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Autore Discussione: La Katrina di Obama  (Letto 1973 volte)
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« inserito:: Maggio 31, 2010, 10:24:16 am »

31/5/2010

La Katrina di Obama

PAOLO MASTROLILLI

Gli americani dicono che «i fatti sono testardi», e prima o poi tutti i politici sono costretti a farci i conti. Lo sta scoprendo in queste ore drammatiche Barack Obama, che sul disastro della marea nera si gioca la presidenza.

Sempre ammesso che non sia già troppo tardi per rimediare a tutti i danni ambientali e politici provocati dal fiume di petrolio nel Golfo del Messico.

La distratta risposta all’uragano Katrina segnò l’inizio della fine per George Bush, perché, mostrando l’inefficienza della sua amministrazione, spinse il Paese a rimettere in dubbio tutte le scelte fatte fino a quel momento, a partire dalla guerra in Iraq. La fallimentare risposta all’emergenza della marea nera rischia adesso di rivelarsi ancora più letale per Obama, minando le stesse fondamenta della visione che l’ha portato alla Casa Bianca.

I primi ad attaccare, com’era ovvio, sono stati i repubblicani. Secondo il Wall Street Journal Obama, reagendo con lentezza e cercando di scaricare tutte le colpe e le soluzioni sulla Bp, ha dimostrato di essere «cronicamente distaccato» dalle preoccupazioni dei suoi concittadini. Se Bush avesse commesso un errore del genere, tutto sommato gli elettori non sarebbero rimasti sorpresi: da lui se lo aspettavano. Ma da Obama no. La gente presumeva che Obama fosse competente. Era stato eletto proprio per portare alla Casa Bianca una visione diversa da quella dei repubblicani, una filosofia secondo cui il governo merita spazio perché certe cose sa farle meglio dei privati. Il fallimento della marea nera, con Obama impotente che si limita ad alzare la voce contro la Bp, dimostra l’esatto contrario, annegando la visione che lo aveva fatto vincere nemmeno due anni fa.

Critiche simili sono arrivate anche dalla sponda democratica. Il più feroce è stato James Carville, che ha accusato Obama di non aver preso il controllo del disastro, voltando le spalle come se fosse un problema solo della Bp. Per un Presidente non esiste colpa più grave: non decidere, non prendere in pugno le crisi, magari nella speranza che la propria faccia non venga associata al disastro.

La defezione di Carville, consigliere storico dei Clinton, può segnalare che l’ala democratica sconfitta nelle primarie del 2008 sta sfruttando la marea nera per prendersi la rivincita e cominciare ad incrinare dall’interno la leadership del capo della Casa Bianca. Ancora più curioso, però, è il fatto che adesso il New York Times sta attaccando Obama. Magari punta solo a scuoterlo, ma fa effetto.

Secondo il giornale amico, «la marea nera potrebbe capovolgere la principale missione della presidenza Obama». Intendiamoci, gli argomenti difensivi della Casa Bianca sono tutti validi: il governo non possiede la tecnologia per fermare le perdite nelle trivellazioni sottomarine, non può mandare i militari a tappare il buco, e non si capisce cos’altro potrebbe fare ai fini pratici che non abbia già fatto. Eppure, «che ci piaccia o no, un tubo che vomita veleno nell’oceano è una crisi viscerale che impone azioni visibili e immediate». La credibilità di Obama come campione di un governo riformato e competente «è ostaggio del video del Golfo del Messico» che mostra il petrolio mentre esce dalla falla.

Thomas Friedman prova a metterla in positivo, suggerendo al Presidente di sfruttare l’occasione offerta dal disastro per forgiare la reazione popolare e rompere finalmente la nostra dipendenza dal petrolio. Vero, questo è l’obiettivo di lungo termine dell’amministrazione Obama: svoltare verso le fonti rinnovabili, per ragioni ambientali, geopolitiche e di sicurezza. L’argomento, però, è delicatissimo, e la catastrofe del Golfo ha complicato i piani del Presidente anche su questo punto. Le menti più raffinate dell’amministrazione sanno che una vera alternativa al petrolio ancora non esiste. In qualche laboratorio sconosciuto la stanno inventando - si spera - ma nel frattempo bisogna andare avanti così. Proprio nel Golfo del Messico ci sono le più vaste riserve americane ancora non sfruttate, e Obama puntava su queste esplorazioni per tamponare le necessità energetiche del Paese fino a quando non si troverà la vera alternativa. Ora sarà difficile tenere aperte le piattaforme in funzione, figuriamoci autorizzare nuove trivellazioni.

Quando venerdì il Presidente è finalmente tornato nel Golfo, ha preso in prestito un antico detto che stava scolpito sulla scrivania del suo predecessore Truman: «Mi assumo la responsabilità di risolvere la crisi, the buck stops with me». Giusto. Se non ce la farà, però, gli elettori presenteranno il conto, a partire dalle elezioni di novembre.

http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=7423&ID_sezione=&sezione=
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