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Autore Discussione: MAXXI Caos. Sotto accusa il nuovo museo progettato da Zaha Hadid  (Letto 1957 volte)
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« inserito:: Giugno 04, 2010, 06:41:56 pm »

MAXXI Caos

di Germano Celant

Kapoor penalizzato. De Dominicis affastellato. Kiefer banalizzato.

Sotto accusa il nuovo museo progettato da Zaha Hadid
 

Il Guggenheim Museum Bilbao, progettato da Frank Gehry, con la sua estetica novecentesca basata sulla frammentarietà e l'antagonismo degli spazi e delle forme, che rappresenta la condizione anarchica di un'arte impegnata nella distruzione dell'immaginario unico e lineare, chiude il XX secolo.

A Roma invece il MAXXI disegnato da Zaha Hadid, con il suo dispiegarsi fluido e sinuoso, dove ogni elemento entra in relazione così che non sussistano più forme opposte, né spezzoni autonomi, ma semplici flussi di energie, apre il museo al XXI secolo. Qui ogni elemento è spinto a partecipare in un muoversi unico, dove sono cancellate le differenze e i limiti al fine di riflettere una ottica ondulatoria continua ed infinita, tipica della cultura del tecnologico e del virtuale. Una macchina del vedere e del mostrare che estende a perdita d'occhio gli spazi interni, ne moltiplica i punti di vista e provoca contrazioni improvvise, incontrollabili e spiazzanti.

Un contenitore senza fine, dove tutto si fa traiettoria e continuo movimento, andata e ritorno dallo stesso allo stesso. In questo ambiente liquido e ondulato, senza angoli né volumetrie pure, le manifestazioni d'arte scelte per la sua apertura si muovono con difficoltà. Abituate al cubo o quanto meno a uno spazio chiuso e contenuto, sculture, dipinti e installazioni dispiegano la loro bulimia a muoversi e a rapportarsi con la nuova liquidità territoriale del comunicare architettonico.

Affidate attraverso la mano dei curatori ad un nuovo continente senza confini tradizionali vagano e perdono ogni ancoraggio. Sono fantasmi dispersi e sconcertati che si scontrano e si sovrappongono senza una logica, perché nel mondo della rete aperta e dei flussi dinamici non sussiste né storia né tema. Così il tentativo di isolare gruppi di lavori d'arte, raccogliendoli sotto titoli, come "Natura Artificiale" o "Mappe del reale", in una collezione già debole per la sua fragilità qualitativa e selettiva, risulta astratto e inutile. Rende superficiali certi insiemi, dove si raccolgono tipologie comuni, come l'igloo di Mario Merz e le tende dello Studio Orta, oppure scardina l'impatto mitico di certi interventi, quando abbassa le intensità di Joseph Beuys, Pino Pascali e Anselm Kiefer o ancora mescola grevemente i sottili universi visuali di Giulio Paolini e di Vedovamazzei. Di fatto questa riduzione di prestazione artistica è il risultato di una contraddizione.

Contrappone la fluidità architettonica ad una pratica statica e passiva, decisamente storica: quella del museo, dove conta l'accumulo, cronologico e linguistico, non la comunicazione. Una schizofrenia tra il compito di collezionare il passato e di proiettarsi nel futuro che produce un procedere ibrido su cui riflettere al fine di non "rovinare" la funzione dell'istituzione. L'arte riesce a difendersi e a non essere in transito quando dialoga con la dissolvenza labirintica dell'architettura ed entra nel flusso del XXI secolo, sia perché costruisce ad hoc un oggetto "relativo" al grande atrio (Maurizio Mochetti) o all'andamento curvilineo delle vetrate e delle pareti (Tobias Rehberger, Lawrence Weiner e Giovanni Anselmo). Cerca un'unità di dialogo e non si lascia spaventare, ponendosi come interfaccia capace di congelare e di bloccare un momento dell'andamento ondulatorio dei vuoti e pieni murari. È il medesimo intento dichiarato dall'imponente opera di Anish Kapoor, però penalizzata dal parallelismo formale con la scala dell'edificio, che ne cannibalizza l'effetto straordinario. Oppure la ricerca sopravvive quando non si confronta con la dismisura dell'architettura e produce il suo bozzolo o il suo abitat, che ripropone una spazialità novecentesca, dove l'allestimento si rinchiude nel classico e confortevole cubo o cilindro bianco. Qui l'arte produce il suo contenitore e si isola. Interrompe l'andamento dei flussi, senza soglia e senza punto di fuga, e si costruisce le sue mura di difesa, con risultati unitari che hanno radici nel XX secolo: sono le opere spettacolari ed intense di Giuseppe Penone, Gilbert & George, Francesco Vezzoli, Elya e Emilia Kabakov, Grazia Toderi, Janet Cardiff, Lara Favaretto e Alfredo Jaar. L'intento è di conservarsi resistendo alla destrutturazione fluidificante e questo si ottiene, anche con un ragguardevole risultato, quando è il linguaggio stesso dell'architettura - l'altra componente operativa del MAXXI - a confrontarsi con il suo "spazio critico".

L'interessante esposizione su Luigi Moretti allestita da Aldo Aymonino, o la stessa stanza, progettata da Hadid, in cui è archiviata la storia del suo museo, trovano una perfetta sintonia con il contenitore architettonico. Avendo progettato un'architettura senza confini né territori privilegiati, un corpo quasi sferico in cui tanto le irradiazioni quanto le prospettive non sono riferimento, ma indici erranti di una superficie totale, Hadid ha sollecitato l'affermazione di un'estetica pluralista, che volge lo sguardo a tutti i possibili stimoli dall'Asia all'Africa, dalle Americhe all'India: un invito alla rimozione del locale e nazionale, per un'apertura alla mondializzazione. E qui si concretizza un'altra dicotomia del nuovo museo che manifesta intenti globali, ma è sollecitato a rivolgere la sua attenzione alla dimensione interiore, quella dell'arte italiana, augurandosi una sua potenzialità internazionale. La scelta di una retrospettiva su Gino De Dominicis (1947-1998) è rivolta all'attenzione mondiale, ma è museologicamente problematica.

Mentre il MoMa di New York affronta, con l'antologia di Marina Abramovic, il problema contemporaneo della storicizzazione della performance, il MAXXI, con un ritorno al passato, devitalizza e appiattisce la potenza magica delle apparizioni prodotte da De Dominicis, come "Lo Zodiaco" composto da entità vere e tangibili, come il leone, i pesci, i gemelli, e il toro, riducendole a spenti frammenti fotografici e tipografici. Per non parlare della quantità di dipinti che l'artista ha quasi sempre esposto solitari nell'incanto della loro eccezionalità, collocati qui ad arredare l'incavo delle scale, oppure ammassati in un'ambientazione composta da piccoli loculi a formare, su un pavimento obliquo, un sacrario sconcertante. L'importanza di De Dominicis avrebbe meritato una trattazione sensibile e leggera, capace di corrispondere alla sua rarità e unicità, enunciata dall'enorme scheletro della "Calamita cosmica" che illumina, all'aperto, il suo potenziale immaginario e preveggente: nel mondo l'immortalità dell'arte italiana va protetta, non gettata via.

(03 giugno 2010)
http://espresso.repubblica.it/dettaglio/maxxi-caos/2128209//1
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