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Autore Discussione: Francesco COSSIGA  (Letto 7469 volte)
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« inserito:: Agosto 10, 2010, 11:00:20 pm »

10/8/2010 (7:49)  - LA BATTAGLIA PIU' DURA DEL GRANDE PICCONATORE

Cossiga, una vita controcorrente
   
Una lunga carriera in politica e nelle istituzioni

PAOLO FESTUCCIA

La foto della scuola, e poi quelle dell’infanzia. La bandiera italiana, quella americana, targhe, e riconoscimenti. Il mondo di Francesco Cossiga, nella sua casa in via Quirino Visconti, nel centralissimo quartiere di Prati, è tutto questo. Il tempo che scorre, con la storia del Paese, le difficoltà, il potere, ma anche la solitudine degli ultimi mesi. Una solitudine di cui si parlava, si facevano ipotesi, ma anche allusioni preoccupate, in tanti ambienti, per le sue condizioni di salute. Ma Cossiga leggeva i giornali, rifletteva, guardava e si interessava alla vita politica di un Paese, forse troppo lacerato e diviso. Certo, da un po’ evitava commenti - il suo forte per acutezza, prontezza e ironia - interviste, dichiarazioni. Un silenzio misterioso, tanto inatteso quanto allarmante. Poi, la corsa di ieri al policlinico «Gemelli» di Roma, il ricovero, la crisi respiratoria e le complicazioni. Quadro clinico complesso, ma stabile. E così, in una giornata, in poche ore, la vita di Francesco Cossiga, dopo giorni di silenzio è tornata pericolosamente ad animarsi. E quei timori, quelle sensazioni che dal dicembre scorso hanno accompagnato la sua assenza dalla scena politica si sono materializzate. Tutte d’un colpo. Così come protagonista è tornata la sua lunga storia, una lunghissima carriera politica che parte dal vecchio secolo e si rinnova nel terzo millennio. A soli vent’anni si laurea, finisce a capo dei giovani turchi sassaresi e comincia la sua corsa fino al Quirinale dove approda nell’85 al primo scrutinio a soli 57 anni.

Il più giovane Presidente della Repubblica italiana. L’ultimo traguardo, il più ambizioso che vede nel suo cursus honorum una sfilza di «più»: il più giovane ministro dell’Interno, il più giovane presidente del Senato, il più giovane Capo dello Stato italiano. L’uomo che, dopo il ritrovamento del cadavere in via Caetani di Aldo Moro, lascia il Viminale e al giornalista Paolo Guzzanti confessa, «che se aveva i capelli bianchi e le macchie sulla pelle era proprio per questo. Perché mentre lasciavamo uccidere Moro me ne rendevo conto. Perché la nostra sofferenza era in sintonia con quella di Aldo Moro». Quindi, la presidenza del Consiglio dei ministri nel ’79, brevissima, la messa in stato d’accusa, conclusasi nell’80 per la vicenda del figlio di Donat-Cattin, l’elezione nell’83 alla presidenza di Palazzo Madama. Quindi l’85, l’elezione al Colle al primo scrutinio dove succede a Sandro Pertini. Cinque anni all’impronta della sobrietà con l’ultima fase caratterizzata dal conflitto e dalla polemica politica. Francesco Cossiga si trasforma nel «grande esternatore», nell’uomo delle «picconate», caratterizzando così la sua presidenza col fine di «scuotere il sistema». Si dimetterà a due mesi dalla scadenza naturale del mandato, il 28 aprile del 1992 annunciando le sue decisioni in un discorso televisivo che tenne, non a caso, il 25 aprile. Un discorso diretto concluso così: «Che Iddio protegga la patria, viva l’Italia, viva la Repubblica». Ma il suo non era un addio dalla politica ma un arrivederci. Tanto da continuare a progettare idee, movimenti politici e a tessere incontri. Riceve amici e alleati in vestaglia, e tra una battuta e qualche intuizione tira fuori dal cilindro l’Udr. L’Unione democratici per la repubblica.

Si disse «poca roba» ma quel che bastò per azzoppare il governo, mettere in moto il ribaltone e spedire Massimo D’Alema alla guida di Palazzo Chigi. Un sorta di Bignami di ingegneria politica che manda in tilt, almeno quella volta, il sistema bipolare che Cossiga non aveva mai tanto amato. Si disse: è la Prima Repubblica che torna protagonista. Il marchingegno durò poco, non certo le provocazioni di Cossiga. Per lui che aveva attraversato il ’900 politico italiano, dal boom economico, passando per Gladio, la scomparsa dei partiti con tangentopoli, le picconate, il potere più efficace era ormai solo quello di solleticare la politica, accarezzarla, fare e disfare la ragnatela, tutt’ora così, solo per provocare. E così fa nel 2006 quando invia, con una motivazione ancor più stupefacente che sorprendente la sua lettera di dimissioni da senatore a vita al presidente di Palazzo Madama Franco Marini: «Ormai inidoneo ad espletare i complessi compiti e ad esercitare le delicate funzioni che la Costituzione assegna come dovere ai membri del parlamento nazionale». Come dire: il grande provocatore c’è ancora.

http://lastampa.it/redazione/cmsSezioni/politica/201008articoli/57499girata.asp
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« Risposta #1 inserito:: Agosto 12, 2010, 08:02:55 am »

Il labirinto di Francesco Cossiga

di Eugenio Scalfari

Dall'uccisione di Moro la sua vita è stata solo una sequenza tragica (pubblicato il 13-06-2002)

(10 agosto 2010)

"Ebbene sì sono un depresso": ha detto Cossiga durante la conferenza stampa convocata  per confermare le sue irrevocabili dimissioni da senatore a vita contro Carlo Azeglio Ciampi; 'sono un depresso ma non un euforico; ciò non mi impedisce di lavorare e di avere la mente chiara anzi chiarissima. Ci sono state molte illustri persone afflitte da questa malattia". E ha citato Montanelli e perfino Nietzsche. Qualcuno, prendendo spunto da quest'ultimo nome, sussurrava la sera di quello stesso giorno nella frescura dei giardini del Quirinale in festa per l'anniversario della Repubblica: 'Infatti stamattina Cossiga ha abbracciato un cavallo' (l'episodio accadde a Torino nel dicembre del 1889 e segnò il passaggio di Nietzsche dalla depressione alla follia). L'ex presidente della Repubblica non è un folle e questo lo sappiamo tutti, ma certo è un caso, 'un carattere le cui pieghe sono diventate più profonde col passare degli anni' dicono le persone più legate a lui: una frase volutamente generica che manifesta un disagio senza spiegarne la natura. Sono stato abbastanza intimo di Francesco Cossiga per poterne parlare con qualche cognizione di causa. Dopo parecchi anni di amicizia, dal 1977 fino al 1990, ci fu una rottura politica che non fu più ricucita anche se negli ultimi mesi si era in qualche modo cicatrizzata. Avevo anch'io capito che il peso della vecchiaia incipiente aveva 'approfondito le pieghe del suo difficile carattere' e questa comprensione mi sollecitava ad un giudizio più equanime. Sicché posso esprimere oggi, di fronte a questa sua ultima bizzarria, un parere 'pro-veritate'. Ci provo.

