FRANCESCO SPINI.

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Economia
28/06/2013

John Elkann: “In dieci anni triplicato il valore delle nostre attività”

Il presidente di Fiat ed Exor alla Bocconi: “Così il capitalismo familiare vince la sfida”

Francesco Spini

MILANO


Il suo è il racconto di una sfida vinta, ma anche dell’importanza di un capitalismo, quello familiare, che - almeno quando ha saputo coniugare i valori della famiglia con quelli del mercato - ha resistito meglio di altri alla peggior crisi dal dopoguerra, con performance di riguardo. John Elkann, presidente di Fiat ed Exor, lo dimostra in un convegno alla Bocconi dedicato proprio alle aziende familiari, partendo dall’esperienza del gruppo da lui guidato.

«Negli ultimi dieci anni - spiega - abbiamo triplicato il valore della nostra accomandita di famiglia». Più 300%, mentre «l’indice mondiale delle Borse Msci è salito del 43% e quello italiano ha perso il 36%». Dietro ci sono anni all’insegna del cambiamento seguiti alla scomparsa di Giovanni Agnelli prima e di suo fratello Umberto poi. Da allora «siamo stati impegnati nel semplificare la struttura, che da 5 holding è stata ridotta a una sola società di investimento», la Exor. «Quindi ci siamo globalizzati: nel 2003 il 75% dei ricavi» dell’aggregato delle società controllate dalla famiglia, «provenivano dall’Europa, oggi meno del 30%. Ci siamo sviluppati molto in America del Nord, da cui proviene circa la metà del fatturato, mentre il resto arriva in buona parte da Asia e America Latina». 

Terzo: «Abbiamo ridotto la leva finanziaria: l’indebitamento totale era di circa un miliardo, oggi abbiamo 1,5 miliardi di liquidità netta». Ma, sostiene John Elkann, «il risultato più importante è quanto successo in Fiat», dove sotto la guida di Sergio Marchionne «il business è fondamentalmente cambiato» con i ricavi passati da 27 a 84 miliardi, «generati per il 54% in America ma con l’Europa che oggi conta 15 mila lavoratori in più: abbiamo aggiunto lavoro e riportato 1,5 miliardi di profitti». Tutto partendo da una famiglia che, sottolinea, è «molto unita» oltreché numerosa: 250 persone, di cui 100 azionisti dell’accomandita Giovanni Agnelli & C, di cui Elkann è presidente. Non sempre funziona così. «Occorre - avverte Elkann - la combinazione tra un leader molto forte nel business che sappia condividere i valori di una famiglia altrettanto presente, ciascuno nel proprio ambito di responsabilità». È quanto accaduto con Marchionne, assicura Elkann, con cui «in questi dieci anni è sorta una grande complicità a seguito delle battaglie condivise. Dalla cena del 2004, quando gli abbiamo chiedo di diventare ad, la visione del business non è cambiata, all’insegna del rispetto reciproco». 

Per il resto non è un caso se il capitalismo familiare negli ultimi 10 anni, in generale, si sia imposto nelle performance, con un +133%. «Le imprese a controllo familiare tendono ad essere più prudenti dal punto di vista della struttura finanziaria, si indebitano di meno e, in una decade difficile come quella appena passata, è stato sicuramente un vantaggio». In secondo luogo questa categoria risulta essere «più sobria, più cauta nella gestione, attenta al controllo sui costi e sugli investimenti». Infine sono aziende che «tendono a pensare a come mitigare il rischio. E lo fanno con una maggiore diversificazione geografica, di linee di prodotto e di segmenti di mercato». Non ultimo, dalla loro parte hanno il fattore-stabilità che «mette a proprio agio governi e istituzioni: sanno che una famiglia imprenditoriale ci sarà sempre, manterrà i propri impegni, è affidabile». 

