Basta che il suo software parli la lingua di Internet, ovvero, il cosiddetto «Internet Protocol», liberamente e gratuitamente utilizzabile da chiunque. Inoltre, apertura perché la Rete, per il principio della cosiddetta «neutralità della rete» (o di «non discriminazione»), tratta tutti i bit (che siano un documento o un file MP3) e tutte le applicazioni (che sia posta elettronica o video streaming) allo stesso modo, indipendentemente da mittente e destinatario. In linea di principio, quindi, i bit della ragazza e quelli di una multinazionale viaggeranno in rete allo stesso modo, senza discriminazioni. Questa rete strutturalmente aperta, senza guardie ai cancelli, ha reso possibile una stagione di innovazione senza precedenti, permettendo sia ad aziende affermate di evolvere, sia a brillanti innovatori di creare dal nulla applicazioni di grande successo, quando non addirittura nuovi mercati. L’innovazione, però, è uno di quei concetti a cui tutti tributano grandi omaggi a parole, salvo poi risentirsi molto se l’innovazione altrui perturba interessi consolidati da tempo. Da questo punto di vista, da oltre un decennio registriamo il fastidio - quando non il furore - con cui settori industriali consolidati, spesso a bassissimo tasso di innovazione, hanno accolto l’innovatività dal basso, non controllabile, di Internet e dei suoi utenti. Da un paio d’anni, però, diversi segnali suggeriscono che il confronto stia passando di livello, ovvero, non più battaglie di retroguardia da parte di attori incapaci di gestire il cambiamento, ma anche tentativi di apportare modifiche strutturali alla Rete da parte di alcuni grandi attori della Rete stessa. In particolare, da anni alcuni fornitori di servizio Internet vorrebbero essere autorizzati a far pagare un sovrapprezzo ai fornitori di contenuti o servizi (per esempio, YouTube o il sito di un quotidiano), che quindi si troverebbero a pagare più volte per gli stessi bit: una volta per accedere alla Rete tramite il fornitore A (come è normale) e poi di nuovo per raggiungere i clienti del fornitore B, quelli del fornitore C, e così via. Lunedì, però, c’è stato un fatto oggettivamente nuovo: una delle aziende che rappresentano con maggior evidenza l’innovazione legata alla rete, Google (fondata nel 1998), ha emesso un comunicato congiunto con una delle aziende eredi dello storico monopolio telefonico americano, Verizon (fino al 2000 nota come Bell Atlantic). Comunicato reso ancora più visibile da un editoriale apparso martedì 10 agosto sul «Washington Post» a firma congiunta Eric Schmidt e Ivan Seidenberg, gli amministratori delegati delle due aziende. In sostanza, con un documento molto conciso Google e Verizon chiedono al legislatore e al pubblico di includere in qualsiasi iniziativa normativa relativa a Internet nove punti a loro avviso ritenuti essenziali. Mentre la maggior parte di tali punti è in linea con l’ideale di una rete Internet aperta e non discriminatoria, due punti in particolare stanno invece sollevando pesanti interrogativi e critiche. Il primo punto riguarda l’esenzione dai vincoli di non discriminazione per l’accesso a Internet senza fili, richiesta giustificata con poco evidenti caratteristiche di «unicità» dell’accesso senza fili, nonché con la «dinamicità» di tali servizi. Se si considera che è proprio tramite l’accesso senza fili che si sta concentrando il maggior tasso di sviluppo di Internet, dall’accesso in mobilità da parte degli utenti alla cosiddetta «Internet delle cose», ci si rende conto che ciò che Google e Verizon stanno chiedendo di esentare dal rispetto del principio di non discriminazione è buona parte del futuro stesso di Internet. Il secondo punto, almeno altrettanto problematico, riguarda la possibilità di offrire «servizi online aggiuntivi». In pratica, a quel che è possibile capire, la creazione di un Internet-premium che si affiancherebbe, con modalità tutte da definire, a Internet tradizionale per offrire - ovviamente a pagamento – servizi per i quali non varrebbe il principio di non discriminazione. Gli interrogativi che solleva un tale scenario, se confermato, sono molti, ma ci si concentri sui potenziali effetti sull’innovazione. Se oggi la barriera all’ingresso per innovare in rete è, come abbiamo descritto, bassissima, l’innovatore del futuro potrebbe invece dover affrontare una giungla contrattuale causata dal dover negoziare, con ogni fornitore d’accesso Internet, come e a che prezzo raggiungere i suoi utenti sulla rete «premium». Avendo come unica alternativa quella di rimanere sulla vecchia Internet, quindi, di offrire la propria innovazione con minori prestazioni rispetto ai concorrenti, che magari saranno multinazionali nate quanto Internet era davvero neutrale. Google e Verizon avranno modo nelle prossime settimane di chiarire, se lo vorranno, l’effettivo significato delle parti più controverse del loro documento. Più in generale, però, è chiaro che per la Rete si sta per chiudere una prima fase della sua storia, caratterizzata dalle lungimiranti decisioni prese quarant’anni fa dai suoi inventori. Nei prossimi mesi starà a noi decidere se continuare a preservare con forza l’apertura di Internet anche per le prossime generazioni di innovatori. * Docente al Politecnico di Torino http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=7701&ID_sezione=&sezione=
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« Risposta #1 inserito:: Agosto 31, 2010, 03:33:23 pm » |
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31/8/2010 Le sfide per la neutralità di Internet JUAN CARLOS DE MARTIN* Il 9 agosto scorso Google (ricerca, pubblicità e altri servizi online, 22 mila dipendenti, 24 miliardi di dollari di fatturato) e Verizon (telefonia fissa e mobile negli Usa, 310 mila dipendenti, 157 miliardi di dollari di fatturato) hanno pubblicato una proposta congiunta relativa alla regolamentazione di Internet. Ora che sono passate tre settimane è possibile fare un primo bilancio delle reazioni. Innanzitutto, notiamo che raramente così poche parole, neanche due pagine, ne hanno causate così tante altre in così poco tempo: una ricerca con le parole chiave «google verizon proposal», infatti, restituisce più di tre milioni di risultati su Google e oltre un milione su Bing (il motore di ricerca di Microsoft). E se il web ha ruggito, la carta stampata non è stata da meno, con tutte le principali testate nazionali (questa inclusa) e internazionali impegnate a riferire gli estremi del dibattito - talvolta schierandosi, in genere su posizioni scettiche o critiche, come il New York Times. Perché una reazione così veemente a una proposta apparentemente così tecnica? I motivi principali sono due. Il primo motivo è che la proposta tocca, oltre al resto, un principio fondativo della rete, ovvero la sua cosiddetta «neutralità», proponendo di attenuarla in due contesti assai importanti (sia pure, come ha poi precisato Google, come mero compromesso temporaneo). Il secondo motivo è che, fino alla proposta con Verizon, Google era stata una sostenitrice «senza se e senza ma» della neutralità della rete, posizione rafforzata anche dall’avere come vice presidente dell'azienda uno dei padri storici di Internet, Vint Cerf. I cambi di direzione di una multinazionale, soprattutto se relativi ad argomenti scottanti, fanno ovviamente notizia, e quindi le reazioni alla proposta dei due colossi sono più che comprensibili. Ma cosa è la «neutralità della rete» e perché è un argomento scottante? Una delle regole fondamentali di Internet è che gli utenti pagano esplicitamente solo per accedere alla rete, ovvero, per diventare - con il loro computer, smart phone o tavoletta - un nodo della rete stessa. L'accesso naturalmente costerà di più o