Il rapimento e poi l'uccisione di Aldo Moro, avvenuti mentre Cossiga era ministro dell'Interno, lo segnarono per sempre. Non soltanto e forse non tanto per la totale inefficienza e impreparazione di cui dettero prova le forze della sicurezza pubblica alle sue dirette dipendenze; non tanto per la responsabilità politica che pesava su di lui per aver giustamente rifiutato - insieme ad Andreotti, Zaccagnini ed Enrico Berlinguer - di riconoscere alle Br un ruolo di interlocutori politici; quanto perché visse in quella circostanza un trauma emotivo di rapporto con la morte. Quel trauma gli capovolse la vita.

Da allora, da quella mattina in cui il corpo raggomitolato e cadaverico del capo del più grande partito italiano fu trovato nel bagagliaio di una vecchia Renault, la persona Cossiga, la sua mente, i suoi fasci neuronali, l'anima sua o comunque la si voglia chiamare sono stati come incendiati, sconvolti, fulminati da una corrente di eccezionale intensità. Era la seconda volta che ciò accadeva in cinquantasei giorni: la prima scarica da elettrochoc era avvenuta il giorno in cui Moro fu rapito dal commando delle Br alle sette del mattino e il ministro dell'Interno fu il primo, ovviamente, ad averne notizia. Ricordo questi fatti per averne vissuto la sequenza ed aver raccolto proprio da lui l'impressione a caldo di quelle terribili scosse e delle conseguenze indelebili che produssero 'sulle pieghe profonde del suo carattere'. Quelle "pieghe profonde" ci misero un bel po' di tempo prima di manifestare i loro effetti. Per oltre un anno l'ex ministro dell'Interno, che aveva firmato la sua lettera di dimissioni fin dalle prime ore del rapimento Moro con la decisione che sarebbero diventate operative a vicenda Moro conclusa e comunque conclusa, si chiuse in un isolamento pressoché totale, lontano da tutti, dalla famiglia, dagli amici privati, da quelli politici. Elaborava il lutto, il suo lutto. Scomparve dalla scena. Poi vi tornò. Prima da Presidente del consiglio di un effimero Ministero senza storia, poi da Presidente del Senato. Infine da capo dello Stato.

In cinque anni bruciò le tappe di un "cursus honorum" straordinario, quale raramente si era visto prima e mai in una persona sottoposta ad un doppio trauma di quella violenza. Ma era stonato, dominato dall'immagine della morte che gli aveva sconvolto la vita. Guardava alla sua vita con lo sguardo furbo e sospettoso di chi si sente braccato da qualche cosa di immenso cui si può sfuggire depistando, cancellando le tracce, cambiando abitudini, frequentazioni, modi di pensare e di vivere. Esplose al quinto anno della sua permanenza al Quirinale. Annunciò che da quel momento in poi si sarebbe tolto i sassolini che aveva nelle scarpe (ma quali?) e che gli impedivano di camminare spedito. Si mise all'opera con il fervore e l'empito di chi aveva deciso di combattere contro un'oppressione ignota, contro un fantasma che gli rubava il tempo e il respiro. Si dette il nome di Picconatore e menò fendenti in tutte le direzioni, risparmiando soltanto i servizi segreti e l'Arma dei Carabinieri quasi che fossero queste le sole forze che potevano difendere la sua incolumità psicologica. Il suo problema divenne ben presto quello di monopolizzare ogni giorno la prima pagina di tutti i giornali. Voleva stupire. Doveva stupire. Doveva esorcizzare la mortalità con la fama. Doveva bruciare i templi nei quali aveva officiato e tutt'ora officiava. Novello Erostrato, decise di picconare la Costituzione che aveva solennemente giurato di difendere. Fu applaudito e circondato da una vasta sequela di comici dell'arte recitanti a soggetto. Condivise con altri la predilezione per i guitti e i buffoni di corte. Ma il suo problema era molto più profondo: doveva sfuggire a quel qualcosa di incognito, di oscuro, di ineluttabile che lo perseguitava sotto le più diverse sembianze.

   
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« Risposta #2 inserito:: Agosto 12, 2010, 08:28:12 am »

Esternare o non esternare?

di Umberto Eco

Nell'era dei media l'espressione in pubblico del Presidente appare inevitabile. Ma ogni esternazione deve essere trattata come un'opinione e non come un voto politico (pubblicato il 4-07-1996)

(10 agosto 2010)

Continuano le polemiche sulle "esternazioni" del capo dello Stato, e la stessa parola "esternazione", indipendentemente dalla accettabilità o meno del pensiero esternato, rinvia cronisti e commentatori al settennio Cossiga.

Indubbiamente Cossiga ha inaugurato una pratica che non pare avere riscontro nel dettato costituzionale. Ma non chiediamoci ora perché lo ha fatto bensì perché ha potuto (o è stato incoraggiato a) farlo. E' che quando la Costituzione è stata scritta non esistevano né televisione, né giornali di cinquanta pagine, né linee aeree che non fossero servite da bombardieri in disuso, né autostrade. Il presidente della Repubblica poteva dunque essere configurato come un notaio che, nel chiuso del Quirinale, faceva il garante dell'applicazione della Costituzione, e quando avvertiva che stava succedendo qualcosa d'inquietante parlava al paese nell'unico modo possibile, e cioè mandando via fattorino una lettera al Parlamento.

Situazione non diversa da quella di Pio XII, prigioniero di suor Pasqualina, che poteva esprimersi solo per encicliche.

La situazione è ora cambiata: un presidente si sposta con una frequenza che non diremo pari a quella del papa (perché di globe trotter di tal fatta ne può esistere solo uno per secolo), ma che è tuttavia notevole. Se va in un posto deve parlare, se parla il suo discorso viene magnificato dai media, i media per ragioni di sopravvivenza e concorrenza devono ingigantire anche incisi e parentesi, e se pure il presidente si limitasse a fare osservazioni sul tempo, esse verrebbero interpretate come sottili allusioni.

Infine, a un uomo chiamato a parlare tante volte in luoghi diversi, e che non voglia limitarsi a frasi fatte (del tipo «sono lieto di essere in questa nobilissima città e vi invito ad amare la patria»), non si può impedire idee e speranze. Così, per ragioni strutturali, ai giorni nostri, un presidente di una repubblica parlamentare, che regna ma non governa, fatalmente esterna. Se così è, sia il presidente che la pubblica opinione (politici e giornalisti inclusi) debbono trarne le loro conclusioni.

Il presidente può fare esternazioni o condizionali o assertorie: se dice «si dovrebbe forse cambiare questa legge» esprime un voto, quasi a titolo personale; se dice «si dovrà cambiare questa legge» lancia invece un appello, che certamente assomiglia molto a un messaggio alle Camere che il fattorino abbia perso per strada.

Ma di converso anche l'opinione pubblica (e in particolare politici e giornalisti) debbono riconoscere che, una volta che esiste la pratica (se non il diritto) dell'esternazione, essa va collocata nel quadro dei nuovi tempi. In altri termini, se il presidente manda un messaggio alle Camere, allora parla in quanto garante della Costituzione, se invece esterna, sta semplicemente parlando come cittadino tra gli altri, e come tali le sue parole debbono essere valutate. Certo, sono le parole di un uomo a cui si riconosce autorità morale, ma dovrebbero essere prese come se il papa affermasse che la Nazionale italiana, dopo la deludente prova con la Germania, dovrebbe cambiare la tattica di attacco.

Interessante conoscere l'opinione calcistica di un prelato dai vasti e umanissimi interessi, ma questo non dovrebbe scalfire neppure di un millimetro la dottrina della Chiesa. Anzi, qualsiasi vescovo potrebbe tranquillamente affermare che Sacchi ha fatto quel che doveva fare, ed è bene che continui così.