Al convegno partecipano anche membri della famiglia, tra cui la moglie di Elkann, Lavinia, e il fratello Lapo, «un esempio molto forte di qualcuno che ha avuto un’idea e l’ha portata avanti, creando valore vero», dice il presidente Fiat, in vista della quotazione, oggi, di Italia Independent. Elkann ricorda gli insegnamenti dell’Avvocato come «la curiosità, il rispetto del lavoro. Prima di portarmi a riunioni importanti mi diceva: non preoccuparti di non sapere. L’importante è dirlo, e fare sempre domande, per imparare». E smonta anche i luoghi comuni sulle imprese a controllo familiare. Si dice che siano piccole? Ricorda il caso italiano di Luxottica, l’americana Wal Mart, la coreana Samsung o l’indiana Tata. Falso che i top manager siano scelti in famiglia, «basta guardare l’esempio di Ford, dove il ceo esterno è molto forte». E sorride di fronte all’accusa che, in fondo, le famiglie si fermino sempre a dimensioni locali. Basta vedere la News Corp nei media o Arcelor-Mittal, leader mondiale dell’acciaio.

da - http://lastampa.it/2013/06/28/economia/john-elkann-in-dieci-anni-triplicato-il-valore-delle-nostre-attivit-0iuZFHjkbZUNADgOUYhkoL/pagina.html

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Economia
27/07/2013 - entra in vigore il regolamento della consob sui finanziamenti collettivi via internet

Crowdfunding, al via le nuove regole

Il crowdfunding va sempre più di moda tra i giovani per finanziare idee e progetti

Italia primo Paese a introdurre le norme. Da oggi i portali possono fare domanda per il registro

Francesco Spini
Milano

«Contiamo di essere operativi da ottobre. I nostri obiettivi? Concludere almeno 20 operazioni l’anno, con un taglio medio da 500 mila euro. Abbiamo già diverse richieste, tra società biotecnologiche, altre impegnate nel risparmio energetico, in Internet...». A parlare è Giuseppe Allevi, tra i fondatori - tutti giovani, tutti di Bergamo, per lo più ingegneri - di WeAreStarting, uno dei portali (in coda, tra gli altri, c’è anche CrowdForMe) pronti a lanciarsi nell’equity-crowdfunding. Diventeranno delle piazze virtuali in cui le start up innovative potranno presentarsi per raccogliere capitali dalla gente via Internet. 

 

Le grandi manovre partono oggi. Entra in vigore il regolamento Consob che fissa le norme per questa nuova forma di «raccolta del risparmio» caldeggiata dal ministero dello Sviluppo, che l’aveva inserita nel decreto crescita bis. «L’Italia per una volta non è costretta a inseguire, ma agisce da pioniere», commenta Stefano Firpo, a capo della segreteria tecnica del ministro dello Sviluppo Economico. È il primo Paese in Europa e tra i primi nel Mondo (Obama che ha largamente usato il crowdfunding per la campagna elettorale l’ha inserito nel Job Act, che però non è ancora entrato in vigore) a regolare il tema. I portali dovranno - passato l’esame Consob - iscriversi in un registro, dimostrando i requisiti di onorabilità e professionalità dei gestori. 

 

Ci saranno forti obblighi informativi a favore dei risparmiatori. Con l’applicazione - come avviene nel risparmio tradizionale - della direttiva Mifid ma solo nel caso di investimenti che superino i 500 euro in un singolo caso e i mille complessivi in un anno. È previsto il co-investimento in ciascun progetto per almeno il 5% di un investitore professionale. «È importante una forte selezione iniziale - dice Firpo -, per far emergere operatori strutturati sia dal punto di vista della professionalità finanziaria che della gestione tecnologica, che sappiano creare un clima reputazionale favorevole allo sviluppo di questo modello, presentando fin da subito progetti validi». In palio c’è una fetta della futura crescita del Paese e l’espansione del modello. La platea delle società interessate - start up innovative - grazie al dl lavoro che ha allargato le maglie dell’innovazione richiesta si è ampliata da mille a 4-5 mila imprese. I portali? Ancora nessuna pre-domanda è giunta in Consob, ma all’inizio non dovrebbero superare la decina. 

