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« Risposta #15 inserito:: Gennaio 02, 2013, 05:17:05 pm » |
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Editoriali 02/01/2013 Il digitale non può aspettare Juan Carlos De Martin In questa convulsa campagna elettorale si parla molto di liste, schieramenti e candidati, ma troppo poco di contenuti. Come se l’attenzione per nomi e simboli potesse sostituire quel confronto serrato sui problemi senza il quale non si capisce come gli elettori possano votare in maniera informata. E relativamente a poco servono i programmi elettorali, documenti spesso generici e comunque quasi mai oggetto di un vero dibattito pubblico. Tra le molte, pressanti questioni che deve affrontare l’Italia c’è anche quella del digitale. Uso apposta il termine «digitale» invece che Ict (Information and Communication Technologies) perché intendo qualcosa di decisamente più ampio delle tecnologie in quanto tali. Mi riferisco alla profonda trasformazione di società, cultura ed economia provocata dal digitale; trasformazione che è già uno dei fenomeni distintivi del presente, ma che caratterizzerà ancora di più i prossimi anni. Una rivoluzione che, pensando alla prossima legislatura toccherà trasversalmente tutti i Ministeri e tutte le commissioni legislative. Le forze politiche che tra meno di due mesi chiederanno il voto agli italiani cosa pensano di fare affinché l’Italia sia pronta a usare il digitale - la tecnologia chiave del XXI secolo - a proprio vantaggio? I loro esperti nei vari settori, - dall’istruzione ai trasporti, dalla difesa ai media - che idee hanno sul digitale? Non basta avere qualcuno che si occupi di «innovazione» o di Ict: il tema è ben più vasto e trasversale, e richiede consapevolezza e competenze nuove. Non a caso grandi Paesi come gli Usa e la Cina si sono dati, e non da ieri, vere e proprie strategie digitali a 360 gradi. Le ricadute, infatti, riguardano tutti i settori. Ricadute che è importante che le forze politiche siano in grado di analizzare con risorse interne sia per evitare di essere troppo influenzabili da interessi particolari, sia per articolare la loro propria visione politica in merito al digitale. Perché se è vero che certi obiettivi, come il superamento del divario digitale, sono sostanzialmente condivisi da tutti, altri sono suscettibili di venir declinati diversamente a seconda delle diverse visioni politiche. Si pensi in particolare alla scelta, squisitamente politica, di come bilanciare tra loro diversi obiettivi di fondo, come per esempio sicurezza e riservatezza. Oppure se e come dare peso al diritto stesso di accedere a Internet. Stefano Rodotà ha proposto di inserire un nuovo comma nell’articolo 21 della Costituzione: «Tutti hanno eguale diritto di accedere alla Rete Internet, in condizione di parità, con modalità tecnologicamente adeguate e che rimuovano ogni ostacolo di ordine economico e sociale». Cosa ne pensano le forze politiche della proposta Rodotà? Ce n’è qualcuna pronta a sostenerla concretamente nella prossima legislatura? O, ancora, quali forze politiche sono disposte a prendere sul serio Internet nel ripensare i propri processi decisionali e i propri rapporti con iscritti, simpatizzanti e pubblica opinione? Non si tratta solo di andare su Facebook o di usare Twitter: il potenziale è molto più grande, c’è in gioco la possibilità di realizzare per la prima volta sul serio forme avanzate di democrazia partecipativa. E’ importante che su questi e altri temi le forze politiche si esprimano adesso: nel redigere i programmi, nel selezionare i candidati e poi quando formeranno il prossimo governo. Nel digitale, infatti, l’Italia parte già in forte svantaggio, regolarmente collocata verso il fondo di tutte le classifiche europee e Ocse. Con gli altri Paesi che continuano a investire risorse - intellettuali oltre che economiche - sul digitale, non possiamo permetterci di non sfruttare al massimo l’occasione rappresentata dalla prossima legislatura. da - http://lastampa.it/2013/01/02/cultura/opinioni/editoriali/il-digitale-non-puo-aspettare-ATNgncClJSfz1ekAHoJe1J/pagina.html
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« Risposta #16 inserito:: Maggio 06, 2013, 11:47:32 am » |
