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Autore Discussione: STEFANO LEPRI.  (Letto 55761 volte)
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« Risposta #75 inserito:: Novembre 28, 2012, 11:39:32 pm »

Editoriali
28/11/2012

Ma sarà una riforma da fare

Stefano Lepri

Giusto un equivoco come questo aspettavano tutti quelli che vogliono dipingere Mario Monti come un thatcheriano senza cuore. Ossia come uno che vuole «affamare la bestia» dello Stato sociale, per sferzare la produttività dell’economia attraverso il bisogno. 

 

Ma nemmeno la «Iron Lady» privatizzò il sistema sanitario inglese, che è sempre rimasto pubblico, come in tutta Europa e nella quasi totalità del mondo avanzato, Stati Uniti esclusi. Né avrebbe senso inseguire il modello americano di sanità (eccellente ai vertici, di basso livello nella media) proprio adesso che Barack Obama, come gli rimproverano i suoi avversari, in parte lo europeizza. 

 

Purtroppo le brevi parole del presidente del Consiglio, in stretto gergo economico, non erano facili da comprendere. In sostanza pongono il problema di quali meccanismi istituzionali possono contenere gli sprechi di un sistema sanitario pubblico, e incentivarne la qualità. Si tratta di una grande riforma, necessaria per il futuro, sulla quale i partiti farebbero bene a confrontarsi. 

 

Cominciamo dai dati di fatto. Benché sembri strano, a vedere la sporcizia di certi ospedali, soprattutto ad apprendere di atroci errori di cura, le prestazioni sanitarie in Italia reggono il confronto internazionale, anche come costi. I due indici chiave, durata media della vita e mortalità infantile, sono a livelli europei, e assai migliori di quelli degli Stati Uniti.

 

Tuttavia abbiamo le ruberie politiche; perfino dove, come in Lombardia, l’assistenza è migliore che altrove e ai privati è stato concesso un largo spazio. Nell’insieme, la dimensione degli sprechi salta agli occhi: quasi sempre le Regioni che curano meglio i propri cittadini spendono meno, pro capite, di quelle che li curano peggio.

Purtroppo il contenimento delle spese è affidato quasi soltanto a un continuo braccio di ferro tra governo centrale e amministrazioni regionali. Mentre, in prospettiva, l’assistenza sanitaria ci costerà sempre di più, perché siamo un Paese dove gli anziani rappresenteranno una quota sempre più alta della popolazione, e perché inevitabilmente aspireremo tutti ad essere curati con ritrovati medici nuovi, più dispendiosi. 

 

La via migliore è costruire meccanismi che introducano criteri di efficienza nel sistema pubblico senza comprometterne l’universalità. Si può ipotizzare che oltre una base essenziale di assistenza assicurata a tutti, prestazioni aggiuntive siano affidate a mutue private, capaci di stimolare all’efficienza l’offerta sanitaria; oppure che oltre un certo livello di reddito, come in Germania, sia possibile optare per una assicurazione privata. Mario Monti è per l’appunto un fautore dell’«economia sociale di mercato» alla tedesca, tutt’altro che nemico del welfare. Si può benissimo difendere invece il «tutto pubblico»; ma spiegando come si fa a impedire che le Regioni con il record di spesa per medicinali siano le stesse da cui la gente fugge per farsi curare altrove.

da - http://www.lastampa.it/2012/11/28/cultura/opinioni/editoriali/ma-sara-una-riforma-da-fare-5ouYR6my2bjWFTuUc7VGPP/pagina.html
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« Risposta #76 inserito:: Gennaio 05, 2013, 11:33:41 pm »

Editoriali
05/01/2013

Il costo delle lobby

Stefano Lepri

Nell’anno in cui a memoria d’uomo i consumi degli italiani si sono più ridotti, il costo della vita è cresciuto più che negli altri Paesi euro. Non è questa una spietatezza del mercato. E’ invece un segno che da noi il mercato funziona meno bene che altrove. 

 

Quando la gente fatica ad arrivare alla fine del mese, dovrebbe essere difficile ritoccare all’insù i cartellini dei prezzi. Nel 2012 ha pesato il rincaro del petrolio, che però è uguale per tutti i Paesi. In Italia un certo effetto aggiuntivo va attribuito a incrementi di tariffe pubbliche necessari a riportare i conti in ordine, che nel 2013 non si ripeteranno. Nell’insieme tuttavia la nostra economia appare più rigida delle altre. Uno degli obiettivi dell’austerità è appunto riportare l’andamento dei nostri costi e dei nostri prezzi in linea con quelli degli altri Paesi che condividono la stessa moneta. Restiamo anomali; secondo le previsioni correnti, può darsi che riusciremo ad avvicinarci nell’anno appena iniziato.

 

Sappiamo bene che i tedeschi hanno in media stipendi più alti dei nostri. Andando in visita a Berlino, ad Amburgo o a Monaco di Baviera possiamo scoprire in aggiunta che la spesa al supermercato può perfino costare meno. C’è qualcosa che proprio non va, specie considerando che i consumi qua calano e là no.

L’inflazione più alta in Italia è un segno di ingiustizia sociale. Quando un prezzo risponde poco o nulla alla diminuzione della domanda, vuol dire che chi lo incassa scarica su altri almeno una parte del peso della crisi. A fronte di chi perde il lavoro e stringe la cinghia, c’è chi riesce a mantenere intatti i guadagni. Negli anni scorsi, nicchie protette dalla concorrenza e rendite di posizione hanno dissipato i vantaggi dell’euro, facendo crescere il costo della vita, e i costi delle imprese, più in fretta che nei Paesi forti dell’area. Ora rallentano il riequilibrio e la ripresa.

 

Riformare è difficile. Troppo spesso chi gode di privilegi riesce a farsi ascoltare dai Parlamenti: è ben noto alla scienza politica che in tutte le democrazie una lobby piccola e determinata, in possesso di un pacchetto di voti o pronta a finanziare i politici, riesce spesso a negoziare favori a scapito della collettività. Così il recente compromesso di bilancio Usa oltre a decisioni cruciali per il futuro del Paese include anche, tra l’altro, favori per i produttori di rum.

 

Qualche cosa è stato fatto nell’ultimo anno, moltissimo resta da fare. Probabilmente una larga coalizione consente meglio di sottrarsi ai condizionamenti di interessi particolari; ma nessuno può vantare patenti di riformismo senza macchie. All’interno dello stesso governo Monti si sono talvolta gabellate come misure «per lo sviluppo» alcune che invece distorcevano il mercato a favore di interessi particolari (come due sgravi fiscali ai costruttori, per fortuna poi bocciati entrambi). Anche dove la concorrenza c’è, spesso è difficile per i consumatori ricavarne tutti i benefici. Basti pensare alle intricate formule tariffarie per cui è arduo rendersi conto chi ci offre a miglior prezzo l’elettricità o il telefono. Dove manca, la concorrenza stenta ad arrivare: da tempo l’azione dell’autorità Antitrust si è appannata, e per ora non si intravedono segni di ripresa.

 

Non basta soltanto indicare buoni propositi. Occorre riuscire a far appello ai cittadini in nome dell’interesse collettivo, ripulendo i canali di trasmissione delle scelte politiche. I gruppi di potere che vogliono tenere tutto com’è non si intrecciano soltanto con le parti più logore della classe politica, ma con una burocrazia abilissima nel restare gattopardescamente a galla nel cambio delle stagioni.

da - http://lastampa.it/2013/01/05/cultura/opinioni/editoriali/il-costo-delle-lobby-7HUP9oRKizwW4lvZGADIOL/pagina.html
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« Risposta #77 inserito:: Gennaio 21, 2013, 07:50:00 pm »

Editoriali
21/01/2013 - emergenza italiana

Una politica per creare lavoro

Stefano Lepri


Per limitare il numero di licenziamenti, per creare duraturi posti di lavoro, servirebbe proprio quello che nelle casse dello Stato italiano manca: un sacco di soldi. Nemmeno ci sono distanze enormi, tra le ricette che i partiti propongono in campagna elettorale. Il guaio è che al momento non tornano i conti perfino per coprire la pura emergenza, ossia la cassa integrazione. 