Il giorno che le esternazioni fossero valutate come opinioni, irrilevanti a fini politici e costituzionali, rimarrebbe utile conoscere come la pensa il presidente su tante faccende, ma non si avrebbe alcun motivo di farne nascere crisi politiche. Cioè si dovrebbe interpretare la Costituzione nel senso che quando il presidente manda un messaggio alle Camere è responsabile, quando esterna nel corso di un viaggio è irresponsabile (intendo nel senso giuridico del termine, non nel senso psicologico). Ultima considerazione, che questa volta spetta ai presidenti. Un presidente della Repubblica italiana (così come la disegna oggi la Costituzione), non è un presidente all'americana.

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« Risposta #3 inserito:: Agosto 17, 2010, 09:20:23 pm »

ALLEGATE AL TESTAMENTO

Le lettere ai vertici dello Stato

Inviate da Cossiga al Capo dello Stato e ai presidenti di Camera, Senato e Consiglio dei ministri


L'ex capo dello Stato Francesco Cossiga ha scritto quattro lettere alle più alte cariche dello Stato. Portano la data del 18 settembre del 2007. In quel periodo, era la XV legislatura, solo una di queste quattro cariche era ricoperta dal titolare attuale: il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. Alla presidenza del Consiglio c'era Romano Prodi, a Palazzo Madama e Montecitorio c'erano rispettivamente Franco Marini e Fausto Bertinotti. Dopo le elezioni della primavera del 2008, Prodi, Marini e Bertinotti sono stati sostituiti rispettivamente da Silvio Berlusconi, Renato Schifani e Gianfranco Fini. È toccato quindi a loro, oltre che a Napolitano, ricevere le lettere di Cossiga.
Di seguito il testo integrale delle missive.

AL PRESIDENTE DEL CONSIGLIO - Silvio Berlusconi non sarebbe intenzionato a diffondere la lettera che gli è stata recapitata oggi, scritta da Francesco Cossiga e inviatagli dopo la morte del Presidente emerito. Una scelta differente rispetto a quella degli altri destinatari della lettera che hanno diffuso a poche ore dal decesso la missiva. Secondo fonti di Palazzo Chigi, il contenuto della lettera ricalca quella inviata al presidente del Senato Renato Schifani, se non per qualche «dettaglio» relativo alle ultime volontà del presidente emerito della Repubblica.

AL CAPO DELLO STATO - «Signor Presidente, Le confermo i miei sentimenti di fedeltà alla Repubblica, di devozione alla Nazione, di amore alla Patria, di predilezione della Sardegna, mia nobile Terra di origine. Fu per me un grande onore servire immeritatamente e con tanta modestia, ma con animo religioso, con sincera passione civile e con dedizione assoluta, lo Stato italiano e la nostra Patria, nell'ufficio di Presidente della Repubblica. A Lei, quale Capo dello Stato e Rappresentante dell'Unità Nazionale, rivolgo il mio saluto deferente e formulo gli auguri più fervidi di una lunga missione al servizio dell'amato Popolo italiano. Con viva, cordiale e deferente

AL PRESIDENTE DEL SENATO - «Onorevole Presidente del Senato della Repubblica nel momento in cui il giudizio sulla mia vita è misurato da Dio Onnipotente sulle verità in cui ho creduto e che ho testimoniato e sulla giustizia e carità che ho praticato, professo la mia Fede Religiosa nella Santa Chiesa Cattolica e confermo la mia fede civile nella Repubblica, comunità di liberi ed uguali e nella Nazione italiana che in essa ha realizzato la sua libertà e la sua unità. Fu per me un onore grande servire la Repubblica, a cui sempre sono stato fedele; e sempre tenni per fermo onorare la Nazione ed amare la Patria. Fu per me un privilegio altissimo: rappresentare il Popolo Sovrano nella Camera dei Deputati prima, del Senato della Repubblica quale Senatore elettivo, Senatore di diritto e a vita e Presidente di esso; e privilegio altissimo fu altresì servire lo Stato nel Governo della Repubblica quale membro di esso e poi Presidente del Consiglio dei Ministri ed infine nell'ufficio di Presidente della Repubblica. Nel mio testamento, ho disposto che le mie esequie abbiano carattere del tutto privato, con esclusione di ogni pubblica onoranza e senza la partecipazione di alcuna autorità. Per quanto attiene le onoranze che i costumi e gli usi riservano di solito ai membri ed ex-Presidenti del Senato, agli ex-Presidenti del Consiglio dei Ministri ed agli ex-Presidenti della Repubblica, qualora Ella ed il Governo della Repubblica decidessero di darne luogo, è mia preghiera che ciò avvenga dopo le mie esequie, con le modalità, nei luoghi e nei tempi ritenuti opportuni. Voglia porgere ai valorosi ed illustri Senatori il mio ultimo saluto ed il mio augurio più fervido di ben servire la Nazione e di ben governare la Repubblica al servizio del Popolo, unico sovrano del nostro Stato democratico. Che Iddio protegga l'Italia!».

AL PRESIDENTE DELLA CAMERA - «Signor Presidente, nel momento in cui nella fede cristiana lascio questa vita, il mio pensiero va alla Camera dei deputati, nella quale, per voto del popolo sardo, entrai nel 1958 e fui confermato fino al 1983, anno in cui fui eletto senatore. Fu per me un grandissimo e distinto privilegio far parte del Parlamento nazionale e servire in esso il Popolo, sovrano della nostra Repubblica. Professo la mia fede repubblicana e democratica, da liberaldemocratico, cristianodemocratico, autonomista-riformista per uno Stato costituzionale e di diritto. Professo la mia fede nel Parlamento espressione rappresentativa della sovranità popolare, che è la volontà dei cittadini che nessun limite ha se non nella legge naturale, nei principi democratici, nella tutela delle minoranze religiose, nazionali, linguistiche e politiche. Ringrazio i parlamentari tutti per il concorso che in tutti questi anni hanno dato con l`adesione o con l'opposizione, con l'approvazione o con la critica alla mia opera di politica. A tutti i deputati e a Lei, Signor Presidente, l'augurio di un impegnato lavoro al servizio della libertà, della pace, del progresso del popolo italiano. Dio protegga l'Italia».

Francesco Cossiga

17 agosto 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
http://www.corriere.it/politica/10_agosto_17/lettera_schifani_cossiga_3de734a6-aa1a-11df-afa9-00144f02aabe.shtml
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« Risposta #4 inserito:: Agosto 17, 2010, 09:21:41 pm »

LE LETTERE

"Ho sempre servito la Repubblica non voglio autorità ai miei funerali"

Cossiga ha lasciato oltre al testamento anche quattro lettere inviate alle alte cariche dello Stato. "Ho sempre servito la Repubblica sulla bara voglio la bandiera italiana e quella sarda"

"Ho sempre servito la Repubblica non voglio autorità ai miei funerali" Francesco Cossiga

   
ROMA - Quattro lettere inviate alle più alte cariche dello Stato e un testamento. In questi documenti sono contenute le ultime volontà e le ultime valutazioni politiche di Francesco Cossiga. Nessun segreto scottante sui misteri della Repubblica nelle missive, tutte datate 18 settembre 2007 e indirizzate alle istituzioni. Se fossero state "personali", dei quattro destinatari solo uno sarebbe ancora in carica, Giorgio Napolitano.