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Editoriali 05/05/2013 La nuova sfida: educare chi va sul web Juan Carlos De Martin Prima archivieremo la contrapposizione fumettistica tra perfidi cavalieri neri che vogliono azzittire la Rete e candidi cavalieri jedi che ne difendono l’immacolata libertà e prima ci faremo tutti un grande favore. La questione, infatti, è quella della libertà di espressione, uno dei cardini della modernità e della democrazia - questione troppo importante per permetterci semplificazioni. In Italia il dibattito su libertà di espressione e Web è in corso da anni, ma ora è stato rilanciato dai Presidenti Grasso e Boldrini, rispettivamente seconda e terza carica dello Stato. Accogliendo il loro autorevole invito, tentiamo allora di articolare una «cognizione delle cose particulari» (Machiavelli, «Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio», I, 47) evitando contrapposizioni e generalità. Con grande rispetto per il ruolo dei Presidenti, ma ancor di più per i fatti. Primo fatto: il Web non è mai stato e non è una terra senza leggi. Tutti gli articoli del codice penale che regolano le espressioni umane (tra cui diffamazione, istigazione a delinquere, sostituzione di persona e trattamento illecito di dati personali) si applicano ai puntini luminosi che compaiono sugli schermi esattamente quanto alle goccioline di inchiostro sulla carta e alle onde sonore di voce, radio e televisione. Quindi non aiuta il pensiero, e men che meno l’azione politica, parlare di «anarchia» o evocare il «Far West». Si ritiene che gli attuali articoli del codice penale non siano sufficientemente precisi o esaurienti per coprire tutta la casistica dei comportamenti criminali? Se ne discuta; ma il primo passo della discussione dovrebbe essere l’identificazione delle specifiche attività non ancora contemplate dal codice che si ritiene che debbano diventare penalmente rilevanti. Tuttavia, a leggere con attenzione le interviste e le dichiarazioni sembrerebbe che il problema in realtà consista nella carente applicazione delle norme esistenti, più che in carenze legislative. In particolare si lamenta la frequente lentezza del percorso giudiziario. Tale lentezza è in parte legata alle ben note caratteristiche del sistema giudiziario italiano, ma nel caso del Web si sommano altri due fattori: il carattere internazionale della Rete e la vastità del fenomeno, ovvero, l’elevato numero delle persone che ogni giorno sul Web diffamano, minacciano, incitano a delinquere, eccetera. Riguardo al primo fattore, è un dato di fatto che il percorso che porta alla rimozione di un contenuto illecito può essere lungo, soprattutto se i server sono all’estero o se gli intermediari (quando ci sono) pretendono, come peraltro è giusto che sia, il pieno rispetto dei diritti dei loro utenti. Tuttavia non è un caso che non basti una semplice segnalazione per rimuovere un determinato contenuto: occorre infatti bilanciare diritti fondamentali contrapposti, bilanciamento che da molto tempo abbiamo collettivamente deciso di demandare, per la sua delicatezza, ai giudici e non, per esempio, a procedure amministrative. Il secondo fattore, ovvero, l’elevato numero delle persone coinvolte, è a mio avviso quello decisivo. Le reti sociali, infatti, hanno improvvisamente permesso a chiunque con un accesso alla Rete (circa un italiano su due) di dire con estrema facilità quel che gli passa per la testa. Di conseguenza i pensieri meschini, violenti, ignoranti, razzisti, misogini (ma anche gentili, colti, poetici) che fino a ieri rimanevano confinati nell’ambito ristretto di pianerottoli, bar e tram ora compaiono su bacheche di portata potenzialmente planetaria. In altre parole, il contenuto delle teste di molti italiani (non tutti, tendenzialmente i più estroversi e disinibiti) si è riversato online. Il risultato può commuoverci o informarci, ma anche lasciarci allibiti, indignati o addirittura feriti. Ma, che ci piaccia o meno, sono nostri concittadini che pensano quelle cose - non alieni. Il Web mette loro in mano carta e penna e offre una bacheca a cui appendere i loro foglietti: sta agli utenti decidere come usare questa possibilità. A mio