 

Perché le imprese possano vendere di più, occorre recuperare competitività: abbassare la tassazione sul lavoro (solo se a tempo indeterminato) che utilizzano. Se si vuole che sul mercato nazionale non manchino i compratori, occorrono meno tasse sui redditi più bassi, più danneggiati dalla crisi. Piuttosto che tenere in vita aziende fuori mercato, occorre dare una decente indennità di disoccupazione a chi perde l’impiego e sgombrare la strada a chi vuole fondare aziende nuove. Vantaggi aggiuntivi per chi assume donne possono allargare le forze di lavoro. Posti in più possono essere creati accelerando opere pubbliche utili.

 

A seconda degli schieramenti politici o dei gusti, può apparire più urgente l’uno o l’altro di questi punti. 

La vera sfida è come arrivare a mettere insieme le risorse per realizzarne almeno qualcuno, e come creare il clima di fiducia nell’Italia che permetta di usare al meglio il denaro che c’è. Anche per questa via si torna a quello che oggi è il problema primo, uno Stato che non funziona. Ripulire la politica, rifare da capo l’amministrazione, tagliare le spese, ne sono gli aspetti indistricabili: nessuno dei tre può essere realizzato da solo. 

 

Bisogna dare l’idea che in Italia vale la pena di studiare e di lavorare, e che si ottengono risultati facendolo bene. Questo oggi manca, da ogni angolatura possibile: non lo vedono i giovani, e infatti i migliori tra loro vanno all’estero; non lo vedono nemmeno gli investitori stranieri, e infatti non vengono. Qui probabilmente vanno cercate le ragioni profonde del mistero che i tecnici dell’economia stentano a spiegare: come mai, caso quasi unico, il sistema economico italiano nell’ultimo decennio abbia perso in efficienza (produttività) mentre grandi innovazioni cambiavano il mondo.

 

Sarà duro, durissimo, riuscirci. Troppe forze organizzate della nostra società prosperano nel mantenere le cose come stanno; mentre coloro che ne soffrono sono disorganizzati o poco rappresentati. Una prova significativa l’abbiamo appena avuta, con le difficoltà della «Scelta civica» di Mario Monti a precisare una proposta per il mercato del lavoro.

 

Non è probabilmente questo il momento giusto, come osservava qualche giorno fa su questo giornale Elsa Fornero: proprio perché prevale l’urgenza dei posti da non perdere oppure da creare. Però è chiaro che ristagna un Paese dove il grosso dei giovani ha davanti solo la prospettiva di un lavoro precario che sottoutilizza il loro studio, e quei pochi che un impiego solido lo trovano sono, a parità di qualifica, pagati meno rispetto ai coetanei di vent’anni fa.

 

Ma a questo mercato del lavoro «duale» si sono adattati in tanti, non solo i sindacati che difendono gli anziani con il posto fisso, anche tantissime imprese, mentre all’interno delle famiglie si compensano i divari e si tappano le falle. La paura di cambiare si rivela diffusa ovunque. 

 

E’ inevitabile che in una crisi mondiale, a cui l’Italia per giunta è arrivata impreparata e carica di illusioni, alcuni posti di lavoro non possano essere salvati. Meglio interrogarsi su quali sono le idee, le condizioni materiali, le persone - soprattutto giovani, donne, immigrati - da cui possono nascere posti di lavoro nuovi.

da - http://www.lastampa.it/2013/01/21/cultura/opinioni/editoriali/una-politica-per-creare-lavoro-9PgwJTS9VpslX8MMjjoshJ/pagina.html
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« Risposta #78 inserito:: Gennaio 31, 2013, 07:17:33 pm »

Editoriali
31/01/2013

Non vale fare demagogia sui controlli

Stefano Lepri



Ma chi ha imposto di cambiare tutto il management del Monte dei Paschi, facendo una pulizia radicale, se non la Banca d’Italia? 

 

Eppure, a norma delle leggi italiane, non ne aveva nemmeno il potere. Da anni il Fondo monetario internazionale ci raccomanda di dare al nostro organismo di vigilanza sul credito la facoltà legale di rimuovere i banchieri che commettono irregolarità. Nessun governo si era curato di provvedere.

 

Proprio perché la finanza è complicata si presta bene alla demagogia degli incompetenti che strillano forte; e additare falsi colpevoli è da sempre il miglior trucco per mettere al riparo i responsabili veri. Se sappiamo oggi del malaffare dentro l’antica banca senese, è perché il 15 novembre 2011 il direttorio della Banca d’Italia ne convocò i dirigenti a Roma e gli disse fermamente che in quel modo non si poteva andare avanti.

Di fronte a quello che è accaduto ieri in Borsa, la prima cosa che occorre dire a voce alta è che i risparmiatori italiani ed esteri che tengono il loro denaro presso il Monte non corrono rischi di alcun genere; e non solo perché in Italia sono assicurati i depositi fino a 100.000 euro. La banca ha un patrimonio di 14 miliardi ampiamente in grado di proteggere dalle perdite dovute ai loschi affari della cricca Mussari.

 

Non è nemmeno vero che il Mps si regga solo grazie al prestito di 3,9 miliardi che gli ha concesso il Tesoro. Quel denaro – è bene ripetere, non un regalo ma un prestito ad alti tassi di interesse, sul quale lo Stato italiano guadagna – serve a uno scopo aggiuntivo: metterlo al riparo anche da eventuali, seppur improbabili, nuove catastrofi finanziarie mondiali, secondo parametri europei decisi nel momento peggiore della crisi, e forse oggi perfino eccessivi.

 

Inoltre gli attuali «Monti bond» sono erogati a condizioni assai più severe dei «Tremonti bond» che quattro anni fa l’allora ministro dell’Economia sarebbe stato ben lieto di concedere non solo al Monte dei Paschi, ma a tutte le altre banche che li avessero richiesti (si arrabbiò perfino, quando Intesa Sanpaolo e Unicredit li rifiutarono).

 

Il Monte si è messo nei guai perché un gruppo di potere locale premoderno, dove dominavano amministratori con tessera Pd, si è ubriacato delle sregolatezze rese possibili dalla grande finanza globale. Ma il rappresentante di quel gruppo non sarebbe diventato nel 2010 presidente dei banchieri italiani se non avesse goduto dell’appoggio di Giulio Tremonti (al quale ripeteva di frequente omaggi, basta consultare i giornali).

Gli ispettori della Banca d’Italia avevano scoperto subito che era irregolare l’operazione denominata «Santorini», non invece la «Alexandria», mascherata meglio grazie alla complicità della banca giapponese Nomura. Fu la Banca d’Italia a esigere un aumento di capitale per sopportare il costosissimo acquisto della Antonveneta; non rientrava in alcun modo nelle competenze della vigilanza indagare se dentro vi fosse nascosta una tangente.

 

Il rischio ora è che una campagna elettorale aspra quanto mai causi danni permanenti. Ci sono nella vicenda responsabilità politiche e di quelle è bene che si parli. I magistrati indagano sui reati e ci diranno chi deve essere punito. Ma un generico «dagli al banchiere», oltre a confondere innocenti e colpevoli, può solo diffondere sfiducia sull’Italia nel suo insieme.

