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Autore Discussione: Goffredo Fofi I padroni tra gli operai e i giornalisti (parole superate)  (Letto 3067 volte)
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« inserito:: Luglio 09, 2010, 06:46:56 pm »

I padroni tra gli operai e i giornalisti

di Goffredo Fofi

Rischio di essere prevenuto e ideologico se dico che mi è sembrata davvero eccessiva la differenza d’attenzione dimostrata dai nostri giornali alla questione della libertà di stampa e a quella della condizione operaia? Sì, di Pomigliano hanno parlato tanti, caso lampante del ricatto di un sistema economico prima ancora che politico su quella che è stata la base della sua affermazione e che forse, con il fallimento evidente (e ahinoi prevedibile) della nuova economia e della finanziarizzazione dell’economia, potrebbe tornare a esserlo... Naturalmente, come al solito, capita a me e ad altri di scandalizzarmi meno per quel che fa la destra, partendo dalla convinzione che è il suo peccato mortale quello di finire sempre per stare dalla parte dei prepotenti, dei “padroni”, che per quel che fa la sinistra, o ciò che ne rimane, nelle sue ceneri inerti. “Padroni” è una parola antica e sempre nuova, come antica e sempre nuova è la parola “compagni”, ma ci saranno certamente i quaranta-cinquantenni di successo all’interno delle logiche che una presunta sinistra ha scelto di darsi negli ultimi decenni che, così come si sono scandalizzati per l’uso della parola compagni da parte dell’avventato Gifuni, si scandalizzeranno per l’uso di una parola così fuori moda come padroni. Ma proprio di questo si tratta. I padroni, poi, sono una categoria limitata ma assai bene insediata – una parte minima della popolazione che controlla la quasi totalità delle ricchezze, e con i soldi e la pubblicità ricatta i mezzi di comunicazione di massa, in perfetta sintonia con i politici che esprime, quelli che sono padroni in proprio e quelli che sono al servizio dei padroni. E il denaro, si sa, è lui a guidare le sorti del mondo.

Ci sono momenti della nostra storia in cui è d’obbligo fare i moralisti, e questo è, mi pare, uno di quelli, a cavallo tra un trentennio di cedimenti e il probabile riaprirsi di un’era di conflitti. La storia, la nostra storia, procede per periodi di calma e periodi di febbre, e ho la sensazione che la calma, la tregua, la stasi stanno per finire. Per questo è necessario, credo, riaprire discorsi generali, di fondo. E quello della condizione e dei diritti degli operai è un tema importante quanto quello della libertà d’informazione. Però l’informazione, quando è colpita sul vivo, reagisce indignata e si batte santamente e chiede solidarietà. Due dubbi restano: che l’informazione abbia accettato negli ultimi decenni cose inaccettabili (le logiche dei padroni, le logiche di pagava e chiedeva in cambio moltissimo e aveva i soldi per farlo), e che invece di procedere per inchieste dirette proceda oggi, sui temi più scabrosi del funzionamento di questo sistema, per informazioni che le vengono da magistrati e altre fonti, dalle altrui intercettazioni. I giornalisti difendono se stessi e un modo di lavorare che non è sempre quello ideale. Hanno voce, molta voce, e fanno bene a farsi sentire perché l’attacco di cui sono oggetto riguarda quel che rimane della democrazia e della libertà, né più né meno, e può portare a ben peggio. Gli operai non contano più molto, da molto tempo, anche se cominciano ad avere chiara coscienza della loro sudditanza e si stanno svegliando.

Rinaldo Gianola ha raccolto le sue inchieste sulla condizione operaia (Diario operaio, Ediesse) che consiglio a tutti di leggere, soprattutto ai giornalisti e ai professionisti dei media. Gli operai sono circa sette milioni, dice, di cui almeno la metà impiegati nell’industria manifatturiera. Ma quali sono le loro condizioni di vita e, per esempio, che differenza c’è tra le loro retribuzioni (la busta paga, la cartella delle tasse) e quella di un giornalista di qualche successo? Non è delicato parlare di queste cose, sostiene qualcuno, per esempio di quanto guadagnano certi nomi della sinistra (certi politici giornalisti scrittori sceneggiatori – si vedano su questo le “confessioni” di  in Fare scene, minimum fax, che non è dei meglio pagati – e parenti e affini e collaterali) ma al dislivello tra le loro paghe e quelle degli operai corrisponde perfettamente l’attuale crisi della sinistra: questo dislivello può spiegare, rozzamente ma efficacemente, da cosa nasce la sua crisi.

Il primo scandalo è questo: la presenza di un’oligarchia miliardaria, finanziaria e politica. Essa vuole una comunicazione sottoposta ai suoi interessi. Contro questo è fondamentale ribellarsi, ma senza dimenticare lo scandalo, nato dal trionfo di quella oligarchia, di una classe operaia e produttrice spinta ai margini della società, quotidianamente derubata, violentata, spossessata della sua identità (anche grazie ai mezzi di informazione).