avviso, quindi, la vera sfida che abbiamo davanti è educativa. Parafrasando d’Azeglio: abbiamo fatto la Rete, ora dobbiamo fare gli internauti. Sfida educativa non solo nel senso di Tullio De Mauro, ovvero, di portare a livelli di civiltà la percentuale di italiani - al momento appena il 20-25% - dotati degli strumenti cognitivi per orientarsi ed esprimersi in una società moderna. Ma anche nel senso specifico di istruire gli italiani (semplici cittadini ma anche insegnanti, magistrati, giornalisti, politici) su possibilità e limiti della comunicazione online, sui principi etici che dovrebbe regolarla, sulle norme sociali che la Rete stessa ha prodotto fin dagli Anni 70 (la cosiddetta «netiquette») e, infine, sui limiti invalicabili imposti dalla legge. Solo così potremmo superare con successo questa primissima fase dello sviluppo di massa della Rete, questa tumultuosa adolescenza. Con gli italiani un po’ più consapevoli e senza scorciatoie potenzialmente dannose per la democrazia. da - http://lastampa.it/2013/05/05/cultura/opinioni/editoriali/la-nuova-sfida-educare-chi-va-sul-web-lSPPIHDJmwrx60VG3j37dJ/pagina.html
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« Risposta #17 inserito:: Giugno 08, 2013, 06:14:07 pm » |
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Editoriali 08/06/2013 Quello scambio fra libertà e sicurezza Juan Carlos De Martin Per capire il senso delle rivelazioni di questi giorni, è opportuno fare un passo indietro, fino ai campus americani di metà Anni 60. Allora, a Berkeley e altrove, gli studenti protestavano contro una macchina che per loro era il simbolo del Sistema che volevano riformare, ovvero, il computer. Nato durante la Seconda Guerra Mondiale, infatti, il computer era rapidamente diventato una delle macchine cardine della Guerra Fredda. Cardine perché strumento in grado di effettuare i calcoli balistici e scientifici necessari a garantire la supremazia militare americana. E cardine perché il computer consentiva di padroneggiare, tramite l’acquisizione e l’elaborazione di informazioni, sia lo scacchiere internazionale, sia, in parte, la società. Appena pochi anni dopo, però, negli Anni 70 e 80, la situazione sembra ribaltarsi: il computer, infatti, da macchina grande, costosa e controllata dal «Sistema», diventa piccolo, economico e personale. Il simbolo del controllo e persino dell’oppressione viene celebrato da molti, e non senza ragione, come strumento di liberazione e di «empowerment» dell’individuo. Col decollo di Internet, poi, l’entusiasmo dei libertari digitali è alle stelle, come dimostra in modo emblematico la Dichiarazione di Indipendenza del Cyberspazio del 1994. Ma proprio a metà degli Anni 90 diversi fattori convergono per cambiare lo scenario. Il primo è l’emergere delle grandi piattaforme che da una parte rendono molto più facile pubblicare online, blog, foto, video, ecc., ma che dall’altra rendono possibili forme altamente efficienti di sorveglianza delle attività degli utenti. Con l’emergere di piattaforme dominanti, poi, i Governi - e in particolare quello americano, visto che quasi tutte le piattaforme sono basate negli Usa - tornano ad avere la situazione preferita ovvero alcuni, pochi interlocutori a cui chiedere favori o dare ordini. Il secondo fattore è la diffusione di massa degli «smartphone», computer sempre connessi che contengono e producono una quantità enorme di dati sulla nostra vita personale e professionale. Il terzo fattore è l’incredibile riduzione dei costi di immagazzinamento dati, costi così bassi che a un certo punto diventa possibile, anche per governi non particolarmente dotati di mezzi, memorizzare le tracce digitali prima di alcuni cittadini, poi di milioni di cittadini e infine di tutti i cittadini. Con l’11 settembre 2001 la politica americana (e non solo), consapevole dei fattori di cui sopra, reagisce all’attentato cambiando il corso della storia digitale. Torna prepotente il desiderio, nato con la Guerra Fredda, di sviluppare una «consapevolezza informativa totale», che però questa volta si realizza davvero, visto che è diventato economicamente sostenibile ciò che una volta avrebbe richiesto risorse che nemmeno il Paese più ricco del mondo poteva