 

Ricordiamoci tra l’altro che la crisi dell’euro si è aggravata a partire dall’ottobre 2010, quando a Deauville Nicolas Sarkozy e Angela Merkel vollero dare a intendere che il dissesto dei Paesi deboli l’avrebbero fatto pagare ai banchieri. Fu invece quella dichiarazione irresponsabile ad aggravare la situazione per tutti, scaricando più austerità sui cittadini.

da - http://lastampa.it/2013/01/31/cultura/opinioni/editoriali/sui-controlli-non-vale-fare-demagogia-RNtouDEtu4nagIYCwqlDTO/pagina.html
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« Risposta #79 inserito:: Aprile 18, 2013, 06:24:18 pm »

Economia
18/04/2013 - scontro tra economisti

Scricchiola il mito dell’austerità

Rogoff, uno dei due autori del volume che sostiene che il debito, quando cresce oltre il 90% del pil, azzera la crescita

Rogoff: “Con il debito alto poco sviluppo”

Stefano Lepri
Roma

L’alto debito pubblico è una palla al piede della crescita economica? Forse no, o forse non tanto. Negli Stati Uniti una disputa accademica tra economisti sta diventando materia di dibattito diffuso, dilaga su Twitter, viene rilanciata nel mondo dalle agenzie di stampa. Si scopre che sono sbagliati i calcoli di un libro famoso, pubblicato anche in Italia: «Questa volta è diverso. Otto secoli di crisi finanziaria» (Il Saggiatore 2010). 


Gli autori, il celebre Kenneth Rogoff e Carmen Reinhart nata Castellanos, docenti a Harvard, concludevano che quando in un Paese il debito pubblico supera il 90% rispetto al prodotto lordo, la crescita economica si azzera. Avevano rielaborato i dati di venti Paesi avanzati dal 1945 in poi. Ora altri tre economisti, della poco lontana università statale del Massachusetts, hanno scoperto due punti deboli in quel lavoro: un errore materiale e una ponderazione discutibile. Rifacendo i conteggi, i tre – Michael Ash, Thomas Herndon e Robert Pollin – dagli identici Paesi nei medesimi anni raggiungono un risultato assai meno persuasivo: un solo punto in meno di crescita dove il debito è oltre il 90%, rispetto a dove è tra il 60% e il 90% del Pil (ovvero 2,2% annuo contro 3,2%). Reinhart e Rogoff riconoscono l’errore, ma insistono che la differenza è significativa usando anche altre serie di dati, che prendono in considerazione più Paesi e più anni. 

 
In poche ore, la polemica si è allargata a dismisura. Negli Usa ha estrema attualità politica, con la Camera a maggioranza repubblicana che sostiene l’urgenza di ridurre il deficit tagliando la spesa, mentre la sinistra preme su Barack Obama perché attenui l’austerità finché i disoccupati sono tanto numerosi.

 
Rogoff, consigliere di John McCain nella campagna elettorale del 2008 oltre che Gran Maestro di scacchi, è un repubblicano moderato. Il Premio Nobel Paul Krugman, capofila degli economisti di sinistra, si getta nella mischia a testa bassa come suo solito: pur non mettendo in dubbio la buona fede di Rogoff, gli rimprovera di perseverare nell’errore.

 
Facendo i conti anche lui sui soli Paesi del G-7, Krugman nota che la relazione tra debito e bassa crescita vale per Giappone e Italia, non vale affatto per la Gran Bretagna. Mentre Ash, Herndon e Pollin professano cautela, lui taglia netto: «La storia ci dice che sia l’Italia, sia soprattutto il Giappone, hanno fatto ingenti debiti a causa della bassa crescita, non il contrario».

 
In Italia non ne siamo tanto sicuri. Il nostro debito pubblico si gonfiò soprattutto negli anni ’80, quando l’economia non andava affatto male, 2,5% di crescita in media all’anno, contro il 2,4% scarso della Germania. E che sia un grave rischio, questo debito, lo abbiamo sperimentato in abbondanza prima nel 1992, con la lira, poi nel 2011, con l’euro. Se indebitarsi fosse sempre efficace, molti nostri governi sarebbero riusciti a mantenere le loro promesse.

 
Il dibattito tra gli economisti ferve, e continuerà. Il libro di Reinhart e Rogoff era piaciuto a molti per le parti sull’euforia finanziaria che porta alle crisi, e sulle illusioni con cui la gente si tappa gli occhi quando vi partecipa; resta valido anche se la correlazione stretta tra debito pubblico e crescita cade. Del resto il Fondo monetario internazionale, fino a ieri gran predicatore dell’austerità, oggi sostiene che in Europa rischiamo di averne troppa, anzi esorta la Germania a spendere un po’ di più.

 
Di risparmio ce n’è tanto nel mondo, ce n’è anzi in eccesso. Lo stesso Rogoff lo ha scritto più volte. E se i privati non investono, in una certa misura a questo risparmio è bene che attingano gli Stati. Il guaio è che con una finanza mondiale instabile forse solo gli Stati di cui i mercati si fidano, come gli Usa, possono continuare a indebitarsi senza rischio; mentre dell’Italia si fidano poco.

da - http://lastampa.it/2013/04/18/economia/scricchiola-il-mito-dell-austerita-BsDxTvxF5MvnNy8EYQA62M/pagina.html
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« Risposta #80 inserito:: Maggio 03, 2013, 05:50:11 pm »

Editoriali
03/05/2013

Bisogna uscire dall’austerità senza sbandare


Stefano Lepri

Se c’è spazio per ridurre le tasse, prima tocchi a quelle sul lavoro. Bastava forse il buon senso ad arrivarci, ora ce lo raccomanda l’Ocse con corredo di analisi economiche. Perfino il nuovo Papa parla molto di lavoro. Invece la politica italiana rischia di portarci altrove.

 

Se il lavoro manca, è anche perché le nostre imprese spendono molto per impiegare dipendenti ai quali in tasca arriva poco. 

 

L’Ocse ci avverte che lo svantaggio rispetto agli altri Paesi è maggiore proprio per i lavoratori a reddito più basso; a favore dei quali avevano già suggerito di intervenire i «saggi» nominati dal presidente della Repubblica.

 

Nel discorso programmatico di Enrico Letta questo punto c’era. Ma l’impuntatura del Pdl, o forse di una parte del Pdl, sull’Imu, rischia di spingere verso un uso assai meno efficace delle poche risorse a disposizione. Tanto più che il voto amministrativo a Roma e altrove fra 3 settimane rende difficile agli altri partiti dire di no.

 

Ragioni economiche consigliano casomai di alleggerire l’Imu sulle case più modeste, non di toglierla a tutti. Ragioni di buona politica – esposte giorni fa anche dal Foglio, quotidiano vicino al centrodestra – consigliano di utilizzare la tassa immobiliare come prima fonte di finanziamento dei Comuni: i sindaci stanno più attenti a quanto spendono se gli elettori sanno di quali entrate fiscali chiedergli conto.

 

Sarebbe poi ora di riflettere su dove ci hanno condotto quindici anni di focalizzazione ossessiva della politica sulla questione delle tasse. All’inizio molti avevano sperato che fosse utile a contenere l’eccessiva spesa pubblica. Le cifre invece dimostrano che proprio quando più si ripeteva il ritornello «meno tasse» la spesa è cresciuta.

