15/6/2010
Diamo lavoro alle province
OLIVIERO TOSCANI
Caro direttore, e se trovassimo qualcosa da fare alle Province? Invece di perdere ancora tempo a discutere se e quante tagliarne, invece di fissare l’asticella secondo la convenienza di questo o quel partito. Invece di sentirci impartire astruse lezioncine sul federalismo e la sussidiarietà.
Una nuova missione, insomma. Senza troppe polemiche, per carità, non mi sognerei mai - a differenza di tanti altri - di fare del sistema delle Province il capro espiatorio di tutto quello che non va nel nostro Paese. Avranno da fare, figurarsi. Eppure quotidianamente viene officiato un funerale di sprechi e diseconomie, una litania di caste e privilegi che abbiamo tutti imparato a odiare. Come se poi fossero le Province, e solo loro, il buco nero di uno Stato sprecone, miliardi e miliardi l’anno a carico del contribuente.
Qualche ministro Mani-di-Forbice pensa di avere trovato la soluzione, la colpa è tutta e solo degli enti locali, delle amministrazioni che sono nel mirino di tutta l’Europa, non solo del governo Berlusconi. Ho letto da qualche parte che un ministro del precedente governo britannico ha lasciato al suo successore un ironico bigliettino, con su scritto: «I soldi sono finiti, in bocca al lupo». Stessa storia dappertutto. E le Province paiono disegnate apposta per una caccia alle streghe.
Chiedo in giro, ma tu lo sai che cosa fa una Provincia, su cosa decide, cosa rientra nelle sue responsabilità? Scena muta, per lo più. Uno gliommero di competenze che si sovrappongono, un gomitolo che difficilmente si riesce a dipanare, questo al Comune, questo allo Stato, questo alla Regione e questo alla Provincia. Macché. Eppure, numeri alla mano, sono 110 le Province italiane. E danno lavoro a più di 60 mila persone. Non un ectoplasma, ma una realtà ramificata, fin troppo.
A ogni campagna elettorale, i tribuni - non senza ragioni - promettono che i risparmi dovranno cominciare proprio da qui, enti inutili, appendici superflue. Zac. Poi, una volta incassato il voto, tra spinte e lobbying si riparte da Vicolo Corto. Tagliare tutto, no solo un pezzetto, lasciare tutto com’è. Non sono un costituzionalista, e immagino che una proposta di senso comune verrebbe infilzata dai distinguo sottili della dottrina. Ma siccome lo stallo tra le istituzioni non mi pare più fecondo, mentre perdiamo competitività e lavoro e forza di gravità, mi chiedo: e se chiedessimo alle Province di mutare di segno? Non di smettere di fare il loro lavoro, qualunque esso sia. Ma di prendersi in carico una nuova responsabilità, mai tanto urgente per il Belpaese. In Italia ci sono almeno centomila beni culturali: monumenti, chiese, ville che costituiscono il nostro patrimonio declinante, ma unico al mondo, una carta d’identità la cui foto si sbiadisce e scolora giorno dopo giorno. Anche qui, chi se ne occupa? Lo Stato, il Ministero, i Comuni, le Soprintendenze, le Regioni? Un altro gliommero da districare. Ci stiamo provando, assieme a Salvatore Settis, con un progetto che riguarda il «nuovo paesaggio italiano» e che presentiamo oggi a Roma.
Un’anagrafe del brutto che soffoca il Paese, un archivio vivente che ognuno può contribuire ad arricchire, fotografando il degrado che attraversiamo, basta un mms. Ma se fossero le Province a provare a raccapezzarsi? Se invece di tagliarle venisse attribuita a loro la mediazione tra i diversi livelli, nazionali e territoriali, per la tutela e la valorizzazione dei beni culturali? Un’azione di coordinamento per far dialogare tra loro gelosie e sordità, interessi ed egoismi, in un’epoca in cui Internet ha azzerato le distanze? Se toccasse alla Provincia di monitorare le bellezze che sono in pericolo, e magari prendersi la briga di mettere attorno a un tavolo pubblico e privato, impresa e associazioni, Stato e terzo settore per capire come salvare quel tratto di costa o quella testimonianza storica o quell’istituto che rischia la chiusura? Un ruolo di fundraising, da broker istituzionale, che media, ascolta, mette a fuoco le priorità.
Un’asineria? Piuttosto un modo di risparmiare e fare politica, nel senso più alto del termine. Quello di aiutare a trovare soluzioni, con pazienza e concretezza. Qual è il problema, gli sprechi delle Province? Obblighiamole a reinventarsi, a lavorare sul più ambizioso dei compiti per un Paese come il nostro: quello di mettere a frutto i talenti, non lasciarli essiccare al sole, svaporare tra villette e vallette, turisti e cemento.
Nel suo Manifesto del contadino impazzito, Wendell Berry invitava a «praticare la resurrezione»: «Quando vedi che i generali e i politicanti riescono a prevedere i movimenti del tuo pensiero, abbandonalo. Lascialo come un segnale della falsa pista, quella che non hai preso. Fai come la volpe, che lascia molte più tracce del necessario, diverse nella direzione sbagliata». E se queste odiose Province praticassero, grazie al bello che stiamo sprecando, una loro virtuosa resurrezione?
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