mettere in campo. Al posto dell’Unione Sovietica, c’è ora il terrorismo. Al posto di pochi «mainframe», ci sono miliardi di telefoni e di computer nelle tasche e nelle case di molti. Al posto del web decentralizzato degli esordi, c’è una manciata di grandi piattaforme, usate da miliardi di persone e praticamente tutte americane. Se oggi gli studenti tornassero a protestare avrebbero, quindi, un bersaglio molto più difficile dei loro predecessori degli Anni 60. Un bersaglio nelle tasche di ciascuno di loro, un bersaglio profondamente ambiguo perché portatore anche di grandi benefici personali e collettivi. La protesta dovrebbe allora necessariamente abbandonare l’attenzione alla macchina in quanto tale per concentrarsi sulle grandi questioni della democrazia e dei diritti. Ponendo con forza soprattutto due domande: quanta libertà siamo pronti a sacrificare in cambio di (forse) più sicurezza? E quanto a lungo può sopravvivere la democrazia se le attività dei governi non sono soggette a limiti e a controlli? da - http://lastampa.it/2013/06/08/cultura/opinioni/editoriali/quello-scambio-fra-libert-e-sicurezza-byK5Zs6QCih72lbQoO9FeN/pagina.html
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« Risposta #18 inserito:: Giugno 15, 2013, 08:46:45 am » |
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Editoriali 14/06/2013 Un passo avanti, ma nella banda larga l’Italia è ferma Juan Carlos De Martin Il presidente del Consiglio, con un tweet, ha annunciato la nomina di Francesco Caio a “Mr Agenda Digitale”. Al di là delle innegabili competenze della persona, la creazione di un Mister Digitale che risponde direttamente a Enrico Letta è un passo potenzialmente importante per almeno due motivi: perché supera il rischio di conflitti tra ministeri e perché aumenta la rilevanza politica dell’agenda digitale. Era decisamente ora. Proprio ieri, infatti, la Commissione europea ha pubblicato i dati relativi alla situazione dell’Agenda Digitale europea e l’Italia, ancora una volta, arranca. Qualche dato: in Italia le connessioni a banda larga mediamente veloci (sopra i 10 milioni di bit al secondo, Mb/s) sono appena il 14%, contro una media europea del 59%; solo Cipro fa peggio di noi. Per non parlare delle connessioni veloci (sopra i 30 Mb/s) e velocissime (sopra i 100 Mb/s), quasi inesistenti in Italia, ma che in Europea sono già rispettivamente il 15% e il 2%. Basso anche il numero di utenti che usano Internet almeno una volta alla settimana - sono il 53%, contro il 70% della media europea - e la percentuale di individui che hanno usato servizi di eGovernment: solo il 19%, ultimi in Europa dopo Bulgaria, Croazia e Cipro. Deprimenti anche quasi tutti gli indicatori sul commercio elettronico e sull’uso di servizi Internet. E’, dunque, impegnativa l’agenda finita nelle mani di Francesco Caio, che dovrà articolare una strategia di intervento con almeno tre filoni principali. Il primo è quello infrastrutturale: portare la larga banda dove ancora non c’è e aumentare velocità e qualità di tutte le connessioni. Se ne discute da anni, ma ora è tempo di passare ai fatti per evitare che il distacco rispetto al resto d’Europa aumenti ulteriormente. Il secondo filone è quello economico: particolarmente nel mezzo di una recessione economica di portata storica, davvero speriamo di portare online quella considerevole parte della popolazione che fa fatica ad arrivare a fine mese senza qualche forma di aiuto? Sia attrezzando biblioteche e spazi pubblici con computer e Wi-Fi sia con sostegni all’acquisto dobbiamo trovare modi efficaci e sostenibili per chiudere il divario economico. Infine il terzo filone, ovvero, quello della lotta al divario culturale. Sono milioni, infatti, gli italiani ai quali mancano gli strumenti culturali per beneficiare della Rete. Mr Agenda Digitale, d’intesa col Ministro dell’Istruzione, dovrà occuparsi anche di loro. Cavi e schermi, infatti, servono a qualcosa solo se ci sono cittadini e lavoratori in grado di metterli a frutto. DA - http://lastampa.it/2013/06/14/cultura/opinioni/editoriali/un-passo-avanti-ma-nella-banda-larga-litalia-ferma-BgpJCuYEUWFJs7HqFubevO/pagina.html
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« Risposta #19 inserito:: Luglio 23, 2013, 04:28:48 pm » |
