Amendola, il comunista nato liberale che voleva portare il Pci al governo
di Michele Prospero
Se un filo rosso c’è nella complessa vicenda storica di Giorgio Amendola esso coincide con una ossessiva ricerca dell’autonomia politica del partito della classe operaia anche rispetto a tendenze che in apparenza sembrerebbero del tutto contigue alla sinistra. In una lettera a Napolitano del novembre 1978 egli rimarcava la «funzione autonoma, e dirigente, del Pci» da rinverdire rispetto ai movimenti rivendicativi promossi dal sindacato e alle azioni irregolari condotte dagli studenti. Il regime delle incompatibilità tra cariche politiche e ruoli sindacali (sorretto da «una falsa contrapposizione tra sindacato e classe politica»), e il disordine del ’68 studentesco visto nella sua carica antiautoritaria e individualista («la limacciosa ondata contestataria»), gli apparivano come scelte deleterie che minavano alla radice il primato necessario del partito come interprete storico di una funzione di cambiamento compatibile con le esigenze di sviluppo del paese.
Il partito organizzato e coeso, provvisto di una concezione del mondo e capace di impiegare soprattutto nelle fasi critiche di persuadere la massa con lo schietto linguaggio della verità, era in Amendola lo strumento principale dell’agire politico volto alla trasformazione della società. Quando il giovane di formazione liberale si iscrisse al partito, lo fece perché attratto dall’intransigente azione cospiratoria dei comunisti. Anche i più puerili errori di analisi, e le rotture traumatiche con altri dirigenti consumate in forme spicciole da una setta clandestina, si rivelavano per lui provvidenziali perché comunque rafforzavano il fascino intenso di una minoranza attiva che mostrava una rara e assoluta dedizione alla causa. Amendola apparteneva a quella generazione di intellettuali che, formatasi sui libri di Croce, approdò al comunismo proprio in ragione della lotta intransigente e irriducibile contro il fascismo, composito fenomeno di massa che egli poi analizzerà anche nella sua capacità di penetrazione molecolare attingendo ad alcune tesi scabrose di Renzo De Felice.
L’antifascismo e la nascita della repubblica, secondo Amendola, ebbero l’essenziale merito di aver espresso un formidabile modello di partito, come quello comunista, da sempre assente nella storia d’Italia. I partiti tradizionali erano tutti litigiosi e inclini alle scissioni perpetue perché nella sostanza erano meri partiti di élite, di aspiranti capitani incapaci di coesione, di ceti oligarchici privi unità di intenti e di radicamento sociale. Anche il massimalismo socialista, con i suoi velleitari esercizi di radicalità solo verbale, palesava gli stessi vizi dell’italietta liberale. Solo il Pci, agli occhi di Amendola, aveva invece infranto la lunga durata del trasformismo e del ribellismo parolaio perché l’aggregazione di massa, l’adesione popolare durevole e faticosamente costruita nel quotidiano, costituivano un forte antidoto al nomadismo dei ceti politici tradizionali. La visione che nelle pagine di Amendola traspare con nettezza è quella di un partito di massa strutturato che combina attitudine pragmatica e identità, disponibilità riformatrice e attitudine ad attingere alla dimensione del mito politico.
Va letta in questo senso anche la senile professione di fede a favore dell’Unione Sovietica proposta inopinatamente da un politico che proprio sullo stalinismo aveva osato sfidare apertamente Togliatti (reticente «sulla gravità delle nostre corresponsabilità»). Se nel cosiddetto popolo comunista, ancora negli anni ’70, perdurava il mito di Mosca, era evidente per Amendola che questo fardello avrebbe almeno potuto essere sfruttato politicamente. Il culto di una società altra serviva soprattutto per coprire le spalle al partito impegnato nella maturazione difficile di una prospettiva di governo. Tra i dirigenti comunisti Amendola fu quello che più di altri ricercò le vie del potere, dell’inserimento nella maggioranza come cimento indispensabile per una forza politica altrimenti rassegnata dinanzi all’inesorabile fallimento storico.
Dalla cultura dello storicismo assoluto, accanto a schematismi e sordità verso altri approcci, egli trasse tutto l’armamentario che lo riconduceva all’aspra scuola del realismo politico. Non ha mai nascosto l’originaria adesione al «principio della necessità del terrore che per noi richiamava quello giacobino». La lettura dei fenomeni reali senza pregiudizi è però sempre stata un suo punto di forza. Alcuni processi li ha sottovalutati (maturazione nel triangolo industriale di una nuova e combattiva classe operaia), altri (l’individualismo ipermoderno, la società dei consumi, il lassismo) li ha deplorati con un ruvido moralismo (al chiassoso chiacchiericcio italico egli contrapponeva «il comunista che parla poco, disciplinato, onesto»). Ha compreso però le fragilità del capitalismo italiano, anche nelle sue fasi di celere modernizzazione, e la necessità di allestire una coalizione sociale più ampia attorno alla classe operaia. Ha posto sempre l’accento sul peso storico delle differenziazioni territoriali e quindi sul riproporsi dell’eterna questione meridionale e dei legami notabiliari (le battaglie degli anni ’50 raddoppiarono i voti del Pci nel sud). Ha enfatizzato la necessità di scavalcare i limiti congeniti di una democrazia bloccata, per via dell’assetto del sistema internazionale della guerra fredda, con un ancoraggio più solido da parte del Pci nel campo del socialismo europeo («abbiamo sbagliato a fare una critica indifferenziata alla socialdemocrazia»).
Amendola appartenne, con la sua fedele eccentricità, con la sua obbedienza nella rude provocazione (dichiarò il fallimento del comunismo e anche della socialdemocrazia), ad una grande storia politica che non ha avuto in sorte l’accesso al governo del paese. Il mancato appuntamento con il governo per lui era una tara che conferiva ad una forza politica l’amara sensazione dell’incompiutezza. La cosiddetta seconda repubblica ha aperto alla sinistra la prospettiva di un governo ma, giunta al potere, essa si è ritrovata senza più storia. Celebrando Amendola a vent’anni dalla scomparsa, Napolitano ha deplorato la «distruzione del passato» come prediletta occupazione delle novelle forze politiche. La damnatio memoriae ha contagiato una politica troppo impoverita per essere vera fonte di passioni intense. Sul finire degli anni ’70, Amendola scriveva che senza una coscienza storica la politica è nulla. E che senza l’idea di un oltrepassamento si cade in uno sconfortante: «Abbiamo lottato tutta la vita e per che cosa?».
05 giugno 2010
http://www.unita.it/news/culture/99607/amendola_il_comunista_nato_liberale_che_voleva_portare_il_pci_al_governo