di meno a seconda della dimensione del «tubo» dati e di altri aspetti del servizio. Ma una volta diventati nodi della rete, tutti gli utenti, che siano blogger o governi, possono raggiungere, sia in trasmissione sia in ricezione, qualsiasi altro nodo, senza più incontrare, ai guadi e ai valichi, gabellieri di sorta. L'importanza - e anche la naturalezza - di questo principio può essere illustrata da un'analogia automobilistica. Sarebbe concepibile che un operatore autostradale - oltre a far pagare a tutti, come è normale, l'accesso alla sua infrastruttura - stringesse anche accordi con marche automobilistiche, per esempio Renault e Toyota, e riservasse alle vetture di tali marche una o più corsie preferenziali, costringendo tutte le altre automobili ad affollarsi nelle corsie rimanenti? Oppure, sarebbe concepibile che ai caselli si ispezionassero i bagagliai, facendo accedere alla corsia preferenziale solo chi trasportasse, per esempio, libri Adelphi o banane Chiquita? Gli esempi fanno probabilmente sorridere tanto sono improbabili. Eppure, nonostante le naturali differenze del caso, è di qualcosa di simile che si sta parlando quando si discute di «neutralità della rete» e dei relativi punti della proposta Google-Verizon. Ecco perché non condivido il collegamento che lo scorso 18 agosto su questo giornale Luca Ricolfi ha stabilito tra la proposta americana e problemi, per usare le sue parole, di eccesso di libertà positiva (la «libertà di») e di carenza di libertà negativa (la «libertà da»). Non condivido il collegamento perché la proposta Google-Verizon tocca in realtà altri aspetti (le Renault e le Toyota), ma non condivido neanche ampi tratti della sua analisi delle libertà in rete (tralasciamo la critica a Internet come «mondo aperto, magico e buono», dato che da più di un decennio è arduo trovare qualcuno con idee simili). I problemi, infatti, che lamenta Luca Ricolfi - le informazioni inaccurate, i contatti indesiderati, le interruzioni, eccetera - sono, da una parte, problemi naturali, per quanto a volte fastidiosi, in società che hanno scelto di essere aperte come le nostre, e dall’altra parte hanno già numerose soluzioni, a vari livelli. Soluzioni tecnologiche: filtri anti-spam, opzioni di privacy, sistemi di rating, filtri di classificazione automatica della posta elettronica e altro ancora. Soluzioni lato utente: in proposito cito solo, oltre all'ampia letteratura su come usare con efficacia e moderazione la posta elettronica, la possibilità, alla portata di chiunque, di imparare a valutare l'attendibilità di un sito Web proprio come nei secoli scorsi abbiamo imparato a valutare l'attendibilità di libri, case editrici, giornali, riviste e volantini. Soluzioni sociali: si stanno rafforzando e meglio articolando - basta dare tempo al tempo - norme di comportamento relative alle varie attività online, come già successo in passato per ogni invenzione largamente diffusa. Tecnologia, maggior discernimento e norme sociali più evolute renderanno forse l'esperienza Internet perfettamente «libera da»? Certamente no. E andrà benissimo così. Perché è di gran lunga preferibile muoversi tra il rumore e la polvere di una piazza Internet forse caotica, ma libera e vitale, decidendo ciascuno di noi individualmente a quale angolo fermarci e a chi dare ascolto (e credito), piuttosto che essere ridotti a scegliere da un menu patinato di contenuti (o di contatti) preconfezionato o, comunque, filtrato. E poco importa che il confezionatore sia lo Stato (la Cina ci prova da anni e non è purtroppo la sola) o entità private come Google, Verizon, Apple o Microsoft. Dopo l'invenzione di Gutenberg ci è voluto qualche secolo, ma alla fine abbiamo capito qual è la risposta giusta a simili proposte: grazie, ma no grazie. demartin@polito.it*docente del Politecnico di Torino http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=7765&ID_sezione=&sezione=
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« Ultima modifica: Settembre 06, 2010, 05:53:02 pm da Admin »
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« Risposta #2 inserito:: Settembre 06, 2010, 05:52:25 pm » |
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6/9/2010 La nostra esistenza riflessa negli schermi JUAN CARLOS DEMARTIN Una volta le tecnologie della comunicazione stavano al loro posto, sia come luogo fisico, sia come regole d’uso. Il telefono stava nell’ingresso, o comunque in una posizione centrale della casa, facilmente raggiungibile, e controllabile, da tutti. Il televisore era posizionato in salotto, davanti al divano, vicino a dove prima aveva troneggiato, nei decenni precedenti, la radio. E le regole d’uso erano più o meno sviluppate, ma comunque piuttosto chiare. Ricordo ancora, per esempio, lo stupore - misto a un po’ di apprensione - che coglieva la mia famiglia se qualcuno per caso telefonava all’ora dei pasti: «Ma chi è il maleducato che telefona a quest’ora?», si mormorava. Mentre il televisore, col suo palinsesto, imponeva regole di fruizione rigide e, per un lungo periodo, senza alternative; per non parlare, a livello familiare, di regole come «a letto dopo Carosello» per i bambini. Insomma: gli strumenti erano pochi, molto semplici da usare e con un rapporto con la nostra vita definito da decenni - se non generazioni - di abitudine all’uso. Poi, tra la fine del secolo scorso e l’inizio del nuovo, c’è stato un «big bang» - silenzioso, ma dagli effetti ben visibili - che ci ha fatto entrare nell’Età degli Schermi. Da qualche anno siamo circondati da schermi in ogni camera della casa, schermi per strada, schermi sui mezzi pubblici, schermi nelle stazioni ferroviarie e negli aeroporti, schermi in automobile, schermi negli uffici pubblici, schermi sulle scrivanie e, soprattutto, schermi nelle tasche e nelle borse. Alcuni di questi schermi ci sono imposti - spesso non sono altro che veicoli per pubblicità o informazioni di servizio - ma altri sono oggetti del desiderio che vogliamo avere vicini, che vogliamo poter guardare in qualsiasi momento e in qualsiasi situazione. Su tutti, il telefono, che ormai significa sempre meno, soprattutto per i giovani, «sentire e farsi sentire a distanza con la voce» e sempre più «schermo connesso», ovvero porta visiva verso il mondo lavorativo, affettivo e ricreativo. Rettangolo luminoso che, rispondendo al tocco di un dito, può mostrarci all’istante quasi qualsiasi immagine, fissa o in movimento, desideriamo vedere, per lavoro o per capriccio: un disegno di Leonardo, un messaggio del capo, le foto dei figli, la scena finale di «Casablanca», un sms della fidanzata, le poesie di John Keats, il backstage di un concerto. Nei confronti di questa invasione di schermi siamo ancora palesemente nella fase dello stupore. La proliferazione, infatti, ha avuto luogo così in fretta da non darci il tempo né di capire le conseguenze di ciò che sta capitando, né di sviluppare una reazione sotto forma di regole d’uso mature e socialmente condivise. Cosa significa per ciascuno di noi e per la società nel suo complesso vivere nell’Età degli Schermi (invece che dello Schermo Unico, ovvero della televisione)? In che modo è opportuno comportarsi nei confronti dei propri schermi - telefono, tavoletta o notebook - sia da soli, sia soprattutto in presenza di altri? Riguardo al secondo aspetto, quello delle regole di comportamento, prendiamo il caso della scuola. Come è opportuno trattare gli schermi in classe? In particolare - a parte eventuali schermi istituzionali, come le celebri «lavagne interattive multimediali» o i computer in dotazione alla scuola - come trattare gli schermi personali degli studenti e dei docenti, notebook, telefoni evoluti o tavolette che siano: proibirli? Tollerarli? O, addirittura, incoraggiarli? La