La lettera al presidente del Senato. Nella lettera a Schifani l'ex presidente della Repubblica scrive: "Fu per me un onore grande servire la Repubblica, a cui sempre sono stato fedele; e sempre tenni per fermo onorare la Nazione e amare la Patria. Fu per me un privilegio altissimo: rappresentare il Popolo Sovrano nella Camera dei Deputati prima, del Senato della Repubblica quale Senatore elettivo, Senatore di diritto e vita e Presidente di esso; e privilegio altissimo fu altresì servire lo Stato nel Governo della Repubblica quale membro di esso e poi Presidente del Consiglio dei Ministri ed infine nell'ufficio di Presidente della Repubblica". Poi aggiunge: "Nel mio testamento ho disposto che le mie esequie abbiano carattere del tutto privato, con esclusione di ogni pubblica onoranza e senza la partecipazione di alcuna autorità".

La lettera al presidente della Repubblica. Nella lettera a Napolitano, Cossiga ricorda il suo settennato spiegando di aver servito lo Stato con "fedeltà" e "devozione". "Signor presidente - prosegue - le confermo i miei sentimenti di fedeltà alla Repubblica, di devozione alla Nazione, di amore alla Patria, di predilezione della Sardegna, mia nobile Terra di origine". E conclude: "A lei, quale Capo dello Stato e rappresentante dell'Unità nazionale, rivolgo il mio saluto deferente e formulo gli auguri più fervidi di una lunga missione al servizio dell'amato popolo italiano. Con viva, cordiale e deferente amicizia".

La lettera al presidente della Camera. "Signor presidente - esordisce Cossiga nella lettera inviata a Fini -  nel momento in cui nella fede cristiana lascio questa vita, il mio pensiero va alla Camera dei deputati, nella quale, per voto del popolo sardo, entrai nel 1958 e fui confermato fino al 1983, anno in cui fui eletto senatore. Fu per me un grandissimo e distinto privilegio far parte del Parlamento nazionale e servire in esso il Popolo, sovrano della nostra Repubblica. Professo la mia fede nel Parlamento espressione rappresentativa della sovranità popolare, che è la volontà dei cittadini che nessun limite ha se non nella legge naturale, nei principi democratici, nella tutela delle minoranze religiose, nazionali, linguistiche e politiche.  Professo la mia fede repubblicana e democratica, da liberaldemocratico, cristianodemocratico, autonomista-riformista per uno Stato costituzionale e di diritto.  Ringrazio i parlamentari tutti per il concorso che in tutti questi anni hanno dato con l'adesione o con l'opposizione, con l'approvazione o con la critica alla mia opera di politica.  A tutti i deputati e a lei, signor presidente - conclude - l'augurio di un impegnato lavoro al servizio della libertà, della pace, del progresso del popolo italiano. Dio protegga l'Italia. Con cordiale amicizia, Francesco Cossiga".

La lettera al presidente del Consiglio. La lettera inviata al premier ricalca nei contenuti quella inviata al presidente del Senato se non per qualche "dettaglio" relativo alle ultime volontà del presidente emerito della Repubblica. È quanto si apprende da fonti di palazzo Chigi a proposito della missiva indirizzata al presidente del Consiglio i cui contenuti, precisano, non saranno per il momento divulgati.

Lettere datate 18 settembre 2007. Le lettere che Cossiga ha indirizzato alle quattro alte cariche dello Stato portano la data del 18 settembre del 2007. In quel periodo si era ancora nella XV legislatura, quindi solo una di queste quattro cariche era ricoperta dal titolare attuale: il capo dello Stato, Giorgio Napolitano. Alla presidenza del Consiglio c'era invece Romano Prodi, mentre a guidare Senato e Camera siedevano rispettivamente Franco Marini e Fausto Bertinotti. Dopo la fine anticipata della legislatura per la caduta del governo Prodi, e le elezioni della primavera del 2008 vinte dal centrodestra, Prodi, Marini e Bertinotti sono stati sostituiti rispettivamente da Silvio Berlusconi, Renato Schifani e Gianfranco Fini. È toccato quindi a loro, oltre che a Napolitano, ricevere le lettere del presidente emerito.

Le ultime volontà: "Sulla bara bandiera italiana e sarda". Nel testamento l'ex presidente oltre ad aver chiesto che non vengano celebrate esequie di Stato ha detto però di volere un picchetto d'onore dei bersaglieri della Brigata Sassari. Inoltre avrebbe chiesto di essere seppellito nella sua città natale, Sassari, accanto al padre e alla sorella e ha chiesto che la bara sia avvolta nella bandiera italiana e quella sarda con i quattro mori.

Domani la camera ardente. In base a precise richieste della famiglia, la camera ardente sarà allestita domani dalle 10 alle 18 presso la chiesa centrale dell'università cattolica Sacro Cuore (largo Francesco Vito 1), aperta a semplici cittadini e autorità. Fonti vicine alla famiglia hanno riferito che i funerali si svolgeranno probabilmente nella parrocchia di San Giuseppe a Sassari e non a Cheremule, come appreso in un primo momento. Alla piccola chiesa di Cheremule, indicata come la candidata più probabile a ospitare le cerimonia funebre a carattere strettamente privato, sarebbe stata alla fine preferita quella della parrocchia dove Cossiga andava sempre a pregare quando si recava a Sassari.

(17 agosto 2010) © Riproduzione riservata
http://www.repubblica.it/politica/2010/08/17/news/le_ultime_volont-6342666/?ref=HREA-1
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« Risposta #5 inserito:: Agosto 17, 2010, 09:22:26 pm »

IL RICORDO

Rispetto e dolore per Cossiga anche da parte degli ex-nemici

Per l'ex brigatista Prospero Gallinari il presidente emerito scomparso "fu l'unico che cercò di capire".

Francesca Mambro: "Sono dispiaciuta"


ROMA - Parole di dolore e di rispetto per la morte di Francesco Cossiga arrivano anche da alcuni ex terroristi, protagonisti della lotta armata nei bui anni di piombo, quando era il nemico da combattere in veste di ministro dell'Interno, carica da cui si dimise subito dopo l'assassinio di Aldo Moro. Un dolore discreto e riservato quello di Francesca Mambro. Parole di rispetto per un "ex nemico" da parte del brigatista Prospero Gallinari e di Valerio Morucci.

L'uomo che tenne prigioniero Aldo Moro in via Montalcini e che a lungo venne indicato come colui che aveva sparato al presidente della Dc, esprime dolore per la morte di Cossiga: "Lui era un mio nemico ma debbo riconoscere che è stato tra i pochi politici se non l'unico del 'Palazzo' a essersi posto il problema di trovare una spiegazione politica, non complottistica o dietrologica, a quello che è accaduto in Italia negli anni Settanta. Lui ha preso atto e a cercato di capire le ragioni dello scontro che ha attraversato tutta la società italiana. Non giustificava, né avrebbe potuto giustificare, la lotta armata, ma cercava di spiegarla e di spiegarsi. Per lui ho rispetto. Il rispetto che si deve a un ex nemico, ma anche all'unico che si pose il problema di capire. Di avere il coraggio di capire".

