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Autore Discussione: I nuovi schiavi cristiani dell’Arabia dei grattacieli  (Letto 3455 volte)
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« inserito:: Agosto 29, 2007, 12:01:14 am »

Nafis Sadik, una musulmana poco moderata

27 agosto 2007 | Sandro Magister


Tra i fautori della cacciata della Santa Sede dall’Organizzazione delle Nazioni Unite (vedi il servizio di www.chiesa del 21 agosto) c’è anche una prima donna: ossia la donna che per prima ha ricoperto una carica di alto rilievo nel Palazzo di Vetro.

Il suo nome è Nafis Sadik. Dal 1987 al 2000 è stata direttore esecutivo dell’UNPFA, United Nations Population Fund, con il rango di sottosegretario generale. Oggi è assistente speciale del segretario generale dell’ONU e suo inviato per l’HIV/AIDS in Asia e nel Pacifico.

Sadik ha auspicato la cacciata della Santa Sede dall’ONU in un articolo sul primo numero del 2007 di “Conscience”, la rivista dell’organizzazione abortista “Catholics for a Free Choice”. Ha scritto che “è buffo che uno stato i cui cittadini sono un migliaio di maschi celibi abbia parte nel determinare l’approccio internazionale a questioni intimamente legate alla salute sessuale e riproduttiva”.

Di Sadik si ricorda una burrascosa udienza con Giovanni Paolo II, il 18 marzo del 1994, pochi mesi prima della conferenza promossa dall’ONU al Cairo sulla popolazione.

Un resoconto di quell’udienza fu la stessa Sadik a renderlo pubblico. Dipinse un papa Karol Wojtyla collerico e intrattabile. Ma l’attendibilità di quel resoconto fu contraddetta dallo stesso papa, che al suo biografo George Weigel disse di aver consegnato alla ospite un memorandum con le obiezioni vaticane al documento preparatorio del Cairo, ma ella “non accettò di discuterne”.

Nafis Sadik, cittadina del Pakistan, è nata in India, a Jaunpur. Di ricca famiglia musulmana, ha studiato in una scuola cattolica, al Loreto College di Calcutta. Ha ultimato i suoi studi di medicina in prestigiose università degli Stati Uniti e del Canada. In Pakistan è stata direttore generale dei programmi di pianificazione familiare, dopo di che è entrata nei ranghi dell’ONU, a New York.

In vista della conferenza del Cairo del 1994, assieme al presidente della commissione preparatoria, il ghanese Fred Sai, fece di tutto per includere l’aborto tra i “diritti riproduttivi” che tutti gli stati sono tenuti a garantire. Se l’operazione non andò in porto (il documento finale del Cairo stabilì che “in nessun caso l’aborto va promosso come metodo di pianificazione familiare”), fu proprio per la tenace opposizione della Santa Sede.

Si può capire, quindi, il suo risentimento. Nello stesso articolo su “Conscience” nel quale caldeggia l’estromissione della Santa Sede dall’ONU, Sadik dà la colpa all’enciclica “Humanae Vitae” per l’oppressione della donna nei paesi poveri del mondo, dove “la Chiesa è molto più influente” che nei paesi ricchi.

Peccato che la gran parte dell’oppressione della donna lamentata da Sadik si registri nei paesi islamici, compreso il Pakistan di cui è cittadina. Ma non una sola delle invettive da lei scagliate per anni contro il Vaticano ha mai sfiorato, che si sappia, le leadership politiche, culturali e religiose del mondo musulmano al quale ella appartiene. E nemmeno di altri mondi non cristiani – si pensi alla Cina, all’India – in cui sono di casa la sterilizzazione forzata, l’obbligo del figlio unico, l’aborto selettivo, l’infanticidio.

Sulle politiche antinataliste del Palazzo di Vetro vedi ancora in www.chiesa: “ONU e Unione Europea hanno il loro enfant terrible a Roma“.



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ONU e Unione Europea hanno il loro enfant terrible a Roma

L’ideologia anticattolica delle due organizzazioni internazionali ha un nome: “diritti riproduttivi”.

Un libro la mette a nudo.