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Editoriali 23/07/2013 La palla al piede del Wi-Fi italiano Juan Carlos De Martin Il Wi-Fi in Italia sembra affetto da una maledizione. Ogni volta, infatti, che il suo uso sembra sul punto di venir finalmente liberalizzato qualche contraddizione nelle norme, qualche codicillo ignorato, qualche lacciolo ancora vigente salta fuori e si mette di traverso. Ritardando, quindi, il diffondersi in Italia di un’esperienza che all’estero è da anni normale, mentre da noi è ancora rara, ovvero, sedersi in un caffè, una biblioteca o un aeroporto e connettersi direttamente, semplicemente a Internet. Senza compilare moduli più o meno complessi, senza fornire i dati della propria carta di credito, senza doversi iscrivere a servizi di autenticazione. Sembra scontato, ma in Italia non lo è. E non da ieri: sono, infatti, ben otto anni che l’Italia ci tiene a far sapere al mondo che il Wi-Fi - la modalità di accesso a Internet più semplice, più economica, la più disponibile in dispositivi di tutti i tipi - proprio non le garba. Otto anni inaugurati nel luglio 2005, quando, subito dopo l’attentato di Londra, il governo Italiano fece, emanando il cosiddetto decreto Pisanu, una scelta senza paragoni nel mondo sviluppato, ovvero, impose non solo l’identificazione con documento d’identità di chiunque accedesse a Internet da una postazione pubblica (Wi-Fi o fissa), ma anche la preservazione delle relative tracce della navigazione. Così facendo, veniva, in nome della sicurezza, affibbiata una palla al piede del Wi-Fi italiano precisamente nel momento in cui il Wi-Fi si accingeva a esplodere in tutto il mondo, nelle catene di negozi come nelle biblioteche, nei campus universitari come nei giardini pubblici. In Italia, infatti, il bar o la biblioteca che avesse voluto offrire connettività ai propri utenti doveva non solo dotarsi di connessione a Internet e degli appositi punti di accesso Wi-Fi, ma doveva anche preoccuparsi di identificare in maniera forte ogni singolo utente e di dotarsi di apposito software per l’archiviazione dei relativi dati di navigazione. Troppo per un paese già poco digitale di suo come l’Italia. Veniva quindi a mancare il terzo pilastro che, a fianco dell’accesso fisso e del cellulare, altrove è servito e tuttora serve a diffondere Internet, appunto, il Wi-Fi. Lasciando agli italiani in mobilità una sola scelta, ovvero, l’accesso a Internet tramite la rete cellulare, non a caso uno dei pochi ambiti dove gli Italiani primeggiano nel panorama digitale internazionale. Nel maggio 2010, però, il lancio dell’Agenda Digitale europea aumenta la consapevolezza dell’arretratezza digitale dell’Italia, che secondo un gran numero di indicatori oscilla intorno al 24° posto su 27 paesi. Si rafforzano, quindi, le voci che sottolineano l’assurdità del decreto Pisanu in un paese in così grave ritardo digitale come il nostro. A fine 2010 parti cruciali del decreto Pisanu non vengono prorogate, aprendo varchi importanti verso la piena liberalizzazione del Wi-Fi in Italia. Ma rimangono ancora alcuni dubbi normativi, sufficienti a spaventare la maggior parte degli esercizi commerciali e la quasi totalità delle pubbliche amministrazioni (con la lodevole eccezione della Regione Piemonte). E’ da allora, quindi, che si attende un intervento legislativo che spazzi via gli ultimi ostacoli e dia il via libera definitivo al Wi-Fi italiano. Ancora nei giorni scorsi un emendamento al decreto del governo ha riproposto i vecchi ostacoli. Il presidente della commissione Bilancio Francesco Boccia ieri sera ha promesso che le difficoltà saranno superate e l’accesso diventerà finalmente libero. Sarà vero? Oggi lo sapremo. da - http://www.lastampa.it/2013/07/23/cultura/opinioni/editoriali/la-palla-al-piede-del-wifi-italiano-ycZk3jrLxJ65pEaEwwvTTJ/pagina.html
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« Risposta #20 inserito:: Luglio 28, 2013, 10:33:11 am » |
