13/6/2010
Agli Usa serve un patto sul lavoro
FRANCESCO GUERRERA
A prima vista, Jong Tae-Se, il centravanti della Corea del Nord, e Barack Obama non hanno nulla in comune.
Uno è la stella di una nazionale-cenerentola.
Che rappresenta uno degli ultimi bastioni del comunismo e probabilmente uscirà al primo turno dei mondiali sudafricani.
L’altro è il primo presidente di colore dell’ultima superpotenza del mondo e, a meno di errori clamorosi, è destinato a governare gli Stati Uniti per i prossimi sette anni. Obama è già una figura storica, Jong è a un passo dal dimenticatoio. Eppure, questi due uomini così diversi sono accomunati dall’avere sogni improbabili che potrebbero far deragliare le loro carriere e compromettere la loro credibilità. La chimera di Jong - che il «Rooney dei poveri» ha raccontato a un giornale della nemica Corea del Sud - è di segnare un gol a partita e portare la sua squadra nella seconda fase dei mondiali. L’utopia di Obama è di far risorgere la più grande economia mondiale pur lasciando milioni di americani senza lavoro.
Lascio ai cronisti sportivi i giudizi sulle goleade promesse da Jong nel girone di ferro con Brasile, Portogallo e Costa d’Avorio. Ma posso senz’altro dire che l’idea di una «jobless recovery» (una ripresa senza la creazione di posti di lavoro) è una fantasia degna di JRR Tolkien o James Cameron. I numeri non mentono (quasi) mai e i numeri del mercato del lavoro statunitense fanno venire i brividi. Un americano su sei è o disoccupato o sotto-occupato. La misura più «vera» del tasso di disoccupazione, che include gente che ha cercato lavoro negli ultimi dodici mesi, è al 17 per cento, un livello altissimo. La stima ufficiale è sotto il dieci per cento, stando all’ultimo rilevamento di una settimana fa, ma solo per il fatto che il governo ha impiegato centinaia di migliaia di persone part-time per completare un censimento decennale della popolazione. Se si escludono questi mercenari governativi, che verranno licenziati nei prossimi mesi, le aziende americane hanno assunto solo 41.000 persone a maggio – un risultato che un economista mio amico ha chiamato «putrido». I soliti ottimisti dicono che è normale avere tassi elevati di disoccupazione dopo una recessione come quella del 2007-2009.
Purtroppo, la storia dimostra il contrario: in recessioni «normali», l’economia americana perde due o tre milioni di posti di lavoro.
In questo caso siamo già a quota 8 milioni e le perdite continuano ad aumentare. Per un presidente che ha dichiarato più volte che combattere la disoccupazione è una «priorità assoluta» - e per un partito democratico che ha bisogno di un’economia in buona salute per vincere le elezioni parlamentari di novembre - queste cifre fanno paura. Non è un caso che, con la disoccupazione così alta, gli economisti pronostichino una crescita anemica per i prossimi cinque, sei anni, molto di più di altri periodi post-recessione. Mort Zuckerman, il magnate del mercato immobiliare americano, mi ha tolto le parole di bocca quando ha scritto, sul Financial Times di lunedì: «Siamo in alto mare. Ci facciamo rassicurare da pezzetti di notizie positive ma in realtà siamo in acque molto molto pericolose». Con l’Europa in crisi ed un dollaro forte, l’economia americana dovrà contare sulle proprie forze - la produzione interna e la spesa dei consumatori - per recuperare il terreno perduto. L’errore più grave per Obama e il ministro del Tesoro Timothy Geithner sarebbe considerare le condizioni attuali come un fenomeno passeggero, una fase di un ciclo che si correggerà automaticamente quando l’economia ricomincerà a tirare.
È vero che in una situazione normale, un po’ di disoccupazione dopo una recessione è come una cicatrice dopo un’operazione: un segno doloroso che il peggio è passato e che permette alle aziende di attingere a un vasto serbatoio di lavoratori per ricominciare a crescere.