 

«Il nostro giudizio sul regolamento è positivo, porterà a una spinta all’innovazione più libera e validata dagli utenti via Internet», commenta Daniela Castrataro, presidente dell’Italian Crowdfunding Network. In una recente ricerca, stilata con la sociologa della Cattolica, Ivana Pais, ha calcolato che a novembre 2012 il valore totale dei quasi 9 mila progetti di crowdfunding chiusi nell’anno in Italia (in forme che prevedono anche remunerazioni diverse dal denaro, in beni o servizi, oppure donazioni, prestiti sociali, tutti esclusi dalle regole della Consob) sia di oltre 13,2 milioni di euro, «numeri in crescita». Per l’equity-based (o meglio: quasi-equity, in cui si favoriscono incontri tra potenziali soci) si stima un valore di 2 milioni. Nel mondo si parla di 2 miliardi, che nel 2013 dovrebbe arrivare a 3,8. La nuova normativa suscita più di un dubbio, nel mondo «crowd». 

 

«Sbagliato limitare l’equity-crowdfunding alle sole start up innovative - dice per esempio Angelo Rindone, pioniere del settore (ha iniziato nel 2005) con Produzioni Dal Basso -, un settore troppo piccolo per un modello utilizzabile in moltissimi abiti, dal turismo all’agricoltura. Il rischio è di associare il crowdfunding alle sole start up, dimenticando le applicazioni sociali e culturali». Nicola Lencioni, ad di Eppela, teme che si alimenti «il sistema di molti fondi che investono poco denaro in tante start up, sperando che almeno una faccia il botto. Una sorta di speculazione». Le complicazioni informative e le garanzie mettono poi l’accento sul ruolo delle banche. «Un sistema che si poneva come alternativo alle banche, alla fine si rivolge sempre a loro - ammette Allevi -. Un difetto di bancocentrismo: toccherà a noi aiutarle ad aumentare la flessibilità». 

da - http://lastampa.it/2013/07/27/economia/crowdfunding-al-via-le-nuove-regole-dFKqOa8m8AfOP9EZ8U9CHP/pagina.html

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Economia
24/09/2013 - svolta nei negoziati tra mediobanca, intesa e generali

C’è l’accordo, Telecom diventa spagnola

Madrid subito al 66% di Telco, ma i diritti di voto restano al 46,2%

Sul piatto 800 milioni di euro Bernabè studia contromosse


Francesco Spini
Milano


L’accordo ora è ufficiale. Gli spagnoli di Telefonica già al termine di un aumento di capitale che verrà sottoscritto oggi conquistano la maggioranza della holding che controlla il 22,4% di Telecom Italia, al 66%. Ma, dal punto di vista della governance, ovvero dei diritti di voto, in un primo momento tutto rimarrà immutato: Madrid, prima di avere pieni poteri, dovrà attendere le autorizzazioni regolamentari e antitrust da Brasile e Argentina. E comunque non prima del 2014. E anche allora, secondo gli accordi, il peso dei soci italiani nel governo di Telecom resterà rilevante, con i diritto di nominare i primi due nomi in lista (presidente e ad) e la metà dei candidati. Ma sempre dal 2014, una volta ottenute le autorizzazioni dagli antitrust brasiliano e argentino, Telefonica potrà acquistare tutto il pacchetto dei soci italiani.

 

Il dado, dunque, è tratto: in mattinata i soci italiani della holding - ossia Mediobanca, Generali e Intesa Sanpaolo - hanno emesso un comunicato in cui spiegano l’operazione che avverrà attraverso due aumenti di capitale e un possibile acquisto delle quote degli italiani già nel 2014. «Siamo soddisfatti di aver concluso questo accordo - commenta l’ad delle Generali, Mario Greco - che è in linea con i nostri obiettivi di rafforzamento patrimoniale e che ci permette di guardare con ottimismo alla distribuzione di un dividendo soddisfacente a fine anno».