 

Sui contribuenti corretti la pressione tributaria non è calata mai; mentre i pretesti e le scappatoie per l’evasione sono aumentati. Ad esempio nel rapporto Ocse di ieri si legge che dall’Iva l’Italia nel 2011 ricavava (in proporzione al nostro reddito che è ovviamente più alto) pressappoco quanto la Turchia, dove l’aliquota principale dell’imposta era più bassa, 18%.

 

Proprio a causa del peso del passato oggi l’Italia non può reagire alla recessione con un energico calo delle tasse. Siamo arrivati alla grande crisi carichi di troppo debito. Noi stessi, noi italiani, di fronte al rischio di non vederlo più ripagato per intero sposteremmo in massa i capitali all’estero; i severi obblighi europei sono solo conseguenza di una fragilità che è nei fatti.

 

Non servono nuove manovre restrittive. Oltretutto è caduto il mito che l’austerità esercitasse da subito effetti benefici: quando Mario Draghi ieri ha detto di non averlo mai creduto, con garbo si distingueva dal suo predecessore Jean-Claude Trichet. Ma proprio per non rendere inutili i sacrifici fin qui compiuti, ha aggiunto, bisogna stare attenti a non creare nuovi fattori di instabilità.

 

Dall’austerità occorre uscire senza sterzare troppo in senso opposto. Tornare ad aumentare il deficit pubblico sarebbe pericoloso. Proposte davvero incisive per tagliare le spese non ne arrivano, quando in teoria una grande coalizione dovrebbe offrire il supporto ideale. Concentrandosi sulla casa – come, da altre parti politiche, sulle pensioni – si insegue un elettorato vecchio, mentre il lavoro manca ai giovani. Con i pochi soldi che ci sono, meglio aiutare chi davvero non arriva alla fine del mese, e invogliare le imprese ad assumere.


da - http://lastampa.it/2013/05/03/cultura/opinioni/editoriali/bisogna-uscire-dall-austerita-senza-sbandare-IUmImcm6NhwzbN0htGrHTM/pagina.html
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« Risposta #81 inserito:: Maggio 18, 2013, 05:24:45 pm »

Editoriali
16/05/2013

Un’Europa senza ricette

Stefano Lepri


Il commento meno deprimente degli economisti è «forse abbiamo toccato il fondo». Quasi tutta l’Eurozona è impantanata nella recessione; perfino la Germania procede a fatica. 

 

La debole ripresa che avevamo sperato di vedere prima dell’estate è ora rinviata a dopo. Per l’Italia è ormai troppo poco prevedere un «decennio perduto».

 

Gli anni necessari per tornare al livello di reddito precedente alla crisi finanziaria saranno forse una dozzina.

 

Da solo il nostro Paese – non illudiamoci – può fare poco. Già non sarebbe facile il compito per un governo di larghe intese dove i partiti si coprissero le spalle a vicenda sull’iniziale impopolarità delle misure necessarie a ripartire. Abbiamo invece, dietro le indubbie qualità del presidente del Consiglio e del ministro dell’Economia, una coalizione che sembra orientarsi sul principio, per così dire, del «minimo comune demagogico». 

 

Invece di un progetto, si profilano compromessi tra contrastanti esigenze di propaganda. Useremo nel 2013 e nel 2014 tutto lo spazio concesso dalla originaria regola dell’euro, il deficit pubblico entro il 3% del Pil. Per fronteggiare una recessione così grave alcuni suggeriscono una deroga. Ma non è questione di Paesi nordici cattivi: nelle condizioni dell’Italia un deficit superiore al 3% renderebbe il debito pubblico visibilmente insostenibile.

 

Una deroga avrebbe senso se lo sforamento del 3% durasse un solo anno e se i soldi fossero spesi bene, accompagnati a riforme di svolta, tipo ripensare da capo la burocrazia. Chi è in grado di garantirlo? Se nemmeno noi italiani ci fidiamo di noi stessi, come risulta dal grande sondaggio dell’americana Pew pubblicato l’altro giorno, possiamo pretendere che si fidino gli altri?

 

Non che altrove le idee abbondino. Ad esempio la doppia intervista pubblicata ieri dal quotidiano francese «Les Echos», al tedesco Juergen Stark ex membro dell’esecutivo Bce, e al ministro Arnaud Montebourg, ala sinistra del governo di Parigi, contrappone banalità ugualmente sterili. La Francia non sa spiegarsi perché soffra quando le sue imprese pagano tassi di interesse esigui, un sogno di qua dalle Alpi. La Germania ha denunciato per mesi pericoli di inflazione e ora l’aumento dei prezzi è all’1,2% appena.

 

Poco utile tuttavia è recriminare sui dissidi tra nazioni. La stretta di bilancio collettiva dei due anni passati, che ora constatiamo esagerata, fu imposta solo e soltanto dall’instabilità dei mercati; ricordiamoci che l’Italia è andata vicina al crack nel novembre 2011. L’ideologia nordica del rigore ha aggiunto il suo peso solo più tardi, inducendo a perseverare contro l’evidenza.

 

E se il problema maggiore resta l’instabilità dei mercati finanziari, c’è di peggio del goffo apparato europeo di regole di bilancio sulla carta feroci e di deroghe contrattate caso per caso senza trasparenza. Gravissima è l’omertà tra i governi e i poteri bancari nazionali che impedisce di giungere in fretta a un assetto solido del credito – l’unione bancaria – pur di non cedere potere.

 

La Borsa che sale in una giornata di ieri ci dice quanto la situazione sia fragile. Nel mondo gli Stati Uniti e il Giappone creano moneta in abbondanza che tiene bassi anche i tassi del debito pubblico italiano e alte anche le nostre quotazioni azionarie. Stanno facendo per noi una scommessa che l’area euro divisa non è stata capace di fare, eppure anch’essa un ripiego nell’incapacità di rendere la finanza più stabile. Con tutti i suoi limiti, c’è solo da sperare che gli riesca.

da - http://lastampa.it/2013/05/16/cultura/opinioni/editoriali/un-europa-senza-ricette-BwGDeu5WKveMsWLYDNpTwN/pagina.html
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« Risposta #82 inserito:: Giugno 15, 2013, 08:41:35 am »

Editoriali
14/06/2013

Poche risorse, vanno messe sulla crescita

Stefano Lepri

Sempre più difficile! L’esercizio di equilibrio di un governo che i vari pezzi della sua maggioranza sballottano in direzioni diverse nella giornata di ieri è diventato più affannoso. Il vicepresidente del Consiglio enumerava una serie di obiettivi di politica economica. 

 

Nel contempo il ministro dell’Economia dichiarava di non poterli raggiungere tutti insieme salvo tagli alle spese severissimi «al momento non rinvenibili». 

 

All’esterno, alcuni limiti sono meglio definiti. Il ministro delle Finanze tedesco Wolfgang Schaeuble boccia l’idea di esentare gli investimenti dal calcolo del deficit; da settimane i nostri politici ci si trastullavano facendo finta di non capire che l’allentamento di regole in discussione a Bruxelles riguardava materie assai più circoscritte.

 

Inoltre, gli umori dei mercati internazionali sono cambiati: «per motivi del tutto estranei alla politica italiana», secondo le parole di Fabrizio Saccomanni, ma sono cambiati. Ora si attende un rialzo dei tassi. Non si può più sperare in minori spese sugli interessi dei titoli di Stato.

 

Dall’Europa qualcosa lo avevamo già ottenuto. Il comune giudizio che la dose di austerità fin qui adottata sia sufficiente ha aperto nuovi margini sul bilancio 2014. Ciò nonostante, all’interno il gioco al rialzo continua. Si è data l’impressione che la fine della procedura contro l’Italia per deficit eccessivo (che poi ufficialmente chiusa ancora non è) potesse autorizzarci a peccare di nuovo, da subito. A questo si riferisce il richiamo arrivatoci nel bollettino della Bce.