"E' stato l' unico che ci ha riconosciuto la dignità di nemici politici - ha detto l'altro ex brigatista Valerio Morucci - affrancandoci dal ruolo di criminali a cui la politica ci aveva condannati per necessità". "L' ho incontrato quattro anni fa nel suo ufficio al Senato -  ha detto - lo cercai io. Abbiamo parlato a lungo concordando che dopo una guerra tra nemici si può dialogare, proprio perché finite le ragioni della guerra, finisce anche l'inimicizia".

"Mi dispiace tanto" si limita a dire Francesca Mambro nell'apprendere, al telefono, la notizia della scomparsa dell'ex presidente, "dell'amico", di colui che più volte si era apertamente espresso per la sua innocenza - come per quella di suo marito Valerio Fioravanti - per la strage di Bologna e per la quale entrambi sono stati condannati in via definitiva. Tanto era convinto di questa innocenza da perorare, per i due ex terroristi, anche la grazia. Cossiga sposò la tesi innocentista del duo ex Nar Mambro-Fioravanti per quanto riguarda la bomba di Bologna. "Da tempo sono convinto della loro innocenza. Mi auguro si possa riaprire il processo" scriveva il presidente in una lettera inviata tre anni fa alla presentazione del libro di Andrea Colombo, Storia nera. Bologna, la verità di Francesco Mambro e Valerio Fioravanti. "Sono convinto della loro innocenza proprio perché - spiegava - sono stato un ministro dell'Interno impegnato nella lotta contro il terrorismo. La sentenza di condanna non è una sentenza di 'sinistra', come qualcuno dice, ma di una certa 'sinistra' che doveva regolare i suoi conti bolognesi". Per Cossiga la strage di Bologna è stato un errore dei palestinesi. "Probabilmente - ebbe modo di dire - era in corso un trasporto di esplosivo da parte dei palestinesi che, come tutti sanno, in quel periodo avevano mano libera di agire non contro l'Italia ma in Italia. È possibile che durante quel trasferimento, una o due valige di esplosivo siano saltate in aria".

(17 agosto 2010) © Riproduzione riservata
http://www.repubblica.it/politica/2010/08/17/news/cossiga_mambro-6341362/?ref=HREA-1
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« Risposta #6 inserito:: Agosto 18, 2010, 11:07:54 am »

«Mi salutò sulla soglia di un convento, ultimo atto della nostra amicizia»

PAOLO GUZZANTI
ROMA

Paolo Guzzanti, oggi deputato del Gruppo misto, è stato il giornalista che sulla Stampa raccontò la stagione di Cossiga presidente «picconatore». Ecco la sua testimonianza.


Quando Ezio Mauro, allora condirettore della Stampa, mi chiese di andare a vedere «che cos’altro avrebbe combinato quel matto di Cossiga», io partii per Gela molto riluttante. Si inaugurava l’anno giudiziario, era il gennaio del 1991 e il giorno prima Giorgio Bocca aveva scritto un violento articolo sullo scandalo della Uno Bianca attaccando l’Arma dei Carabinieri. Andai ad accalcarmi con la massa dei giornalisti in attesa del Presidente della Repubblica, che non avevo mai incontrato prima, ignaro del fatto che la sera precedente fosse andata in onda una mia intervista in cui raccontavo che mia figlia Sabina aveva deciso di fare l’attrice teatrale.

Cossiga arrivò, ruppe i cordoni, puntò su di me, mi afferrò per un braccio e mi portò via dicendomi: «Non sapevo che sua figlia facesse l’attrice teatrale». La rottura delle regole e dei protocolli mi costò la giacca che fu squarciata dal furibondo sindaco di Gela che si vide estromesso dal suo posto di accompagnatore. Cossiga chiacchierava con me amabilmente e quando arrivammo nel punto in cui era previsto il suo intervento, mi trovai appiccicato alla sua schiena, sicché potevo vedere come si muovevano i suoi radi capelli mentre pronunciava una orazione durissima in difesa dei carabinieri e contro Bocca. Era indignato, era arrabbiato, ma mi sembrava assolutamente compos sui, sano di mente, e prendevo nota sul mio calepino di questo fatto.

Quando tornai in albergo scrissi l’articolo per La Stampa in cui raccontai l’accaduto e dissi che Cossiga non mi sembrava affatto matto, mentre tutti dicevano e scrivevano che era pazzo furioso e che si poneva un problema di sanità mentale della prima carica dello Stato.
Due giorni dopo Cossiga mi chiamò a casa all’alba e mi tenne al telefono una buona ora impartendomi una lezione sul cattolicesimo liberale inglese e sulla rarità dei cattolici liberali. Io allora scrissi una intervista con il contenuto della nostra conversazione e gliela mandai: «Questa sarebbe l’intervista che io pubblicherei se lei mi autorizzasse a farlo». Lui mi telefonò e mi disse: non l’autorizzo, ma venga domattina al Quirinale a fare la prima colazione con noi.

Chi fossero i «noi» lo scoprii il mattino dopo: c’era il fiore dell’intellighenzia di sinistra e ricordo in particolare, come a casa loro, Andrea Barbato e Sandro Curzi, che successivamente sosterrà di essere stato lui a promuovere l’amicizia fra Cossiga e me, cosa di cui dubito. Poco dopo partì l’attacco politico contro il Presidente e la vulgata voleva che Cossiga dovesse essere portato via dal Quirinale con un’ambulanza della Croce Rossa in una camicia di forza e sostituito da un comitato di saggi guidati da Eugenio Scalfari che di Cossiga era stato amicissimo e che riceveva a pranzo a casa della moglie a via Nomentana ogni giovedì, ma che adesso capeggiava il partito delle dimissioni forzate. Io mi trovai di colpo a far parte non dei «cossighiani», ma banalmente di coloro che non credevano affatto che Cossiga fosse un malato mentale, come infatti non era e come i fatti e la sua successiva biografia hanno confermato.

In breve Cossiga instaurò con me un rapporto personale e attraverso questo rapporto anche una forma di amicizia con La Stampa e con l’avvocato Agnelli che poco dopo nominò senatore a vita. Cominciammo con alcune interviste e poi altre ancora e poi una intervista al giorno e Francesco, ormai eravamo diventati amici ed ero stato ammesso al tu, si faceva veramente pressante e scatenato.

Io provavo talvolta un po’ di disagio perché pretendeva di dettarmi delle battute che trovavo poco opportune. Quando mi rifiutai di scrivere che Achille Occhetto era «uno zombie coi baffi», lui non batté ciglio e lo fece scrivere sul Messaggero. Combattemmo insieme una dura battaglia e ogni giorno le sue dichiarazioni al fulmicotone finivano sulle pagine di Televideo, che allora era la fonte di informazione più rapida e continua e su cui si facevano anche i titoli del giornali. Diventammo amici e lo amai molto, ho imparato le sue debolezze, le sue grandiosità, le sue scene teatrali, la sua filosofia di cattolico all’inglese con anima sarda. Posso garantire che, malgrado la vulgata e malgrado quel che lui ha sempre fatto credere, non ha mai capito molto di servizi segreti, anche se gli piaceva giocare con le macchine elettroniche, avere i telefonini d’avanguardia e ricevere spioni con cui chiacchierava con grande gusto. Mi appariva come un uomo solo, un solitario incompreso sul cui conto tutti facevano fantasie mostruose e folli. Scrissi dunque un libro per la Mondadori che si intitolava appunto «Cossiga uomo solo». Lui venne alla presentazione in via Sicilia a Roma e davanti alla folla dei giornalisti e fotografi disse che avrebbe cominciato a «picconare» il vecchio establishment e dunque usò in quell’occasione per la prima volta una parola che poi sarebbe diventata di uso comune nel linguaggio politico italiano: «picconare».