Contro di essa il Vaticano guida la resistenza

di Sandro Magister


ROMA, 7 luglio 2005 – A fine giugno l’Organizzazione delle Nazioni Unite ha compiuto sessant’anni. Ma l’amministrazione di George W. Bush l’ha festeggiata a modo suo: le ha negato per il quarto anno consecutivo i 34 milioni di dollari in precedenza dati all’UNFPA, il Fondo dell’ONU per la Popolazione.

Motivo: le politiche antinataliste che l’UNFPA finanzia in Cina, a sostegno della sterilizzazione femminile e maschile e dell’aborto forzato dei figli handicappati o in soprannumero. I 34 milioni di dollari così risparmiati l’amministrazione Bush li impiegherà in programmi d’assistenza medica a donne e bambini poveri, e nella lotta contro il traffico sessuale in Asia.

Negli stessi giorni, l’ONU ha riunito per un’audizione di fronte all’assemblea generale una rappresentanza delle 13 mila organizzazioni non governative ad essa collegate. Ma tra le 200 ONG selezionate non ce n’era nessuna pro-vita e pro-famiglia. C’erano invece quelle più attive sul fronte antinatalista, tra cui la International Planned Parenthood Federation, IPPF, e la Women’s Environment and Development Organization, WEDO. Quest’ultima ha fatto circolare una mozione contro i “fondamentalismi culturali e religiosi” che ostacolano i “diritti riproduttivi”.

Sempre negli stessi giorni, sull’altra sponda dell’Atlantico, il parlamento dell’Unione Europea ha approvato con 360 voti a favore, 272 contrari e 20 astenuti una “Risoluzione sulla protezione delle minoranze e le politiche contro la discriminazione”. In essa, la libertà religiosa è indicata come una potenziale minaccia contro la “libera circolazione nell’Unione Europea delle coppie omosessuali sposate o legalmente riconosciute”. A favore della risoluzione ha votato anche il deputato Vittorio Prodi, fratello di Romano Prodi, cattolico progressista, capo del governo italiano dal 1996 al 1998 e presidente della Commissione Europea dal 1999 al 2004.

Nel 2002, con Prodi presidente, la Commissione Europea sopperì alla decisione di Bush di ritirare i finanziamenti USA all’UNFPA erogando una somma quasi identica, 32 milioni di euro, alla stessa UNFPA e all’IPPF.

La Santa Sede ha propri rappresentanti sia presso l’UE, sia all’ONU. Nel Palazzo di Vetro gode di uno status di osservatore permanente, confermato e rafforzato da una risoluzione del 1 luglio 2004. Ma in nessuna di queste due grandi organizzazioni internazionali ha vita facile.

Anzi, la Chiesa cattolica è spesso lì trattata come il nemico numero uno. Lo è in quanto religione monoteista, e come tale ritenuta generatrice di intolleranza. E lo è soprattutto in quanto antagonista – assieme all’attuale amministrazione americana – di quella filosofia dei “diritti riproduttivi” che è il verbo indiscutibile dell’ONU e dell’UE in materia di famiglia e procreazione.


* * *

In Italia è uscito un libro che mette a fuoco per la prima volta in modo diretto e documentato questa avversione anticattolica dell’ONU e dell’UE. Il titolo è esplicito: “Contro il cristianesimo. L’ONU e l’Unione Europea come nuova ideologia”. Le autrici sono Eugenia Roccella e Lucetta Scaraffia. La prima, non cattolica, è stata esponente di rilievo di movimenti femministi, la seconda insegna storia contemporanea all’Università di Roma La Sapienza. Assuntina Morresi ha curato l’appendice documentaria, con un capitolo dedicato alla storia dell’IPPF e un’altro alla sua fondatrice Margaret Sanger (1879-1966).

Nell’introduzione al volume, Roccella e Scaraffia individuano la radice della nuova ideologia nella “separazione fra sessualità e procreazione”. Ne vedono lo sbocco “oltre i confini dell’aborto, nel ritorno strisciante all’eugenetica”. E concludono:

“Più che di un modello di comportamento sessuale diverso, ma concettualmente analogo a quelli che l’hanno preceduto nella storia, si tratta di una vera e propria utopia, perche si fonda sull’idea che gli esseri umani possano trovare la felicità nella realizzazione dei propri desideri sessuali, senza limiti morali, biologici, sociali e relazionali legati alla procreazione. Un’utopia che ha le sue radici nella rivoluzione sessuale occidentale degli anni Sessanta, e che risulta tuttora indiscussa anche se non sembra aver mantenuto le sue promesse. Un’utopia che ne riecheggia un’altra, di infausta memoria: che la selezione dei nuovi esseri umani possa creare un’umanità migliore, più sana, più bella.