domanda ricorre ormai da anni a ogni riapertura di anno accademico e scolastico. L’avvento della prima tavoletta di successo, l’iPad della Apple, ci sta aiutando a rispondere con più consapevolezza alla domanda. Il problema, infatti, non è tanto lo schermo in sé, ma il fatto che lo schermo sia spesso privato, cioè visibile solo agli occhi dell’utilizzatore e non anche a chi sta condividendo con tale persona uno spazio e uno scopo, come quello di fare insieme lezione. La tavoletta, invece, per l’inclinazione con cui la si usa è molto più facilmente condivisibile di un computer fisso o portatile. Permette al docente di vedere, anche solo con la coda dell’occhio, se lo studente sta facendo o no qualcosa di connesso (o comunque di, in qualche modo, compatibile) con la lezione, per esempio, una consultazione di Wikipedia. Un risultato analogo si potrebbe ottenere anche con i normali computer tramite un software che, all’interno dell’aula, preveda la condivisione degli schermi con i compagni e col docente, realizzando così un ragionevole compromesso tra la libertà (e il piacere) di muoversi secondo traiettorie di apprendimento almeno in parte individuali e lo scopo comune di passare alcune ore insieme a imparare qualcosa in maniera strutturata. Questo è solo un esempio di come sia possibile iniziare a dare un ordine, né proibizionista né supino, alla tecnologia, agli schermi della nostra vita. Sforzi analoghi sono necessari anche negli altri contesti, visto che gli schermi saranno inevitabilmente sempre più numerosi e sempre più potenti (si pensi solo all’imminente diffusione di massa della tecnologia 3D). Con la riflessione, individuale e collettiva, riusciremo a mettere al loro posto anche queste colorate tecnologie della comunicazione, per arricchirci, a tutti i livelli, senza farci troppo sedurre o sviare. demartin@polito.it*docente al Politecnico di Torino http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=7789&ID_sezione=&sezione=
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« Risposta #3 inserito:: Novembre 01, 2010, 12:10:15 pm » |
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1/11/2010 Il vero potere è calcolare velocemente JUAN CARLOS DE MARTIN Giovedì scorso a Tianjin, una metropoli di 12 milioni di abitanti nel Nord-Est della Cina con non trascurabili tracce della ottocentesca presenza italiana, Tianhe-1A è diventato il più veloce calcolatore del mondo. Tianhe-1A, infatti, grazie a oltre ventimila microprocessori connessi in maniera innovativa, ha iniziato a effettuare più di due milioni di miliardi di operazioni al secondo, circa il 40% in più del precedente campione, un calcolatore americano ospitato in un laboratorio del governo Usa in Tennessee. Non è la prima volta che la supremazia americana nel supercalcolo viene sfidata. Era già successo nel 2002 quando i giapponesi avevano inaspettatamente prodotto un supercalcolatore nettamente più veloce del campione americano dell’epoca. Il successo giapponese non era però durato a lungo: già nel 2004 cospicui finanziamenti governativi avevano riportato gli Usa in prima posizione. Ora la nuova sfida, questa volta da parte della cinese Università Nazionale di Tecnologia per la Difesa. È probabile che anche questa volta gli Usa, che ospitano più della metà dei 500 più veloci supercalcolatori al mondo contro gli appena 24 della Cina, recuperino rapidamente il titolo. Sia per motivi scientifici - le sfide sono spesso utili per portare avanti ricerche che altrimenti verrebbero condotte più lentamente, nonché per attrarre le migliori menti - sia per motivi simbolici: nell’età della conoscenza, infatti, possedere il più veloce elaboratore del mondo ha un valore difficile da quantificare, ma comunque non trascurabile. Ci sono però anche motivi molto pratici per avere a disposizione le migliori capacità di supercalcolo possibili. I supercalcolatori sono, infatti, strumenti di notevole utilità in numerosi settori nei quali è essenziale elaborare grandi quantità di dati, come gli studi sul riscaldamento globale, le previsioni meteorologiche, la ricerca di idrocarburi, analisi finanziarie in tempo reale, ricerche molecolari, simulazioni militari e altro ancora. Chi dispone dei calcolatori più veloci arriva prima al risultato, acquisendo così un vantaggio competitivo rispetto agli altri. Tuttavia, dovremmo prestare attenzione non solo a fuoriserie come Tianhe-1A, ma anche alle incarnazioni più prosaiche ma non meno importanti del supercalcolo, ovvero le «fattorie web» («web farms», in inglese). Dietro, infatti, alle risposte fulminee di motori di ricerca come Google o Bing, agli scorrevoli carrelli di negozi online come Amazon o Yoox, e dietro a molti altri servizi online, ci sono gigantesche «fattorie» di migliaia e migliaia di computer e di dischi fissi a basso costo abilmente connessi fra loro. Sono «fattorie» che possono arrivare a estendersi su spazi equivalenti a venti campi di calcio, che consumano energia come cittadine di medie dimensioni, e con costi di realizzazione che possono arrivare al miliardo di dollari. È in queste «fattorie» che si stanno concentrando, per motivi economici, non solo i servizi di numerose aziende, ma anche i documenti di molti di noi, attratti dalla comodità di avere, spesso gratuitamente, accesso ai nostri dati da ovunque ci troviamo, senza doverci preoccupare di fare copie di sicurezza o di effettuare altre attività di manutenzione. Dopo oltre tre decenni di decentralizzazione molto spinta di potenza di calcolo, dati e software in centinaia di milioni di computer sparsi nelle case e negli uffici di tutto il mondo e sotto il diretto controllo di tutti noi, è dunque in atto un poderoso processo di centralizzazione. Nelle mani degli utenti continueranno a esserci terminali sempre più potenti e intuitivi, ma anche sempre più dipendenti dalla loro connessione con alcune, poche grandi «nuvole» (il termine spesso usato in questo contesto è infatti «cloud computing») situate per lo più in altri Paesi, se non in altri continenti, e quindi soggette a norme diverse dalle nostre. Non è, quindi, infondato aspettarsi che nei prossimi anni sentiremo parlare più spesso di «fattorie web» e di «cloud computing» più che dei pur importanti Tianhe-1A e fratelli. La concentrazione di potenza di calcolo e di immagazzinamento dati, infatti, sarà presto, se non lo è già adesso, uno dei principali fattori della geopolitica del XXI secolo. http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=8026&ID_sezione=&sezione=
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« Risposta #4 inserito:: Febbraio 10, 2011, 11:39:35 am » |