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Editoriali 27/07/2013 Crowdfunding, le “collette” per il rilancio Juan Carlos De Martin Da oggi arriva in Italia il regolamento Consob sul finanziamento delle start-up col «crowdfunding». È il primo regolamento del genere in Europa. I cittadini potranno finanziare le nuove imprese innovative che abbiamo determinati requisiti. «Crowdfunding» e «crowdsourcing» sono due tra le parole più di moda del momento. Indicano, rispettivamente, finanziamenti (funding) o contributi di altra natura (outsourcing) provenienti da semplici individui (crowd, ovvero, la folla). Ma se entrambe le parole hanno solo pochi anni di vita (sono state coniate nel 2006), i due concetti sono antichi di secoli. I più disincantati infatti potrebbero dire che invece di «crowdfunding» si potrebbe semplicemente dire colletta e citare le raccolte di fondi che hanno permesso di realizzare, per esempio, sia molti monumenti (da quelli dedicati a eroi del Risorgimento alla Statua della Libertà) sia numerosi libri (come l’edizione dei lavori di Martin Lutero pubblicata da Johann Heinrich Zedler nel ’700). E potrebbero ridimensionare anche la novità del «crowdsourcing» ricordando, per esempio, i 6 milioni di contributi inviati da persone di tutto il mondo per arricchire l’Oxford English Dictionary a partire dalla metà dell’800. Tutto vero. Eppure rispetto al passato qualcosa di nuovo c’è davvero e quel qualcosa è, come spesso capita in questi anni, una conseguenza della rivoluzione digitale. Grazie a Internet, infatti, raccogliere sia fondi sia contributi di altra natura (purché rappresentabili sotto forma di bit) è diventato immensamente più facile rispetti ai tempi di Johann Zedler o dell’Oxford English Dictionary. E’, infatti, diventato più facile comunicare, raccogliere i contributi e restare in contatto con i contributori. E’ diventato più facile comunicare che cosa si chiede e perché lo si chiede: basta un sito web, magari arricchito da video accattivanti. E’ diventato più facile ricevere i contributi: per i soldi basta saper accettare carte di credito o bonifici, mentre per i contributi basta la posta elettronica, un «wiki» o una cartella condivisa. E’ diventato più facile rimanere in contatto con la comunità dei contributori: basta un sito web o anche solo Facebook. Processi vecchi di secoli vengono dunque fortemente democratizzati, permettendo a chiunque in grado di usare con un minimo di abilità la Rete di chiedere a una platea potenzialmente mondiale aiuto per la realizzazione di un proprio progetto. Per fare cosa? I campi di applicazioni del crowdfunding sono moltissimi. Nel 2008 Obama nel corso della sua prima campagna elettorale sfrutta con sapienza il Web per raccogliere milioni di piccoli contributi; un chiaro segnale, fortemente politico, di affrancamento dai poteri forti e dai loro assegni. L’anno dopo viene fondata Kickstarter.com, che diventa in breve tempo la più famosa piattaforma di «crowdfunding». Grazie a Kickstarter vengono incisi album, girati film, scritti libri, realizzati prototipi innovativi e molto altro ancora. Parliamo di oltre centomila progetti, di cui quasi la metà realizzati, per contributi che ammontano complessivamente a 717 milioni di dollari (quasi 540 milioni di euro). L’evoluzione continua e oggi le piattaforme di crowdfunding si stima che siano quasi cinquecento, tra cui alcune italiane, per un giro di contributi di circa tre miliardi di euro nel 2012, e di circa il doppio, secondo alcune stime, per il 2013. Si è, quindi, stabilmente affermato un nuovo, importante canale per il finanziamento di iniziative di vario tipo, che si affianca ai canali tradizionali, come il finanziamento pubblico e gli sponsor. E’, però, bene aver presente che il crowdfunding richiede non solo una generica competenza nell’uso degli strumenti digitali, ma anche e soprattutto la capacità di catturare l’attenzione dei navigatori e di convincerli a contribuire. Obiettivo non facile in generale, ma che col crescere del numero dei progetti, e quindi della competizione, diventerà per forza di cose sempre più difficile da raggiungere. Tanto più se l’economia non riprenderà a girare, rimettendo qualche soldo in tasca a tutti noi, folla di potenziali finanziatori di poeti e ricercatori. da - http://www.lastampa.it/2013/07/27/cultura/opinioni/editoriali/crowdfunding-le-collette-per-il-rilancio-Bxn2UuqOFQ51bzGrL4Ub6H/pagina.html