“L’imposizione di questa utopia ai paesi del Terzo Mondo sembra costituire lo scopo principale dell’attività di molte organizzazioni internazionali, e condiziona aiuti finanziari e rapporti diplomatici.

“A questa si affianca, anzi, ne è il logico complemento, l’utopia irenica di chi crede che solo l’abolizione delle religioni – soprattutto quelle monoteiste – possa realizzare la fine dei conflitti per l’umanità. Si tratta di un pensiero così diffuso e così ben radicato che non si può facilmente mettere in discussione, soprattutto nelle sedi internazionali. E chi osa farlo, come la Chiesa cattolica, viene criticato, penalizzato e accusato di voler ostacolare la costruzione di un radioso futuro di armonia”.


* * *

Il libro è tutto da leggere. Basta qui richiamarne alcuni spunti di particolare interesse:

– l’indebolimento negli anni, attraverso successive varianti, della carta dei diritti universali del 1948, ove ad esempio l’originario diritto di “cambiare religione” si riduce ad “avere o adottare una religione” e infine, nel 1981, solo ad “avere una religione”;

– la tesi delle organizzazioni dell’ONU secondo cui la famiglia “rappresenta l’istitituzione per eccellenza ove si definisce la subordinazione femminile” e quindi va combattuta e tendenzialmentre smantellata;

– l’invenzione e la messa in opera su vasta scala della formula “salute riproduttiva”, secondo cui “il diritto alla vita è riservato solo alle donne, mentre una politica di severo contenimento demografico si oppone alla nascita dei figli”;

– la dettagliata ricostruzione del sostegno dato dall’ONU – e anche da esponenti cattolici – a “eventi e organismi interreligiosi finalizzati a sostituire le religioni tradizionali con una religione unica, mondiale, basata sulla dichiarazione dei diritti dell’uomo”;

– la decisione della Santa Sede, annunciata nel 2000, di sospendere il proprio contributo finanziario all’UNICEF, perché “trasformato da baluardo in difesa dei bambini e delle madri in ennesima agenzia per il controllo delle nascite”;

– i ripetuti attacchi della commissione sui diritti umani del parlamento europeo, nelle sue relazioni annuali, contro la Chiesa cattolica accusata di “fondamentalismo” in ogni campo, ma soprattutto in quello sessuale;

– l’intreccio strettissimo, fin dal primo Novecento, tra antinatalismo ed eugenetica, e la continuazione di quest’ultima sotto nuove vesti anche dopo il discredito ottenuto col nazismo;

– i casi esemplari di Iran, Cina, India, Bangladesh, dove la povertà e l’assenza di meccanismi democratici consolidati hanno reso le donne facili vittime di sperimentazione di contraccettivi rischiosi per la salute, di sterilizzazioni di massa e aborti forzati;

– il presupposto delle organizzazioni dell’ONU secondo cui l’offerta di aborto e contraccezione è, in qualunque contesto, il primo elemento di emancipazione per le donne e il solo perseguito di fatto: come in Iran, dove i programmi per il controllo della fertilità hanno avuto grande successo ma le donne continuano a essere soggette all’oppressione maschile;

– l’impressionante contrasto tra l’impegno antinatalista profuso dalle organizzazioni internazionali nei paesi poveri e l’invarianza nell’ultimo decennio del numero delle donne morte per parto, più di mezzo milione all’anno.

Scrive a questo proposito Eugenia Roccella:

“I dati confermano come i cosiddetti servizi alla salute riproduttiva siano rivolti moltissimo alla prevenzione e interruzione delle gravidanze indesiderate, ma pochissimo alle cure per le gravidanze desiderate. Il modo principale con cui si intende ridurre la mortalità da parto è ridurre, semplicemente, il numero dei parti, e aumentare quello degli aborti”.