La sua idea di base era che la caduta del comunismo sovietico e la fine della guerra fredda tradizionale avrebbe fatto crollare il sistema dei partiti italiani, ruotante intorno alla Dc che era secondo lui un prodotto della guerra fredda: niente guerra fredda, niente Dc, e aveva perfettamente ragione. Fu quel che accadde con Tangentopoli dove la prima Repubblica fu tradotta alla gogna e poi al patibolo davanti al popolo urlante. Sosteneva che la politica doveva sbrigarsi a trovare la soluzione al proprio dramma, ma la politica lo trattò come un pazzo furioso confermando il vecchio detto secondo cui nemo propheta in patria.

Quando si dimise, poche settimane prima della scadenza naturale del suo mandato, mi nascose nel bagagliaio dell’aereo di Stato che lo avrebbe portato in Irlanda e io scrissi l’ultimo pezzo su Cossiga Presidente mentre lui mi mostrava le nuvole del mondo e il verde irlandese che ci accoglieva sotto una pioggia battente. Lo vidi entrare in una sorta di convento, un alloggio cattolico dove lui si rifugiava, e ci salutammo con un abbraccio.

http://www.lastampa.it/redazione/cmsSezioni/politica/201008articoli/57734girata.asp
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« Risposta #7 inserito:: Agosto 18, 2010, 11:08:46 am »

18/8/2010 (7:42)  - IL CASO

Il suo clan, pochi veri amici tutti legati alla loro terra

I fedelissimi anche nella cattiva sorte erano una squadra di sardi più qualche calabrese sanguigno

UGO MAGRI
ROMA

Se Cossiga lanciava le più feroci minacce in puro stile barbaricino, era buon segno: a modo suo mostrava di voler bene alle «vittime», perché l’amicizia è nemica dell’indifferenza. E allora terribili liti, seguite da altrettanto furiose riappacificazioni.
Laddove ai tradimenti più inaspettati l’ex Presidente reagiva nella maniera opposta: stendendo un velo di oblio, quasi che il «pugnalatore» fosse morto alla sua memoria.

È la sorte toccata (salvo rare eccezioni) a un intero mondo di cui oggi si fatica perfino a immaginare quanto fosse in sintonia con il primo Cossiga «politically correct», cugino di Enrico Berlinguer, fiore all’occhiello della sinistra di base democristiana, proiettato nel 1985 da De Mita verso il Colle più alto in un’operazione che a Ciriaco sembrò un capolavoro, salvo pentirsi.

Ebbene: quel vasto influente mondo che comprendeva Eugenio Scalfari, e Fabiano Fabiani, e Carlo De Benedetti, e tutta l’intellighenzia liberal, gli si rivoltò contro allorché Cossiga, sul finire del settennato presidenziale, diventò l’Eversore, il Picconatore. Risultato? Neanche più degnati di attacchi. Semplicemente sepolti ai suoi occhi (inutile frugare tra i cimeli cossighiani o tra le foto di pontefici, sovrani, statisti e gran maestri nel salotto di via Visconti in Prati). Rimpiazzati con altre amicizie umane e politiche: Craxi, Forlani, eroi di una Prima Repubblica in disgrazia. Oppure, semplicemente, il vuoto. Il silenzio. Immense solitudini, nell’esilio dei conventi irlandesi, che alimentavano tra gli odiatori di Cossiga la fama del «ciclotimico», per dirla con Montanelli.

Depressioni accudite da un clan che nel tempo è rimasto identico. Spesso con qualche vincolo di sangue, come nel caso del cugino Sergio Berlinguer ai tempi del Quirinale, e del nipote giornalista Piero Testoni, deputato Pdl, negli anni del berlusconismo trionfante. Amici accomunati dalle «stimmate sarde» come Luigi Zanda, oggi senatore Pd, o come lo storico nonché biografo Pasquale Chessa. E se non sono sardi, per forza dovevano essere calabresi sanguigni. Pippo Marra, presidente dell’Adnkronos, per 40 anni a disposizione senza mai il coraggio di dargli del «tu», sempre il «lei» a Cossiga nonostante l’avesse ospitato in una mansarda dietro piazza del Popolo dopo la separazione da Donna Giuseppa Sigurani. Paolo Naccarato, segretario e consigliere dagli occhietti furbi. Enzo Mosino, già prefetto di Bologna e di Roma, trait d’union con gli apparati della sicurezza...

Un pugno di fedelissimi nella cattiva sorte, una folla variopinta quando la stella politica di Cossiga tornava a brillare. Come ai tempi dell’Udr, fine Anni 90: D’Alema ricorda tutto perfettamente perché grazie a quell’operazione politica lui diventò premier. Testimonia Enzo Carra, protagonista di quei giorni, ieri commosso alla camera ardente: «Saltò addosso a Cossiga una turba vociante, nuovi amici e vecchi opportunisti». Personaggi travolti da Tangentopoli, arnesi da guerra fredda, ambiziosi sulla rampa di lancio da cui lo stesso leader finì per prendere le distanze, disgustato.

L’Udr dichiarò fallimento, Mastella e Buttiglione presero altre strade, così pure La Malfa e Scognamiglio e Cicchitto. Intorno a Cossiga rimasero i soliti «quattro gatti»: il patriarca della protezione civile Zamberletti, il mite professor Rebuffa, la tosta Sveva Dalmasso, quel democristiano irriducibile di Angelo Sanza con la moglie Aurora, organizzatrice di cene dove Cossiga impartiva ordini agli «straccioni di Valmy», avanguardie di un centro politico di là da venire...

Rimasto senza esercito, Cossiga aveva vestito i panni del «Grande vecchio», dispensatore inesauribile di memorie, disvelatore di segreti, presenza brillante in talk show televisivi accanto talvolta a donne bellissime come Valeria Marini, sarda, guarda un po’, anche lei.

Quando ancora poteva muoversi, trascinava i sodali (previo aperitivo al Plaza) in via del Corso da don Flavio Cappucci. Oppure a Trastevere dal suo consigliere spirituale, monsignor Vincenzo Paglia. Il quale venerdì ha ricambiato la visita per consegnare, all’ultimo cattolico-liberale, il lasciapassare di Santa Madre Chiesa.

http://lastampa.it/redazione/cmsSezioni/politica/201008articoli/57736girata.asp
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« Risposta #8 inserito:: Agosto 18, 2010, 11:23:53 am »

Il caso

La lunga lotta ai terroristi (con onore delle armi finale)

Gli ex brigatisti ricordano che fu l'unico a considerarli nemici politici


ROMA - «E' stato l'unico», hanno sempre ripetuto all'unisono i terroristi rossi e neri (ma soprattutto rossi) che negli anni Settanta l'hanno considerato come il principale nemico e poi, appunto, «l'unico» ad aver riconosciuto loro l'onore delle armi; la dignità di avversari politici che, cessati gli spari e pagati i debiti con la legge, avevano diritto a essere considerati ciò che si consideravano: rivoluzionari sconfitti, non criminali comuni. Una sorta di legittimazione postuma, arrivata a guerra finita, che in realtà serviva anche a lui, per legittimare se stesso e una linea che avrà pure portato alla sconfitta del terrorismo - ma dopo quanto tempo? E dopo quanti morti? - e però è costata sacrifici immani. A cominciare dal sostanziale «via libera» all'esecuzione di quello che definiva il suo amico e maestro, Aldo Moro, ucciso dalle Br anche per la «fermezza» sponsorizzata in primo luogo da lui stesso, ministro dell'Interno di quei drammatici 55 giorni.