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« Risposta #21 inserito:: Novembre 03, 2013, 06:43:26 pm » |
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Editoriali 03/11/2013 - L’analisi La soluzione vera si chiama democrazia Juan Carlos De Martin Vecchio contro nuovo, generazione dei «padri» contro quella dei «figli»: una formula che funziona alla meraviglia nei media come in politica. E’ quello che devono aver pensato quelli del «Financial Times» quando hanno deciso di enfatizzare le differenze tra Bill Gates e Mark Zuckerberg in materia di priorità sociali. Da una parte il principale esponente della prima generazione di imprenditori digitali, quella del personal computer, il fondatore di Microsoft, 58 anni, secondo uomo più ricco del pianeta. Dall’altra forse il più visibile rappresentante della generazione Web, il fondatore di Facebook, 29 anni, quasi 17 miliardi di dollari di patrimonio personale. Un confronto «padre-figlio» tra miliardari famosi in tutto il mondo: come resistere? Al di là degli aspetti mediatici, però, il tema dello scontro Gates-Zuckerberg è importante. Si tratta, infatti, di decidere come spendere quei miliardi di dollari che i magnati digitali decidono - seguendo una meritoria tradizione anglosassone - di restituire ogni anno alla società. Dedicarli al digitale portando online i cinque miliardi di esseri umani che ancora non lo sono, come vorrebbe fare, per altro in buona compagnia, Zuckerberg? D dedicarli a combattere piaghe devastanti come la malaria, come invece si è impegnato a fare, oltre al resto, Bill Gates con la sua potente fondazione? Sono due modi, radicalmente diversi, di intendere le priorità sociali del nostro tempo: tecnocentrico il primo, più umanista il secondo. Tutti, Gates incluso, concordano che dare Internet a ogni essere umano sia un obiettivo molto importante (a proposito: Mark, per favore ti occupi anche dell’Italia? Da noi quasi una persona su due è ancora offline. Grazie!). Ma ha ragione Gates quando dice che la priorità dovrebbe essere data ai «bisogni umani», ai «bambini che non devono morire», alle persone che hanno bisogno di istruzione. Bisogna insomma avere l’umiltà di mettersi al posto delle persone che si vogliono aiutare e capire che il loro bisogno di acqua potabile, cibo, cure mediche, protezione dalle discriminazioni per motivi sessuali, religiosi o politici vengono in generale molto prima del loro bisogno di smartphone e banda larga. O, in ambito educativo, che viene prima il bisogno di un’aula pulita, un insegnante preparato e di avere 20 alunni invece di 60, e poi - solo poi - il bisogno di tablet e «app». Tuttavia, nonostante queste differenze, Gates e Zuckerberg (e molti altri come loro) sono in realtà molto simili. Sono, infatti, dei tecnocrati. Per loro conta solo l’organizzazione, l’evidenza scientifica, la logistica. E così non si accorgono del carattere profondamente politico delle loro scelte. È più importante combattere la malaria o la fame nel mondo? È socialmente più utile dare telefoni cellulari alle donne a rischio violenza o carrozzelle ai paralizzati? L’algoritmo per rispondere a queste domande, cari amici digitali, semplicemente non esiste. O meglio, esiste, ma non è quello a cui pensano Gates, Zuckerberg, Page e Bryn. Si chiama democrazia. Imparate a sostenerla e ad apprezzarne la sua saggezza. Da - http://lastampa.it/2013/11/03/cultura/opinioni/editoriali/la-soluzione-vera-si-chiama-democrazia-7zYXFwJhHWHInoR3LYCO8J/pagina.html
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« Risposta #22 inserito:: Febbraio 17, 2014, 07:15:36 pm » |