 

LE TAPPE 

Il primo passo è immediato e porterà il gruppo di Madrid fin da oggi al 66% della holding, restando però al 46,2% nei diritti di voto. Generali si diluirà al 19,32%, Intesa Sanpaolo al 7,34% così come Mediobanca. Telefonica sottoscriverà infatti un aumento di capitale da 324 milioni di euro valorizzando la partecipazione in Telecom posseduta da Telco 1,09 euro per azione, contro gli 0,59 euro della chiusura di ieri. Ma le azioni di nuova emissione saranno prive di diritti di voto. Intanto però l’aumento di capitale servirà a ripagare in parte del debito della holding (un miliardo) che per il resto verrà rifinanziato da Mediobanca e Intesa. Non solo: Telefonica acquisirà parte del prestito soci, arrivando a detenere il 70% di tali bond.

 

IL SECONDO AUMENTO 

La seconda parte delle manovre scatterà non appena arriveranno le autorizzazioni regolamentari e Antitrust: Telefonica sottoscriverà allora un nuovo aumento di capitale da 117 milioni di euro che porterà il gruppo guidato da Cesar allerta al 70% della holding Telco. Ma anche in questo caso le azioni di nuova emissione non ci saranno mutamenti sostanziali nei processi decisionali.

 

IL POTERE NEL 2014 

Per prendere in mano il comando formale, con una schiacciante maggioranza nei diritti di voto Telefonica dovrà attendere le autorizzazioni. Una volta giunte, dal primo gennaio 2014 potrà convertire le azioni prive di diritti di voto in altre che hanno tale diritto. Fino a un massimo di diritti di voto del 64,9%. Restano garanzie per gli italiani nella presentazione della lista per Telecom (potranno indicare i primi due nomi della lista, e la metà dei candidati). Dal 2014 scatterà la facoltà di comprare tutte le quote in mano agli italiani ad almeno 1,1 euro per azione. Gli italiani, comunque, potranno uscire da Telco in due finestre: tra il 15 e il 30 giugno 2014 e tra il 1° e i il 15 febbraio 2015. Ma allora sarà già iniziata la Telecom della nuova era, quella che parla spagnolo.

Il primo passo, pressoché immediato, sarà quello di acquisire quote degli azionisti finanziari di Telco, ossia Generali (che ha il 30,58% della scatola), Mediobanca e Intesa Sanpaolo (entrambe all’11,62%). In tal modo il colosso guidato da Cesar Alierta salirà entro fine mese dall’attuale 46,18% al 60% della scatola. Questo pagando le azioni oltre un euro (mentre Mediobanca ha svalutato a prezzi di mercato, Generali e Intesa l’hanno in carico a 1,2 euro), con un premio dunque di circa il 70% rispetto agli 0,59 euro segnati ieri in Borsa, +3,42%. Una mossa che di fatto sancirà il passaggio del testimone. A tendere gli spagnoli arriveranno a circa il 70%. Poi, chissà. Telco, quindi, non si scioglie. La data del 28 settembre come limite per le disdette di fatto scompare. Ci saranno nuove finestre di uscita per i soci italiani.

 

Anche con la disdetta immediata, il passaggio delle azioni avrebbe comportato un «parcheggio» di altri sei mesi. In questo nuovo schema Telco dovrebbe sopravvivere per un altro anno circa, il tempo di dare a Telefonica la possibilità di completare la prima parte del riassetto, e forse lavorare per vendere Tim Brasil. 