Il giorno della morte di Francesco Cossiga (non più Kossiga, come scrivevano trent'anni fa) quel giudizio non cambia. E accomuna pressoché tutti gli ex brigatisti di ogni risma e categoria: dissociati, pentiti, irriducibili, arresi, e qualsiasi altra definizione si voglia trovare per chi è passato dalla principale formazione armata dei cosiddetti «anni di piombo». Capi o gregari che fossero.

Uno che ha sempre rivendicato la propria militanza brigatista collezionando ergastoli senza mai rispondere alle domande di un magistrato - Francesco Piccioni, della colonna romana delle Br, responsabile di diversi omicidi firmati con la stella a cinque punte - l'ha intervistato per un libro sul '77, l'anno delle sparatorie in piazza, dei morti in divisa e fra i dimostranti; quasi rivendicati, questi ultimi, da Cossiga. «Con lui - ricorda oggi Piccioni - s'era instaurato un rapporto simile a quello fra ufficiali di eserciti nemici che si sono combattuti e presi a fucilate, ma una volta terminato il conflitto hanno concesso alla controparte il dovuto rispetto».

E per i brigatisti rispetto significa essere catalogati come guerriglieri battuti in uno scontro senza quartiere, e non solo assassini che seminavano morti agli angoli delle strade, di solito la mattina presto, quando gli «obiettivi» uscivano di casa per andare al lavoro. Il ministro dell'Interno e poi presidente del Consiglio di quella sanguinosa guerra aveva riconosciuto la genuinità del fenomeno eversivo italiano. E questo per i militanti della lotta armata, carcerati e assediati dalla «dietrologia» di chi teorizza oscure e indicibili trame dietro le loro gesta, è già un grande risultato.

E' quello che sottolinea anche Valerio Morucci (un «dissociato» degli anni Ottanta, altra categoria di ex brigatista), quando afferma che «Cossiga aveva interiorizzato il dramma della gestione del potere, necessariamente cinica e indifferente alla vita dei singoli». Fosse anche quella di Aldo Moro, lasciato uccidere senza tentare nulla che non fossero spettacolari e un pò farsesche operazioni di polizia che sapevano più di parata che di investigazione.

Allora il riconoscimento dello status di nemici politici insorti, negato al tempo del conflitto (anche al prezzo dell'omicidio di Moro, come di tante altre vittime) è stato pure - forse - un modo per riabilitare la propria rivendicata «fermezza», oltre che i «guerriglieri» dell'epoca. «Cessate le ragioni dell'inimicizia e quella della propaganda, ha saputo riconoscere la nostra identità - spiega ancora Morucci - offrendo la possibilità di una memoria non unica ma comune; non condivisa ma narrabile da tutti, ciascuno per la parte che ha rappresentato».

La legittimazione reciproca con gli ex terroristi ha attraversato gli ultimi vent'anni di vita politica di Francesco Cossiga. Dalla volontà di concedere la grazia a Renato Curcio fino alla lettera inviata agli avvocati brasiliani di Cesare Battisti, utilizzata per tentare di far ottenere l'asilo politico all'ex militante dei Proletari armati per il comunismo, condannato a quattro ergastoli per altrettanti omicidi, di cui l'Italia aspetta ancora l'estradizione. In quella missiva scrisse che i «sovversivi di sinistra» erano dei «rivoluzionari impotenti, che con gli atti di terrorismo credevano non certo di fare, ma di innescare la rivoluzione, secondo gli insegnamenti di Lenin. I crimini della sovversione di sinistra sono crimini ma politici, non comuni».
Difficile sperare di più da un governante al quale, trent'anni prima, i brigatisti e gli altri «rivoluzionari» avrebbero sparato senza alcuna remora. E lui altrettanto.

Giovanni Bianconi

18 agosto 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
http://www.corriere.it/politica/10_agosto_18/la-lunga-lotta-ai-terroristi-giovanni-bianconi_50dc49fa-aa8f-11df-a60a-00144f02aabe.shtml
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« Risposta #9 inserito:: Agosto 18, 2010, 11:26:31 am »

18/8/2010

Cossiga, l'uomo che si inventò quattro vite diverse
   
MARIO CALABRESI

Francesco Cossiga si è spento in giorni che gli sarebbero stati congeniali, giorni in cui il Parlamento è tornato al centro dell’attenzione, in cui le manovre politiche abbondano, in cui deputati e senatori si spostano e si contano, giorni in cui si creano nuove fedeltà e si costruiscono alleanze inedite. Giorni in cui si sarebbe appassionato a far emergere contraddizioni, a presentare interrogazioni parlamentari urgenti, a dare interviste pepate e ad alzare il dito citando precedenti e consuetudini a un mondo politico che sembra sempre più ignorare le regole del gioco. Ma questi giorni sono arrivati troppo tardi.

Francesco Cossiga non era capace di stare fermo e gli ultimi due anni per uno come lui erano stati privi di ossigeno, con un Parlamento completamente esautorato dal governo e dai voti di fiducia e con un’informazione totalmente concentrata sul presidente del Consiglio.

Due anni in cui il Presidente emerito della Repubblica - una carica inventata e fortemente voluta da lui, che ne aveva perfino stabilito diritti, simboli e riti - aveva trovato sempre meno spazio per manovrare e per far sentire la sua voce.

A rileggere la sua biografia, fuori dalle ricostruzioni romanzate o dalla fantapolitica, si scorgono almeno quattro stagioni in cui è stato protagonista assoluto, quattro decenni in cui è riuscito a stare al centro della scena. Negli Anni Settanta è il giovane ministro dell’Interno che si confronta con il movimento del '77 conquistandosi l’appellativo di Kossiga - un nome che sui muri viene scritto, oltre che con la «K», con la doppia «s» runica, a evocare il nazismo -, che combatte il terrorismo brigatista (con cui cercherà poi di confrontarsi per comprenderne radici e comportamenti ma senza mai giungere a regalarci un di più di verità) e vive tutta la stagione del rapimento e dell’omicidio di Aldo Moro, da cui esce distrutto e dimissionario.

La seconda stagione, un decennio dopo, lo vede protagonista assoluto come il capo dello Stato che prevede e annuncia la fine della Prima Repubblica, che «piccona» quel sistema dei partiti cieco e morente con esternazioni continue e sempre più irrituali. Lasciato il Quirinale sembra destinato alla pensione, ma alla fine degli Anni Novanta è capace di reinventarsi e di chiudere una stagione: grazie alle sue intuizioni e alla capacità di manovrare in Parlamento fonda un nuovo piccolo partito e porta a Palazzo Chigi Massimo D’Alema, il primo post-comunista a diventare primo ministro. Il salotto di casa sua e lo studio a Palazzo Giustiniani sono meta di un via vai di politici, ministri e giornalisti che comincia all’alba con infinite discussioni e la dettatura di dichiarazioni alle agenzie e si conclude sempre con la complicità del suo whiskey irlandese. In quei giorni, in cui chi scrive era un cronista d’agenzia che veniva svegliato dalle sue telefonate regolarmente prima delle sette del mattino, appariva appagato dall’idea di aver contribuito, lui democristiano, ad archiviare una fase storica e ad aprirne un’altra in cui non ci sono più veti e preclusioni verso gli ex comunisti e gli ex fascisti.

