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Autore Discussione: Dire addio all'euro non risolve la crisi  (Letto 2168 volte)
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« inserito:: Giugno 12, 2010, 05:39:29 pm »

12/6/2010

Dire addio all'euro non risolve la crisi

LORENZO BINI SMAGHI*

L’area dell’euro in generale ha messo in atto uno stimolo fiscale più sobrio e ha una dinamica del debito più contenuta rispetto ad altri Paesi. Tuttavia, alcuni Paesi dell’area sono stati colpiti da uno scadimento delle finanze pubbliche molto maggiore di altri, con debiti più alti. Inoltre, l’area dell’euro non è una federazione fiscale. Aggiungiamoci che i singoli Paesi non hanno più una moneta propria per affrontare i problemi della finanza pubblica o per stimolare la crescita nel breve termine. Ecco perché i mercati finanziari hanno focalizzato la loro attenzione sulla zona euro e su alcuni dei suoi Paesi membri.

Ci sono, da un punto di vista teorico, due modi di affrontare la crisi. Il primo è sospendere l’euro e restituire ai Paesi membri la possibilità di ricorrere a svalutazioni o rivalutazioni delle loro valute. Il secondo è fare sì che le singole nazioni riformino la disciplina fiscale, possibilmente fornendo loro sostegno finanziario durante il periodo di transizione. L’Europa ha scelto chiaramente e senza ambiguità la seconda via. Mi soffermerò brevemente su questo punto, perché mentre questa scelta è stata fortemente sostenuta dalle autorità politiche degli Stati Uniti e degli altri Paesi del G7 e del G20, sembra invece essere messa in discussione da vari osservatori, studiosi e professionisti del settore finanziario su entrambe le sponde dell’Atlantico.

La scelta fatta dell’Europa si basa tanto su ragioni politiche che economiche. Alcuni osservatori ritengono che l’euro sia stato creato esclusivamente per motivi politici, per esempio, come un contrappeso alla riunificazione tedesca. Secondo questo punto di vista, la sostenibilità dell’euro sarebbe a rischio se il processo di integrazione politica dovesse fermarsi o regredire. Gli eventi degli ultimi mesi non suggeriscono affatto che il processo di integrazione si sia fermato, anzi. E’ stato espresso pieno supporto per l’euro e non vi è alcuna intenzione di metterlo in discussione. Tutti i governi e i parlamenti nazionali hanno adottato non solo misure di sostegno finanziario alla Grecia, ma anche adottato le misure necessarie per la creazione del Fondo per la stabilità finanziaria europea. I capi di Stato e di governo concordano nel rafforzare la governance economica dell’euro e prenderanno misure concrete al riguardo, sulla base delle proposte della Van Rompuy task force che ha già iniziato a lavorare.

Qualcuno obietta che il processo politico alla base dell’integrazione europea è limitato all’élite degli Stati membri, ma non condiviso dalla popolazione. Essi interpretano l’insoddisfazione espressa da molti cittadini europei nei confronti dell’euro come un elemento di fragilità politica e come un rischio di possibili marce indietro. Queste opinioni sono basate sui risultati di sondaggi di opinione che mostrano come in alcuni Paesi i due terzi dei cittadini vorrebbero tornare alla loro moneta nazionale. Tuttavia, ci si dimentica spesso di specificare che, negli stessi Paesi, la stragrande maggioranza risponde di sì quando viene chiesto se pensano che l’euro esisterà ancora tra dieci anni.

Non voglio negare che le istituzioni europee in questo momento abbiano un problema di popolarità. Tuttavia, le istituzioni europee e l’euro sono qui per restarci. L’esperienza del passato ha dimostrato chiaramente che all’interno di un’area economicamente integrata come la zona euro una svalutazione della moneta non permette uno stimolo di crescita che darebbe sostegno a un assestamento fiscale più rapido. I Paesi che, prima dell’euro, hanno dovuto fare forti manovre correttive di bilancio - come è avvenuto dopo che l’Italia ha lasciato l’Erm nel settembre del 1992 - hanno subito un lungo periodo di rialzo dei tassi di interesse, a causa della rinnovata incertezza circa il regime monetario e il sistema fiscale, dopo la svalutazione.

Ogni svalutazione porta con sé rischi inflazionistici, che diventano più gravi in assenza dell’euro. Diversi Paesi, come Belgio, Irlanda e Paesi Bassi hanno attuato il consolidamento fiscale pur mantenendo un tasso di cambio stabile e un elevato avanzo primario di bilancio. Un altro aspetto trascurato è che la possibilità di rivalutare la moneta non ha consentito ai Paesi più virtuosi di isolarsi dall’instabilità dei tassi di cambio dei Paesi vicini, in particolare in quelli con una svalutazione in atto. Dopo il riallineamento dei tassi di cambio nel 1993 la Germania ha registrato una recessione di dimensioni paragonabili a quella di Francia e Italia. Un altro aspetto spesso ignorato è che il ritorno alla moneta nazionale non è un evento compatibile con una variazione della parità del tasso di cambio. Questo comporterebbe una rinegoziazione di tutti i contratti, soprattutto quelli finanziari, all’interno dei singoli Paesi e tra i residenti in Paesi diversi, con interessi conflittuali tra debitori e creditori. Ci si può aspettare che in caso di controversie i tribunali internazionali deciderebbero in sfavore del Paese che ha preso la decisione di cambiare la valuta.

Ciò significa che i residenti di quel Paese sarebbero gravemente danneggiati da un cambiamento nella valuta usata per stipulare i loro contratti. Questo vale sia nel caso di un Paese debitore che ha svalutato la sua moneta nei confronti dell’euro sia in quello di un creditore netto che ha rivalutato la sua nuova valuta. Un Paese debitore che importa capitali dal resto dell’eurozona e svaluta la sua moneta avrebbe come conseguenza immediata un aumento del suo indebitamento, il che aggraverebbe ulteriormente le sue difficoltà. Un Paese creditore con notevoli rendite finanziarie da altri residenti nell’euro, rivalutando la sua moneta subirebbe enormi perdite in conto capitale, in particolare per le sue istituzioni finanziarie, con conseguenti gravi ripercussioni sulle sue finanze pubbliche.

L’effetto di contagio sugli altri Paesi sarebbe devastante, come dimostrano le correlazioni in atto sui mercati finanziari. In conclusione, data l’integrazione finanziaria ed economica raggiunta negli ultimi anni nella zona euro, le ipotesi espresse da alcuni circa la possibilità che un Paese abbandoni l’euro o sulla riformulazione della zona euro in forma ridotta avrebbero effetti fortemente negativi per tutti i Paesi, siano creditori o debitori. L’impatto sarebbe molto più costoso dell’approccio alternativo, quello standard, che è quello di attuare un piano rigoroso di risanamento delle finanze pubbliche in tutti i Paesi, a cominciare dalla Grecia, accompagnato da riforme strutturali volte a sostenere la crescita, e da un piano per rafforzare la governance economica della zona euro. Questo è il modo scelto dai Paesi della zona euro e messo in atto con successive decisioni, tanto a livello nazionale come europeo.

*Componente del Comitato esecutivo della Banca centrale europea
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