2/6/2010
Intercettazioni, indagini e abusi
ALBERTO CISTERNA*
Che la storia delle intercettazioni e il loro uso mediatico siano stati macchiati da irresponsabili disinvolture è sotto gli occhi di tutti, ma questo non cancella il fatto che centinaia di mafiosi, latitanti eccellenti, corruzioni estese o cliniche degli orrori siano stati smascherati e puniti grazie a questo insostituibile mezzo d’indagine. Bisogna dire con onestà che in un Paese che non brilla per senso civico e in cui milioni di cittadini vivono gomito a gomito con mafie agguerrite e minacciose, non vi sono al momento soluzioni diverse per combattere crimine e malaffare. A Duisburg dopo la strage del 2007 decine di tedeschi si presentarono negli uffici di polizia per riferire anche il più insignificante dettaglio. In Italia si uccide nei vicoli di Napoli con la gente che scavalca i cadaveri e continua a passeggiare; unica prova le telecamere.
Un congegno così delicato e oneroso per la privacy, oltre che per le casse dello Stato, come le intercettazioni regge e si legittima solo se sono puniti con rigore abusi e fughe di notizie. Invece, praticamente non è mai accaduto. Non si scoprono, né si cercano con convinzione gli inquirenti disinvolti che, in spregio alle regole esistenti, trascrivono finanche conversazioni personali del tutto inutili per il processo e le fanno arrivare ai giornali. Da qui il convincimento diffuso e l’incubo sulla tirannia di un «orecchio di Stato».
Questa paura, spesso manipolata, serve in realtà ai palazzi del potere per sfregiare le indagini e garantire la propria impunità. Questa strategia di disarticolazione dei poteri d’indagine, certo ispirata dal malaffare che infiltra la politica, sembra materializzarsi nell’imporre il termine di 75 giorni per le intercettazioni anche rispetto ai reati di corruzione. Si vuole che i nastri della polizia non possano registrare per più di 75 giorni. Un’inezia se si pensa ad operazioni illegali complesse come quelle per accaparrarsi i lavori per il G8 alla Maddalena o per la ricostruzione in Abruzzo. Vi sono progetti criminali sulle grandi opere pubbliche che richiedono mesi e mesi per essere pianificati e di conseguenza accertati. Fermare le indagini dopo due mesi e mezzo significa garantire una sorta di licenza a delinquere. In realtà, il 76° giorno sarebbe per la giustizia quello dell’impotenza.
Ma la posta in gioco è ancora più complessa. In una democrazia che riconosce l’indipendenza del pubblico ministero, le intercettazioni sono il punto di più precario bilanciamento tra il dovere dell’indagine e il rispetto per la privacy. Altri ordinamenti, altrettanto democratici ma con un diverso equilibrio nella ripartizione della sovranità, hanno risolto la questione o assoggettando il pubblico ministero al potere esecutivo (Francia, Stati Uniti, Inghilterra) o affidando il compito di intercettare ad apparati di polizia o di spionaggio (Stati Uniti in primo luogo). Quando si sostiene che in Italia si fanno troppe intercettazioni rispetto ad ogni altro Paese occidentale, si nasconde che l’Fbi o la Cia intercettano normalmente milioni di telefonate, mail, sms; lo fanno senza alcuna autorizzazione dei magistrati, ossia senza il controllo di un giudice come avviene in Italia da decenni.
Nel nostro Paese si eseguono più intercettazioni su ordine dei giudici, mentre altrove un qualunque spione governativo si intrufola nella vita delle persone senza alcuna garanzia. Ma negli Usa le intercettazioni quale che sia il loro contenuto restano negli archivi. Invece in Italia capita che perfino quelle non necessarie alle indagini finiscano a puntate sui giornali. Sono questi gli abusi da reprimere chiunque li commetta. Questa è la vera dimensione del problema da risolvere. Altro che azzoppare i pm o imbavagliare i giornalisti.
*sostituto procuratore presso la Direzione nazionale antimafia
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