Con il ritorno di Berlusconi al governo nel 2001 sembra perdere smalto, ma ancora una volta rinasce e questa volta trasforma il suo piccone in un fioretto, con cui si esercita a disturbare tutto ciò che appare troppo solido e sicuro: manovra in Europa, saltando dai Paesi Baschi (dove si divertiva a far impazzire Aznar) alla Germania, dal Belgio alla Catalogna per frenare prima l’ingresso di Berlusconi poi quello di Fini nel Partito Popolare Europeo, presenta interrogazioni parlamentari e rilascia interviste e dichiarazioni contro chiunque non accetti il suo gioco, diventando l’incubo di ministri e presidenti.

Ma sono gli anni in cui cominciano a farsi sentire la stanchezza e le nostalgie - avvisato che su un muro del Lungotevere a Roma è tornata una scritta contro di lui, che ha la «K» e la doppia «S», subito si entusiasma e spedisce un uomo del suo staff a fotografarla -, in cui si mette a giocare con la tecnologia, in cui si moltiplicano i cartelli in casa, con cui si chiede di non appoggiare armi da fuoco sul tavolino dell’ingresso o con cui avvisa chi solleva il telefono di essere prudente perché potrebbe essere intercettato. La fine del primo decennio del nuovo millennio è la meno adatta ad un politico che ha bisogno di acque sempre in movimento per nuotare al meglio, tutto sembra paralizzato dal berlusconismo e gli spazi per lui sono sempre più angusti. Ma è anche una stagione nuova, in cui i riferimenti internazionali sono ormai cambiati, dove l’atlantismo, vera stella polare di Cossiga, non è più nemmeno in cima all’agenda del nuovo Presidente americano che guarda invece all’Asia, in cui l’ex Presidente ha ormai perso i suoi interlocutori tradizionali in Europa e in cui gli italiani sembrano volere una politica efficiente e semplificata e non sopportano più i giochi di Palazzo.

Poi arriva l’estate in cui la maggioranza più solida della storia della Repubblica si mette a scricchiolare e salta in aria, la battaglia parlamentare si fa incandescente e si torna perfino a parlare di impeachment di un capo dello Stato, in cui i veleni, i dossier e le veline la fanno da padrone, un’estate ideale per chi sapeva muoversi più veloce di chiunque altro.
Ma non è più quel tempo e forse il sistema non avrebbe retto altre manovre e giochetti, bisognoso com’è invece di riforme, di chiarezza e di governo.

Ora ci si chiederà quali segreti si è portato con sé, quali rivelazioni avrebbe potuto ancora fare sulla stagione del terrorismo e delle stragi, sulla morte di Moro, sui rapporti tra i due blocchi nell’era della Guerra Fredda, su Gladio e sulle deviazioni dei servizi segreti. Impossibile dare una risposta, forse aveva ben meno misteri di quelli che gli sono stati attribuiti, forse nel fiume di parole che ha sempre pronunciato c’è già davvero tutto quello che sapeva, ma certamente se c’era qualcosa che aveva giurato a se stesso dovesse andarsene con lui allora non sarebbero serviti a nulla altre mille interviste o decine di libri. È bene che siano state rese pubbliche subito le lettere che ha lasciato alle più alte cariche istituzionali (quella al presidente del Consiglio, non ancora pubblicata, ricalcherebbe le altre), per evitare nuove leggende velenose e perché certo non abbiamo bisogno di altri misteri e di rivelazioni tardive o a getto continuo. È tempo che la storia d’Italia venga studiata con calma, per rimettere in ordine verità e memorie, nel rispetto di chi ci ha lasciato ieri e di tutti quelli che se ne sono andati prima di lui.

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« Risposta #10 inserito:: Agosto 19, 2010, 03:11:07 pm »

IL DISTURBO BIPOLARE

I medici: da Pasqua smise di curarsi

Gli ultimi giorni, la depressione e l'isolamento. «Il Presidente non voleva più stare in questo mondo»


ROMA - È stato il suo intimo desiderio di «chiudersi» a portarlo via, ad avviare un inesorabile scivolamento verso una fine che probabilmente nessuna cura avrebbe potuto arrestare. «A Pasqua gli ho mandato un messaggino con gli auguri. Non ho ricevuto risposta. Ho capito che era un segnale. Il suo segnale. Non mi sbagliavo. Lui non voleva più stare in questo mondo», torna allo scorso aprile, epoca dell'ultimo tentativo di contatto, Paolo Cherubino, l'ortopedico che nel 2000 ha operato il presidente Cossiga per protesi d'anca all'ospedale Circolo di Varese.
«Scoprimmo che le nostre vite si erano in qualche modo intrecciate attraverso conoscenze comuni nel periodo in cui ho abitato a Sassari - lascia riaffiorare i ricordi di gioventù il medico, professore all'università dell'Insubria - Sua moglie era la sorella del mio compagno di banco. Da allora abbiamo continuato a sentirci con regolarità e reciproca simpatia. Mi aggiornava sul suo stato di salute. Fino a quando non mi è stato più possibile parlargli».

UNA VITA PIENA DI PROBLEMI - La vita del Presidente è scandita da una lunga serie di problemi fisici e psicologici. «Era una persona molto rispettosa della classe medica - continua Cherubino -. Ci ascoltava eccome. Era molto attento alle nostre indicazioni e non si sottraeva ai controlli. Arrivò da noi col problema dell'anca. Per un anno avevano pensato che le difficoltà nel camminare fossero legate al ginocchio. Quando stava per essere dimesso chiese spontaneamente di essere sottoposto a un check up».
Scoprirono un tumore localizzato nell'intestino. Venne operato al Circolo dal professor Renzo Dionigi, rettore dell'università dell'Insubria. Poi seguirono nuovi mali, più o meno insidiosi. L'artrosi che lo costrinse a un intervento chirurgico alla cervicale, quattro anni fa al Policlinico Gemelli. Poi un piccolo intervento alla lingua. E sullo sfondo il disagio psicologico che si è manifestato dopo il rapimento di Moro.

DISTURBO BIPOLARE - La depressione, madre del disturbo bipolare (quella continua alternanza di stati di euforia e spaventosi cali dell'umore) e della sindrome di stanchezza cronica. Ne ha parlato pubblicamente Cossiga di come ci si sentiva: «Sono un depresso allegro», ripeteva con ironia.
Figure solide al suo fianco come il medico che abita nell'appartamento al piano di sotto, a Roma. E Giovanna Beretta, primario di medicina riabilitativa al Niguarda di Milano, conosciuta ai tempi dell'operazione all'anca. È stata lei assieme ai figli Annamaria e Giuseppe a convincerlo a farsi portare al Gemelli e ricoverare per insufficienza respiratoria acuta nel reparto di rianimazione diretto da Massimo Antonelli. Una brutta infezione polmonare, conseguenza del suo profondo stato di deperimento. Da mesi non si alzava dal letto. Aveva smesso di lottare. Non c'è stato verso di farlo tornare indietro. E a 82 anni, età fragile, l'inattività non perdona. «Ha scelto di isolarsi. Rifiutava i farmaci, lui che ai controlli in ospedale si presentava con la valigetta piena di pasticche...».

Margherita De Bac

19 agosto 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
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