19/5/2010
Sanguineti, uno stile blob
GIAN LUIGI BECCARIA
Le prime poesie Sanguineti le aveva scritte nel ’51. Studente prodigio, cominciava giovanissimo a «sabotare» la letteratura con testi provocatori che volevano mettere in crisi le lettere come istituzione storica e come specificità di forme e significati tradizionali: i soliti temi, i generi fissati da tempo con tutto l’insieme di un «immaginario» prevedibile, scontato.
Nel ’56 uscirà Laborintus, seguiranno altri testi di dirompente novità, che gettavano reti dottissime su un profondo disagio esistenziale. Palus putredinis, sezione di Laborintus, alludeva a una palude mefitica come metafora del caos, della palude in cui s’era andato a infognare, a suo parere, l’universo poetico nostrano, tutto ordinato da uno stile troppo sublime. Dirompenti le novità sul piano della forma: sintassi totalmente disarticolata, frasi sospese, interrotte ossessivamente da parentesi, una punteggiatura esorbitante, e tanti incisi, uno scarto violento dall’ordine discorsivo.
Sanguineti era poi passato ad applicarsi ai piccoli fatti veri, «freschi di giornata», come ribadiva nelle Postkarten (1978), minicronache in versi di un reale visto teneramente a frammenti, per discontinuità, dati scrupolosamente nominati e definiti, un catalogo ilare di ciò che ci attornia, un «intorno» che pare privo di profondità e spessore, ma nella sostanza si muove vivo e parlante, in passi di danza. Con un inconfondibile stile blob sapeva tenere a braccetto il basso, il tecnico e l’alto lessico evocativo. Montava straordinarie messe in scena di linguaggi finti, frasi fatte, il tutto costruito come se il linguaggio della comunicazione media non esistesse, o esistesse solo per essere messo in rima, o alla berlina.
La «morale» però c’era (come dice nel Novissimum testamentum). Bisogna cavarla. Ed è restata, nei riguardi della società e nei confronti della storia, sempre lucida, rigorosa, implacabile, ostinatamente immutata.
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