E ancora, a proposito dei linguaggi adottati in questo campo da ONU ed UE:

“Ad ogni appuntamento internazionale si apre una lotta terminologica che a un osservatore estraneo potrebbe apparire incomprensibile. Ma dietro le differenze semantiche si nasconde lo scontro sui concetti. Per esempio, la scomparsa di vocaboli come madre e padre, in favore di definizioni prive di caratterizzazione sessuale, come ‘progetto parentale’ o ‘genitorialità’, e la stessa sostituzione delle parole uomo e donna con un termine neutro, ‘genere’, tendono ad annullare la differenza sessuale e la specificità dei ruoli di madre e padre.

“C’è un progetto culturale molto diffuso, e in parte inconsapevole, che mira a sganciarsi il più possibile dal diritto naturale, fondamento dei diritti umani. Se non c’è più un diritto naturale inalienabile che garantisca l’eguaglianza degli esseri umani (per esempio per quanto riguarda il diritto alla vita e alla libertà personale), tutto diventa contrattabile e relativo. Rafael Salas, ex direttore dell’UNFPA, ha sostenuto che le spaventose violazioni dei diritti umani attuate in Cina durante gli anni della politica del figlio unico non erano tali per i cinesi. Aborti forzati, abbandono e uccisione dei neonati, secondo Salas, erano metodi che ‘per le loro norme culturali non erano affatto coercitivi’. Questo è relativismo etico: ma è chiaro che si tratta di una concezione che porta alla distruzione dell’idea stessa dei diritti umani”.


* * *

Sui contrasti tra la Chiesa cattolica e l’Unione Europea ha detto alcune parole lo scorso 21 giugno il cardinale Camillo Ruini.

Le ha dette presentando a un folto pubblico l’ultimo libro uscito in Italia a firma di Joseph Ratzinger, con la sua celebre conferenza sul cristianesimo in Europa tenuta a Subiaco il 1 aprile scorso.

Ruini ha fatto notare che l'Unione Europea “non ha praticamente potere nel campo della politica estera, ma ne vuole esercitare tantissimo nel campo etico. Varie risoluzioni del parlamento comunitario muovono nel senso di una contestazione della predicazione morale della Chiesa sulla famiglia e la vita sessuale, invadendo in modo fin troppo esteso il campo delle decisioni etiche dei singoli paesi”.

da chiesa.espresso.repubblica.it
« Ultima modifica: Settembre 02, 2007, 12:09:51 pm da Admin » Registrato
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« Risposta #1 inserito:: Settembre 01, 2007, 11:40:56 pm »

I cristiani ripopolano l'Arabia, quattordici secoli dopo Maometto

Negli Emirati Arabi Uniti potrebbero essere presto la maggioranza della popolazione.

E anche in Arabia Saudita sono sempre più numerosi.

Chi sono. Da dove vengono. Come vivono.

Un reportage da Dubai e Abu Dhabi

di Sandro Magister


ROMA, 31 agosto 2007 – Tre mesi fa giusti, il 31 maggio, la Santa Sede ha allacciato le relazioni diplomatiche e ha scambiato gli ambasciatori con gli Emirati Arabi Uniti.

Pochi l'hanno notato, ma gli Emirati Arabi Uniti sono il paese islamico con la più alta presenza di cristiani.

Ed è una presenza nuova e in crescita. Tutto l'opposto di quanto avviene in altre regioni del Medio Oriente come l'Iraq, il Libano, la Terra Santa, dove comunità cristiane di antichissime origini addirittura rischiano di scomparire.

Gli Emirati Arabi Uniti sono una federazione di sette emirati: Abu Dhabi, Ajman, Dubai, Al-Fujayrah, Ras al-Khaimah, Sharjah e Umm al-Qaiwain, situati lungo la costa centro-orientale della penisola arabica. La capitale è Abu Dhabi. La religione ufficiale è l'islam, cui appartiene la quasi totalità dei cittadini.

Ma molto più numerosi dei cittadini sono gli immigrati. Su oltre 4 milioni di abitanti, gli stranieri sono oggi più del 70 per cento, provenienti da altri paesi arabi, dal Pakistan, dall’India, dal Bangladesh, dalle Filippine.

