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Autore Discussione: Ritorno alla guerra  (Letto 1965 volte)
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« inserito:: Maggio 16, 2010, 11:57:24 am »

Ritorno alla guerra

Approfondimenti

IL LIBRO

Lungi dall’essere finita, come pretendevano i filosofi dilettanti, dopo la caduta del muro di Berlino la Storia ha subito una vera e propria accelerazione. Dal 1989, l’Occidente a guida americana è in guerra senza soluzione di continuità: Panama, Somalia, Bosnia, Kosovo, Afghanistan, Iraq, Pakistan, Yemen. Tuttavia, diversamente dalle guerre totali del XX secolo, le guerre d’oggi si vogliono pacificatrici, umanitarie, costruttive. Ciò significa soltanto che la guerra fa parte ormai del nostro orizzonte ed è stata metabolizzata dalle società democratiche. Fenomeni in espansione, come le missioni di peace-keeping, la partecipazione di mezzo mondo alla global war on terror iniziata da Bush e la crescita dei nuovi mercenari, i cosiddetti contractor, indicano che il ricorso alle armi, per quasi cinquant’anni bandito dalla vita civile (almeno in Europa), è tornato legittimamente a farne parte. E questa militarizzazione della cultura non vale solo per i conflitti esterni, ma per le piccole guerre interne contro i marginali nelle nostre città e i migranti in mare aperto.
Per gentile concessione dell'editore proponiamo il testo introduttivo che apre "Le nostre guerre. Filosofia e sociologia dei conflitti armati", il nuovo saggio di Alessandro Dal Lago pubblicato da Manifestolibri.


INTRODUZIONE

di Alessandro Dal Lago

Tu puoi anche non mostrare alcun interesse per la guerra, ma prima o poi la guerra si interesserà sicuramente a te.
(Massima attribuita a Trotsky)

In altre versioni del bon mot citato sopra la parola guerra è sostituita da “strategia” e da “storia”. Ma il senso non cambia: per quanto ci si possa disinteressare della violenza organizzata o collettiva, questa finisce per riguardarci direttamente. Oggi è ancor meno facile sfuggire alla guerra, quanto più le dinamiche conflittuali vicine e lontane, materiali e simboliche, virtuali e reali si implicano indissolubilmente nel mondo globalizzato. Mai come all’inizio del ventunesimo secolo è stato vero che il battito d’ali di una farfalla in un punto qualsiasi della terra può far crollare un grattacielo agli antipodi. Quando gli americani, all’inizio degli anni Ottanta, iniziarono a finanziare la guerriglia contro i russi in Afghanistan, innescarono una catena di eventi che avrebbe portato agli attacchi dell’11 settembre 2001: in pochi anni, i naturali alleati degli americani (che nel film Rambo III erano presentati ancora come indomiti combattenti per la libertà) si sarebbero trasformati in talebani fanatici e terroristi nemici dell’umanità. Nessuno oggi è protetto dalle conseguenze di azioni avviate decenni fa in luoghi familiari soltanto ai lettori di libri di viaggio.

Questo vale per anche per l’Italia, che per quasi cinquant’anni, dopo la fine della seconda guerra mondiale, è rimasta lontana da ogni conflitto armato. Certo, tra il 1945 e il 1989 la guerra fredda definiva la posizione dell’Italia nel mondo, gli alleati d’oltreoceano influivano pesantemente sulle vicende politiche interne e apparati militari segreti erano pronti a entrare in azione se i comunisti fossero andati al governo. Ma da noi, per molto tempo, chi è nato dopo la seconda guerra mondiale si è fatto un’idea delle battaglie del presente solo al cinema o sui libri. La condizione di idillio cognitivo è finita bruscamente nel 1991 con quella che viene chiamata Guerra del Golfo. Per la prima volta, l’Italia partecipava a missioni militari all’estero (se non ricordo male, i due primi aviatori della coalizione abbattuti in territorio iracheno furono italiani). In seguito, compatibilmente con la relativa esiguità delle sue forze armate, l’Italia è stata coinvolta in missioni militari (di guerra o di peace-keeping) in mezzo mondo: Balcani, Somalia, Kuwait, Iraq, Afghanistan, Libano, solo per citare le principali e comunque quelle ufficiali.

L’implicazione diretta nei conflitti di una potenza militare minore come l’Italia non risulta tanto dall’entità delle perdite (poco meno di cento caduti dal 1991 a oggi), quanto dalla banalizzazione del discorso della guerra. […] Dire che il problema della guerra è banalizzato significa soprattutto sottolineare le pratiche ufficiali di definizione del tipo di conflitto armato a cui si partecipa. Da quando D’Alema, nel 1999, autorizzò i bombardamenti della Serbia, i governi italiani non hanno mai parlato di guerra vera e propria (anche per aggirare l’articolo 11 della costituzione), lo stato di guerra non è mai stato dichiarato, né il parlamento è stato mai chiamato in causa, se non per finanziare le missioni all’estero. Coinvolgere il proprio paese in operazioni militari è dunque una prassi abituale che rientra a pieno titolo nella politique politicienne. Come Massimo D’Alema ha candidamente ammesso nel decennale della guerra della Nato contro la Serbia, la decisione fu presa direttamente da lui, quando era presidente del Consiglio dei ministri, e imposta al governo, anche se gli americani non consideravano opportuna una partecipazione diretta dell’Italia e, tutto sommato, i bombardamenti non erano necessari nemmeno da un punto di vista militare.