 

Tutto insieme non si può fare: detassare le assunzioni dei giovani, evitare l’aumento Iva già previsto per legge il 1° luglio, togliere l’Imu sulla prima casa, ridurre il «cuneo fiscale» alle imprese, e chissà che altro. Occorre fare delle scelte; possibilmente evitando di dare retta a chi strilla di più e ragionando a mente fredda su che cosa è più utile.

 

Difficile riuscirci, se una componente della maggioranza continua a insistere che due più due fa tre e un’altra che quattro meno tre fa due. Un contributo a rimettere i piedi per terra l’ha dato ieri la Banca d’Italia: non è affatto vero che la proprietà della casa sia tartassata da noi, dato nella media con l’Imu paghiamo poco più della metà di quanto il fisco pretende in Francia e in Gran Bretagna.

 

Se una revisione dell’Imu va fatta, è solo per correggerne alcuni difetti. Nel frattempo, è logico che il governo rinunci a bloccare l’aumento dal 21 al 22% dell’aliquota principale dell’Iva. Proprio in una fase di consumi fiacchi come questa, l’effetto sui prezzi dovrebbe risultare contenuto. Non è nemmeno esatto che ne sarebbero danneggiati i più poveri, perché sui beni di prima necessità le aliquote agevolate resteranno ferme.

 

La priorità va riconosciuta nel lavoro. Il presidente del Consiglio la enuncia spesso, ma ora occorre passare ai fatti. Su come perseguirla girano idee diverse, gli industriali ne hanno alcune, i sindacati altre, altre categorie altre ancora; i partiti si cimentino su questo, su come trovare un filo comune tra le richieste degli uni e degli altri, invece di ripetere gli slogan che vengono meglio in tv. 

 

Un sondaggista noto rifletteva giorni fa che dai cittadini la politica viene sentita lontanissima proprio ora che i partiti ordinano di continuo sondaggi di opinione, arricchendo la sua ed altre aziende che li svolgono. Beppe Grillo lo fa con la Rete, ma il risultato è ugualmente inconcludente, come sempre di più si vede. Se è giustificato che esistano politici di professione, è perché occorre l’arte di capire che cosa unisce un Paese frammentato, guardando in avanti. La si mostri.

DA - http://lastampa.it/2013/06/14/cultura/opinioni/editoriali/poche-risorse-vanno-messe-sulla-crescita-xmC4b5BmFpUO7OPHW3zssI/pagina.html
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« Risposta #83 inserito:: Giugno 27, 2013, 04:03:01 pm »

Editoriali
27/06/2013

La scommessa è guadagnare un po’ di tempo

Stefano Lepri


I provvedimenti di ieri sui giovani e sul lavoro sono un esempio, modesto, di che cosa un governo può fare di buono nella situazione attuale.

Il rinvio dell’aumento Iva, all’opposto, è un esempio assai significativo di come non si deve fare. Tanto più perché lo stesso errore che rischia di ripetersi nei prossimi mesi.

Se i soldi nelle casse dello Stato non ci sono, coprire un calo di tasse da una parte con un aumento di tasse dall’altra non è necessariamente dannoso.

Si possono sostituire tributi che frenano di più la crescita economica con altri che la frenano di meno. Ma non è questo il caso. 

Ricordiamo come ci siamo arrivati. Si parte dalla richiesta che il governo attui la principale promessa elettorale del Pdl, abolire l’Imu sulla prima casa. Il governo rinvia i versamenti e prende tre mesi per decidere. Frattanto arriva a scadenza il già deciso aumento dell’aliquota principale Iva: il Pd ribatte sostenendo che sarebbe meglio evitare questo.

Circa quattro miliardi in ragione annua da una parte, quattro miliardi dall’altra. Il Pdl rilancia, chiedendo di fare tutte e due le cose insieme: raddoppia la posta nel piatto, otto miliardi. Poco conta che le istituzioni internazionali e l’Europa ci ripetano che le tasse sul patrimonio, come l’Imu, sono le meno dannose alla crescita, seguite da quelle sui consumi, come l’Iva.

Sulle coperture il governo ha promesso una parola definitiva oggi. Resta alto il rischio che il rinvio dell’Iva sia compensato da aggravi di altre imposte sui consumi, se non addirittura da un anticipo dell’acconto Irpef (imposta sul reddito, più dannosa per la crescita). Dopodiché in Parlamento si riaprirà una gara fra i partiti per trovare coperture sostitutive, escogitando misure di «finanza creativa» (già ne circolano) o tagli di spesa irreali.

Già, i tagli di spesa. In teoria sono la maniera migliore di evitare un aumento di tassazione. In realtà una politica debole sa bene che per attuare tagli veri occorre colpire interessi concentrati, più capaci di vendicarsi rispetto alla massa diffusa dei contribuenti. Negli anni pre-crisi, tra l’altro, le spese erano cresciute più sotto i governi di centro-destra che sotto quelli di centro-sinistra, al contrario di quanto ci si poteva aspettare.

Per ridurre le spese in misura significativa occorre rivedere a fondo il funzionamento della macchina dello Stato: lavoro non breve per il quale all’attuale maggioranza manca la voglia oltre che la prospettiva di tempo. Si gradirebbero proposte dall’opposizione, dove però manca la competenza per elaborarle.

Proprio a causa delle risorse sprecate per tener dietro alla demagogia tributaria, sono limitate le risorse per l’impiego dei giovani. Se non altro il provvedimento è mirato con attenzione, sulla base dei dati, verso la tipologia più sfavorita nel momento attuale.

La scommessa di Enrico Letta sembra di prendere tempo nel modo più decente possibile, in attesa che la situazione migliori. Ma, a parte un barlume di ripresa economica, che cosa può portarci l’autunno?

da - http://lastampa.it/2013/06/27/cultura/opinioni/editoriali/la-scommessa-guadagnare-un-po-di-tempo-WfqbuJXoQWAUmFhaaBZWcP/pagina.html
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« Risposta #84 inserito:: Agosto 06, 2013, 11:54:36 am »

Editoriali
06/08/2013 - fiducia e investimenti

Lasciate che gli stranieri vengano a noi

Stefano Lepri


Il governo non cade e l’agosto può trascorrere tranquillo, senza burrasche sui mercati finanziari. Però la tenue ripresa economica che si comincia a intravedere non ci porterà grande sollievo, se Enrico Letta e i suoi ministri continueranno settimana dopo settimana, mese dopo mese, ad essere paralizzati dai ricatti di una campagna elettorale permanente. La sfiducia tornerebbe a crescere, all’interno come all’estero. 

Non si può governare bene quando chi fa parte della maggioranza, invece di puntare su ciò che è realizzabile (in modo da rivendicare poi: «Per merito nostro sono state fatte cose buone») punta quasi soltanto su ciò che è irrealizzabile («Per colpa degli altri non si è concluso nulla»). Al di là della disordinata rissosità degli alleati-rivali, e delle loro divisioni interne, c’è un motivo di fondo per cui questo avviene.

Purtroppo con una amministrazione pubblica nello stato in cui si trova, non fare è molto più facile che fare. E’ scarsa la capacità di prendere in breve tempo misure i cui risultati vengano percepiti dagli elettori. 

Lo vedono anche gli stranieri: alla nascita dell’attuale governo un editoriale del «Financial Times», con freddo paradosso, lo esortava a lasciare l’economia a se stessa e a concentrarsi sulle riforme politiche.