Di questi lavoratori stranieri, più della metà sono cristiani. Tirate le somme, negli Emirati Arabi Uniti i cristiani sono più del 35 per cento della popolazione. I cattolici sfiorano il milione. E non solo lì. Anche in Arabia Saudita si stima che i cattolici provenienti dalle Filippine siano già attorno al milione.

Ma chi sono e come vivono questi cristiani in terra d'Arabia? Qual è il volto di questa Chiesa giovane e in crescita? Quali sono i suoi margini di libertà?

Il reportage che segue risponde a queste domande. È uscito domenica 19 agosto sul quotidiano della conferenza episcopale italiana, "Avvenire":


La Chiesa sommersa degli Emirati Arabi Uniti

di Fabio Proverbio


È pomeriggio e in compagnia di Santos e Lea attraverso in auto la frenetica Dubai. Intorno a me voluminosi Suv che a fatica avanzano nel congestionato traffico urbano, lussuosi e modernissimi edifici, immensi cantieri edili animati da eserciti di operai: la conferma che ci troviamo in una delle città più all'avanguardia e in fermento del pianeta.

Siamo diretti verso un luogo d'asilo messo a disposizione dalla diplomazia delle Filippine per ospitare e proteggere le giovani immigrate in fuga dai propri datori di lavoro.

Arrivato destinazione, in un elegante palazzo, incontro un centinaio di ragazze impegnate a compensare lo stato di naturale disordine generato dall'affollamento (vedi foto). Strette le une alle altre, intonano canti e preghiere, scambiandosi abbracci di reciproca consolazione. Osservo le lacrime che nessuna ragazza riesce a trattenere e cerco inutilmente di dare una ragione a tanta tristezza. Capirò al termine della preghiera, quando Santos e Lea mi raccontano le drammatiche esperienze vissute da queste giovani immigrate.

Sono storie quasi inverosimili, come quella di Beng che, stanca di essere tenuta rinchiusa nella casa dove prestava servizio e di sopportare molestie da parte dei membri della famiglia, ha tentato una disperata fuga, conclusasi con una rovinosa caduta e la rottura di un braccio. Soccorsa e condotta in ospedale da alcuni passanti, la ragazza è stata successivamente arrestata con l'accusa di tentato suicidio. L'intervento della diplomazia filippina ha finalmente rimesso in libertà l'immigrata che oggi, in questo luogo protetto, attende gli sviluppi del processo. Non miglior sorte è toccata alla domestica che ha prestato servizio dopo di lei presso la stessa famiglia: un nuovo tentativo di fuga col medesimo epilogo.

Santos e Lea fanno parte della Legione di Maria, il movimento cattolico divenuto qui il punto di riferimento per molte immigrate filippine che, in questa comunità, trovano non solo solidarietà, ma anche la necessaria assistenza legale per potersi affrancare da condizioni di lavoro spesso non corrispondenti a quelle definite nel contratto d'ingaggio.

Dopo aver salutato le giovani immigrate, che nel frattempo avevano almeno in apparenza riacquistato un principio di serenità e quello spirito gioviale che caratterizza il popolo filippino, parto per Abu Dhabi.

È domenica, ma in un paese musulmano come gli Emirati Arabi Uniti è un giorno qualsiasi. Eppure nella chiesa cattolica di San Giuseppe ad Abu Dhabi, nel tardo pomeriggio assisto a uno straordinario andirivieni di fedeli, appartenenti a gruppi etnici diversi, che qui vengono per poter partecipare alla messa celebrata nella propria lingua nazionale. Sono indiani, per lo più del Kerala o del Tamil Nadu, filippini, libanesi, iracheni o cristiani provenienti da altri paesi mediorientali, ma anche europei e americani.

Il venerdì, giorno festivo nei paesi musulmani, l'afflusso di fedeli è ancora più copioso, tanto che la chiesa non riesce a contenerli tutti. Molti devono seguire la celebrazione fuori, sul sagrato antistante, dove, in occasione di festività particolari come Natale o Pasqua, vengono allestiti degli schermi giganti per permettere a tutti la partecipazione. Tuttavia, come tiene a precisare monsignor Paul Hinder, vescovo del vicariato apostolico d'Arabia, coloro che frequentano regolarmente la parrocchia sono solo una piccola percentuale, il 15-18 per cento, della popolazione cattolica della capitale e dei dintorni.