La svolta delle trattative ci sarebbe stata settimana scorsa, quando il negoziato è stato condotto direttamente da Alierta, accompagnato dal direttore finanziario Angel Vilà, lo stesso che a fine luglio tatticamente giurava che Telefonica non puntava alla maggioranza di Telco. E invece Vilà ieri è giunto a Milano nel tardo pomeriggio per sovrintendere l’ultima fase delle trattative. Quando i soci di Telco avevano avviato le grandi manovre per preparare tecnicamente l’operazione. In Mediobanca si è riunito il comitato parti correlate, Intesa Sanpaolo ha convocato in via straordinaria il consiglio di gestione. Infine in serata è toccato alle Generali, con un consiglio di amministrazione fuori programma. In mezzo una ridda di riunioni che hanno avuto come epicentro Mediobanca. Dove sono stati visti entrare presidente e vicepresidente di Generali, Gabriele Galateri e Francesco Gaetano Caltagirone, il dg di Intesa Gaetano Miccichè e Marco Fossati, titolare in proprio del 5% di Telecom fuori da Telco e che potrebbe in futuro fare asse con Telefonica in una Telecom dove, tra gli azionisti, ieri si è appalesata con un 2% anche Ubs. 

 

Pure la governance di Telco e di Telecom subirà cambiamenti, ma come tutto in questa vicenda, avverrà a tappe. Ma il presidente Franco Bernabè non starà a guardare. Al cda del 3 ottobre, per esempio, potrebbe porre la necessità di un aumento di capitale tra i 3 e i 5 miliardi, magari presentando un possibile socio alternativo agli spagnoli. E ripiomba nell’incertezza lo scorporo della rete fissa. Secondo il viceministro alle Comunicazioni Antonio Catricalà va fatto, ma imporlo «è un percorso estremamente difficile». Quanto all’arrivo di soci esteri, Catricalà ha tagliato corto: «Noi vorremmo che le aziende fossero tutte italiane ma questo non è il mondo dei sogni, il nostro è il mondo della competizione globale». 

da - http://lastampa.it/2013/09/24/economia/telefonica-conquista-la-telecom-gJ4jDUioGcYlIp5xV0XxRJ/pagina.html

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27/01/2014 - reportage

L’Inox valley non ce la fa più 24 euro l’ora sono troppi
Il costo del lavoro condanna il settore degli elettrodomestici del Nord-Est
Nel distretto degli elettrodomestici lavorano 21mila addetti

Francesco Spini
inviato a Pordenone

La chiamavano la Inox Valley, quella cresciuta sulla direttrice della statale 13 Pontebbana, a cavallo tra Veneto e Friuli, profondo Nord Est. La ex Zoppas da una parte, a Susegana, nella Marca trevigiana, la ex Zanussi dall’altra, in quel di Porcia, periferia di Pordenone. I due nomi storici dell’elettrodomestico del boom finiti entrambi in Electrolux, il colosso svedese che ad aprile deciderà che fare con gli stabilimenti italiani. Tutti scommettono che chiuderà Pordenone, mettendo in ginocchio pure l’indotto che è fiorito intorno. Le lavatrici non possono più permettersi i 24 euro orari del costo del lavoro made in Italy. In Polonia ne bastano 6,5. Brutta storia per l’Inox Valley. 

L’ultimo capitolo ha visto lo scontro frontale in casa Pd tra la renziana Debora Serracchiani, presidente della Regione Friuli Venezia Giulia, e il ministro dello Sviluppo Flavio Zanonato, accusato di «buttare a mare» lo stabilimento friulano a favore di quello veneto, con relativo invito a dimettersi. «Sono tra quelli che hanno alimentato la polemica contro il ministro», confessa Claudio Pedrotti, sindaco di Pordenone sotto le insegne del centrosinistra. «Da lui ci aspettavamo tutti dei segnali precisi, il suo silenzio è imbarazzante».