Quel consiglio anglosassone non poteva essere seguito, in un Paese come il nostro dove tra gli operatori economici è assai raro l’invito alla politica di «lasciarli fare». Ma già ascoltare ciò che le forze sociali chiedono – meno tasse sui redditi bassi, i sindacati; togliere l’Irap dal costo del lavoro, la Confindustria – sarebbe un passo avanti rispetto al dibattito politico corrente su Imu e Iva.

Oltretutto la ricerca affannosa di spunti di propaganda rende ancor più difficile ai funzionari pubblici compiere il loro dovere. All’indomani dei controlli anti-evasione in alcuni luoghi di vacanza uno dei maggiorenti del Pdl, Maurizio Gasparri, afferma che sarebbe stato meglio evitarli. Già nel Pd, indizio certe recenti parole del viceministro Stefano Fassina, serpeggiava il timore di restare scoperti su questo fianco.

Mostrare che lo Stato esiste, che le leggi vengono rispettate, è un requisito essenziale perché l’economia di mercato funzioni, e dunque anche per la ripresa. La burocrazia intralciava il governo Monti perché teme i tecnici meno dei politici; il rischio adesso è che debba barcamenarsi tra pressioni contrastanti delle diverse forze di maggioranza, e di nuovo tuteli il proprio potere con i rinvii. 

Paralisi o decisioni sbagliate potrebbero portare danno nei prossimi mesi. Per ora sui mercati prevale l’impressione che la crisi europea sia, benché con lentezza, in via di superamento. Agli interrogativi che circolavano sul nostro sistema creditizio, Governo e Banca d’Italia hanno ribattuto ieri con un messaggio di fiducia. Le banche italiane non corrono pericoli; tuttavia, va detto che se avessero più capitale farebbero meglio il loro mestiere di fornire credito alle imprese.

Sia per le banche, sia per le industrie, sarà meglio evitare di stracciarsi le vesti nel caso si presentino investitori stranieri. Il sistema economico italiano soffre di carenza di capitale e i capitali sono altrove. Magari si diffondesse nel mondo abbastanza fiducia nell’Italia – una burocrazia non paralitica, una magistratura che fa rispettare le leggi – perché altri si accorgano che ci si possono fare buoni affari.

da - http://lastampa.it/2013/08/06/cultura/opinioni/editoriali/lasciate-che-gli-stranieri-vengano-a-noi-GL4dGrnVKCAE8UiFMGfjBL/pagina.html
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« Risposta #85 inserito:: Novembre 13, 2013, 04:27:37 pm »

Editoriali
10/11/2013

Roma e Berlino, la politica guarda solo agli anziani

Stefano Lepri

Italia e Germania hanno un importante tratto in comune: tra gli elettori acquistano sempre più peso gli anziani. È naturale che gli anziani si preoccupino del patrimonio e della pensione più che del lavoro e dell’impresa. Così in Italia si parla troppo di tasse sulla casa, e meno di altre tasse.

Invece in Germania meno famiglie possiedono la casa, molte hanno il risparmio investito in assicurazioni vita e fondi pensione: il calo dei tassi Bce è impopolare, perché ne fa calare i rendimenti. 

Su questo fanno poi leva interessi finanziari che guadagnano dal prolungarsi della crisi dell’euro, e ostacolano Mario Draghi quando tenta di risolverla.

La caratteristica comune spinge dunque i due Paesi in direzioni opposte, e aggrava le incomprensioni. Ai tedeschi pare insensato cancellare l’Imu, irresponsabile non mettere mano a tutto quello che non funziona nel nostro Stato. A noi – ma anche ad altri – sembra assurdo che la Germania protesti contro il basso costo del denaro, aiuto importante per uscire dalla crisi.

Forse è l’anteprima di problemi che investiranno tutti i Paesi avanzati. Lo spunto italiano fa prevedere a Tyler Cowen, brillante economista liberista, che anche negli Usa prima o poi il dibattito politico si concentrerà sulle tasse patrimoniali, pur se per ragioni diverse: come via per correggere le crescenti disuguaglianze generate da un’economia più dinamica (il nuovo sindaco di New York ci sta pensando).

In Europa, dove la crescita langue, le ragioni del patrimonio – abbondante, accumulato in decenni di benessere – possono contrastare con quelle della produzione. Ci ragiona anche il Fmi. Se si vogliono chiamare a raccolta tutte le risorse disponibili per rilanciare lo sviluppo, occorre che contribuiscano anche le ricchezze non direttamente impegnate nelle imprese. Però le resistenze saranno forti.

Può darsi che una collaborazione tra sinistra e destra serva ad affrontare in modo equilibrato la sfida nuova. Tuttavia, se confrontiamo la contesa sulla legge di Stabilità con le trattative per una nuova «grande coalizione» a Berlino, il parallelismo tra i due Paesi in gran parte cade. Sono rare le somiglianze: ad esempio, come il Pd chiede di modificare la riforma Fornero votata due anni fa, i socialdemocratici si pentono di aver detto sì all’aumento a 67 anni dell’età di pensione durante la precedente esperienza di governo con Angela Merkel.

Nell’insieme, i due grandi partiti tedeschi stanno confrontando solide ragioni di destra con solide ragioni di sinistra. I socialdemocratici vogliono aumentare le tasse ai ricchi per finanziare istruzione e ricerca; propongono un salario minimo per proteggere i più deboli. I cristiano-democratici hanno promesso di non aumentare le tasse; temono che un salario minimo danneggi le piccole imprese e scoraggi le assunzioni.

Lasciamo stare che agli occhi del resto del mondo – e del Tesoro Usa in prima fila – sarebbe bene accontentare entrambi: niente aumenti di tasse e più spese sociali. Nella terribile asimmetria causata insieme dalle difficoltà dell’euro e dall’eredità del passato, il bilancio pubblico tedesco offre spazi che la politica tedesca esita ad usare, il bilancio italiano obbliga al rigore pur se i nostri partiti fanno a gara nel dimenticarselo.

Trovare qualcosa per i giovani è arduo, dentro il diluvio di emendamenti presentati in Senato. Dei 4 miliardi di maggiori spese per il 2014 solo la metà può forse essere utile per la crescita; i partiti premono per nuovi oneri finanziati con espedienti. Ed è in nome di questo che si vuole convincere l’Europa a concederci deroghe? Come se non bastasse, c’è Beppe Grillo che promette il Paese della cuccagna.

Da - http://lastampa.it/2013/11/10/cultura/opinioni/editoriali/roma-e-berlino-la-politica-guarda-solo-agli-anziani-H04Mqlf4V5EMUEJ6ssoQPM/pagina.html
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« Risposta #86 inserito:: Novembre 18, 2013, 10:14:27 pm »

Editoriali
14/11/2013

Bruxelles batte un colpo

Stefano Lepri

Allora la Commissione europea esiste! Ieri forse per la prima volta abbiamo assistito a un buon uso dei nuovi poteri che con la crisi sono stati affidati all’esecutivo guidato da José Barroso. Quel poco di governo comune indispensabile per tenere insieme l’area euro si realizza proprio così: rimproverare anche i Paesi più forti, non solo – come è troppo facile – quelli più deboli. 

Un aiuto importante, a dire il vero, lo avevano dato gli Stati Uniti, con le loro critiche alla Germania di due settimane fa. Ma molto altro andrà fatto, nei prossimi mesi, per frenare quelle dinamiche politiche profonde che stanno allontanando tra loro le tre maggiori nazioni dell’euro, Germania Francia e Italia.