* * *

I cristiani presenti negli Emirati Arabi Uniti rappresentano circa il 35 per cento della popolazione, per un totale di fedeli superiore al milione, in maggioranza cattolici.

Sono tutti lavoratori immigrati, molti dei quali, abitando in zone periferiche mal collegate alle città, non possono frequentare regolarmente i luoghi ufficiali di culto. È questo il caso di migliaia d'indiani occupati nei cantieri edili di Dubai ed alloggiati nel più grande villaggio-dormitorio dell'Asia che, secondo stime non ufficiali, ospiterebbe una popolazione di circa trecentomila operai. Oppure degli immigrati che lavorano nell'industria petrolifera, dislocati in lontani villaggi-oasi nel deserto.

Altro caso è quello delle domestiche filippine che, per mancanza di tempo libero o di denaro per il trasporto, restano vincolate al luogo dove lavorano. Di conseguenza, la preghiera organizzata in piccoli gruppi di fedeli, omogenei per lingua e provenienza, raccolti in ambienti privati – appartamenti, dormitori, rimesse – diviene un aspetto molto importante e diffuso dell'espressione religiosa delle comunità cattoliche. Si tratta di un momento di incontro necessario, ma rischioso per le regole imposte dalle autorità locali, che consentono la libertà di culto solo in ambiti ufficialmente riconosciuti come gli edifici parrocchiali presenti sul territorio. In questo contesto, i gruppi carismatici originari dell'India o delle Filippine assumono un ruolo importante nell'attivare iniziative a sostegno dell'immigrato che vive nelle condizioni più difficili. Spesso non si limitano ad iniziative religiose ma intervengono anche con servizi pratici d'assistenza, come nel caso della Legione di Maria.

Il fenomeno dell’immigrazione negli Emirati Arabi è relativamente recente ed è legato alla fortuna petrolifera della regione. Quando negli anni Cinquanta e Sessanta gli introiti petroliferi hanno cominciato a portare prosperità e progresso, lo sviluppo del paese ha reso necessario l’impiego di manodopera proveniente dall’estero, specializzata e non.

Oggi gli Emirati stanno subendo un processo di modernizzazione che non ha eguali nel mondo. I petroldollari vengono reinvestiti in strutture ed infrastrutture all’avanguardia, la borsa di Dubai sta assumendo importanza mondiale e il porto è tra i più frequentati del globo. Isole artificiali a forma di palma, piste da sci nel deserto, hotel dalle forme più improbabili e tutta una serie di costruzioni eccentriche – come la non ancora ultimata torre Burj Dubai, che dovrebbe essere l’edificio più alto al mondo – sono solo alcuni esempi delle "meraviglie" con cui gli emiri locali si sono proposti di sbalordire il mondo e di attirare gli investitori stranieri, che qui trovano favorevoli condizioni di investimento e un costo del lavoro bassissimo.

Gli immigrati rappresentano il 90 per cento dei quasi due milioni di lavoratori presenti negli Emirati, percentuale che raggiungere il 100 per cento per la manodopera a basso costo. Di fatto, agli arabi locali il concetto di povertà o è sconosciuto – per i più giovani – o è un ricordo sbiadito di tempi lontani. La mancanza di spinte alla realizzazione professionale ed economica – già garantite alla nascita – sta addirittura demotivando la futura classe dirigente del paese, con il rischio di renderla inadeguata ad affrontare le sfide imposte dalla globalizzazione.

Il termine stesso di "immigrato" è troppo generico per definire la realtà di chi oggi lavora per cambiare il volto del Golfo. Il vero statuto di questi lavoratori, anche di quelli che vivono ormai da parecchi anni negli Emirati, è quello di "espatriati", ovvero di persone la cui presenza nel paese è unicamente legata al possesso di un regolare contratto di lavoro, ma che mai potranno diventare residenti o acquistare case e terreni sul posto. Il loro destino è legato alle decisioni dei datori di lavoro, che spesso tengono in ostaggio il loro passaporto per timore di fughe o atti di insubordinazione. Gli ambiti di utilizzo di questa manodopera sono quelli legati all’industria petrolifera e, più recentemente, al settore edile e all’aiuto domestico.