Clinton le offrì di limitarsi a offrire la disponibilità delle basi italiane. Perché non raccolse l’invito?
Clinton mi disse: “L’Italia è talmente prossima allo scenario di guerra che non vi chiediamo di partecipare alle operazioni militari, è sufficiente che mettiate a disposizione le basi”. Gli risposi: “Presidente, l’Italia non è una portaerei. Se faremo insieme quest’azione militare, ci prenderemo le nostre responsabilità al pari degli altri paesi dell’alleanza”. Era moralmente giusto ed era anche il modo di esercitare pienamente il nostro ruolo. […]
Fin dal primo momento io misi le cose assolutamente in chiaro nel Consiglio dei ministri. Dissi “questa è una cosa che io ritengo che si debba fare. Me ne assumo la responsabilità. Se finirà male, mi dimetterò”. Punto e basta. Non si votò in Consiglio dei ministri, e nemmeno in Parlamento, cosa che poi mi è stata anche rimproverata. […]
Dopo le prime vittime civili dei bombardamenti non ebbe mai un momento di pentimento per le sue scelte?
Pentito no, mai. Continuo però ancora oggi a pensare che non era necessario bombardare Belgrado. Penso che ci voglia sempre una misura e una intelligenza nell’uso della forza, ma difendo il principio secondo cui ci sono momenti in cui è inevitabile, quando si tratta di difendere valori come i diritti umani, che non possono essere accantonati nel nome della sovranità nazionale. [1]

Al di là del cinismo di questo Cavour in sedicesimo (che curiosamente gode in Italia della fama di “statista”), c’è da dire che si tratta della declinazione del discorso della guerra divenuta abituale in occidente dopo la fine del bipolarismo (e soprattutto dopo l’11 settembre 2001). Nell’espressione “guerra al terrore” (la global war on terror di George.W. Bush) oppure agli “stati canaglia” (rogue states), l’aspetto centrale è la spoliticizzazione del conflitto armato. Il “terrore”, appare (o comunque è trattato) come una dimensione-limite o un evento eccezionale di tipo naturale: qualcosa da cui proteggersi e possibilmente da eliminare, ma non come l’espressione di un nemico a cui attribuire un qualche riconoscimento. Si tratta cioè di un fenomeno allo stesso livello di una pandemia o di uno tsunami. Nel caso degli “stati canaglia”, il nemico verrà definito piuttosto in termini morali, ma il risultato è lo stesso: l’azione militare avrà lo scopo di difendere l’”umanità” o i “diritti”, come dichiara D’Alema, ma sempre in assenza di un nemico legittimo. Di conseguenza, il conflitto armato sarà concepito come un’operazione di “polizia” o “pulizia” globale, occasionale (per esempio Serbia, 1999) o di lunga durata (Iraq, dopo il 2003, o Afghanistan, dal 2001) a seconda delle circostanze. E, come ogni operazione di polizia, più o meno regolare, si concluderà con la cattura e l’eliminazione dei criminali (Milosevic, Saddam Hussein).

Qui non è in gioco solo una filosofia dell’intervento armato auto-referenziale e ideologica; il problema è l’intrinseca contraddizione di un modo di fare la guerra in cui scompare il nemico legittimo. Apparentemente, la logica di tale conflitti è la stessa di qualsiasi guerra civile, in cui si lotta all’estremo, non si fanno prigionieri e si coinvolgono normalmente gli innocenti – con la differenza che ora si combatte su scala globale e quindi potenzialmente tutto il mondo è implicato. Con ciò, non intendo sostenere che i conflitti in corso costituiscono episodi di una guerra civile globale. Ritengo piuttosto che guerre in cui il nemico è trattato alla stregua di una piaga o di una catastrofe naturale trascendono fatalmente i limiti culturali che faticosamente e con innumerevoli eccezioni, l’umanità ha posto alla guerra. Se i nemici combattono con il riscorso ad attentati, suicidi e no, attacchi terroristici e così via (ciò che in questo volume sarà definito come “guerra asimmetrica”), è anche vero che l’occidente bombarda indifferentemente militari e civili, rinuncia alle limitazioni delle convenzioni relative al trattamento dei prigionieri (Guantanamo, Abu Ghraib) e si beffa di qualsiasi restrizione del diritto internazionale (come nell’aggressione anglo-americana all’Iraq nel 2003). E questo non può che inasprire il senso di ingiustizia diffuso nel pianeta nei confronti del mondo ricco e sviluppato.

Nota:
S.Cappellini, 2009 “La guerra che rifarei. D'Alema racconta”, Il riformista, 24 marzo 2009.
Nell’intervista, D’Alema sostiene che la motivazione principale della decisione di intervenire furono i massacri perpetrati dai serbi nel Kosovo (gran parte dei quali si sono rivelati successivamente invenzioni propagandistiche). Con maggiore franchezza, all’indomani del conflitto, D’Alema ha dichiarato che l’Italia temeva soprattutto che ondate di profughi kosovari si riversassero in Italia. Ecco un esempio dell’implicazione tra conflitti internazionali e migrazioni di cui si occupa la terza parte di questo volume.

(11 maggio 2010)
http://temi.repubblica.it/micromega-online/ritorno-alla-guerra/
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