In città e nei capannoni che la circondano pensano che chi fa da sé fa per tre. La crisi che non passa (non c’è solo Electrolux, ma pure la Ideal Standard di Orcenico, 450 dipendenti) «ci ha convinti, nel vuoto di provvedimenti legislativi» a «prendere l’iniziativa per impedire la distruzione di un patrimonio industriale...» spiega Michelangelo Agrusti, a capo degli industriali di Pordenone, presentando la proposta di tagliare il costo del lavoro del 20%, contenuta all’interno di un pacchetto teso ad aumentare la competitività dell’area e trattenere Electrolux. Non solo lei. O succede qualcosa o le aziende potrebbero sempre più spostarsi qualche chilometro più in là, in Austria o Croazia dove fisco e burocrazia picchiano meno, avverte Silvano Pascolo, presidente locale di Confartigianato. «Si rischia un’emorragia, basta un’ora per arrivarci...». E chi resta? Se Electrolux lascia Porcia, si rischia grosso. Cristiano Pizzo, sindacalista della Cisl, fa due conti. «Non ci sono solo le 1.500 persone che lavorano nello stabilimento, ma altre 4 mila delle aziende che hanno il fatturato legato alla fabbrica di Porcia». Tante famiglie tremano, dopo una crisi già molto dura. In provincia dal 2008 al 2013 sono evaporate 390 imprese e con loro il mito del Nord Est. «Molti piccoli elettromeccanici sono scomparsi, creando una disoccupazione diffusa ma che non fa notizia», sospira il sindaco Pedrotti. Nel 2008 la disoccupazione a Pordenone non superava il 3,9%, nel 2013 era al 6,9%, per crescere oltre nel 2013. Qualcuno però ha reagito, diversificandosi per tempo, prima che il totem Electrolux potesse divenire essenziale per la sopravvivenza. Prendiamo la Brovedani di San Vito al Tagliamento, azienda da 90 milioni dì fatturato. «Negli Anni 70 eravamo dipendenti al 100% dall’allora Zanussi - spiega l’ad Sergio Barel, vice presidente dell’Unione Industriali -. Nel 2003, quando i volumi nell’area hanno toccato i livelli massimi e nel contempo arrivavano i primi segnali di localizzazione in Est Europa di alcune produzioni dell’Electrolux, abbiamo deciso di uscire da quel business, nonostante per molti anni le cerniere degli oblò delle lavatrici di Electrolux avessero un brevetto Brovedani». 

Da allora il futuro è diventato un altro. Dal bianco degli elettrodomestici, ai colori delle automobili, alla loro componentistica. Negli anni lo stesso hanno fatto gruppi come il siderurgico Cividale, ricavi da 350 milioni, 600 dipendenti. «Per noi Electrolux resta un cliente importante, ma con la diversificazione che negli anni abbiamo raggiunto (dagli scafi delle navi, alle turbine per le centrali) possiamo far fronte all’eventuale disimpegno», dice l’ad Loris Romanello. Ma anche una piccola azienda come la High Tech Srl di San Quirino, 3 milioni di fatturato, 15 dipendenti, dal 2007 ha deciso di non dover dipendere per più del 25% del fatturato dalla Electrolux come da altri clienti. «Oggi eseguiamo stampaggi in materie plastiche anche per gli occhiali di Luxottica e Safilo, estendendoci fino al settore aerospaziale», dicono dall’azienda.

Ma la crisi Electrolux arriva mentre il distretto di componentistica e termoelettromeccanica (Comet) di cui è presidente Barel, sembra rialzare la testa. «Dopo 7 trimestri consecutivi di calo» gli analisti di Intesa Sanpaolo registrano nel terzo trimestre 2013 un ritorno dell’export: +6,5% per gli elettrodomestici della Inox Valley e +20,5% per il distretto Comet. Quest’ultimo composto da 1017 imprese tra Pordenone e Udine, il 75% con meno di 20 addetti. In tutto fanno 21 mila persone, «per un fatturato di oltre 4 miliardi», spiega il direttore del distretto Saverio Maisto, ma in parte dipende da «mamma» Electrolux. Qualcuno è andato all’estero, «spesso spinto da Elettrolux, che ha favorito l’internazionalizzazione delle aziende del territorio», fa notare Luigi Campello, ex dg di Electrolux Italia ora a capo dell’ufficio studi degli industriali locali. Altri hanno un dubbio. «Dobbiamo decidere se spostarci in Polonia o restare in Italia - confessa un fornitore del gruppo svedese -. E mi chiedo: in questo Paese si punta ancora sugli elettrodomestici?».