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10/2/2011 Agenda digitale l'Italia è in ritardo JUAN CARLOS DE MARTIN Incalzata dalla competizione globale e con una popolazione sempre più anziana, come potrà l’Europa garantirsi un futuro all’altezza del suo passato recente? In altre parole, come fare a garantire un tenore di vita adeguato, uno sviluppo rispettoso dell’ambiente, società coese e inclusive, elevati livelli di occupazione? Per la commissaria europea Neelie Kroes non ci sono dubbi: il futuro dell’Europa passa per un governo delle trasformazioni digitali che stanno cambiando il mondo intorno a noi, un piano per cogliere fino in fondo le opportunità offerte dalla rete. È lì il motore non solo della nostra produttività futura, ma anche di una società più dinamica, più colta, più rispettosa dei diritti fondamentali. È per questo che nel maggio 2010 la Commissione Europea ha pubblicato «Un’Agenda Digitale per l’Europa», un documento strategico che articola intorno a otto temi principali un piano di azione, con obiettivi e scadenze, sia per la Commissione sia per i Paesi membri dell’Unione. A giugno si terrà già la prima assemblea plenaria, durante la quale verranno valutati i passi in avanti dei singoli Paesi rispetto a una serie di indicatori. L’Italia in tutto questo come si colloca? Le motivazioni addotte dall’Europa per un’ambiziosa Agenda Digitale sono ancora più valide per l’Italia. Anziano, senza importanti risorse naturali, infatti, e con un gravissimo gap di produttività, il nostro Paese ha un disperato bisogno di cogliere le opportunità offerte dal digitale - a tutti i livelli: nelle imprese (in media piccolissime), nella pubblica amministrazione, per i lavoratori e i cittadini. Eppure la sensazione diffusa di chi si occupa di digitale è che l’Italia stia clamorosamente mancando anche questo appuntamento. Gli altri Paesi pianificano, si pongono obiettivi, realizzano piani ambiziosi, mentre da noi la rete è perlopiù oggetto di polemiche estemporanee, non il focus di un’attenzione strategica, seria, sostenuta nel tempo. Un’attenzione che dovrebbe essere una priorità nazionale, indipendentemente dalla parte politica e dall’emergenza - vera o presunta - del momento. È per questo che 100 persone di estrazione molto varia (tra cui chi scrive) - imprenditori, giornalisti, professori, esperti, ecc. - hanno creato un sito, www.agendadigitale.org, per lanciare un appello alla politica e alla pubblica opinione italiana, chiedendo qualcosa di semplicissimo, ovvero che entro cento giorni venga definita un’Agenda Digitale per l’Italia. Nel giro di pochi giorni, tra sito e Facebook, quasi ventimila persone hanno aderito all’appello: un risultato straordinario in assoluto, ma a maggior ragione per un’iniziativa su base volontaria, senza altre risorse che l’entusiasmo di alcuni appassionati. Ieri a Roma la prima presentazione pubblica: alcuni sottoscrittori hanno spiegato i motivi che li hanno spinti a pubblicare l’appello, hanno ricordato il contesto europeo e hanno descritto alcuni esempi di cosa si potrebbe fare nell’immediato per riagganciare l’Italia al futuro. La politica ha immediatamente risposto. Gli onorevoli Gentiloni, Lanzillotta, Berbareschi e Rao, presenti all’incontro, infatti, hanno non solo raccolto l’invito, ma anche iniziato a prospettare provvedimenti concreti potenzialmente attuabili già nelle prossime settimane. Negli stessi minuti da Bruxelles la commissaria Neelie Kroes via Twitter incoraggiava a proseguire. Mancano ancora novanta giorni, e c’è ancora molto lavoro progettuale da fare. E, dopo di quello, moltissimo lavoro per realizzare quanto deciso. Ma forse possiamo cominciare a sperare che il futuro digitale stia iniziando - finalmente - a delinearsi. È solo un inizio, ma è comunque una buona notizia. da - lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali
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« Risposta #5 inserito:: Aprile 16, 2011, 04:25:10 pm » |
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16/4/2011
Internet e il potere
JUAN CARLOS DE MARTIN
Quanto potere ha Internet? Quanto è in grado la Rete di influenzare o determinare comportamenti? E chi ha potere in Internet? Come si declina il concetto di potere sulla Rete? Chi lo detiene e in virtù di quali fattori?
Sono domande che è ormai ora di prendere in considerazione, anche per evitare che tali riflessioni stategiche vengano lasciate ai soli governi di alcuni paesi – come avverrà nel corso del prossimo G8, presieduto da Sarkozy e dedicato appunto a Internet - o ai soli addetti ai lavori. Sono infatti domande che toccano aspetti fondamentali delle nostre democrazie, come la formazione del consenso, la trasparenza dei poteri dello Stato, la libertà di espressione, il futuro dei partiti politici e altro ancora. Sul potere di Internet inteso come infrastruttura di comunicazione basta dire che nessun paese evoluto può più permettersi di spegnere la rete senza pagare un prezzo economico elevatissimo. L’economia, la pubblica amministrazione, persino le forze armate dipendono dalla Rete. È, quindi, semmai una questione di grado di libertà della Rete, come in Cina e in altri paesi autoritari; non più se averla o non averla.
Ma il potere di Internet sta crescendo rapidamente anche nel senso di capacità di influenzare o determinare i comportamenti. Capacità che deriva dalla grande facilità con cui la Rete veicola informazioni in tempo reale da persona a persona (email, chat, telefonia su Internet), da persona a moltitudini (blog, reti sociali) e da molti a molti (le matasse delle connessioni sociali). Un «big bang» che sta cambiando sia la dieta informativa dei cittadini, sia il modo in cui comunicano e si organizzano tra di loro - facilitando in particolar modo le mobilitazioni, come dimostrato dalla campagna elettorale di Obama del 2008. È l’onda di cambiamento che procede più rapidamente nei paesi amanti del nuovo, come gli States, ma che per motivi culturali e anagrafici sta arrivando ovunque, anche in paesi relativamente poveri come quelli del Nord Africa e del Medio Oriente.
È, quindi, importante cercare di capire chi ha potere su questa realtà. Col crescere del potere di Internet stanno crescendo le pressioni per ridisegnare la geografia del potere in Internet. Il potere ce l’ha chi costruisce i nostri computer e il software che li fa funzionare? O chi possiede i cavi e ci vende l’accesso alla Rete, potenzialmente monitorando tutti i nostri flussi? Chi ci permette di trovare cosa cerchiamo nell’oceano del virtuale? Chi ha tasche profonde per creare i siti più popolari e per garantire la miglior fruibilità dei contenuti? O chi gestisce le grandi piattaforme di aggregazione di blog, foto, video e le reti sociali? Ognuna di queste domande richiede risposte specifiche, spesso complementari e a volte tutt’altro che intuitive. Quel che è certo è che la libertà su Internet – ovvero un potere il più possibile nelle mani degli individui – richiede il mantenimento di uno strato trasversale di libertà a tutti i livelli, dall’effettivo controllo del nostro computer e dei nostri dati, alla possibilità di comunicare online riservatamente e senza discriminazioni.
Tale strato di libertà si può in parte assicurare con azioni dal basso, per esempio utilizzando software che protegga la riservatezza della corrispondenza elettronica e della navigazione. Ma l’intervento normativo rimane indispensabile. Da quelli volti a dichiarare l’accesso alla Rete un diritto costituzionale, come proposto dal giurista Stefano Rodotà e come ripetutamente richiesto anche dall’inventore del Web, Tim Berners-Lee, a una serie di interventi legislativi miranti a preservare le componenti fondamentali della libertà online a tutti i livelli. Se riusciremo ad applicare alla Rete i principi democratici, evitando in particolare le concentrazioni di potere, la Rete a sua volta potrà venire in aiuto delle nostre democrazie, spesso fragili, aiutandoci a renderle più compiute. In particolare, la Rete potrebbe aiutarci a riempire l’angosciante vuoto tra un evento elettorale e il successivo, articolando quel dialogo continuo tra eletti ed elettori che dovrebbe essere, al fianco dei dibattiti che avvengono tra eletti nelle istituzioni rappresentative, la fibra di ogni democrazia. Dialogo di cui c’è un urgente bisogno e che né i sondaggi né tanto meno il vociare spesso grezzo della televisione possono sostituire. È un tipo di dialogo – sia chiaro - che già avviene online tutti i giorni, coinvolgendo migliaia di cittadini. Ma sono ancora solo frammenti, avvisaglie di qualcosa che potrebbe essere e ancora non è. Occorre costruire su tali primi esperimenti, per dar loro forma e peso. In tal senso discutere del potere nella Rete coincide col parlare di una parte importante del futuro della democrazia.
da - lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/
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« Risposta #6 inserito:: Luglio 14, 2011, 03:41:20 pm » |
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14/7/2011 Missione di soccorso per l'Italia non digitale JUAN CARLOS DE MARTIN La direzione è quella giusta, ma i valori assoluti sono ancora tra i peggiori del mondo sviluppato, e per di più con forti diseguaglianze interne. Si potrebbero riassumere così i numeri dell’ultimo rapporto del Censis, intitolato «I media personali nell’era digitale», di cui ieri è stata resa disponibile una sintesi. Un’Italia spesso a due velocità, come peraltro ci aveva già detto l’Istat: giovani e persone istruite a livelli nord-europei, ma anziani e classi svantaggiate ancora a livelli da Paese in via di sviluppo. I numeri sono chiari: una fascia sempre più ampia della popolazione – anche se ancora troppo limitata se si guarda al totale - vive immersa nel web. I giovani urbani, in particolare, sono quasi tutti sui social network, guardano sempre meno televisione (che giudicano nettamente meno affidabile di Internet), leggono meno giornali di carta preferendo le informazioni online, cercano strade e località grazie agli smartphone, ritengono che Internet sia un potente mezzo al servizio della democrazia. È quanto ci aspetteremmo all’arrivo di qualsiasi nuova tecnologia: i giovani hanno meno abitudini da rompere nonché una innata propensione al nuovo. Tuttavia non possiamo adagiarci sull’anagrafe, delegando solo all’intraprendenza dei giovani il futuro digitale dell’Italia. Per due motivi: non solo i giovani diventano adulti troppo lentamente rispetto alle esigenze del Paese (e lì c’è poco da fare, alla natura non si comanda), ma i giovani italiani sono anche sempre di meno rispetto alla popolazione complessiva. Una pattuglia entusiasticamente digitale, ma con, purtroppo, un peso economico, sociale e politico in costante decrescita (almeno fino a quando la politica non si deciderà a fare qualcosa in proposito, come raccomandato, tra gli altri, dal demografo Alessandro Rosina). Occorre quindi concentrare le energie sui gruppi sociali ancora lontani dal digitale: anziani, lavoratori non specializzati, persone con basso livello di istruzione, abitanti di piccoli centri. Sono gruppi eterogenei che chiedono strategie diverse a diversi livelli. Impresa non facile per un Paese come il nostro, poco abituato a dispiegare strategie complesse che su più anni, magari a cavallo di più legislature. Ma non impossibile. Soprattutto se riuscissimo a far capire alla politica che la questione è allo stesso tempo non di parte e di grande importanza per lo sviluppo economico e sociale dell’Italia. I dati in proposito sono eloquenti: secondo il Boston Consulting Group, l’Internet economy italiana valeva 31,6 miliardi di euro nel 2010 (il 2% del Pil), ovvero, il 10% in più rispetto al 2009, contro il circa 2% dei settori più tradizionali. Impatto che sale a 56 miliardi di euro se si tengono in conto anche gli effetti indiretti del Web sull’economia, come e-procurement e acquisti nel mondo fisico di merci ricercate online. Continuando così l’Internet economy italiana arriverà a rappresentare nel 2015 tra il 3,3% e il 4,3% del Pil, ovvero tra i 59 e i 77 miliardi di euro. In altri termini, 15 centesimi di ogni euro di crescita del Pil italiano da oggi al 2015 saranno riconducibili a Internet. È una chance imperdibile per l’Italia, un Paese senza materie prime, ma con un immenso patrimonio culturale, commerciale, artigiano, industriale per il quale il web potrebbe rappresentare un volano eccezionale. A patto, però, di identificare la Rete come priorità strategica nazionale e di agire di conseguenza. A livello infrastrutturale, per rendere l’accesso a Internet più capillare e più facile in tutto il Paese. A livello economico, per favorire l’accesso alle tecnologie digitali e alla rete stessa. E, soprattutto, a livello culturale. È quest’ultimo l’obiettivo su cui concentrare le maggiori energie. Senza cittadini istruiti – e l’Italia, come ci ricorda spesso Tullio De Mauro, è il Paese sviluppato con la percentuale più bassa di cittadini che padroneggiano la loro lingua madre, appena il 20% - non avremo mai cittadini digitali. Non è facile recuperare, ma tutt’altro che impossibile. A beneficiarne sarebbe tutto il Paese, digitale e non. da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=8979
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« Risposta #7 inserito:: Agosto 14, 2011, 07:19:03 pm » |
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14/8/2011 Spegnere il Web? Così l'Occidente fa un assist ai raiss JUAN CARLOS DE MARTIN Giovedì scorso alle quattro del pomeriggio a San Francisco sta iniziando l’ora di punta per cui molte persone si dirigono verso le stazioni della Bay Area Rapid Transit (Bart) per prendere un treno per tornare a casa. In quattro stazioni, però, capita qualcosa di inaspettato: per ben tre ore, fino alle sette di sera, tutti i telefoni cellulari smettono di funzionare. Medici in reperibilità, manager, genitori ansiosi e tanti altri si riducono a fissare schermi muti e a interrogarsi sul motivo del black out. Loro non lo sanno ancora, si saprà solo il giorno dopo, ma la causa non è - come verrebbe naturale pensare - un serio problema tecnico. Piuttosto Bart, con una decisione senza precedenti, ha spento, senza preavviso, i cellulari dei propri clienti. Che cosa ha spinto Bart - che è un ente pubblico - a fare quello che la Rete in queste ore sta chiamando «un Mubarak», ricordando lo spegnimento dei telefoni cellulari e di Internet ordinato dal deposto raiss egiziano durante l’insurrezione di pochi mesi fa? Motivi di sicurezza, ha dichiarato ieri Bart. Giovedì in quelle ore e in quelle stazioni, infatti, era prevista una manifestazione di protesta contro l’uccisione il 3 luglio scorso di un senza tetto da parte di un agente della sicurezza Bart. Manifestazione che Bart ha cercato di ostacolare - apparentemente con successo, dal momento che non si è poi tenuta - spegnendo indiscriminatamente tutti i telefoni cellulari nelle zone previste come calde. Riflettiamo un momento: un’azienda di trasporti, con un processo decisionale esclusivamente interno, decide senza preavviso di interrompere la capacità di comunicare di privati cittadini (capacità per la quale i cittadini peraltro pagano) invocando generiche opportunità di sicurezza. Non sorprende che, oltre all’indignazione della Rete, le principali associazioni americane per i diritti civili, come Aclu e Eff, abbiano già severamente condannato le azioni di Bart, preannunciando battaglie legali. La compressione della libertà di parola, nella sua versione di poter manifestare pacificamente, è infatti evidente. Tuttavia colpisce che proprio nelle ore in cui Bart si preparava a sconnettere i telefoni, il primo ministro britannico David Cameron annunciava che il suo governo avrebbe preso seriamente in considerazione l’ipotesi di sospendere i servizi di Facebook, Twitter e Blackberry in caso di «credibili minacce di violenza». Una reazione ufficiale al ruolo della tecnologia nelle recenti violenze inglesi. Dopo il «Mubarak» californiano, avremo dunque presto un «Mubarak» londinese? Dopo piazza Tahir e Embarcadero Station, Trafalgar Square? È urgente ricordare a tutti i coloro che sono tentati dal girare l’interruttore che appena pochi mesi fa quella stessa tecnologia - cellulari, Facebook, Twitter - era stata giustamente celebrata come importante fattore abilitante della primavera nordafricana. L’Occidente in altre parole in questo momento sta correndo il grave rischio dell’ipocrisia: ciò che a Teheran o il Cairo è censura, sarebbe invece ragionevole misura di sicurezza se fatta a San Francisco o a Londra. Paesi autoritari come Iran e Cina non aspettano altro: per poter rispedire al mittente eventuali nostre critiche future e magari anche per comprare con maggior tranquillità le nostre migliori tecnologie di sorveglianza. In questo momento, l’Occidente deve resistere all’emotività e mostrare coi fatti di credere in ciò che predica agli altri: ovvero, pieno rispetto dei diritti dei cittadini, anche se questo comporta apparentemente maggior lavoro e maggior complessità. In modo da garantire che se il telefono diventa improvvisamente muto è solo perché ci si è dimenticati di caricarlo. da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9092