04 luglio 2010
http://www.unita.it/news/italia/100782/i_padroni_tra_gli_operai_e_i_giornalisti
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Utente non iscritto
« Risposta #1 inserito:: Novembre 14, 2010, 09:11:32 am »

L’imbarazzo delle mezzeseghe

Goffredo Fofi

Negli anni ottanta, in uno dei primi numeri di «Linea d’ombra» mensile, scrissi un editoriale che intitolai provocatoriamente e in modo volutamente volgare Le mezzeseghe all’arrembaggio. Registravo un fenomeno: l’ascesa di un tipo intellettuale che si voleva molto moderno, e che di fatto non faceva che ribadire ed esaltare le linea del potere, il suo puntare sull’immagine e la festa, sulla consolazione piuttosto torbida degli italiani e anzitutto dei giovani tra consumismo e narcisismo. E chiacchiera. In un piccolo scontro con uno dei teorici al centro di quella tendenza - noto “intellettuale di sinistra” apprezzato dai due quotidiani e maestro di tanti - lo definii «un propagandista del capitale», ed egli mi rispose che a ben vedere in questa, che io consideravo un’accusa, c’era del vero. Più tardi, su una rivista che facevamo negli anni novanta, «La Terra vista dalla Luna», scrissi un intervento che intitolai, mi pare, Il trionfo delle mezzeseghe.

E più tardi ancora su «Lo straniero» uno che riprendeva il discorso nel cuore degli anni zero e che intitolai Le nuove Colonne della Società. Il trionfo è durato quasi trent’anni, ma sembra giunto alla fine, o a un punto di crisi e di svolta. (Oggi si sta assistendo a una ambigua rivalutazione degli anni ottanta, come se al tempo si fosse individuato il nuovo e moderno e poi gli anni novanta e zero l’avessero deviato; insomma, sul piano politico, a una sorta di difesa del decennio di Craxi contro il ventennio Berlusconi, mentre credo che occorra parlare di trentennio in modo decisamente unitario.)

La “saga delle mezzeseghe” continua, intanto, e la puntata attuale possiamo chiamarla Le mezzeseghe in imbarazzo, e non, come sarebbe più bello, La caduta delle mezzeseghe, perché non è prevedibile né che esse possano fare autocritica né che possano sparire miracolosamente dalla scena, insediate come sono nei gangli del sistema culturale, e cioè giornali e tv, università. Altre istituzioni e assessorati alla cultura. Ma certamente il loro dominio è in pericolo. Molti di loro sono pronti a riciclarsi, o hanno già cominciato a farlo - il trasformismo è una malattia tradizionale degli intellettuali italiani. E d’altronde nessuno ha intenzione di processarli, tanto meno i politici, molto più compromessi di loro nell’affermazione di un modello di società che ha infine mostrato la sua fragilità e la sua corruzione, e tanto meno quei pochi minoritari che in questi trent’anni hanno cercato affannosamente o confusamente di contrapporre alla loro onda un discorso critico o una presenza attiva “nel sociale”, occupati in altro di più serio e utile e gratificante.
(Non parlo di quei pochi bravissimi rappresentanti di un pensiero ancora critico che si tirarono presto tirati da parte imitando un tizio di cui parla il Novellino, che si castrò per far dispetto alla moglie.)

D’altra parte, nell’editoria anche maggiore, trasformista per vocazione commerciale, spudoratamente fedele al primato del mercato ma col bisogno di darsi titoli di nobiltà chiamando la merce cultura, si assiste alla nascita di un nuovo filone, quello della critica al recente passato. Sono usciti o stanno uscendo molti libri di questo tipo, nei confronti dei quali è bene non affrettare il giudizio, perché insieme a cose serie ci sono già i prodotti dei “figli universitari del trentennio” che, con molta saccenza e con superficiale documentazione, accusano e disquisiscono. Nuove mezzeseghe del nuovo decennio? Staremo a vedere. Ma almeno un libro mi pare utile segnalarlo, L’egemonia sottoculturale di Massimiliano Panarari, appunto di una delle case editrici di cui sopra, l’Einaudi. Dell’autore so solo quel che ne dice il risvolto di copertina. Non convince sempre, ma è pieno di spunti e indicazioni molto utili. E di nomi. Se io non ne faccio, è perché sarebbero troppi, e spesso quelli più noti sono meno responsabili di altri nell’ombra. Nel ricordare il dominio culturale delle mezzeseghe di appena ieri, non mi attira l’idea di un processo al passato (“scagli la prima pietra...”) anche se è utile che ci sia qualcuno più bravo e nuovo di me a farlo; mi spinge invece la preoccupazione per un futuro che non si presenta facile da nessun punto di vista, tanto meno da quello della cultura che lo guiderà o ne nasconderà le nuove linee reali, sostanzialmente economiche. Mai come in questi anni passati la cultura è stata succube dell’economia e del potere - neanche sotto il fascismo! - e i servi, si sa, sono meno responsabili dei padroni.

14 novembre 2010
http://www.unita.it/news/goffredo_fofi/105824/limbarazzo_delle_mezzeseghe
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