I tedeschi stanno già reagendo con dispetto alle critiche della Commissione verso il loro enorme surplus nei conti con l’estero. «I Paesi deboli ci vogliono far diventare inefficienti come loro» diranno in molti. Nelle ultime elezioni, a stragrande maggioranza gli elettori hanno scelto partiti responsabili; ma a sviluppare discorsi irresponsabili sono gruppi di potere forti, presi da un nazionalismo economico di cui non si scorge bene l’obiettivo.

Il successo tedesco nell’export industriale è meritato. Ma ha accumulato in poche mani capitali ingenti che non vengono investiti dentro il Paese (i nazionalisti estremi danno anche di questo la colpa all’euro), anche perché il settore dei servizi è rigido e poco efficiente. Anni di moderazione salariale hanno reso i lavoratori ultrasensibili all’inflazione e alle tasse; facile fargli temere che la cooperazione con i Paesi deboli implichi altri sacrifici. 

In realtà la Germania deve imparare a star meglio con sé stessa, a sfruttare appieno, a favore di tutti i tedeschi, le prestazioni straordinarie della sua industria. In quel senso vanno i consigli che gran parte del mondo esterno gli rivolge; e che non possono esser fatti passare come una richiesta di elemosina dal Meridione latino. A che serve guadagnare esportando, insomma, se non si sanno trovare sbocchi produttivi per tutti quei soldi? Prima della crisi li avevano messi nell’immobiliare irlandese o spagnolo, ora fuori dall’area euro, chissà dove nel mondo.
 
A Parigi, invece, la politica appare paralizzata. Il Paese cerniera tra forti e deboli dell’euro sarebbe il più adatto a indicare come andare avanti tutti insieme; non ne è capace. Certo, se l’economia della Francia avesse tutte le pecche che gli vedono i tedeschi, sarebbe al collasso da un pezzo; invece sta in piedi. Ma anche lì si moltiplicano i segni di un declino, sia pure a un passo molto più lento di quello italiano. Come è tipico della storia francese, il malcontento potrebbe esplodere tutto d’un tratto, a sorpresa.

Tutti e tre i Paesi sono esposti alla tentazione di trovare capri espiatori all’estero. Nel caso tedesco, il fardello dei Paesi deboli dell’euro; nel caso francese, le riforme sgradite che l’Europa suggerisce; nel caso italiano, i vincoli di bilancio imposti dalle regole del «Fiscal compact». In tutti e tre i casi si tratta di falsità che coprono gravi colpe interne. Nel nostro caso, il tetto del 3% al deficit lo avevamo violato in tutti gli anni dal 2001 al 2006, senza visibili benefici.

L’azione europea a carico della Germania serve a mostrare che di obblighi verso i Paesi vicini ne esistono per tutti. Ieri il governo italiano, nella sua fragile condizione politica, è riuscito a presentare la legge di stabilità 2014 come il minor male rispetto a tutte le possibili alternative. Ma chi da Bruxelles vede la bassa qualità degli emendamenti presentati può ben dirci che i vincoli europei ci stanno soprattutto impedendo di farci male da soli.

Da - http://www.lastampa.it/2013/11/14/cultura/opinioni/editoriali/bruxelles-batte-un-colpo-odqxne1yvasrbUoscZJgLO/pagina.html
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« Risposta #87 inserito:: Dicembre 11, 2013, 11:40:20 am »

Editoriali
11/12/2013

Ma troppi ricevono già soldi pubblici

Stefano Lepri

E’ difficile guardare dentro a una protesta caotica, somma di rabbie disparate. Ma alcuni focolai da dove si grida contro «i politici che rubano i soldi delle nostre tasse» hanno una sorprendente caratteristica in comune: nascono dentro categorie ben assuefatte a ricevere denaro pubblico.

Una frangia ribelle di autotrasportatori anima la protesta dei «forconi»: nell’ultimo decennio il settore ha ricevuto a vario titolo sussidi per circa 500 milioni di euro l’anno. Due settimane fa, Genova era stata bloccata dagli autoferrotranvieri contrari a una inesistente «privatizzazione», quando nel trasporto locale fino a tre quarti dei costi sono coperti con denaro del contribuente.

La crisi esaspera; la rabbia spinge a schierarsi dietro i più determinati a battersi. Il guaio è che, nel crescente dissesto del sistema italiano, i più determinati spesso hanno esperienza nello sfruttarne i benefici. Poi per ricucire tutto si inveisce contro Equitalia, che ha vessato a torto parecchie persone perbene, ma tra i cui nemici gli evasori è probabile siano in maggioranza.

E’ una protesta che guarda al passato, già tenta di riassumere il Censis; anzi è un passato che si rivolta contro sé stesso. Nelle sessioni di bilancio parlamentari come di fronte ai consigli comunali da anni prevalgono, a svantaggio degli elettori, gruppi di interesse piccoli e compatti, capaci non soltanto di gestire pacchetti di voti ma di bloccare il Paese con le loro agitazioni.

Ora scontenti di ogni tipo sono tentati di mettersi al loro traino nelle piazze, con effetti paradossali. Possono alcuni autotrasportatori, insoddisfatti dei 330 milioni di specifiche agevolazioni tributarie per il 2014 già ottenuti dalle associazioni di categoria, ergersi a simbolo del malcontento antifisco di tutti? Forse si tratta solo della speranza che almeno loro riescano ad ottenere qualcosa.

Nel trasporto cittadino invece è normale che si spenda denaro pubblico, perché il mezzo collettivo è un risparmio per tutti; ma in altri Paesi lo Stato copre una parte inferiore dei costi, circa metà, e i servizi funzionano meglio. La «privatizzazione» sarebbe in realtà l’ingresso di altri operatori pubblici, come Trenitalia, Deutsche Bahn (Stato tedesco), Ratp (Stato francese), non legati – a differenza dei sindaci – all’immediato tornaconto elettorale.

Insomma il Paese per non poterne più rischia rimedi peggiori del male: ulteriori aumenti della spesa pubblica oppure delle agevolazioni fiscali mirate qui o là, in un do ut des imbarbarito tra piazza e politica. Mentre, ad esempio, la vita del camionista migliorerebbe facendo rispettare la legge sulle strade, limiti di velocità, carichi, orari, reprimendo le intermediazioni più o meno malavitose, evitando che il lavoro nero prevalga sull’impresa in regola.

Vediamo l’esito estremo di una politica che ha cercato di immischiarsi in tutto, mancando invece al dovere di far funzionare le strutture basilari dello Stato. Il sospetto della corruzione, in più casi fondato, dilaga fino a diventare un pretesto invocando il quale chiunque può sottrarsi alla legge (quanti romani salgono ora in autobus senza pagare giustificandosi con lo scandalo dei biglietti falsi?).

L’unica via è ritracciare in modo trasparente il confine tra ciò che lo Stato fa e non fa. Una parte della responsabilità deve ritornare ai cittadini: se un servizio comunale è gestito male, perché non lasciarlo organizzare in proprio a associazioni di luogo o di categoria? Ridurre i costi della politica e revisionare la spesa pubblica da cima a fondo sono le due parti inseparabili di un compito urgentissimo: ridurre l’uso clientelare dello Stato. Purché non sia troppo tardi.

Da - http://lastampa.it/2013/12/11/cultura/opinioni/editoriali/ma-troppi-ricevono-gi-soldi-pubblici-GWC6dSoJzUHKlkMueJDFJO/pagina.html
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« Risposta #88 inserito:: Gennaio 16, 2014, 04:54:44 pm »

Editoriali
15/01/2014

La scommessa sull’economia
Stefano Lepri

Tra gli incubi dei tedeschi sull’Europa, una crisi della Francia era il peggiore. Sarebbe stata brusca, con effetto di valanga, e nemmeno la Germania avrebbe avuto le forze per frenarla. Solo il solido legame politico tra i due Paesi, che regalava a Parigi una fiducia salda dei mercati, ha concesso alla sinistra francese questo lungo anno e mezzo di tempo, dopo il ritorno al potere, per chiarirsi le idee su come governare. 