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« Risposta #8 inserito:: Settembre 05, 2011, 11:06:40 am » |
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5/9/2011 Internet sfida e occasione per le librerie JUAN CARLOS DE MARTIN A volte dico, esagerando un po’, di essere cresciuto in una libreria. Una piccola libreria indipendente di Torino i cui proprietari, marito e moglie, per anni accettarono - sempre col sorriso sulle labbra - di aver tra i piedi, a volte per interi pomeriggi, un ragazzino che sfogliava molto e comprava poco. Ragazzino che quando non era da loro era a perlustrare gli scaffali della non lontana biblioteca civica. Quanta gratitudine nei loro confronti (che spero stiano bene) e anche nei confronti della mia città, che mi garantì, in un momento cruciale della mia formazione, il diritto di accedere gratuitamente a libri e riviste. Da allora sono diventato quello che gli analisti chiamano un «lettore forte», ovvero, qualcuno che sa fin troppo bene cosa significhi comprare libri, sia in Italia sia all’estero. Allo stesso tempo però sono diventato un forte utilizzatore di qualcosa che Rocco Pinto - e la cosa un po’ mi sorprende - non menziona mai nella sua lettera, ovvero, di Internet. E da utilizzatore di Internet mi sembra impossibile parlare oggi di libri, librerie e biblioteche senza prendere in considerazione l’impatto delle tecnologie digitali inclusi gli eBook, altra parola che non compare nella lettera di Pinto. Come amante dei libri nonché utente Internet, non ho dubbi: le librerie dovranno cambiare. Dovranno infatti prima o poi inesorabilmente fare i conti con i vantaggi garantiti dalle librerie online tra cui un catalogo vastissimo consultabile dall’utente senza intermediari, consegna puntuale quasi ovunque nel mondo, liste dei desideri, suggerimenti personalizzati e recensioni spesso utili per orientarsi. Le librerie online più evolute consentono persino di sfogliare elettronicamente i libri prima di comprarli, proprio come in libreria. In questo nuovo scenario le librerie - più che combattere una battaglia di retroguardia - dovrebbero a mio avviso provare a sfruttare il loro vero vantaggio competitivo, ovvero, quello di essere uno spazio fisico immerso nel tessuto urbano in cui i loro clienti vivono e lavorano. Spazio che cooperando con entità online (che offrono gli innegabili vantaggi di cui sopra) potrà offrire qualcosa che l’online non potrà mai dare, ovvero, esperienze umane dirette. Con librai intelligenti, ma anche con autori, critici e, soprattutto, con altri amanti della lettura nonché, perché no?, di altre arti. Insomma, spazi di socializzazione e di confronto mirati a vendere prodotti, certo, ma anche - e forse soprattutto - esperienze. Una metamorfosi tanto più importante in vista dell’inevitabile affermarsi degli eBook. Da questo punto di vista il vero limite, anche se certamente non il solo, della legge Levi sul prezzo del libro è che sembra una legge degli Anni 70 del secolo scorso più che uno stimolo - come pure avrebbe potuto essere - ad affrontare il nuovo con intelligenza. Internet, però, piaccia o non piaccia a legislatori, editori e librai, non sparirà: sempre più persone useranno la rete, sempre più persone apprezzeranno gli eBook e i tablet e il flusso di innovazione, anche nei modi di fare business, non si interromperà. E’ quindi facile predire che non passerà molto tempo prima che si torni a discutere di libri e di librerie. Quando capiterà, però, questo amante dei libri sommessamente supplicherà di staccare gli occhi dallo specchietto retrovisore e di volgerli al parabrezza: c’è un mondo là davanti, diverso dal passato, ma probabilmente altrettanto entusiasmante, se non di più, per chi ama la parola scritta. Si tratta solo di capirlo e di costruirlo per tempo. twitter @demartin da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9162
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« Risposta #9 inserito:: Dicembre 15, 2011, 06:03:52 pm » |
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15/12/2011 Dati pubblici per tutti, ecco la società aperta JUAN CARLOS DE MARTIN Lunedì scorso a Bruxelles la Commissaria europea Neelie Kroes ha lanciato un'iniziativa di quelle di cui l'Europa ha un enorme bisogno in questo momento, ovvero, a basso costo ma col potenziale di generare forti rendimenti. «Trasformare in oro i dati della pubblica amministrazione», questo il titolo dell'annuncio che, in concreto, consiste nella revisione della Direttiva europea del 2003 sui dati del settore pubblico. Stiamo parlando dei dati prodotti, raccolti o acquisiti dalla pubblica amministrazione, dati che, se messi a disposizione di aziende e società civile, rendono possibili iniziative imprenditoriali, culturali e civili. Parliamo, per esempio, di dati cartografici, meteorologici, statistici, ambientali, turistici, marittimi, scientifici, culturali, sui trasporti. A Boston, dove mi trovo in questo momento, l'autorità dei trasporti locali (la MBTA) mette a disposizione i dati sulla posizione in tempo reale di bus, treni, metropolitana, permettendo a chiunque di usarli senza vincoli. Col risultato che sono state sviluppate ben trentacinque applicazioni per smartphone - alcune gratis, altre a pagamento - che permettono di usare i mezzi pubblici locali con intelligenza ed efficienza. Siamo solo all'inizio di questo movimento dei «dati aperti». A Boston come a Torino man mano che nuovi dati verranno resi pubblici, sarà possibile incrociarli permettendo lo sviluppo di applicazioni ancora più efficaci nel facilitare la vita di cittadini e aziende. Interessati, per esempio, ad andare in centro città a vedere uno spettacolo? Una applicazione potrà incrociare in tempo reale i dati - di diversa provenienza - relativi a cinema e teatri, mezzi pubblici, traffico, parcheggi e ristoranti, offrendo nel giro di pochi secondi soluzioni intelligenti per la serata. E' facile immaginare quanto un turista (e non solo) troverebbe utile un simile strumento. Altro esempio: la messa a disposizione di dati dettagliati sulla spesa pubblica permetterebbe ad associazioni e a singoli cittadini non solo di conoscere più a fondo in che modo vengono spesi i soldi delle tasse - e di identificare eventuali sprechi - ma anche di sviluppare una coscienza civica più matura. Siamo solo all'inizio, ma l'annuncio di lunedì della Commissione Europea - annuncio che è uno dei pilastri dell'Agenda Digitale per l'Europa - alzerà certamente il livello di attenzione in tutti i Paesi membri, Italia inclusa. Anche perché il ritorno economico atteso è stimato dalla Commissione in ben 140 miliardi di euro l'anno per l'Europa a 27. L'Italia in questo settore per una volta, però, non parte tra gli ultimi. Anzi, lunedì la Commissione europea ha citato, a fianco di Francia, Regno Unito e Catalogna, il portale «open data» della Regione Piemonte, dati.piemonte.it, il primo del suo genere in Italia e uno tra i primi in Europa. E sulla scia del Piemonte si sono attivate sia altre regioni italiane, come l'Emilia Romagna, sia il governo nazionale, che recentemente ha lanciato il portale dati.gov.it. E' un buon inizio, ma c'è ancora molto da fare per catturare almeno parte di quei 140 miliardi: bisogna aumentare la quantità e la qualità dei dati disponibili, favorire alleanze tra pubblico e privato, e, soprattutto, superare le resistenze di molti funzionari pubblici che si comportano come se i dati fossero loro proprietà personale e non patrimonio della collettività. Sfruttando l'iniziativa europea - che tra l'altro chiede agli Stati membri specifiche azioni - il governo Monti ha una splendida occasione per rafforzare il ruolo dell'Italia, facendola diventare davvero l'avanguardia d'Europa in questo settore. Un obiettivo che tutta la politica, senza distinzioni, dovrebbe appoggiare senza riserve. twitter: @demartin da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9547