DA - http://lastampa.it/2014/01/27/economia/linox-valley-non-ce-la-fa-pi-euro-lora-sono-troppi-gW1Gn900SpAXro4jGewr5I/pagina.html

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Articolo tratto dall'edizione in edicola il giorno 22/02/2014.

La prima donna all’industria Una “berlusconiana” per snellire la burocrazia

La voleva Silvio Berlusconi come volto nuovo della rinata Forza Italia. E invece eccola qui, Federica Guidi, imprenditrice doc catapultata allo Sviluppo Economico su una montagna di dossier «caldi» da far venire i brividi. In prima linea, nella trincea della crisi, con le multinazionali che scalpitano per alleggerire la presenza in Italia (i casi di Electrolux come di Alcatel Lucent, che ha appena annunciato un ridimensionamento delle sedi...), ma anche tante opportunità da cogliere, tra agenda digitale, sviluppo delle start-up e strategia energetica. 

Fino alle questioni legate a Telecom, alla sua Rete e alle mire degli spagnoli di Telefonica e via a non finire.

Insomma, Guidi, modenese, classe 1969, laurea in Giurisprudenza, prima donna a varcare la soglia di quello che una volta era il ministero dell’Industria e oggi - che son tempi grami - di quello “Sviluppo economico” che non c’è, avrà tempo e luogo per dimostrare di avere quella grinta con cui viene dipinta. «Una sfida bellissima», definisce lei oggi la chiamata ricevuta da Matteo Renzi. Per cui promette: «Io come altri abbiamo deciso di metterci in gioco, di dare il nostro contributo. Vengo dall’impresa, vengo da quel mondo e lo interpreterò al meglio. Ma dovrò confrontarmi, farò parte di una squadra».

L’imprinting da industriale doc non le manca certo. Non solo perché lo è quasi per via dinastica (papà Guidalberto è patron della bolognese Ducati Energia di cui lei è vicepresidente, carica raggiunta - ha sempre assicurato - dopo la gavetta) ma anche per l’impegno profuso per la categoria. Questo comincia nel 2002, con la guida dei Giovani imprenditori dell’Emilia Romagna, prosegue nel 2005 affiancando Matteo Colaninno (oggi deputato del Pd) da vice nazionale per prenderne il posto dal 2008 al 2011, presidente dei Giovani di Confindustria e vicepresidente di Viale dell’Astronomia. E oggi la Guidi ministro riparte dalla Guidi imprenditrice. «Il mio dato è quello, questo è il mio curriculum. Proverò a portare in Consiglio dei Ministri, in questo mio nuovo ruolo, la conoscenza che ho maturato nel mio mestiere, partirò da quello che ho fatto finora...». 

Poi lo sa benissimo, la neo-ministra, che un conto sono le giuste rivendicazioni di chi sta sul campo, altro un ruolo di governo. «Certo - dice Guidi - adesso dovrò confrontarmi, ambientarmi in un mondo diverso, molto lontano da me...». Roma, la politica, i palazzi, la burocrazia. Quella che lei ha sempre osteggiato, quando era presidente dei Giovani industriali. Lacci e lacciuoli, diceva da confindustriale, «pesano moltissimo» e frenano «la nascita delle start up, l’espansione delle imprese e l’arrivo di investitori esteri». Suo grande pallino è sempre stato anche il merito, «fondamentale se vogliamo creare una società forte, sana e competitiva». Anche quando (correva l’anno 2010) il dibattito sui conti pubblici non sembrava lasciare alternative all’austerity, lei la vedeva così: «Senza il rigore siamo un Paese spacciato. Ma senza crescita siamo un Paese morto».

Francesco Spini

da - http://lastampa.it/2014/02/22/italia/politica/la-prima-donna-allindustria-una-berlusconiana-per-snellire-la-burocrazia-uYQkCLsIapM88qPNbO0x1K/premium.html

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