Non a caso ieri François Hollande, nell’annunciare (senza riconoscerla nei termini) la svolta liberale del suo socialismo, ha anche puntato tutte le sue carte sull’intesa con Berlino. C’è ora un motivo sostanziale per riavvicinare le due economie principali dell’euro: una maggiore omogeneità di politiche interne, la Germania un po’ spostata a sinistra dalla grande coalizione, la Francia convintasi a lasciare illusioni annose di rilancio fatto in casa.

La novità pesa anche da noi. Non solo a sinistra molti hanno finora sostenuto che avremmo dovuto fare come la Francia, ossia forzare la mano al massimo per allentare le regole di bilancio europee, usare la spesa pubblica per il rilancio. Ora all’Eliseo si sono convinti anche loro che quella ricetta non funziona: conti con l’estero ancora in negativo, ritardo perfino rispetto all’Italia nel farsi largo sui mercati emergenti, produzione in persistenti difficoltà.

Il chiarimento interno che il Partito democratico italiano ha condotto con le primarie, il Partito socialista francese lo ha realizzato nel chiuso dei palazzi, eppure l’esito è simile. Ridurre la spesa pubblica per abbassare le tasse sul lavoro, semplificare le procedure burocratiche, modernizzare il sistema tributario divengono ora gli obiettivi principali dopo che nei primi diciotto mesi la presidenza Hollande aveva compiuto mosse incoerenti tra loro e spesso maldestre.

La Francia condivide con noi molti difetti, meno evidenti grazie a una amministrazione pubblica più efficiente e meno corrotta della nostra. Un carico fiscale più alto di quello italiano viene meglio sopportato grazie alla minore evasione; ma gli arcaismi sono profondi, tipo l’imposta sul reddito senza ritenuta alla fonte e con criteri in parte risalenti a 90 anni fa.

Simile è la difficoltà di concentrare lo sforzo del governo a favore del lavoro e dell’impresa manifatturiera scontentando lobbies potenti, rendite, settori protetti. Davanti sia alla Francia sia all’Italia è il compito arduo di accrescere la competitività senza rinunciare al modello sociale europeo: lo stesso in cui riuscì 10 anni fa in Germania, ma con seri costi di popolarità, il governo rosso-verde di Gerhard Schroeder e Joschka Fischer.

Annunciate solo ora con le spalle al muro di un record di impopolarità, le promesse di Hollande hanno grande portata: realizzarle comporterà dire parecchi no. Ma le piazze è meglio averle contro passando all’azione, trasformando, piuttosto che averle contro perché non si fa nulla, come stava cominciando a succedere anche al di là delle Alpi: perché quando non si fa nulla, guidare la protesta risulta troppo facile ai demagoghi che promettono tutto e il contrario di tutto.

Se l’economia francese avesse tutti i difetti che le attribuiscono i tedeschi, sarebbe andata a fondo da un pezzo; e d’altra parte il modello Germania al momento non funziona nemmeno nei due Paesi più affini, Austria e Olanda, entrambi frenati da difficoltà. Che Parigi si metta in cerca di una nuova strada, attenta insieme all’industria e al lavoro, non può che essere un vantaggio per tutti; anche se per noi alzerà il livello delle sfide.

Da - http://lastampa.it/2014/01/15/cultura/opinioni/editoriali/la-scommessa-sulleconomia-v9QqyojcY1ujSh96tH8O6L/pagina.html
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« Risposta #89 inserito:: Febbraio 05, 2014, 06:23:11 pm »

Economia

04/02/2014 - Il dibattito sulla riforma
Visco: “Con le quote di Bankitalia le banche non fanno un affare”
Il governatore: i vantaggi saranno un incentivo per dare più credito

Stefano Lepri
ROMA

Saranno «un incentivo a fare più credito» i vantaggi ricavati dalle banche nell’operazione sul capitale della Banca d’Italia, assicura il governatore Ignazio Visco. Ma tra le righe la scoperta è che, all’opposto delle accuse grilline, questi vantaggi saranno modesti.

Banche più solide saranno in grado di concedere più prestiti a imprese e famiglie, «cercheremo di vedere che questo accada» insiste il governatore. Peraltro gli effetti saranno lenti, dal 2015, e allora perché procedere con decreto-legge? «Questa è stata una scelta del governo» si distanzia il numero due della Banca d’Italia, Salvatore Rossi.

Su internet in questi giorni non circolano soltanto proteste contro il «regalo alle banche» condito di retroscena complottistici. Al contrario, esperti di finanza si scambiano messaggi ironici secondo i quali la montagna smossa dalle lobby bancarie avrebbe alla fine partorito un topolino.

Convocando a sorpresa i giornalisti ieri, i due massimi dirigenti della Banca d’Italia si sono soprattutto impegnati a mostrare che il provvedimento viene incontro ai loro desideri. «Non si potrà più dire che siamo controllati dalle grandi banche» insiste Visco: Intesa San Paolo e Unicredit, ora detentrici di oltre il 60% delle quote, dovranno scendere ciascuna al 3%.

«Anzi, il carattere pubblico della Banca d’Italia, garantito dai Trattati europei, viene stabilito con maggiore chiarezza, perché la nuova legge dice che gli azionisti non possono accampare diritti sull’insieme delle riserve valutarie e in oro» aggiunge Rossi. In un insolito esercizio di comunicazione, la Banca d’Italia offre un documento di 5 pagine comprensibile anche ai non specialisti.

I 7,5 miliardi dell’operazione, vi si legge, non li paga nessuno: «sono già nel bilancio della Banca d’Italia. Erano iscritti come fondi di riserva, ora entrano nel capitale sociale e servono a delimitare i diritti dei partecipanti». Nemmeno è vero che agli azionisti saranno pagati dividendi più alti: si avrà «equivalenza» rispetto al passato, inoltre la legge fissa un tetto da non superare.

Le banche, sì, volevano che l’operazione si facesse; ma l’aumentato valore delle quote azionarie oggi possedute non servirà a nulla per il severo esame dei loro bilanci che nel corso dell’anno farà la Banca centrale europea. Potranno conteggiarlo al più presto nel 2015, ovvero quando si creerà un effettivo mercato di queste azioni.

E anche quando saranno conteggiabili o le quote massime al 3% del capitale della Banca d’Italia, o il denaro ottenuto vendendo le eccedenze, il vantaggio totale resterà limitato. Secondo i numeri rivelati da Visco e Rossi, rispetto ai nuovi parametri per la stabilità finanziaria (Basilea 3) il guadagno sarà di 0,4% punti percentuali di patrimonio di migliore qualità; appena 0,3% per le 15 banche maggiori, quelle che devono passare sotto la vigilanza centralizzata di Francoforte.

Le nuove norme europee escludono trucchi contabili (c’erano stati parecchi sospetti tedeschi su questo punto). Delle quote di partecipazione in Banca d’Italia dovrà crearsi un mercato vero. La Banca d’Italia fa trasparire di non aver gradito molto il comma che dopo 3 anni la obbliga ad acquistare le quote eccedenti il 3% che siano rimaste invendute; ma ritiene «improbabile» che debba ricorrervi. 

DA - http://www.lastampa.it/2014/02/04/economia/visco-con-le-quote-di-bankitalia-le-banche-non-fanno-un-affare-bNYKNW3cq1Cfrox5UMH7KP/pagina.html
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