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« Risposta #10 inserito:: Marzo 30, 2012, 05:58:56 pm » |
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30/3/2012 Diritto d'autore, niente scorciatoie JUAN CARLOS DE MARTIN È certamente possibile attribuire all’Autorità delle Garanzie nelle Comunicazioni (AgCom) compiti in materia di diritto d’autore: basta cambiare la legge sul diritto d’autore. Che il Parlamento, dunque, discuta liberamente dei diritti fondamentali in gioco - inclusa la libertà d’espressione - e di come meglio contemperarli. Poi, se lo riterrà, che modifichi la legge sul diritto d’autore assegnando specifici, circoscritti poteri ad AgCom. In una democrazia europea questa è l’unica strada percorribile - come sottolineato neanche un anno fa dall’Avvocato Generale presso la Corte di Giustizia Europea, Pedro Cruz Villalon. Qualunque alternativa sarebbe una scorciatoia politicamente inaccettabile e giuridicamente gracile. Qualifiche che certamente si applicano anche alla bozza di decreto sull’AgCom, che a quanto pare qualcuno nel Governo sta spingendo con gran forza. Confidiamo che il presidente Monti abbia una connaturata avversione per le scorciatoie. Soprattutto se con le gambe corte. da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9944
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« Risposta #11 inserito:: Maggio 14, 2012, 03:59:29 pm » |
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14/5/2012 Nomine Agcom, chance da non sprecare JUAN CARLOS DE MARTIN Immaginiamo di essere nel maggio 2019, sette anni da oggi. Negli Usa, dopo gli otto anni di Obama, la prima presidente donna degli Stati Uniti potrebbe star già pensando alla rielezione. Il presidente francese Hollande potrebbe essere già nel secondo anno del suo secondo mandato. Gli esseri umani sulla terra saranno circa 7,6 miliardi, ovvero, 600 milioni in più rispetto a oggi. In Italia, invece, sappiamo per certo che saranno ancora in carica i presidenti e i commissari delle autorità per le comunicazioni (AgCom) e per la privacy che Governo e Parlamento eleggeranno nelle prossime settimane. Sette anni, infatti, dura il mandato dei componenti delle Autorità. Un tempo molto lungo che ha i suoi buoni motivi - in particolare per garantire stabilità al variare delle maggioranze - ma che allo stesso tempo richiede un altissimo senso di responsabilità da parte di coloro che li sceglieranno. Oggi ancor più che in passato. Quei presidenti e quei commissari, infatti, presiederanno con ampi poteri regolatori un periodo non solo lungo in termini di anni, ma quasi certamente cruciale dal punto di vista storico. Molti elementi, infatti, fanno ritenere che nei prossimi anni faremo collettivamente scelte decisive in merito sia al futuro di Internet, la tecnologia del XXI secolo, sia della protezione dei dati personali, il nuovo petrolio che fa gola a interessi colossali. Mi concentrerò su Internet e quindi sulla nomina del nuovo consiglio AgCom. È ormai chiaro a tutti che Internet è il mezzo di comunicazione su cui stanno inesorabilmente convergendo stampa, radio e televisione: regolare Internet, dunque, significherà molto presto regolare tutti i media. Ma quello che invece sfugge a molte persone provenienti dal mondo dei media tradizionali è che Internet è anche molto altro. Internet, infatti, è la piattaforma che permette a più di due miliardi di persone di esprimersi, di istruirsi, di conoscersi a vicenda, di fare commercio, di usufruire di servizi, di fare politica, di associarsi, di fare volontariato, di innovare. Guardare questo universo con i soli occhiali della televisione o della stampa è tanto miope quanto come guardare una metropoli piena di attività e di persone come New York e di essa vedere solo le edicole o i cartelloni pubblicitari per strada. Al di là delle occasionali iperboli Internet offre davvero possibilità inedite: in Rete non più frequenze limitate, non più la scarsità del mondo fisico che aveva giustificato buona parte degli edifici normativi dei secoli precedenti. In un certo senso è davvero un Nuovo Mondo, come suggerito per esempio dal giurista americano David Post. E come nel Nuovo Mondo del 18˚ secolo, sta a noi contrastare l’impulso a importare - per pigrizia o per proteggere interessi esistenti - le strutture dell’ancien régime e pensare in maniera nuova. È dunque essenziale che il nuovo presidente e i nuovi commissari AgCom conoscano a fondo il nuovo mondo di Internet, i suoi limiti, il suo potenziale, le sue leggi, la sua storia, la sua cultura ormai pluridecennale. È inoltre essenziale che, considerata la posta in gioco - che non è solo economica, ma anche culturale, civile e politica - che vengano scelte - in maniera aperta e trasparente - persone manifestamente indipendenti, ovvero, senza traccia di conflitti di interesse politici o economici. A seconda delle scelte che faranno partiti, Parlamento, governo e Presidente della Repubblica nelle prossime settimane, nel maggio 2019 potremmo ritrovarci a lamentare le scelte AgCom del 2012 come un’ulteriore causa del persistente declino italiano o, come è possibile e fortemente auspicabile, come uno dei punti di partenza della ripresa. da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=10098
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« Risposta #12 inserito:: Settembre 13, 2012, 03:39:09 pm » |
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13/9/2012 Qui ci vuole una costituzione dei diritti digitali JUAN CARLOS DE MARTIN Gli smartphone, quei minuscoli computer che consentono anche di telefonare, stanno portando nelle tasche di milioni di persone i due pilastri della rivoluzione digitale: un computer tutto-fare in grado di elaborare qualsiasi informazione rappresentabile sotto forma di uni e di zeri e una connessione a Internet. Chi i computer già li frequenta apprezza gli smartphone perché permettono, in qualsiasi luogo e in qualsiasi momento, molte, anche se non tutte, delle operazioni tipiche di un computer. E gli altri apprezzano subito, anche grazie alle interfacce intuitive, il marchingegno che si ritrovano in tasca. La legge di Moore - quella che sancisce il raddoppio delle capacità di calcolo dei computer ogni 18 mesi - ha contribuito: gli smartphone sono sempre più potenti, veloci e versatili. Pochi anni fa, era impensabile che un dispositivo tascabile riuscisse a registrare e magari anche a montare video ad alta definizione: oggi è la norma. Così per le prestazioni fotografiche, per la navigazione stradale, per le funzioni di pagamento, in un crescendo imperialista che porta lo smartphone ad assorbire nella sua flessibile anima di computer un numero crescente di dispositivi una volta a sé stanti. Le conseguenze sono chiare. La prima è che lo smartphone diventa sempre di più «il» dispositivo personale. Per molti è più probabile dimenticare a casa il portafogli (che serve solo a pagare) che il proprio smartphone (che fa tante cose, tra cui pagare). La seconda è un netto aumento della produttività. Produttività lavorativa (e non solo perché il tempo del lavoro sembra espandersi senza limiti) e personale: gestione degli impegni, appunti, shopping, social network, email, tempi di arrivo dei mezzi pubblici, lettura notizie, pagamenti, e molto altro ancora. Tutto bene, dunque? Viviamo in un mondo meraviglioso che non fa che diventare sempre migliore? Non esattamente. E non solo perché questi strumenti contribuiscono a insinuare il lavoro in ogni momento della vita. Una parte importante della popolazione non può permettersi l’acquisto di oggetti costosi come questi, e del relativo abbonamento dati. Si tratta di un divario digitale che rischia di penalizzare proprio chi avrebbe più bisogno di aiuto. In secondo luogo, stiamo concentrando in quegli scintillanti parallelepipedi di vetro, metallo e silicio una parte sempre più importante e sempre più intima di noi. Chi riesce ad accedere ai nostri smartphone riesce a penetrare nella nostra vita in modi che le costituzioni non potevano prevedere. Che si tratti di criminali informatici, di aziende senza scrupoli o di governi alla ricerca di scorciatoie, il pericolo è potenzialmente grande. La soluzione non sono solo nuovi lucchetti tecnologici, ma anche e soprattutto una nuova concezione della persona che deve includere anche i dispositivi digitali della persona stessa. Alla legge di Moore, che continuerà a migliorare le prestazioni degli smartphone, dobbiamo urgentemente affiancare un «Habeas corpus et smartphone» che protegga i diritti nell’era digitale. DA - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=10524