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Editoriali 17/02/2014 Le condizioni per l’Internet europeo Juan Carlos De Martin Fa un po’ sorridere l’idea che un capo di governo europeo - come la Cancelliera Merkel ieri - scopra all’improvviso che molto traffico Internet europeo passi fisicamente per gli Usa. O che i giganti del Web basati oltre-Oceano non siano pienamente soggetti alle regole sulla privacy dell’Unione Europea. E’ possibile, infatti, che i suoi analisti non l’abbiano mai informata che per motivi economici da molti anni, forse da sempre, spesso è più conveniente passare dagli Usa anche se si vuole mandare una email da, per esempio, Torino a Berlino? E’ possibile che il suo ministro che si occupa di privacy non l’abbia mai informata che dal lontano 2000 esiste un accordo Europa-Usa (approvato anche dalla Germania) chiamato «Safe Harbor» («porto sicuro») che di fatto consente alle aziende web Usa di operare in Europa senza il pieno rispetto delle rigorose norme europee sulla privacy? Ovviamente un politico attento come la Cancelliera Merkel non può non conoscere questi dati di fatto fondamentali relativi a Internet e ai dati personali dei cittadini europei. Tuttavia, da politica navigata qual è, sa bene che in questi casi è politicamente conveniente fingersi ignari del passato in modo da poter chiudere un occhio sulle responsabilità - sue, dei suoi predecessori e dei suoi colleghi europei - e guardare avanti. Ma veniamo al merito delle intenzioni che Angela Merkel ha espresso alla vigilia del suo incontro col presidente francese. La prima intenzione è quella di far sì che il traffico Internet che collega mittenti e destinatari europei non esca, lungo la strada, dall’Europa, e in particolare non passi dagli Stati Uniti. Così come una raccomandata da Voghera a Lione di norma non passa per Dallas, così come una telefonata da Amsterdam a Barcellona di norma non passa per Mosca, allo stesso modo si vuole che la posta elettronica e gli altri flussi dati tra europei non passino per New York o Pechino. Ora non è così. Come già accennato, infatti, per motivi che sono quasi sempre banalmente economici - ovvero, di minimizzazione dei costi - il traffico Internet tra due destinazioni europee passa non infrequentemente per l’estero, e in particolare passa per gli Stati Uniti che, anche per aver inventato e sviluppato Internet, hanno una infrastruttura di trasmissione dati molto competitiva. Tenere il più possibile in Europa i flussi dati intra-europei è un obiettivo ampiamente condivisibile. Paesi come Usa, Cina e Russia sono probabilmente da sempre attenti alle traiettorie fisiche dei propri dati web, ed è un bene che anche l’Europa si ponga finalmente il problema. L’effettiva implementazione, però, non sarà semplice. Da una parte, infatti, bisognerà mettere da parte il dogma che la mano invisibile del mercato sia la risposta, sempre e comunque, a qualsiasi problema. Dall’altra, bisognerà accuratamente evitare di «balcanizzare» la Rete, ovvero, di spezzare l’attuale Rete globale in sotto-reti nazionali o macro-regionali. A mio avviso è possibile farlo adottando un appropriato mix di «moral suasion», incentivi e regole, ma, ripeto, non sarà semplice: occorrerà molta accortezza, anche tecnica, e un acuto senso per le possibili conseguenze inattese di scelte in apparenza innocue. Il secondo obiettivo della Cancelliera Merkel riguarda i dati personali. Tutti gli addetti ai lavori sanno benissimo che in Europa esiste un’asimmetria tra le aziende Usa e quelle europee. Le prime, infatti, possono usufruire del «Safe Harbor», l’accordo Usa-Europa sopra ricordato, che di fatto consente loro di operare con regole sulla privacy meno stringenti di quelle che invece valgono per i loro concorrenti europei. Questa asimmetria - che struttura il mercato dei dati personali a favore degli Usa - deriva, però, da una precisa politica europea, Germania inclusa. Si è trattato all’epoca - con ogni probabilità - del risultato di qualche compromesso tra i molti dossier che giacciono sempre sul tavolo Usa-Europa. Ora Merkel sta forse segnalando l’inizio della messa in discussione del «Safe Harbor» sulla privacy. Se questo annuncio avrà seguito dipenderà dal sostegno che la Cancelliera riceverà dagli altri Paesi europei, sostegno che a sua volta dipenderà in larga misura dal prezzo che inevitabilmente ci sarà da pagare in qualche altro settore degli scambi Usa-Europa. Nei prossimi mesi vedremo se i nostri governi, italiano incluso, saranno disposti a sacrificare qualcosa in nome di una più stringente tutela dei dati dei cittadini europei. Twitter: @demartin Da - http://www.lastampa.it/2014/02/17/cultura/opinioni/editoriali/le-condizioni-per-linternet-europeo-bwwi0SY2cAs3k5i0jSsCCO/pagina.html
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