Questi sono i nuovi poveri di Dubai e dintorni. Il loro salario mensile difficilmente supera i 150 euro, lavorano mediamente 10-12 ore al giorno, sei giorni su sette, a temperature che possono arrivare a 50 gradi centigradi. Vivono in sobborghi-dormitorio grandi quanto città, ma totalmente privi di servizi. Simili ad enormi caserme, questi villaggi sono popolati da uomini soli, per i quali la famiglia è un ricordo lontano, da raggiungere periodicamente con un vaglia postale che consentirà, ai più fortunati, di mandare a scuola i figli o di pagare i debiti di una famiglia troppo povera. Il miglior destino delle reclute di questo esercito di manovali è di poter spendere la propria vita professionale nei cantieri del Golfo con brevi visite ai propri cari ogni due-tre anni.

Parlare di povertà in un paese in rapidissima crescita economica – e che punta a diventare, per l’ambizione dei suoi governanti, uno dei poli più importanti dell’arte contemporanea, con l’apertura di musei e spazi espositivi – sembra un paradosso. Anzi, è una realtà particolarmente difficile da comprendere ed accettare per l’osservatore esterno, proprio a motivo dell’esagerata opulenza con cui si trova a convivere.

Ma anche questi aspetti vanno considerati per cercare di comprendere la realtà degli Emirati oggi: una terra di grandi contrasti, dove la tradizione si scontra con la modernità in una fusione unica, sorprendente e drammaticamente contraddittoria, di Oriente e Occidente.

da chiesa.espresso.repubblica.it
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« Risposta #2 inserito:: Settembre 02, 2007, 12:08:41 pm »

venerdì 31 agosto 2007, 16.39.57

I nuovi schiavi cristiani dell’Arabia dei grattacieli

venerdì 31 agosto 2007, 16.39.57 | Sandro Magister


Da New York, poche ore dopo la messa in rete in www.chiesa del servizio “I cristiani ripopolano l’Arabia, quattordici secoli dopo Maometto“, Maureen Mullarkey ci scrive:

“Il reportage di Fabio Proverbio impedisce di trarre il messaggio implicito nel suo stesso resoconto. Negli Emirati Arabi Uniti vi sono dei cristiani ‘dhimmi’ costretti in massa a servire una élite musulmana. È un resoconto che mette i brividi. Eppure è presentato come se ci fosse qualcosa di positivo – e persino di auspicabile – nel fatto che dei cristiani ‘dhimmi’ possano un giorno diventare maggioranza. Pochi padroni islamici e un mare di schiavi cristiani non è affatto una realtà che l’Occidente cristiano debba celebrare”.

Maureen Mullarkey coglie nel segno. Ma anche il reportage di Fabio Proverbio le dà ragione. Il termine “dhimmi” non lo usa, ma la realtà che egli descrive è esattamente quella di una moderna “dhimmitudine”: la sottomissione nella quale l’islam ha sempre variamente costretto i sudditi di religione ebraica e cristiana presenti nelle sue terre.

Una grande studiosa della “dhimmitudine” è Bat Ye’or, di cui www.chiesa ha citato più volte gli studi, in particolare nel servizio: “Europa provincia dell’islam? Il pericolo si chiama dhimmitudine“.

Recentemente, di Bat Ye’or è stato edito in Italiano, da Lindau, il libro intitolato “Eurabia“: parola da lei coniata, alla quale Oriana Fallaci diede poi una risonanza mondiale.

Come in Europa serpeggia la “dhimmitudine” denunciata da Bat Ye’or, con le sue particolari caratteristiche, così in Arabia, nella terra natale dell’islam, sta prendendo forma una nuova sottomissione: quella dei milioni di immigrati, in gran parte cristiani, che arrivano lì a compiere i lavori più umili e faticosi.

Il presente è quello descritto dal reportage di Fabio Proverbio. Ma il futuro di questo imponente afflusso di cristiani nella penisola arabica non è affatto già scritto. La “dhimmitudine” non è una condanna dalla quale non ci si possa liberare. Purché almeno, fin d’ora, tutti ne prendano coscienza.


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