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« Risposta #13 inserito:: Ottobre 19, 2012, 05:33:55 pm » |
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Editoriali 18/10/2012 La rete deve restare libera Al ministro degli Affari Esteri, Giulio Terzi di Sant’Agata e al ministro dello Sviluppo Economico, Corrado Passera Nei decenni scorsi chi ha progettato, sviluppato e gestito Internet è stato fautore di una struttura di “governance” che, grazie alle sue caratteristiche fortemente evolutive basate su una logica ‘dal basso’, ha contribuito in maniera determinante al successo della “la più grande invenzione del XX secolo” (definizione del Premio Nobel Rita Levi Montalcini). Una “governance” improntata al coinvolgimento diretto di tutti i portatori di interessi, alla trasparenza, al rispetto per l’innovazione e alla creatività, anche quando suscettibile di modificare paradigmi politici ed economici consolidati. Un modello di “governance” sicuramente perfettibile, ma che - a oltre 40 anni dalla nascita di Internet e a 20 anni dall’invenzione del Web - non può non essere considerato, nella sua unicità, uno dei principali fattori dello straordinario successo planetario della Rete, quale risorsa globale irrinunciabile proprio nella sua originalità rispetto agli altri mezzi di telecomunicazione. Nonostante un bilancio così fortemente positivo, però, c’è chi auspica oggi un ritorno a un mondo in cui le tecnologie delle comunicazione siano saldamente nelle mani di pochi e potenti gruppi economico-finanziari e dei governi, con scarso spazio per le ragioni degli individui, della società civile e degli innovatori. Da questa visione anacronistica nasce la proposta, portata avanti con veemenza, di attribuire all’International Telecommunications Union (Itu), con sede a Ginevra, istituto specializzato delle Nazioni Unite, potere e competenza su aspetti rilevantissimi della policy della Rete, che esorbitano la dimensione strettamente tecnica che dovrebbe caratterizzare Itu. E’ una proposta spalleggiata da importanti operatori telefonici, che hanno l’ambizione di poter decidere del traffico sulla Rete in una logica di massimizzazione del profitto, e da governi nazionali, tra cui non a caso si annoverano molti di quelli che hanno finora mal sopportato le libertà che Internet ha donato ai cittadini. Si discuterà della proposta che vorrebbe attribuire a Itu tali poteri regolatori sulla Rete alla conferenza intergovernativa Itu nota come World Conference on International Telecommunications (Wcit-12), che si terrà a Dubai il dal 3 al 14 dicembre. Noi chiediamo al governo italiano, e in particolare a voi ministri Terzi e Passera, di schierare l’Italia dalla parte della Rete, dell’innovazione, della libertà, come peraltro già raccomandato dalla Commissione europea. Per guardare al XXI secolo con fiducia riconoscendo la novità assoluta rappresentata da Internet anche nel campo dei modelli di regolazione internazionale. Promotori: Juan Carlos De Martin, Alberto Oddenino e Stefano Rodotà Adesioni: Andrea Comba, Edoardo Greppi, Angelo Raffaele Meo, Ugo Pagallo e Marco Ricolfi da - http://lastampa.it/2012/10/18/cultura/opinioni/editoriali/la-rete-deve-restare-libera-nF16iQKl0ZzE7eGXGjfrOM/pagina.html
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« Risposta #14 inserito:: Dicembre 17, 2012, 03:58:39 pm » |
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Editoriali 17/12/2012 Il rischio guerra fredda su Internet Juan Carlos De Martin Dopo mesi di discussioni accorate sul futuro di Internet e dieci giorni di lavori con 1600 delegati, Wcit, la conferenza internazionale sulle telecomunicazioni organizzata dall’Itu a Dubai, si è conclusa con un sostanziale fallimento. Ben 55 paesi, infatti, tra cui l’Europa al completo, gli Stati Uniti, il Canada, l’Australia, il Giappone e l’India, si sono rifiutati di firmare il nuovo trattato sulle telecomunicazioni, compromettendone, forse irrimediabilmente, il futuro. E’ vero che ben 89 paesi hanno invece firmato, ma la forza economica e politica degli oppositori, a partire dagli Stati Uniti, pesa come un macigno. Cosa ha deragliato una conferenza attesa e preparata da anni? Non è facile capirlo. Il punto di sensibile, infatti, era Internet, eppure la parola Internet non compare mai nelle dieci pagine del trattato (compare in una risoluzione allegata al trattato, ma le risoluzioni non hanno alcun valore vincolante). Inoltre l’articolo 1 specifica esplicitamente che il trattato «non riguarda gli aspetti relativi ai contenuti delle telecomunicazioni», espressione ritenuta da tutti significare: «no Internet». Né compare la proposta, avversata dagli Usa, di alcuni grandi operatori telefonici di far pagare il traffico Internet a Google, Facebook e gli altri grandi servizi Internet. L’unica perplessità di un certo peso la suscita l’articolo 5B, dedicato al contrasto della cosiddetta «spam» (posta elettronica indesiderata inviata a moltissimi indirizzi): con l’obiettivo di eliminare lo «spam», infatti, non si corre il rischio concreto che l’articolo 5B venga usato per legittimare pratiche invasive di ispezione dei messaggi, le stesse usate anche per censurare e sorvegliare? E poi chi decide cosa è «spam» e cosa no? L’obiezione è fondata. Ma appartiene alla categoria dei motivi che portano al deragliamento di una conferenza intergovernativa? Forse - ma c’è ragione di ritenere che i motivi dell’opposizione del blocco guidato dagli Usa siano anche, e forse soprattutto, altri. In particolare è probabile che gli Stati Uniti abbiano scelto di far capire a tutti, nella maniera più esplicita possibile, che l’attuale sistema di governo di Internet non si tocca. Il sistema di governo attuale, infatti, è articolato su organismi come Icann, Ietf e Internet Society, entità emerse nei decenni scorsi dal mondo Internet, ma proprio per questo - nonostante i numerosi tentativi di renderle sempre più rappresentative - di chiara matrice Usa. Saranno i prossimi anni a dire se la scelta degli Usa e degli altri paesi che non hanno firmato il nuovo trattato è stata positiva per lo sviluppo di Internet o se invece ha dato al via a una Guerra Fredda digitale. Se da una parte, infatti, è ragionevole concentrare gli sforzi su un miglioramento del sistema attuale di governo di Internet, che finora ha assicurato alla Rete un successo straordinario, dall’altra parte è ora di iniziare a dar maggior voce a questioni che finora sono rimaste spesso fuori dalla porta. In quale sede discutere efficacemente, per esempio, di chi vince e di chi perde a livello economico con Internet? Dove decidere in tema di diversità culturale? In quale sede globale porsi seriamente il problema di come portare Internet a quella larga parte della popolazione mondiale che ne è ancora esclusa? Sono temi importanti e se l’Itu, con la sua logica intergovernativa, non è l’entità adatta per trattarli, ciò non vuol dire che si possano sostanzialmente ignorare. Qualunque sia la sede, comunque, la chiave per superare sia le pulsioni egemoniche dei governi sia i concreti interessi delle multinazionali è la società civile. E’ la società civile globale, infatti, con le sue organizzazioni non profit, le università, gli intellettuali, che può meglio assicurare che Internet rimanga uno strumento al servizio delle persone, nonché, come da anni dice Stefano Rodotà, il più grande spazio pubblico della storia dell’umanità. da - http://lastampa.it/2012/12/17/cultura/opinioni/editoriali/il-rischio-guerra-fredda-su-internet-XKC7Udht3AVuqM9Hu7VULJ/pagina.html
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