Ma in questo caso, la ferita non si è ancora rimarginata. Come in Italia, in America la disoccupazione è un problema strutturale che va risolto con misure drastiche ed a lungo raggio. Bisogna partire dalla constatazione che certi posti di lavoro che sono stati persi durante l’ultima crisi non ritorneranno mai più. Penso alle grandi fabbriche di Detroit che un tempo producevano Corvette e Buick ed ora sono cattedrali nel deserto dell’industria americana. Ma anche alle gru e alle impalcature che erano parte integrante del profilo urbano di Las Vegas, Miami, Denver e tante altre città durante il boom, dando lavoro a milioni di muratori, e che ora sono scomparse. E persino ai tanti piccoli e medi funzionari delle banche di Wall Street, giovani che avevano sognato una carriera nell’alta finanza e ora lavorano nei McDonald’s.
La morte, lenta ma inesorabile, di un’industria manifatturiera che è stata distrutta dallo strapotere dei mercati emergenti e la mancanza di investimenti non aiuta di certo. In passato, le vittime delle recessioni avevano almeno la speranza di poter lavorare in un altro settore, magari spostandosi in un altro angolo di questo Paese-continente che ha sempre facilitato la migrazione interna. Ma dopo decenni in cui le politiche dei governi e delle società hanno creato un’economia di servizi concentrata sulle due coste (la finanza all’Est e il cinema e la televisione ad Ovest), il centro dell’America è rimasto pressoché vuoto, un buco nero con poche industrie e ancor meno posti di lavoro.
Ed è per questo che in America i senza-lavoro rimangono esclusi dalle attività economiche sempre più a lungo. Un anno fa, c’erano 3,2 milioni di persone che non avevano lavorato per 27 settimane (la definizione ufficiale di «disoccupati a lungo termine»). Oggi ce ne sono 6,5 milioni. A mali estremi, estremi rimedi. Se la disoccupazione in America è un problema cronico, le medicine devono essere forti e frequenti ed essere somministrate sia dal governo che dal settore privato. L’amministrazione dovrà sfidare l’opposizione di repubblicani che disdegnano le spese statali e lanciare un nuovo programma di stimolo economico appena possibile. Gli 800 miliardi di dollari spesi fino ad ora dal governo Obama non sono bastati, in parte perché i consumatori si sono tenuti i soldi invece di spenderli come in passato. Con un deficit già enorme non sarà facile per gli uomini del Presidente giustificare un’altra dose di stimolo, ma procrastinare la decisione non farebbe altro che esacerbare le difficoltà economiche del Paese. Ma una questione annosa e radicata come la disoccupazione non si può risolvere solamente con le teorie spendaccione di John Maynard Keynes. La mano invisibile dei mercati dovrà fare la sua parte. Nonostante il fatto che l’economia americana sia uscita dalla recessione molti mesi fa, le aziende hanno fatto poco e nulla per contribuire alla crescita economica. Spaventati dalla prospettiva di una ricaduta nel grigiore economico - e preoccupati dal crollo dell’Europa, un mercato importantissimo per le esportazioni made in Usa - i capitani di industria non hanno investito nel futuro, preferendo utilizzare le scorte di merci e fondi che avevano accumulato durante la recessione.
Uno dei risultati è che non hanno né assunto nuovi lavoratori né aumentato i salari dei vecchi impiegati - in America, gli stipendi medi sono rimasti praticamente immutati negli ultimi sei mesi. La passività dei signori del grande business è uno dei motivi per cui l’economia americana non tira e la disoccupazione rimane a livelli stratosferici. La Confindustria locale chiede tasse più basse e incentivi governativi per le assunzioni ma la realtà è che con il deficit alle stelle e un nuovo stimolo economico in cantiere, il governo non si può permettere granché su quel fronte. Le grandi aziende devono capire che, in questo frangente, è nel loro interesse scommettere sulla ripresa economica anche senza gli assist dell’amministrazione. Una legge immutabile dell’economia dice che gli investimenti delle aziende contribuiscono alla crescita del prodotto interno lordo. Per l’industria americana, aiutare l’economia significa aiutare se stessi.
Per sfuggire alla Grande Depressione degli Anni 30, Franklin Delano Roosevelt inventò il «New Deal», il patto tra il governo e i cittadini in cui l’amministrazione promesse riforme e investimenti che trasformarono l’America in una potenza economica di livello mondiale. Più di settanta anni dopo, gli Usa hanno bisogno di un nuovo patto tra Stato, aziende e lavoratori per combattere la disoccupazione e frenare il declino dell’impero americano. Francesco Guerrera è caporedattore Finanza del Financial Times a New York
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